Alessandro in occidente

di feder

Έκβάλων Αλέξανδρος ὁ Μέγας τῆς ἀρχῆς, ἄν ὁ Μακέδων ἔστρεψε κατά τῆς ἐσπέρας;

In origine Alessandro e suo padre, il guercio Filippo, erano molto affiatati, tanto da marciare insieme durante la calata in Grecia che vide il Macedone assurgere alla carica di egemone della neocostituita Lega Ellenica. Tuttavia, quando il re fece ritorno in pella, si innamorò al punto di sposare una propria cortigiana, tale Cleopatra (numina sunt omina!), apparentata a uno dei suoi generali, tale Attalo. Com'è logico, la cosa non piacque al giovane erede, il quale, essendo macedone solo per parte di padre, si vedeva potenzialmente escluso dalla linea di successione per far posto a uno dei figli della nuova unione. Plutarco ci racconta addirittura che durante il banchetto nuziale, un Attalo completamente ebbro si diede a onorare gli dei affinché il matrimonio producesse prole legittima, permettendo dunque alla sua famiglia di soffiare il trono al Margite (lo sciocco, com'era conosciuto Alessandro prima della sua ascesa al potere). Questo irritò il giovane principe al punto che, lanciando una coppa alla testa del generale, gridò: "Infame, e che son io allora, un bastardo?"
Allora Filippo, prendendo le parti del suo appena acquisito suocero, si alzò in piedi inferocito e avrebbe picchiato suo figlio fino alla morte, ma, forse per volere delle Moire che avevano serbato ad Alessandro un fato tanto glorioso, aveva bevuto tanto che il suo piede scivolò e cadde in terra. A quel punto egli subì l'umiliazione massima, ovverosia venir insultato dal suo proprio seme; secondo l'autore delle Vite Parallele infatti, a questo punto Alessandro avrebbe mortificato definitivamente il padre dicendo: "Guarda lì, l'uomo che si prepara per passare dall'Europa in Asia, sconfitto nel passare da una sedia all'altra."

Eppure il re tanto sbeffeggiato in fondo temibile lo era, se la prima mossa del principe dopo il fatale simposio fu quella di caricare armi e bagagli, compresa sua madre, l'avvenente Olimpiade, per fuggire dallo zio, sovrano dell'Epiro, e poi perfino nella selvaggia Illiria. Pareva proprio che il promettente erede della casa d'Argeo fosse perso per sempre, in quanto lo stesso si era adoperato non solo nel cercare rifugio a corte dei piccoli signori del nord, ma si era anche iniziato a costruire un posto gentile in quelle terre, approfittando del prestigio che gli avevano recato le sue vittorie in battaglia contro il ribelle illirico Cleto di Dardania. Giunto fra le amicizie del re Glauco dei Taulanti, Alessandro sarebbe probabilmente riuscito a fondare il proprio potere in quella regione, forte del proprio carisma e, soprattutto, della propria abilità alle armi, quando l'amico Demarato si mise in mezzo fra lui e suo padre, convincendo entrambi a deporre le rivalità e il primo a ritornare in patria, onde assumere la corona di Macedonia alla morte del secondo, che sembrava ormai imminente.

Ora, e se invece la proverbial rabbia di Filippo è più nera...?

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Άνικήτος εἶ ὁ παῖ! (Sei invincibile, ragazzo!)

Le tante qualità di Alessandro sono alla pari soltanto dei suoi difetti, fra i quali rifulge più di ogni altro l'orgoglio; dunque, alla notizia che suo padre è morto disconoscendolo come argeade, il principe cala come una folgore con un esercito barbaro su Pella, onde incontrare in armi il suo più grande rivale, Filippo Arrideo, preferito dal padre per la sua temperanza d'animo, ma è colto da una sorpresa che lascia il suo seguito di stucco: un armata persiana. Il grande macedone, conscio delle mire che coltivava il suo altro figliastro sulla Grecia, aveva infatti provveduto al matrimonio dell'Arrideo con la prole del satrapo di Caria, al fine di suggellare l'alleanza fra le due potenze e cementificare il suo dominio sull'Ellade. Lo scontro dunque finisce in pareggio, giacché pur potendo contare Alessandro su un impareggiabile capacità con l'asta, il suo solo braccio, peraltro al comando di truppe appena sottratte alla foresta, non è bastevole a sottomettere l'enorme massa dei cari e dei macedoni. Ovviamente l'ambizioso principe non è soddisfatto: piccato dalla sconfitta cui non si attribuisce la colpa, vorrebbe ritirarsi, spodestare il povero Glauco che pure l'aveva accolto e fornito di quelle misere truppe e infine forgiare gli illiri in falange, così da ritornare potenziato e fare una volta per tutte lo scalpo all'amato fratello; ma la situazione non è favorevole a una mossa di tal genere, giacché il territorio macedone, impervio per propria natura, non è propenso a permettere una ritirata controllata e anzi sembra più probabile che l'impeto dei cari non si esaurisca con l'aver messo in fuga i propri nemici.

Dal canto suo, Arrideo è conscio che il proprio trionfo, benché largamente celebrato con tributi dalle poleis sottomesse, non è dovuto ad altri che alla benevolente mano dell'iperimperatore persiano, e ambo sperando di rompere al più presto quell'ineguale rapporto di dipendenza e soffocare la paura nefasta del proprio fratello, spinge per raggiungere un accordo; dopo alcuni tentennamenti, Olimpiade, che teme per la propria sorte (catturata, Arrideo la farebbe certamente ammazzare) induce suo figlio ad accettare.
La pace che da ella prende il nome sancisce le seguenti condizioni: ad Arrideo il trono paterno, cui si accompagna, naturalmente, il titolo di egemone della Lega Ellenica; ma ad Alessandro spetta il primato sugli illiri, insieme con un fiero esercito, le cui vettovaglie andranno sovvenzionate da Pella, per rendere quelle pretese sincere. Al simposio riconciliatorio (dove Alessandro e Arrideo siedono ai capotavola opposti) il figlio di Olimpiade tiene un grande discorso, degno segno della sua istruzione fornita dal logico Stagirita, padre della scienza:

"Osservo, o uomini, che qui regna il mio sangue, cosa di cui non potrei essere più contento. Egli è un uomo buono e vi guiderà con animo grande; ma io vi avrei guidato in un impresa nuova, tanto gloriosa che non mi avreste più seguito con animo grande, ma con il più grande degli animi.
E non ho mai receduto da quell'intento, come aveva voluto Filippo, vostro re, il mio sangue. Se voleste seguirmi infatti, vi chiedo dunque di incontrarmi in modo tale che potremo arrivare a una decisione insieme; e se siete ancora indecisi, considerato queste cose: volete voi, su mio consiglio, procedere oltre, o su quello di mio fratello, tornare indietro?"

Il vino scorre a fiumi e molti balzano in piedi, sguainando le armi e inneggiando ad Alessandro, chiamandolo figlio del padre e nuovo Odisseo. Arrideo intreccia le gambe sotto il tavolo, ma nel clima generale di riconciliazione, fors'anche suggerito dal conciliante ambasciatore orientale che ormai suole portarsi ovunque a dietro sì da non deludere il suo alleato persiano, non può che fare buon viso a cattivo gioco e autorizzare la partenza di Alessandro con numerosi generali, al cui seguito sono numerose armate. Fra gli altri, si contano anche Antigono, Antipatro, Menandro, Parmenione, Perdicca, Lisimaco, Seleuco e, ovviamente, l'amico di sempre Tolomeo e l'etero Efestione, amore segreto del principe. Insieme gli eroi passano le ingrate montagne macedoni; pare che emigrando, Alessandro abbia sputato rivolto al sole, pronunciando le seguenti parole: "O sterile Elio, tu che non fai crescere che erbacce sotto il tuo macedone scudo; possa io spegnerti col mio fiato, tanta sarà la fama che acquisterò!"

Μία τῶν μῆλων στρατιά ἡγούμενη παρά του λέοντος μαλλον βέλτίων εστί η μιας τῶν λέοντῶν στρατιᾶς ἡγούμένης παρά του μῆλου! (Un esercito di pecore guidato da un leone è meglio di un esercito di leoni guidato da une pecora!)

Dunque, la prima tappa del Macedone è a Dodona, capitale dei Molossi. Qui si preoccupa di prendere contatti con l'amorevole zio, suo omonimo, che già durante il suo primo esilio lo aveva ospitato; in Epiro lascia la madre, che ben presto circuisce il fratello, assumendo le vere redini del potere e assicurando al figlio, più che la sottomissione degli epiroti, il costante rifornimento di armi e vettovaglie per la campagna che Alessandro ha intenzione di dirigersi. Ma dove andare? La scelta della meta impiega Alessandro e i suoi generali per quasi due anni, finché nel 335 un'incursione di tribù illire quasi selvatiche mal contenuto dal debole Glauco offre ai macedoni il pretesto per muovere verso nord. Ovviamente nessuno può resistere all'avanzata di Alessandro; il povero re, che si rimprovera la pietà verso l'ospite dimostrata tempo addietro, perde una dopo l'altra Apollonia, Epidamno e Scodra, mentre la resa dei conti avviene presso le Bocche di Cattaro, nell'odierno Montenegro: qui Glauco terrorizzato assiste alla disfatta dell'armata illirica dall'alto delle mura della sua ultima fortezza, Rhizon (o Risano, all'italiana). Onde risparmiare ai suoi sudditi il saccheggio dunque, il devoto Glauco si offre volontariamente per andare a inginocchiarsi ai piedi del conquistatore. Il Macedone non scende da cavallo, ma è clemente e accetta la sua resa; dunque lo prende al suo seguito come consigliere. Non sa di star dando adito a un importantissimo evento storico.

In Rhizon, ch'egli ribattezza Alessandria Illirica, Alessandro si ferma all'incirca un anno, mentre invia i suoi generali in fulminee campagne onde sottomettere i popoli seminomadi che abitano la zona che va dal mare al Danubio, mappato con precisione proprio in quegli anni. È in quegli anni che il fido Lisimaco, guardia del corpo di Alessandro, viene ferito da un leone (a detta delle fonti) perché, rifiutandosi di rientrare in territorio macedone, fa gettare un ponte improvvisato con tronchi sul Danubio onde girare attorno ai territori del regno di Arrideo per compiere una sortita in territorio dace, così da punire quelle genti per i terribili saccheggi cui sottoponevano da sempre i nuovi sudditi di Alessandro. Ma siccome i Daci, terrorizzati, fuggono nelle loro roccaforti sui Carpazi, Lisimaco sgomina al loro posto i Traci, e con il consenso del suo sovrano si insedia in tale regione col compito di sorvegliare sui collegamenti in atto fra la Macedonia e la Persia. Non si tolleravano brutti scherzi.

Ma il Macedone non è tipo da star fermo troppo a lungo. All'ombra delle Alpi, già freme; e ignorando gli avvisi di Glauco, che conosce l'impeto dei Celti, riesce nell'improba impresa di passare la catena montuosa d'inverno. Le perdite sostenute, comunque, sono ingenti; dunque, sconfitti i Veneti, preferisce integrarne molti nel suo esercito, insieme con retroguardie illiriche e addirittura l'uso di alcuni sparuti mercenari gallici. La nuova impresa, infatti, si preannuncia ostica: conquistare la più progredita delle civiltà d'Occidente, quella etrusca. Gioca a favore del Macedone il fatto che, pur avendo già avuto sentore della minaccia, i tusci ormai in declino non sono riusciti a mettere da parte le proprie rivalità per eleggere un lucumone unico della propria confederazione, detta dodecapoli; ciononostante, essi rimangono un nemico temibile, al punto che, secondo Plutarco, dopo aver finalmente penetrato gli Appennini, l'attendente Parmenione avrebbe suggerito ad Alessandro di prendere d'assalto il campo etrusco di notte, onde sconfiggere facilmente la più nutrita delle armate rivali, inviata da Chiusi, ma il Macedone, stizzito, avrebbe rifiutato.

Νίκαν μηδενί μ'εκκλέπτὼ ἐγὼ! (Io non rubo la vittoria a nessuno!)

I macedoni son gente valorosa che lascia gli stratagemmi ai nemici, dal momento che la loro forza è tale da non necessitare di farne uso; presto, anche la Tirrenia è vinta e si sottomette al Macedone, che coglie un immenso trionfo nella battaglia, per l'appunto, di Chiusi. Alessandro sta quasi per lasciare andare uno sbadiglio, quando le sue truppe gli riportano che la situazione non è così semplice come a primo acchito pareva; questo, unicamente per l'impavida resistenza di una piccola cittadina, quasi un villaggio di pastori, sita sulla cima di sette colli in una zona che è detta Lazio. Alessandro è costretto a fermarsi per ben sette mesi ad assediare quel buco dimenticato dagli dei, tanto è l'ardore degli abitanti di quell'insediamento; infine, presa solamente grazie alla forza soverchiante dei suoi uomini, è tanto arrabbiato da ordinare la distruzione di metà città insieme con il massacro di ben 8000 abitanti, risparmiando solo coloro che avevano cercato asilo nel tempio di Giove. Solo dopo il divo si ferma a riflettere sull'effettiva qualità di quella gente; dunque ordina la ricostruzione della città, donandole lo straordinario nome di Alexandria Rhomēs (Alessandria della Forza) e imponendo l'integrazione di ben 30.000 quiriti (così scopre che si fanno chiamare) fra le fila del suo esercito.

L'Italia a questo punto è già schiava. Dopo i Tirreni, nessuno osa opporsi all'avanzata del Macedone, che anzi viene accolto ovunque con onore, tanto più che a dominare il sud sono le colonie elleniche della Magna Grecia, che si affrettano a riconoscere in lui un fratello piuttosto che un padrone; Alessandro ne è compiaciuto e, anche per non sprecare futilmente le energie del suo esercito, stanco dopo l'impresa etrusca, bada poco ai popoli dell'entroterra come Umbri e Sabini, certo meno disposti a subire passivamente la sua avanzata, passando altresì lo scambio di ambasciatori per pegno della loro formale sottomissione. Nei pressi dello stretto di Messina pronuncia al mare un altro dei suoi epocali discorsi, per commemorare il ricordo di Odisseo, suo eroe personale (al posto di emulo di Achille, qui passa la sua impresa come nuova Odissea):

"Sacre ombre dei morti (l'equipaggio di Ulisse, divorato da Scilla), non sono venuto fin qui per accusare il vostro crudele e amaro fato, ma la maledetta rivalità che ha portato stirpi sorelle e popoli fratelli a combattersi l'un l'altro. Non sono felice per le mie molte e lucenti vittorie; al contrario, lo sono perché, o greci, qui state tutti in piedi intorno a me, dal momento che siamo tutti uniti dalla stessa lingua, dallo stesso sangue e dagli stessi intenti."

Inutile dire che i diplomatici di Alessandro spandono le parole del loro sovrano in ogni dove, portando in equal misura gioia e timore presso i regimi delle poleis; molti, comunque, preferiscono accettare, e tale è anche la disposizione scelta dal popolo di Siracusa, che accetta di nominare Alessandro come tiranno della città pur senza averlo visto di persona, ma solo sulla scorta della sua gloria. Così il Macedone, accolti nel suo esercito molti greci, è salutato con amore in Sicilia, dove s'insedia in pace. L'unico assedio da lui sostenuto è quello di Messene, già Zancle, allorché questa polis si solleva al dominio siracusano; vinti, i ribelli ammettono di essere stati sovvenzionati dall'antagonista più acerrimo dei greci, Cartagine.
Quella stirpe di mercanti, dicono gli antichi, era vile per natura; certamente, in quell'occasione i punici si dimostrarono tali, perché avendo provato a saggiare la forza del nuovo nemico inviarono ad Alessandro subdoli messi con belle vergini, grande ricchezze, l'intera Trinacria e la proposta di un'alleanza. Probabilmente l'ambasciata doveva essere davvero grandiosa, se ancora una volta il povero Parmenione volle osare controbattere al suo maestro, che rifiutò l'offerta.

Άν ἀποδέχοιμην: ἀλλὰ εἰμί Αλέξανδρος (Accetterei; ma sono Alessandro)

Il panico è grande in Cartagine, tanto che Alessandro riesce nell'impresa che non era riuscito a nessun greco prima di lui, sgominando i punici dalla Sicilia in due decisive battaglie. Finalmente Amilcare, nipote di Annone il Grande, riesce a mettere insieme un esercito, ma il tempo è talmente poco che per farlo è costretto a reclutare gli equipaggi delle compagnie commerciali della metropoli, onde tentare l'estrema difesa. Ma è proprio questo l'errore definitivo dei punici: solo sul mare sarebbero potuti essere in vantaggio, mentre sulla terra, come già ampiamente dimostrato, la falange macedone è imbattibile. L'esercito alessandrino dunque sbarca incontrastato in Fenicia, come è detta in greco la zona intorno alla città di Carchedonia (Cartagine); messo su il campo, tale è la paura che il sole di Vergine instilla nei nemici del Macedone che i patrizi della città mettono Amilcare, che invece, conscio della scarsità di viveri in mano ai nemici, vorrebbe resistere, di fronte a un aut-aut: o sarà lui a scacciare i greci dall'Africa, o loro scacceranno lui dall'Africa.

La battaglia, che assomiglia più a una carneficina che a uno scontro equo, è la sanzione esplicita della superiorità di Alessandro; viene detta della porta di Carchedonia, appunto perché i macedoni, solo apparentemente addormentati, ma invece svegli l'intera notte si gettano sui punici non appena questi fuoriescono dal cerchio delle mura di Cartagine, menandone strage. L'eterna rivale dei greci è presa dall'eroe nel breve volgere di un unico giorno; all'ingresso trionfale di Alessandro nella metropoli, tutti gli abitanti gli si prostrano, riconoscendo in lui l'incarnazione del dio del tuono, della fertilità e della fecondità Ba'al. Inutile dire che all'inorgoglito Macedone la cosa piace, e mostrando rispetto per la cultura della gente conquistata non sottopone la città a distruzione ma si reca a venerare il dio nelle oasi del deserto, su consiglio di alcuni sacerdoti. I greci non sono esattamente entusiasti, ma al contrario lo sono i cartaginesi: Carchedonia riconosce ad Alessandro il titolo di legittimo Suffeta, cioè rettore della città, e gli africani lo mitizzano ben presto come figlio della divinità, mentre Zeus viene assimilato a Ba'al e si odono i primi vagiti dell'ellenismo; sono il frutto delle sontuose nozze che Alessandro ha ordinato venissero celebrate fra i suoi uomini e le donne del paese conquistato.

Carchedonia diventa l'Alessandria per eccellenza, capitale dell'impero: vengono ordinate la costruzione di un imponente faro per potenziare la già vivida espansione commerciale della città, nel mentre che numerosi biografi e intellettuali al seguito del Macedone si insediano in Africa; qui redigono in cronache le gesta del loro mecenate e raccolgono sistemando in libri i testi fondamentali della cultura greca. Un giorno Tolomeo, da suffeta, qui fonderà i famosi Museo e Biblioteca di Alessandria; per ora, il Macedone lo invia in esplorazione verso sud, onde venire in aiuto degli egiziani che si sono ribellati al dominio persiano.

Eppure Alessandro è irrequieto: Amilcare, fuggito, non si è fatto prendere e chiamate alle armi genti libiche e numide che dei cartaginesi erano vassalle, guida una disperata resistenza nel deserto. Subito dunque il Macedone, che ormai si considera l'unica voce lecita di Cartagine, riparte, e nello stesso anno riesce a sconfiggere l'ultima speranza per gli africani liberi, che sono integrati all'impero man mano che Alessandro marcia verso ovest. Di fronte all'immenso Atlantico, che per gli antichi è un solo immenso oceano che circonda tutta la terra, manifesta la volontà di costituire una flotta per attraversarlo e portare la bandiera argeade a garrire su ogni lembo del mondo; ma i suoi uomini, spaventati alla prospettiva di venire ingeriti dal mare, gli impongono di ritirarsi. È il 328 prima di Cristo.

Ου τι πάρεστι ἀδύνατον τω πειράσει τι ἀδύνατον (Non c'è qualcosa di impossibile per chi tenterà qualcosa di impossibile)

Battuti gli ultimi ridotti di Cartagine, Alessandro volle dedicarsi alle varie tribù ispaniche del nord, per completare il suo sogno di sottomettere l'intero mondo conosciuto, che al tempo del Macedone finiva in Britannia, a nord dell'ultima polis di Massalia, estremo avamposto dei greci a occidente. Il diluvio macedone fluì in Iberia, spazzando via ogni resistenza; solo il valico dei Pirenei, come già quello delle Alpi, si dimostra di qualche difficoltà, dando il tempo ai Galli di reagire. Allora molte tribù si radunano sotto le insegne del vecchio celta Brenno, già autore in antico del sacco di Roma; contro un eroe, è necessario mettere in campo un personaggio di pari livello, sostengono i druidi, che spargono la notizia per le campagne.

Ma come già detto, Brenno accetta la carica di malavoglia, solo per la volontà del suo popolo, e rifiuta di condurre battaglia, trincerandosi nella rocca di Alesia, una fortezza nel bel mezzo della Gallia considerata inespugnabile e piena di viveri atti a sostenere un lungo assedio. Quando Alessandro chiese ai difensori di arrendersi, questi rifiutarono, dicendogli che il Macedone avrebbe avuto bisogno di reclutare uomini alati per catturare il forte. Alessandro di quelli non era fornito; al loro posto, scalò la montagna di suo pugno insieme a 300 volontari nel buio pesto della notte, fino a raggiungerne le mura. Quivi segnalò al suo esercito il successo con il fuoco, e infine inviò un araldo a notificare Brenno dell'avvenuta impresa, mandandogli a dire che, a meno che loro stessi non tenessero nascosti uomini con ali, ora potevano demordere senza alcuna vergogna; il vecchio fu tanto sorpreso dalla cosa, ritenuta infattibile, che schiantò sul colpo.

Si dice che femina capta ferum victorem cepit; in questo caso fu vero, nel senso che Alessandro si innamorò a prima vista di una delle svariate figlie di Brenno, Rionna (rhiōnnag, Ριωννα, stella lucente; fa il paio a Rossane, *Raṷxšn, Ῥωξάνη) che gli storici chiamano la più bella donna del mondo (non una pretesa così rara fra le regine antiche) sposandola. Al loro matrimonio il Macedone invitò tutti i capitribù della Gallia. Un certo Omphis, che gli antichi chiamano basileo dei Namniti (odierna Bretagna) declinò l'invito, ma in massa molti, meravigliati dalla politica conciliante del conquistatore, accettarono. Qui furono vinti non dalla spada ma dalla lingua del Macedone: ad essi, Alessandro mostrò il suo progetto di un impero unito, una sola entità che raccogliesse tutte le stirpi della terra e ne facesse un'unica città. Divenne l'occasione perfetta per molti giovani diseredati per unirsi all'esercito, così come l'aspettata rivalsa di molti clan deboli per ottenere il trionfo su quelli più forti che li avevano emarginati. Il concilio richiamato, alla fine, medizzò.

Operazioni di consolidamento e irrigidamento della Gallia, compresa la fondazione di molte città alla greca, occuparono l'intero periodo del 327-326. Un gran numero di tribù ribelli, fra cui spiccano i nomi degli Insubri e degli Elvezi, furono ridotti a ragione, mentre un nuovo nemico si affacciava a nord: alcuni celti fuggitivi portavano la notizia della calata da nord di una stirpe germana. Alessandro, sempre affamato di nuove conquiste, non lo poteva tollerare: raccolto il suo esercito, costruì il primo ponte della storia sul Reno e passò in Germania, dove si trovò a confrontare l'insieme disorganizzato delle tribù più settentrionali. I macedoni, benché vittoriosi nella battaglia dell'Elba, non essendo abituati alle tecniche anticonvenzionali adottate dai Germani, barbari oltremisura, soffrono perdite considerevoli, tingendo, secondo il racconto contenuto nell'Anabasi di Arriano di Nicomedia, il grande fiume di sangue.

Oltre il fiume Elba, inoltre, a nord, stavano gli antenati della gente che aveva battuto; e se avessero dimostrato anche solo un briciolo dell'abilità che contraddistingueva la loro progenie, allora per l'esausto esercito macedone sarebbero davvero stati guai seri. Se ascoltiamo le fonti greche, che affermano come i boreali (il termine germano non era ancora in uso) fossero cinque volte in soprannumero rispetto all'intera gente celta, certamente non possiamo farci un'idea attendibile della reale entità della popolazione germanica nel loro urheimat; ma sicuramente si tratta di una lettura strumentale al comprendere quanto terrore instillassero i baffuti guerrieri boreali a chi, dopotutto, era ancora dolce stirpe mediterranea. Questo fiume dunque marca il postremo limite delle conquiste di Alessandro.

«Τινι ἔσται ἡ ἀρχή;» «Κρατιστῶ!» (A chi andrà il potere? Al più forte!)

Una volta che il generale sempre vittorioso fu vinto dal suo esausto esercito, Alessandro accettò di ritirarsi verso sud, in direzione della sua Alessandria, non prima di aver disposto Cratero con molti uomini alla rocca di Alesia affinché mantenesse l'ordine nelle regioni barbare appena civilizzate e inviato una flotta a esplorare il Mar del Nord sotto il suo ammiraglio Nearco. Secondo Plutarco, durante la marcia di sessanta giorni nella Foresta Nera, Alessandro perse tre quarti del suo intero esercito a causa delle condizioni avverse e delle bestie feroci che si annidavano nella selva; fu forse in questo contesto quindi che essa si guadagnò tale sinistro nome. Dunque calò in Italia dal Brennero, quando, stazionando per breve tempo a Roma, un araldo gli riportò la notizia che suo fratello Arrideo era morto senza prole e il fido Lisimaco aveva disposto di occupare la Macedonia per conto suo, inviandogli la corona insieme col tributo dell'oracolo delfico, simbolo dell'egemonia che gli concedeva la Lega Ellenica.

"Ride bene chi ride ultimo!" deve aver pensato allora Alessandro Magno, considerando di stringere finalmente nel suo pugno l'Europa intera. Ma l'eroe aveva ancora poco da ridere: tornando indietro scoprì che molti degli ufficiali e governatori militari che aveva insediato in sua vece nei territori dominati si erano comportati male, contravvenendo alle sue indicazioni di rispettare i costumi e le tradizioni dei popoli sconfitti. Il temperamento irascibile del Macedone fece il resto: annunciò che avrebbe ucciso di sua mano ogni malintenzionato, ingiungendo alle truppe che al seguito di quelli si erano macchiate di immondi crimini di ritornare in Persia. Ma ancora una volta, i vizi dei mortali bloccarono le aspirazioni del dio: temendo per la propria vita, molte guarnigioni e il suo stesso esercito gli si ribellarono, rifiutando di venir mandate altrove e criticando la sua adozione di costumi carchedonici e, soprattutto, la sua moglie di stirpe celtica.

Dopo tre giorni, incapace di persuadere i suoi commilitoni a deporre le armi, il Macedone riparò concedendo analoghe titoli e cariche a celti fidati; allora i greci misero finalmente da parte il proprio orgoglio, accettando di portare il loro campione positivo sui propri scudi, performando il rituale di trionfo nordico. Era la vittoria definitiva della linea di governo di Alessandro, portata verso la sintesi di greci e barbari; come effige di questo, il conquistatore mise mano di propria tasca all'edificazione di una maestosa tomba per Brenno, del quale si proclamò legittimo successore nel titolo di capo dei capi delle tribù. La costruzione fu sovrintesa dal grande architetto Aristobulo, abile al punto che ancora oggi presso la foce del Po si avvistano i resti della tomba monumentale.

È sempre con Plutarco, come abbiamo iniziato, che concludiamo questa storia: egli racconta che Alessandro fu talmente devastato dal decesso del suo compagno Efestione che sviluppò una febbre, la quale peggiorò fino al punto in cui egli non riusciva a parlare. Alla gente comune, ansiosa riguardo la sua salute, venne riservato il diritto di venirlo a trovare; così il Grande consumò i suoi ultimi attimi, salutando con la mano il mare immenso dei suoi sudditi. L'uomo col più vasto dominio che si fosse mai visto, ridotto su un seggio senza poter esprimere cosa pensava; così ristette, finché non lo colse la morte. Alessandro non morì in Alessandria Carchedone, come tanto sperava; ma in Alessandria Romea, città che non apprezzava. Chi sa poi le beghe di Enea e Didone nell'oltretomba, potrà dirci che forse infine toccò al primo trionfare sulla seconda...

Μετα τον του Αλεξανδρου ὁδόν

L'impero del Macedone era tanto grande quanto diversificato; di fatto, quando il sottile filo della vita di questo fu tagliato dall'azione malevola delle Parche, nessun fattore restava più ad unire quelle genti disparate se non gli eserciti sotto il comando dei successori di Alessandro, i diadochi. I quali, ovviamente, anteposero il proprio benessere a quello degli argeadi: il figlio infante di Alessandro fu rapidamente messo da parte, nel mentre che dappertutto si accendevano lotte di potere. Qui affrontiamo in una breve cronologia il processo che portò alla nascita dei principali regni, con accanto la stirpe che su di essi raccolse e stabilizzò il proprio potere.

323 a.C. – Alessandro Magno muore a Roma

323/322 a.C. – Guerra locriaca: le poleis dell'Italia Meridionale, guidata da Siracusa e Locri riacquistano la propria indipendenza, considerando sciolto il trattato di sudditanza (de facto) che avevano stipulato col Macedone in persona e non con la Macedonia come regno; Cratero, già inviato a riportare i macedoni ribelli in patria, soffoca la rivolta nel sangue

322 a.C. – Perdicca, nominato reggente per accordo degli altri generali, conquista la Narbonense; qui infrange la neutralità di Massalia che Alessandro aveva rispettato imponendo alla polis Eumene di Cardia come tiranno; il ceto dei navigatori oceanici, arrichitisi con i viaggi stipendiati dall'impero e guidati da Pitea il Vecchio appoggia il colpo

321 a.C. – Perdicca viene assassinato alle porte di Alessandria, con Tolomeo, che già aveva cominciato a farsi chiamare suffeta, come probabile mandante; l'ultima parvenza di unità dell'impero è persa per sempre

321 a.C. – Morte di Cratero contro Eumene di Massalia; la polis acquista un enorme potere sul commercio, monopolizzando i traffici del Mediterraneo Occidentale e importando enormi quantità di stagno; ufficializzata la creazione di fondaci sulle coste della Britannia per supplire il fabbisogno della madrepatria

321 a.C. – Congresso di Lilibeo e riorganizzazione dell'impero tra i diadochi sopravvissuti; i generali non riconoscono il potere personale di Eumene, che è giunto a piangere pubblicamente la scomparsa del divo Alessandro (ma in realtà di Perdicca il Reggente); per reazione Massalia finanzia l'instaurazione di signori sulle isole britanniche, così da assicurare il proprio potere: è la nascita dei cosiddetti regni greco-britannici

318 a.C. – Eacide sposa Olimpiade, che si proclama regina dell'Epiro e di Macedonia, estendendo il proprio dominio sulla Magna Grecia rimasta in un vuoto di potere; atteggiamento ondivago da parte dei diadochi, mentre Cassandro, figlio di Antipatro morto da poco, resta in difficoltà, vedendo infondata la sua pretesa di regnare come custode della casa di Alessandro

317 a.C. – Cassandro proclama la "libertà dei Greci"; di fatto scioglie la Lega Ellenica in cambio del supporto contro l'Epiro

316 a.C. - Eumene, tiranno di Massalia, muore; la città si dà a una variopinta demagogia, mentre il reale potere resta nelle mani dei mercanti oceanici

312 a.C. – Battaglia di Tingis: Demetrio Poliorcete, erede di Antigono Monoftalmo, sbarca in Africa per soddisfare la sua immensa ambizione, ma viene sconfitto da Tolomeo, permettendo a Seleuco di invadere la Spagna; guerre costanti fra i diadochi per l'Iberia porteranno i domini dei più ricchi fra i generali a decadere

310 a.C. – il bambino Alessandro e Olimpiade sono assassinati da Cassandro, che ne usurpa il trono: fine dell'antica casa reale macedone, l'Epiro ritorna indipendente sotto Pirro (ancora bambino) e perde i suoi estesi domini

309 a.C. – Poliperconte assume il titolo di stratego del Peloponneso per mano di Cassandro, in cambio dell'assassinio di Eracle, figlio illegittimo di Alessandro Magno; calate macedoni costanti tentano di integrare la Grecia al proprio dominio

306 a.C. – Antigono Monoftalmo e suo figlio Demetrio accettano il titolo di re; presto li seguono, in ordine Cassandro, Tolomeo (Suffeta) e Seleuco Nicatore

301 a.C. – Morte di Antigono nella battaglia di Emporion, colonia sotto il controllo massalico

281 a.C. – Morte di Lisimaco in guerra contro i Daci; ha fine il tentativo di un regno trace indipendente

276 a.C. – Seleuco, ultimo dei generali in vita, è assunto nei Campi Elisi; fine dell'epoca dei Diadochi

Ἠ Βασιλεία τῶν Σελευκιδῶν (Impero seleucide)

Data la sua vastità, fra tutte l'Europa risultò frazionata dalla morte di Alessandro, giaccché fu presto suddivisa tra vari signori macedoni, tra i quali emerse presto la figura di Seleuco, egemone di Mediolanon, ricco insediamento della Cisalpina. Il tipo non era uno da poco: presto si fece incoronare re e per il 306 a.C. aveva imposto la sua autorità su tutte le tribù celtiche, facendosi riconoscere come discendente alla lontana di Ambigato, mitico padre della Gallia, e amico del dio Alessandro. Nel 301 a.C. Antigono Monoftalmo, che governava l'Iberia e la Notoceltia (odierna Aquitania), fu sconfitto da una coalizione degli altri diadochi: Seleuco così si impossessò della Spagna dove, sulle rive del Barcino, fondò Antiochia, in onore di suo padre, destinata al ruolo di capitale dell'immenso impero.

Il figlio Antioco dovette affrontare fin da subito la notevole sfida di mantenere unite le portentose conquiste territoriali del padre, impresa che lo tenne impegnato per quasi tutta la vita e gli riuscì solo in parte. Per prima cosa decise di abbandonare l'Illiria, regione troppo periferica per essere difesa efficientemente e fonte di un pericoloso contenzioso con il re di Macedonia Antigono Gonata, cui seguì la formazione di un piccolo regno pirata indigeno. Anche le ribellioni dei celti stessi, in parte contrari al processo di ellenizzazione intrapreso dai sovrani, rappresentarono un ostacolo molto pericoloso, cui il re fece fronte tramite l'impiego manovrato di uri: queste bestie, progenitori del bue domestico, essendo selvatiche erano impossibili da domare, ma direzionando lo spostamento delle mandrie presso i pascoli appartenenti alle tribù ostili era possibile logorare i guerrieri nemici senza ingaggiarli direttamente in battaglia. Ma l'ostacolo maggiore era rappresentato dai Tolomei, con cui i Seleucidi ebbero spesso a discutere nella cosiddette guerre ispaniche; la causa di queste guerre era che sia i Seleucidi sia i Tolomei reclamavano la regione della Betica, che corrisponde alla Spagna meridionale. Antioco perse il controllo di alcune zone ma riuscì a conservare la regione attorno alla capitale, di importanza fondamentale.

Come si può ben immaginare, il regno di Antioco rappresentò un periodo felice per la Gallia, ma il basileo si rese ben presto conto che per rendere veramente capillare il proprio potere non poteva limitarsi alla dimostrazione di forza militare, ma bisognava anche investire sui commerci e i genuini collegamenti; questa realizzazione fu alla base del rapporto quasi simbiotico che instaurarono i re seleucidi con la città-Stato di Massalia, egemone dei commerci oceanici. Anche quando l'astro nascente dei Lagidi riuscì a giungere a un passo da Antiochia, quasi distruggendo i propri acerrimi rivali, e logicamente la via delle colonne d'Ercole fu chiusa ai mercanti greci, i massalici riuscirono a tenere in vita i necessari legami con la Britannia tramite l'entroterra. Gli investimenti per l'urbanizzazione e l'erezione di strade e templi in questo senso furono copiosi; per la fine della parabola seleucide, si può dire che ormai i Celti erano entrati a pieno diritto nella storia, se pur sotto l'egida greca, che lentamente andava cedendo rispetto all'elemento indigeno.

Ἠ Πτολεμαϊκὴ βασιλεία (Impero lagide)

Il regno tolemaico fu fondato, prevedibilmentem da Tolomeo, generale macedone e compagno d'armi di Alessandro che, dichiaratosi legittimo Suffeta, diede il via ad una potente dinastia ellenistica governando un territorio che va dall'estremo occidente oceanico della Mauritania alla Sicilia. Alessandria Carchedonica, città favorita di Alessandro, ne divenne la capitale, oltre che un importante centro di cultura e del commercio internazionale.

Per ottenerne il riconoscimento da parte della nativa popolazione africana, come detto, la famiglia macedone lavorò duramente per inserirsi all'interno del quadro delle istituzioni puniche, seppure ne rigettassero fermamente la forma repubblicana; in epoca più tarda i Tolomei estremizzarono la tradizione semitica sposandosi tra fratelli e facendosi raffigurare sui monumenti pubblici abbigliati in stile carchedonica e partecipando pienamente alla vita e alle celebrazioni dell'antichissima religione orientale. Nonostante ciò, nel corso dei loro secoli di dominio i Tolomei dovettero affrontare e combattere ribellioni ispirate dai nativi,specie di etnia numida, che diedero vita a un proprio irriducibile regno nell'entroterra, perenne spina nel fianco della ricca Alessandria Carchedonica. Eppure la cultura ellenistica permase, continuando a prosperare in terra d'Egitto per secoli fino alla conquista islamica, segno chiarissimo della profonda influenza che ebbe la conquista greca su questa regione di mondo.

Durante i regni di Tolomeo II e Tolomeo III migliaia di veterani greci vennero premiati con terreni agricoli, venendo in tal modo impiantati in colonie e guarnigioni che si stabilirono nei villaggi dell'intera linea costiera africana; nel corso di un secolo l'influenza greca si era diffusa a macchia d'olio perfino nel vicino regno numida ed i matrimoni misti avevano prodotto un'ampia classe istruita greco-punica: tuttavia, i greci rimasero pur sempre una minoranza privilegiata all'interno del regno tolemaico, vivendo sottoposti al diritto greco e parimenti ricevendo una formazione eminentemente greca, come cittadini ellenici a pieno diritto. Tolomeo I poi fondò il Museo e la grande biblioteca di Alessandria; essi erano attivi centri di ricerca sostenuti dal sovrano: gli studiosi che arrivavano da ogni parte del mondo erano ivi alloggiati e finanziati dai governanti tolemaici, avendo inoltre libero accesso alla biblioteca. Il bibliotecario capo serviva anche il re anche come precettore privato del principe ereditario e, per i primi centocinquant'anni della sua esistenza, questo centro del sapere antico unico al mondo attirò una moltitudine di studiosi di origine greca, divenendo ben presto il fulcro ed il centro-chiave accademico, letterario e scientifico dell'Ellenismo, come è detto quel fenomeno di straordinaria convergenza culturale che si originò alla morte di Alessandro.

Purtroppo la parabola lagide non ebbe una conclusione adeguata nel contesto internazionale: oltre ai già menzionati conflitti con nazioni straniere, i Tolomei furono anche coinvolti anche in guerre civili che portarono al declino del loro regno. Capitolo a parte meritano i trascorsi con Siracusa e Massalia, l'una dominata da tiranni che pretendevano di essere riconosciuti re dell'intera Sicilia, l'altra polis di importanza cardinale perché manteneva il collegamento con le fondamentali miniere di stagno: i punici si diedero molte volte a combattere con queste potenze, con risultati ambivalenti. Alla fine tuttavia, almeno quando i fondaci greci in Britannia si diedero a una gestione in proprio degli affari, i Tolomei poterono dire di aver colto l'ultimo trionfo della loro storia.

Ἠ Μασσαλίκα πολιτεια (Repubblica massalica)

L'esperienza della repubblica di Massalia rappresentò certamente il più singolare e curioso esperimento lasciato in eredità all'Occidente dall'azione di Alessandro. Perdicca, a suo tempo, aveva voluto integrare la città all'impero, inviandogli come sovrano Eumene di Cardia, grande ammiraglio macedone; purtroppo per le speranze dell'aspirante restauratore, da tiranno Eumene si preoccupò prima dei suoi interessi che di quelli del reggente, levando ben presto il supporto al progetto della riunificazione argeade in favore di una politica espansiva sui mari. Eumene fu appoggiato in questo dai ricchi mercanti, coadiuvati dal navigatore Pitea, ancora vivo a differenza del vecchio Nearco, ucciso durante uno sbarco dalle frecce di una tribù di Pitti; insieme i due fecero chiudere le porte della polis la notte, approfittando di un rito elevato al divo Alessandro per far fuori i principali rappresentanti dell'antica aristocrazia, erede della prima colonizzazione e che fondava il proprio predominio sulla terra.

Ovviamente nemmeno così poteva essere abbasanza. Alla morte di Eumene, i massalici impiegarono poco tempo per cacciare il suo imbelle figlio; nessuno, infatti, apprezzava la prospettiva che la polis divenisse un regno autocratico ed ereditario. Pitea tuttavia era preoccupato: sapeva che l'assenza dell'immagine sacrale di un sovrano avrebbe condotto gli altri diadochi sul piede di guerra contro l'invadente polis, che edificava fondaci in tutto il Mediterraneo alla stregua di vere e proprie colonie. Così l'ultimo atto del grande navigatore fu da un lato di aprire le vie del commercio che lui personalmente aveva scoperto (e di cui precedentemente esigeva il monopolio) alla navigazione dei suoi concittadini; dall'altro instaurò i primi stretti legami con l'impero seleucide, di cui abbiamo già parlato.

La rivalità coi Tolomei rappresentò un problema, ma non qualcosa di insormontabile. Quando la palla passò a questi ultimi, infatti, i massalici iniziarono a sfruttare prima il Rodano, transito privilegiato per il commercio tra Mediterraneo ed Europa, e poi vie lastricate su cui le merci viaggiavano velocemente per l'intera Gallia. In questo periodo Massalia contava 70-80.000 abitanti, il secondo più grande centro urbano del continente (dopo Antiochia, ma alla pari di Seleucia, sorta sul territorio dei Parisii a nord). Benché lo stagno britannico godesse del maggior prestigio sul mercato internazionale, nel favoloso mercato di Massilia transitavano numerosi altri prodotti: l'ambra settentrionake, ma anche il vino, le ceramiche e il vasellame del sud, prodotti con orgoglio dall'industria locale, indipendente grazie alla materie prime impiantate in loco grazie ai proventi del commercio proveniente dalle isole.

Il periodo fu segnato anche da spedizioni geografiche atte a comprendere a fondo le nuove regioni che i greci si trovarono a dominare. Non si può non menzionare Pitea, come ovvio, che per primo esplorò l'Oceano; la seconda, inviata da Eumene, fu anche una spedizione militare, e tracciò i primi semi della secolare presenza di colonie massaliche sul continente e nelle isole. In questa epoca Massalia, coadiuvato in questo sforzo dai re seleucidi, si assicurò anche la fedeltà degli abitanti della Gallia favorendo il sincretismo tra divinità greche e celtiche correlate, e assumendo caratteristiche fondative tipiche della cultura gallica, tra cui uno spiccato senso del valore di ogni singolo individuo. Nella città si instaurò perciò un regime quasi diarchico, perché, al soglio del regime tirannico nominale, erano innalzati di volta in volta esponenti del partito oligarchico (pochi, ricchissimi mercanti di origine greca purissima) o di quello democratico (la stragrande maggioranza della popolazione, spesso commista all'immigrazione che la polis riceveva dall'entroterra). Tale spaccatura strutturale tuttavia rappresentò anche la causa per la quale la repubblica andò incontro alla propria fine: le continue lotte di potere interne determinarono infatti il declino. Emblematico a questo proposito fu il tentativo di recuperare il controllo dei fondaci britannici, resisi nel tempo indipendenti sotto la guida di re greci eletti dai locali, che si concluse con la rovinosa sconfitta nei pressi di Londinion, capitale del più forte tra i regni, quello iceno. Alla fine dei conti, i massalici si dovettero arrendere alla triste realtà: la loro gloriosa polis non era nient'altro che la propaggine sui mari del regno gallico.

Ή περιφέρεια (I regni greco-britannici)

Non è chiaro se Alessandro considerasse la Britannia parte del suo impero, ma quello che è subito lampante è che fu il viaggio di Nearco, coadiuvato dal massalico Pitea, a piantare i primi semi della presenza greca nell'isola. Questi germogliarono in fretta: nominalmente sotto il patrocinio seleucide, i massalici fondarono molte grandi città greche nella Britannia meridionale, cosicché la lingua greca divenne per un certo tempo quella dominante. Il paradosso che la presenza greca fosse maggiore in Britannia piuttosto che in aree più vicine alla Grecia potrebbe essere spiegato dalla politica dei mercanti ora al potere di spostare i loro inaffidabili coloni in questa provincia remota al fine di controllare efficacemente l'estrazione delle risorse presenti.

Le grandi difficoltà incontrate dalla polis massalica, alleata di ferro dell'Impero seleucide mentre questo combatteva gli attacchi dei Tolomei d'Africa, diedero al ceto di ricchi oligarchi impiantato in loco l'opportunità di rendersi indipendenti (verso il 255 a.C.) e di espandere i propri affari verso nord. I re-mercanti furono tanto abili a difendersi dagli attacchi dei loro ex-compatrioti massalici, che questi ben presto rinunciarono al tentativo di sottomettere le colonie con la forza per l'estrema lontananza, preferendo commerci meno lucrativi che in passato (soluzione di comodo che faceva piacere a tutti).

Sembrava che un grande impero greco, fondato sulla propria esorbitante ricchezza, fosse in procinto di sorgere nelle isole britanniche. Ma quando un re avanzava verso nord, subito sorgevano usurpatori a sud, di cui purtroppo conserviamo a malapena il nome grazie alle loro monete. Da queste apprendiamo che i re abbandonarono ben presto la monetazione secondo lo standard attico ed introdussero uno standard locale, senza dubbio per ampliare i loro consensi anche al di là della minoranza greca. Nel regno iceno, forse il più forte, il sincretismo arrivò al punto che tale re Menandro, noto come un grande conquistatore, arrivò a vestire l'abito druidico, non sappiamo con quale successo.

I suoi successori riuscirono a rimanere al potere più a lungo, ma col tempo tutto ciò che rimaneva dei re greci era completamente sparito, anche per il contiguo indebolimento di Massalia e seleucidi, che col tempo non furono più in grado di mantenere attivi i contatti con l'isola, tantomeno di inviare soccorso, quando la debolezza dei regni greco-britanni fu dimostrata dalla loro rapida e completa disfatta prima da parte dei Briganti prima e dei Pitti poi, che razziarono e distrussero le stupende, prime città della Britannia. Comunque la loro influenza culturale non fu completamente perduta; uno stile artistico costituito da una miscela di elementi britannici e occidentali, conosciuto come cultura del Tamigi, sopravvisse ai re-mercanti per centinaia di anni.

Ἠ Συράκουσων τυραννίς (regno di Sicilia)

Quello siciliano non era un vero e proprio regno, bensì la traduzione in atto pratico delle velleità di potere dei tiranni di Siracusa, che dalla morte di Alessandro, al congresso di Lilibeo, centrale nell'impero di allora, avevano guadagnato l'affidamento in perpetuo della carica di tesorieri regi, con annesse portentose zecche. Da questa base di potere i tiranni riuscirono a corrompere più volte i propri nemici, conducendo una politica molto ambiziosa con pochissimi mezzi: le resistenze delle altre poleis siciliane furono presto piegate, ma l'ostacolo rappresentato dai Tolomei era davvero troppo grande per l'aspirante regno: le milizie di Siracusa, ancora di stampo oplitico, non erano affatto abbastanza per coronare il sogno che i tiranni inseguirono per tutta la loro persistenza nei palazzo del potere, ovverosia unificare l'isola sotto il proprio scettro; anzi, più volte i punici sconfinarono, costringendo i siciliani alla difesa ad oltranza, situazione dalla quale uscirono solo a fatica considerando la propria importanza come ganglio fondamentale del sistema economico dell'epoca.

Non solo la zecca siracusana fu, per molto tempo, l'imprescindibile base per la monetazione aurea nel Mediterraneo (col tempo, altri Stati aprirono le proprie); ma, cosa ancora più strumentale per il continuo capovolgersi delle sorti della guerra, con l'Egitto di fatto estraneo al circuito economico dei grandi regni ellenistici del Mediterraneo occidentale, la Sicilia poteva bloccare qualunque importazione di frumento e grano a Massalia e all'impero seleucide finché queste potenze non avessero esaurito la propria tesoreria a furia di comprare la mercanzia siciliana, volutamente sovrapprezzata, cosicché il re seleucide e il tiranno di Massalia fossero costretti a scendere in guerra contro Alessandria. Agatocle, inventore di questo trucchetto, lo definì "un ricatto; ma uno bello, a fin di bene".

Peculiare fu, nel caso della Trinacria, l'assenza di una dinastia propria che contraddistinguesse il regno dagli altri ellenistici. Ma forse, com'ebbe a dire Aristotele, filsofo, scienziato e indiscusso genio simbolo dell'epoca di prosperità che toccò in sorte all'isola, "per la ricchezza la stabilità è innecessaria". E a giudicare dagli splendidi resti antichi di Siracusa, giuntici quasi intatti, possiamo ben dire che qualcosa il saggio lo aveva azzeccato: la città era divenuta, infatti, un importantissimo centro di produzione artistica, quasi una seconda Alessandria all'interno dell'ecumene ellenistica.

Ἠ Ἠπειρῶτις βασιλεία (Regno d'Epiro)

L'unica causa della rinascenza epirota dopo la triste parentesi del matrimonio tra Eacide e Olimpiade fu il frutto della loro unione, Pirro: questi era una stratega eccezionale e aveva tutta l'intenzione di restaurare la grandezza epirota in tutta la propria interezza. Così approfittò della chiamata della polis di Taranto, che desiderava essere preservata dalle mire espansionistiche di Agatocle, tiranno di Sicilia, per sbarcare in Italia. Tradire il proprio stesso genero gli attirò lo scorno di alcuni dei suoi sostenitori; dal canto loro, i tarantini furono entusiasti, poiché ai loro occhi questo testimoniava più di ogni altra cosa la determinazione di Pirro; comunque, di lì a poco Agatocle morì, portando a una democrazia di facciata.

Mettere sotto la propria ala protettiva le sparute poleis greche nella penisola non fu difficile, pure se molte si rifiutarono di accogliere la sua avanzata e il re dovette insegnar loro le buone maniere con la forza. Più difficile si rivelò esaurire la volontà combattiva dei siciliani: espugnate tra molte perdite Messene e Taormina, l'esercito di Pirro giunse fin quasi alle porte di Siracusa, ma qui fu fermato dagli esaltatissimi opliti cittadini, determinati a difendere la propria patria. Delle parole di Pirro dopo questa sconfitta si tramandono du diversi versioni: l'una, secondo la quale egli avrebbe detto: «Un'altra vittoria così e sarò perduto!, l'altra, che parimenti racconta di come, camminando sul campo di battaglia tra i cadaveri dei nemici e notando che tutti erano stati feriti al petto e che i loro volti conservavano ancora un'espressione agguerrita e indomita, Pirro abbia esclamato: "Se avessi avuto simili soldati, avrei conquistato il mondo!"

La polis comunque, fuori dalla retorica era spacciata: molti suoi uomini erano morti e il regno dato per perso. Dunque venne scelto come tiranno un certo Iceta, con la promessa di scacciare Pirro e riportare la pace; questi fu sconfitto e perciò venne esiliato, ma intanto aveva indebolito Pirro al punto che questi preferì levare le tende e recarsi in Macedonia, con l'intento di reclamarne il trono, in quanto figlio di Olimpiade.

La scelta di Pirro reinvia al sogno originale di Isocrate, quello di mettere in piedi un regno che riunisse nuovamente l'intera Ellade in uno sforzo collettivo contro i barbari; così non fu, dal momento che la campagna si trascinò per anni con un nulla de facto.

Ansioso di ritornare ai suoi affari in Italia, Pirro, con un esercito stanco e provato da anni di conflitto lontano da casa, fu incontrato in battaglia presso Maleventum da una compagnia mercenaria sannita assunta per l'occasione da Siracusa. La battaglia, sebbene risultasse inconcludente dal punto di vista tattico, segnò la decisione del re epirota di segnare la pace, dal momento che non aveva ricevuto alcun rinforzo dalla Grecia e dagli altri sovrani ellenistici cui era stata fatta richiesta. L'ultima impresa italica del sovrano fu piegare la rivolta di Taranto, presso la quale si sarebbe insediato come nuova capitale; il regno, comunque, era fondato sulla sua sola personalità e si indebolì progressivamente con la sua morte.

Ἠ Ιταλικά συμμαχία (Lega italica)

Fra tutte le regioni del defunto impero macedone, non si può negare che la penisola fu scossa dai travagli più turbolenti. Prima sotto il pugno di Cratero, dopo la morte di questi passò nominalmente sotto l'autorità di Seleuco, in realtà lontanissimo e poco interessato ai problemi della zona. Come in tante altre regioni d'Europa, il passaggio dell'esercito alessandrino non aveva automaticamente significato l'integrazione all'impero argeade; molti popoli dell'entroterra erano rimasti intonsi dall'intromissione di Alessandro Magno.

Ma non poteva essere lo stesso per gli esattori di tasse seleucidi. Gli italici approfittarono della gravissima crisi dinastica che scoppiò in Gallia alla morte di Antioco II Teo: la successione sarebbe dovuta passare al figlio avuto con l'africana Berenice, sposata per riavvicinarsi ai Tolomei dopo due tremende guerre; ma l'ex compagna Laodice non era evidentemente d'accordo, avendo avvelenato il marito proprio per mettere sul trono il figlioletto Seleuco II (detto Callinico, "dalla splendida vittoria"). Berenice chiese allora aiuto al fratello Tolomeo III Euvergete che passò le colonne d'Ercole in Spagna con un immenso esercito dando inizio alla terza guerra iberica.

Nel frattempo, a complicare ulteriormente la situazione di Seleuco, giunse la predetta ribellione italica: suo fratello Antioco Ierace se ne mise a capo, cercando di fondare un regno autonomo in Italia, e alleatosi con i Sanniti, la più forte fra le popolazioni della penisola, sconfisse il fratello nella disastrosa battaglia di Ascoli. Ciononostante Seleuco riuscì in qualche modo a riprendersi dalle sconfitte e ad attestarsi in Cisalpina, anche se poco dopo dovette interrompere il contrattacco a causa di una ennesima sconfitta militare per mano egizia. Il trattato di pace, benché umiliante (Seleuco fu costretto a riconoscere la prerogativa reale del fratellastro) permise a Seleuco di mantenere il proprio regno. Poco dopo, però, il fratello Antioco Ierace fu sconfitto dalla sollevazione dei mercenari sanniti assoldati per la sua impresa, che avevano visto in lui un uomo diverso dal fratello, quand'invece aveva in progetto solo di forgiarsi il proprio spazio dove atteggiarsi a tiranno, e Seleuco ne approfittò per restaurare parte del proprio potere nella penisola.

Ma la conseguenza più grave fu che i popoli italici approfittarono dei disastri di Seleuco per rendersi indipendenti: un certo Diodoto, forse prima governatore della Tirrenia (l'antico territorio etrusco, ormai grecizzato), fondò l'omonimo regno, che gli sopravvisse per una sola generazione; suo figlio Diodoto II tentò di spingere il suo predominio sull'intera Italia, ma fu ucciso da un usurpatore, secondo alcuni militante nel suo stesso esercito, tale Eutidemo. Questi tentò di farsi riconoscere sovrano dai tirreni ma fallì e fu scacciato; al suo posto, i popoli della penisola convennero di riconoscersi in un'alleanza di comodo che tenesse lontani gli stranieri della penisola: di essa facevano parte Marsi, Peligni, Vestini, Marrucini, Asculani, Frentani, Pentri, Irpini, Venusini, Iapigi, Pompeiani e Lucani, oltre ai Sanniti che ne erano, coi loro mercenari, la forza dominante, mentre i Tirreni, sottomessi dall'alleanza e ormai senza più un proprio regno, scomparvero lentamente dalla storia (attestazioni di greco-etrusco o etrusco proprio vanno rarefacendosi fino alla nascita di Cristo per poi quasi scomparire).

Dapprima i ribelli scelsero come loro città di rappresentanza Corfinio, ma successivamente, quando fu liberato da Eutidemo l'allora capoluogo sannita Isernia, ne fecero la loro capitale. Seleuco tentò di recuperare quantomeno la Venetia, ma gli italici riuscirono non solo a respingere l'invasione, venendo in aiuto dei loro alleati veneti, ma addirittura, secondo alcuni, a catturare il re. Anche il velleitario tentativo di spingersi oltre la Cisalpina terminò in un disastro nel quale Seleuco perse 20.000 uomini. Alla sua morte il regno era fortemente indebolito, essendosi notevolmente ristretto, ma quantomeno aveva evitato il collasso; gli successe nel 225 a.C. il figlio Seleuco III, che tentò per l'ultima volta di restaurare l'autorità imperiale in Italia ma rimase ucciso dai propri mercenari sanniti nel 223 a.C. La campagna in Cisalpina fu continuata da suo zio Acheo, che riuscì efficacemente a respingere le forze della Lega, costringendo il confine dell'Italia sugli Appennini.

feder

Alessandro Magno in occidente (immagine creata con openart.ai)

Alessandro Magno in occidente (immagine creata con openart.ai)

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Gli risponde Perchè No?:

Mesi per prendere la piccola Roma e una sola giornata per la grande Cartagine? Sul serio?

Poi immagino la conquista dell'Iberia molto più ardua (non é stata facile né per Cartagine, né per Roma), ma può darsi che con l'alleanza di alcuni popoli locali sua possibile (ciò detto neanche la conquista della Magna Grecia mi sembra cosi facile, Pirro ne sa qualcosa, anche senza i Romani tra i piedi). Prima di passare in Iberia, Alessandro conquista le Mauretanie o passa direttamente in Iberia via mare? Massalia lo avrebbe probabilmente accolto e mi fa pensare che nella stessa epoca il navigatore Pitea sta esplorando il Nord, probabilmente fino in Scandinavia e forse circumnavigando la Britannia (e ancora più a Nord, alcuni dicono fino alle Shetland o fino in Islanda). Pitea sarebbe probabilmente un aiuto prezioso per Nearco.

A proposito dei Celti, Alessandro li conosceva già abbastanza bene per aver combattuto contro di loro sul Danubio attorno al 335 e poi incontrato un'ambasciata celta. Mi sembra che se Alessandro conquista la Gallia Transalpina (il Nord dell'Italia) e sottomette i Celti locali, questo avrebbe forse provocato una reazione più rapida tra i Galli e forse una spedizione oltre le Alpi contro Alessandro. Nelle Gallie, non é detto che Brenno sia ancora vivo in quest'epoca, era il re dei Senoni ma niente indica che avrebbe potere sugli altri popoli. Durante la conquista delle Gallie é molto probabile che il pezzo più duro sarebbe ancora il regno dei Biturigi centrato su Avaricum (i Biturigi sembrano essere rimasti egemoni in Gallia in questa epoca, anche se la loro età d'oro sembra essere stata la fine del VI secolo-inizio del V secolo, prima dell'ascesa degli Arverni durante il II secolo a.C.). C'erano già numerose città nelle Gallie in questi anni, basterebbe rifondarle come poleis. Infine a questo punto la differenza tra Galli e Germani non é ancora ben definita, non credo che sarebbero visti come diversi da Alessandro.

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E feder replica:

Ammetto che può sembrare assurda la blitzkrieg del Macedone, ma di fatto fu proprio così: la sua leggenda si sparse già in vita, contribuendo enormemente alle sue vittorie; se noti, io parlo più dell'elemento psicologico (indole di personaggi, classi dirigenti, vari popoli) che delle battaglie in sé. Questo sia per mimare le cronache antiche, sia perché questo è il mio stile; non so abbastanza di guerre e manovre per far vincere qualcuno sul campo di battaglia. I miei PoD sono sempre altri.

Logicamente più Alessandro procede, più cresce la sua fama e i popoli agiscono di conseguenza. Io ho ricalcato la mia campagna occidentale sul modello di quella in Oriente, dunque Granico è Rhizon, Tiro è Roma, Gaugamela è Cartagine, e così via... Certo, per mantenere la scorrevolezza ho dovuto fare diverse concessioni al racconto, che ti hanno indispettito. Forse potremmo venirci incontro, o abbandonando il modello orientale o modulandolo un poco: Roma cade subito, ma allora Alessandro assedia Cuma a Cuma, e così via. Capitolo Magna Graecia: mi pare che sopravvaluti la tenuta delle poleis e sottovaluti la portata della gloria di Alessandro. Se proprio c'era una stirpe volenterosa di darsi al Macedone, quella era la greca (e suo padre era egemone della Lega, ricordiamolo). Quel modello comunque ormai era fallito.

Sì, Alessandro passa per le Mauritanie; no, non passa per la Cisalpina ma per la Venetia (in caso fossi stato poco chiaro, ho allegato una cartina in fondo). So che in HL nel 335 Alessandro sconfigge un'incursione che è stata successivamente riconosciuta come celtica, ma gli antichi non erano esattamente grandi etnologi e a me resta il dubbio che non facevano grosse differenze. Sia come sia, quello è un misero pretesto per iniziare la campagna. In Italia non incontra Celti perché va dritto a sud (ciò è strumentale a che si diffonda il terrore fra quelle genti, necessario per confederarsi momentaneamente e fornire un avversario degno ad Alessandro).

Qui c'è il punto clou. Siamo alla fine della storia, potevo non inserire un nemico degno al Macedone? E chi meglio di Brenno? Le tue considerazioni sono giuste, ma io tendo a scrivere per intrattenere (il che è un grosso peccato, me ne rendo conto). È ovvio che logicamente Alessandro sarebbe rimasto impantanato in Iberia e Gallia (ma se noti io, come Annibale, lo faccio solo transitare per quei territori, menzionando un unico assedio); la mia è una concessione al mito, per stupire il lettore.

Nota finale su Celti e Germani: non è lui a notare la differenza (i greci, con l'eccezione del sommo Erodoto, non erano fini quanto i romani: dicevano barbaroi e usavano volentieri scitico, trace, iperboreale e perfino celta come sinonimi), ma sono i celti a dirgliela. Pitea può aiutare Nearco (ci avevo pensato anche scrivendo). Magari viaggiano insieme.

Concludo così: devi sapere che Alessandro a Occidente non è che una scusa per far emergere l'Europa prima come protagonista della storia. L'ellenismo in questa TL pervade le Esperidi e porta al sorgere di una civiltà più forte più velocemente; il grosso del lavoro di Alessandro lo faranno come nella storia reale gli epigoni, non lui. I semi sono già piantati, ma ti dico un po': Antigono in Iberia, Seleuco in Gallia, Tolomeo in Africa, Pergamo come Siracusa, e via dicendo.
Quando dico che Alessandro passa per un territorio, è perché letteralmente ci passa; non una conquista alla romana dunque, ma al massimo la fondazione di guarnigioni e città col suo nome, che, com'ebbe a dire il grande Paolo, non sono però che isole di grecità in un mare diverso.

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