Storia della Galacia e della Galledonia

di Paolo Maltagliati

I - Periodo antico

Tolomeo Cerauno era all'apice della gloria quando una grande rovina si abbatté su di lui: la grande invasione dei galli. I macedoni vennero pesantemente sconfitti e lo stesso Tolomeo perse la vita.

Bolgios, il leader celtico di questa grande incursione, venne a sua volta respinto con fatica dal generale Sostene, il quale, tuttavia, venne a sua volta abbattuto da una seconda incursione gallica, comandata questa volta da Brenno.

Ringalluzzito da tale successo, quest'ultimo decise di promuovere un ambizioso piano: penetrare in Grecia e saccheggiare il tempio di Delfi. La spedizione fu tuttavia un disastro: i galli vennero prima fermati al passo delle Termopili da una grande coalizione greca, per poi subire un decisivo rovescio proprio nei pressi di Delfi, nel 279 a.C.

I superstiti portarono avanti per un certo periodo le proprie razzie, finendo per essere sconfitti da Antigono II Gonata due anni dopo a Lysimachia, per poi reclutati dai diversi sovrani (compreso lo stesso Antigono) impegnati nelle lotte di potere in Macedonia. Alcuni si stanziarono per un certo periodo in Tracia, fondando la città-stato di Tylis, per poi essere definitivamente sconfitti e assimilati dai traci stessi nel giro di mezzo secolo. Più duratura e nota fu la storia dei galli che decisero di varcare, rispondendo all'appello di Nicomede di Bitinia, l'Ellesponto. Diverse vicissitudini li portarono a fondare al centro della penisola Anatolica, il regno (o, meglio, la confederazione tribale) noto come Galazia. Tale regione venne poi inglobata dall'impero romano, ma la cultura (per quanto fortemente ellenizzata) e la lingua galata sopravvissero sino al IV-V secolo dopo Cristo, quando, complice la conversione al cristianesimo, la regione si grecizzò pressoché completamente.

Poniamo invece che tale epopea abbia un esito diverso...

Dopo la pesante sconfitta alle Termopili, Acicorio insiste nel volersi ritirare, contro il parere di Brenno, che invece vuole portare a termine a tutti i costi il grande saccheggio. I due giungono ad un feroce litigio e quest'ultimo viene assassinato. Delfi è salva e i greci tirano un grosso sospiro di sollievo. La loro speranza che la crisi sia definitivamente passata e che i terribili guerrieri celti se ne vadano per sempre è tuttavia mal riposta. Per diverso tempo, infatti, imperversano con le loro razzie in Macedonia e in Tracia, approfittando anche del vuoto di potere dopo la morte di Tolomeo Cerauno. Finalmente, nel 277, Antigono II Gonata, organizza una grande armata per sconfiggerli. La battaglia, teoricamente decisiva, si svolge presso la città costiera di Lysimacha. La trappola del condottiero macedone riesce, intrappolando i galli tra il suo esercito e la riva del mare. Pur tuttavia, l'impeto dei barbari è tale che alla fine della giornata è costretto a ritirarsi con ingenti perdite.

A questo punto, Antigono gioca la carta della diplomazia: propone ad Acicorio un'alleanza, concedendogli di stanziarsi lungo il corso del fiume Strimone e ridurre all'obbedienza i popoli traci che abitavano quelle regioni (gli odomanti). Tra le tribù galliche si crea una spaccatura tra chi è propenso ad accettare e chi, invece, non intende sottostare ad alcun accordo. La maggioranza, sotto Acicorio, sigla il patto con Antigono, mentre una piccola parte, guidata da Ceretrio, decide di allontanarsi verso nord-ovest.

Dopo aver siglato questo patto, Antigono si fa incoronare re di Macedonia a Pella, presentandosi alla popolazione come vincitore dei barbari.

Col senno del poi, il signore macedone si rivelò lungimirante: Pirro, signore dell'Epiro, dopo le proprie fallimentari campagne in Italia e in Sicilia, tornò in patria e subito decise di sfidare Antigono e sottrargli il trono di Macedonia. I galli di Ceretrio vennero ingaggiati come mercenari da Pirro, mentre Antigono si avvalse del patto di alleanza che aveva stipulato con Acicorio per chiamare a sé la maggior parte dei celti. I due eserciti si scontrarono nella battaglia del fiume Voiussa, nel 274 a.C. Nonostante la maggior abilità tattica e strategica di Pirro, Antigono riuscì a riportare la vittoria, proprio grazie ai suoi alleati celti. Non era però la fine del sovrano dell'Epiro, che con i resti del proprio esercito riuscì a ritirarsi in Tessaglia e occuparla; facendo anche leva sulla preoccupazione delle città greche per l'eccessivo potere esercitato da Antigono penetrò in Grecia e invase (a quanto pare su richiesta dello spartano Cleonimo) il Peloponneso. Il re macedone fu costretto quindi a salpare alla volta della penisola e ingaggiare di nuovo battaglia con l'epirota. Antigono riuscì dopo alterne vicende a domare Pirro solo nel 272, più che altro grazie alla propria abilità diplomatica e all'incapacità del rivale di mantenere le simpatie degli alleati a lungo, per via del suo comportamento tirannico o gli eccessi che concesse alle proprie truppe mercenarie (peraltro l'unico modo per garantire loro uno stipendio).

Da quel momento in poi, Antigono si avvalse in più di un'occasione dei propri alleati galli per domare le ribellioni al suo dominio (spesso finanziate dai lagidi d'Egitto, che non perdevano occasione per finanziare le suddette ribellioni e minare la stabilità del regno di Macedonia), in particolare nella guerra detta 'cremonidea' del 267 a.C. (in cui Sparta e Atene si allearono contro il re). In particolare, rimase nella storia il terrore inculcato negli abitanti di Megara dal saccheggio dei 'barbari' (che distrussero anche il grande tempio di Poseidone).

Nel 239 a.C, Antigono morì, lasciando il trono a suo figlio, Demetrio II.

Nel frattempo, la federazione tribale gallica si era espansa, sempre con l'approvazione di Pella, verso est e verso nord, ingaggiando annosi scontri con i Traci e sospingendoli sempre più a oriente. In particolare, nel 249, il capo gallo Brogimaro riuscì nell'impresa di conquistare agli odrisi un'antica e importante città, che i greci chiamavano Perperikon, e lì vi stabilì la propria capitale.

Questo ingrandimento, tuttavia, non fu salutato con grande gioia dalle colonie greche sulla costa (in particolare Anfipoli) che vedevano un aumento dei pericoli nelle strade che conducevano verso l'interno e ne attribuivano la colpa essenzialmente alle popolazioni celtiche.

Questo condusse progressivamente il figlio di Antigono a prendere progressivamente le distanze dalle tribù galliche e ad imporre loro maggiore controllo. Per gran parte del suo regno ciò non si tradusse in nulla di fatto, preso com'era dai conflitti contro la lega etolica e le ribellioni epirote. Verso il 230, tuttavia, decise, rispondendo ad un appello da parte di Anfipoli, di lanciare una spedizione punitiva. In quell'occasione Acitorige, capo dei galli stanziatisi nella valle dello Strimone, si alleò con la tribù trace dei bisalti, i peoni (con cui solitamente aveva rapporti conflittuali) e, soprattutto, la tribù traco-illirica dei dardani, che allora controllava un territorio molto vasto. Questa alleanza tribale sconfisse l'esercito di Demetrio in battaglia e lo stesso sovrano perì pochi giorni dopo in seguito alle ferite riportate.

Il successore, il piccolo Filippo, non era ancora in età per governare e la scelta della nobiltà e dell'esercito macedone ricadde su Dosone, cugino di Demetrio, il quale fu incoronato con il nome di Antigono III. Quest'ultimo sconfisse i dardani a nord, per poi rivolgere l'attenzione a est. Anche attraverso un accorto uso della diplomazia, riuscì a sottomettere Acitorige (astutamente, nelle trattative lo chiamò 're'), ribadendo l'antica alleanza tra galli e antigonidi. Nel 221 fu Acitorige stesso che, in nome di Antigono, affrontò un'invasione illirica da nord, riportando una prima vittoria. Successivamente, le armate del re macedone, si unirono a lui dopo un'estenuante marcia forzata dal Peolponneso per annientare definitivamente la minaccia. Purtroppo il sovrano non poté godere della pace raggiunta, poiché morì poco dopo per un malore.

Ad Antigono Dosone successe Filippo V, il sovrano forse più noto di Macedonia dopo Alessandro Magno, per via della sua impari lotta contro l'emergente potenza romana. Fu proprio durante l'ultima parte del regno di Filippo che i galli balcanici emersero come soggetto politico pienamente autonomo, portando a termine un processo di aggregazione politica e formazione di un'entità pienamente statale iniziato nel 249.

I suoi primi dieci anni di regno mostrarono un sovrano che, seppur giovane, mostrava una tempra forte e volitiva; espanse e rafforzò il regno, consolidando la sua presa sugli ambigui alleati e punendo i nemici. Il suo più grande errore fu l'ingerirsi nella seconda guerra punica: trattò con i cartaginesi per una spartizione delle sfere di influenza, attirandosi così le ire della res publica, che a sua volta si alleò con i nemici ellenici della Macedonia, come la lega etolica e il regno attalide di Pergamo.

La guerra vera e propria con Roma scoppiò nel 200 a.C., e condusse alla pesante sconfitta macedone di Cinocefale nel 197. In questo frangente i galli balcanici incontrarono per la prima volta l'urto della legione romana. Sebbene combattessero con valore, la superiore organizzazione dell'esercito nemico li colse impreparati.

Furono inoltre i romani a affibbiare loro il nome con cui ancora adesso sono noti: i gallotraces e i gallomacedones.

Dopo Cinocefale, emerse per la prima volta fazioni filo-romana e filo-seleucida all'interno dei galli stessi. Secondo una leggenda attestata da Tito Livio, fu merito (o colpa) proprio di uno dei signori dei gallotraci che la città-stato di Lampsaco chiese aiuto al senato romano: sentendo che Antioco stava per stringere alleanza con Deitoaro, 're dei gallotraci' di Perperikon, sentì più che mai la paura di un possibile saccheggio da parte dei barbari.

Deiotaro stesso a quanto pare fu contattato da Tito Quinzio Flaminino, ma, sebbene il signore gallico smentisse l'alleanza con Antioco, insistette per il mantenimento della neutralità, anche in cambio di promesse territoriali.

Quando tuttavia la lega etolica si levò contro Roma invocando l'aiuto di Antioco, all'interno del mondo gallo-balcanico si scatenò un pesante conflitto interno. Deiotaro venne spodestato e al suo posto emerse la figura di Vindimaro, che unificò con la forza pressoché la totalità delle tribù (comprese quelle della valle dello Strimone) e trattò un'alleanza difensiva con Roma in senso anti-seleucide. In cambio Roma promise parte delle conquiste di Antioco in Europa, oltre che (secondo Appiano) un intervento di 'moral suasion' nei confronti di Filippo V allo scopo di impedirgli di tradire Roma a favore di Antioco, per quanto di ciò non vi fu bisogno, poiché il macedone vedeva con irritazione l'espansione seleucide in Tessaglia. La posizione di Vindimaro si indebolì quando arrivò in Grecia Scipione l'africano, con cui non riuscì a trovare punti di incontro, forse perché il romano non si fidava del gallo, in virtù dello scarso supporto di quest'ultimo alla campagna in Ellesponto del console Gaio Livio Salinatore; viceversa, Vindimaro si irritò per via dell'accordo stipulato dai romani con re Prusia di Bitinia. Ciò nonostante, Vindimaro inviò un contingente in appoggio ad Eumene di Pergamo, assediato da Seleuco, figlio di Antioco. Tale contingente partecipò anche alla battaglia di Magnesia, in cui i romani sconfissero in maniera decisiva l'esercito di Antioco. Dalla pace di Apamea, tuttavia, Vidimaro ottenne molto meno di quanto aveva sperato (e di quanto gli era stato promesso). Gran parte delle città-stato greche dell'Ellesponto finivano direttamente sotto la tutela romana, non sotto la sua. In più, rimase fortemente contrariato dalle campagne dei romani contro i galati, i 'cugini' anatolici, per conto del regno di Pergamo, che aveva nella vicenda un interesse affatto personale. Questo non fece che aumentare il sospetto di Vindimaro nei confronti della res publica.

Durante i successivi dieci anni, Vidimaro riorganizzò la macchina bellica dei galli, su influenza di ciò che aveva visto durante la guerra siriaca; creò un'organizzazione statale degna di questo nome e rafforzò i legami con le città-stato greche, necessario terminale economico del regno. Questo ovviamente condusse diverse ribellioni al suo dominio, tra cui, nel 187, quella di Articno, figlio di Deiotaro, stroncata con particolare brutalità. Le sue due capitali, Perperikon e Resobria (Tra lo Strimone e le prime pendici del monte Orvilo) divennero molto simili a delle città greche nello stile urbanistico e architettonico, segno della lenta, ma costante ellenizzazione. Alla fine del regno di Filippo vi fu un conflitto per la successione tra il filo-romano secondogenito Demetrio e il primogenito Perseo. Vindimaro si schierò con quest'ultimo e Filippo V, pur a malincuore, fu costretto a condannare a morte il secondogenito, aumentando così il mai sopito sospetto di Roma per la fedeltà del regno di Macedonia. Filippo, raccontano le cronache, non resse al dolore e morì poco dopo, nel 179 a.C.

Del resto, la stessa res publica, sin dal principio del regno di Perseo cercò di legare a sé il maggior numero di potenziali nemici della Macedonia (e della Gallotracia), in particolare gli odrisi, i corpilli e i ciconi. Particolarmente problematica era l'alleanza tra Roma e Abrupolis, re dei Sapei. Questi ultimi erano un popolo trace che era stato 'allontanato' dal proprio territorio originario dall'espansione dei gallotraci ed era stato costretto a muoversi verso nord-est, nel territorio degli odrisi, generando non poche contese territoriali.
Dopo aver unito sotto il suo scettro diverse tribù, spinto dal desiderio di recuperare le terre ancestrali perdute, si mosse verso Resobria, calando dalle montagne e spingendosi in raid sino alle porte di Pella e Anfipoli. Perseo, insieme a Resomaro, figlio di Vindimaro organizzò una decisa spedizione punitiva che, prevedibilmente giunse alle orecchie del senato romano, dandogli il pretesto per intervenire e porre fine una volta per tutte all'indipendenza del regno antigonide. Con la decisiva battaglia di Pidna nel 168 a.C., Perseo venne sconfitto. Resomaro cercò di cambiare schieramento all'ultimo minuto, ma, per quanto non venisse spodestato da Roma, fu costretto a diventare in tutto e per tutto un regno cliente, controllato a vista.
Da quel momento Resomaro fu per tutto il resto della sua vita molto accorto e molto ossequioso verso la potenza romana, tanto che, quando vent'anni dopo Andrisco chiese l'aiuto dell'ormai vecchio Resomaro per la sollevazione contro Roma, Resomaro denunciò subito il fatto al console Lucio Emilio Paolo, per essere scagionato da qualsiasi accusa di collusione con un ribelle.

I suoi figli non furono però altrettanto capaci di ingraziarsi il potente protettore: alla morte di Resomaro, nel 145, Resorige e Mesemarigio i due figli, si contesero l'eredità paterna, tanto da indurre l'intermediazione interessata della res publica. Mesemarigio non accettò tuttavia l'arbitrato e riuscì nell'intento di assassinare il fratello. A quel punto Roma intervenne con maggiore decisione. Trinceratosi nella fortificata Resobria, Mesemarigio combatte valorosamente, ma inutilmente, contro la macchina bellica romana e si dovette arrendere nel 141. Da quel momento le due province di Macedonia gallica e Gallotracia vennero incorporate nel dominio romano.

Da quel momento, la regione sparirà dalla 'grande storia' per molto tempo, condividendo le vicende dell'impero. Con l'annessione augustea della Tracia, la regione abitata dai galli smise anche di essere un confine, per l'impero (che divenne, per i successivi secoli, il fiume Danubio). Questo, tuttavia, non mutò in misura particolare gli assetti culturali regionali. Il greco non cessò di essere la lingua franca a vantaggio del latino; del resto, non vi fu mai alcun serio tentativo di grecizzazione o latinizzazione, tanto che la lingua gallotracia restò tranquillamente la lingua parlata dalla popolazione per molto tempo.

Non abbiamo invece dati incontrovertibili per quanto riguarda l'introduzione e la diffusione del cristianesimo nella zona. Tradizionalmente, si è portati a pensare che sia stata una delle prime terre europee ad essere evangelizzate, per tramite della comunità paolina di Filippi. Di recente gli studiosi si mostrano più scettici sulla questione: per quanto possa essere altamente probabile che all'interno della chiesa di Filippi vi fossero dei gallotraci, è altrettanto verosimile che l'espansione della nuova religione sia avvenuta e per molto tempo sia rimasta confinata all'elemento greco urbanizzato della zona costiera, per penetrare solo in un secondo momento a Perperikon, Resobria e nei centri principali della Tracia (Filippopoli e successivamente Uskudama/Adrianopoli). Durante la persecuzione dioclezianea non abbiamo notizia di santi martiri locali. E' tuttavia senza dubbio gallotracio uno dei 40 (HL: 38) martiri di Filippopoli, Dagotaro, come si evince dal nome. All'alba del IV secolo qual era il peso dello religione cristiana? Non lo sappiamo. Siamo portati a speculare che la regione occidentale, lungo la valle dello Strimone, risentendo della vicinanza del centro propulsore di Tessalonica, fosse in gran parte cristianizzata. Meno probabile è che lo fossero le valli dell'Arda, del Nestos e dell'Evros e i centri alle pendici dei monti Rodopi.

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II - Periodo tardo antico

Fu un caso del tutto fortuito che fece tornare per un beve periodo la Gallotracia 'importante'. A questo evento apparentemente marginale alcuni storici attribuiscono la straordinaria ascesa della lingua regionale a dignità letteraria, permettendole di sfuggire al destino comune di altri vernacoli della zona, ossia di finire schiacciati dalla grecizzazione da un lato e dalla successiva slavizzazione dall'altro.

Successivamente all'editto di Milano, vi fu una vera e propria esplosione del fervore missionario cristiano, unitamente all'elaborazione, specialmente nella parte orientale dell'impero, di diverse specificità dottrinarie, non sempre in accordo tra loro. Particolare diffusione ebbe la predicazione dell'eresia anti-trinitaria propugnata dal vescovo Ario, che da lui prese il nome. Condannata in un primo tempo al concilio di Nicea, trovò tuttavia i favori di Costantino stesso nella parte finale del suo regno e, soprattutto, da parte dei suoi immediati successori. La popolazione di origine celtica si divise: la Gallomacedonia rimase aderente al credo niceno (nel frattempo, Resobria venne elevata a sede vescovile), mentre la Gallotracia finì per abbracciare l'arianesimo (anche questo, segno, secondo alcuni, dell'inizio di una vera evangelizzazione di tale territorio solo a partire dal principio del IV secolo). Non solo: i gallotraci giunsero ad aderire, verso la metà del 300 alla corrente detta eunomiana, dal vescovo di Cizico Eunomio o, più propriamente, degli 'anomei', che sostenevano che Gesù Cristo differisse non solo per sostanza, ma anche per volontà, dal Padre. Leggenda vuole che Sant'Acolio di Tessalonica, preoccupato per la diffusione della dottrina, si recasse a Nicopoli sul Nestos per predicare e venne accolto... A pietrate. Particolarmente turbato, sulla strada per Marogiaca, a sud-ovest, incontrò un pellegrino di ritorno dai luoghi santi.

Sant'Acolio, dopo essersi fermato a discorrere con lui, gli chiese: “Fratello, che debbo fare per ricondurre alla fede le pecore sperdute di questo paese?”

Questi rispose: “Queste pecore sono fiere e testarde. Giunsero qui come predoni feroci e ancora adesso hanno il sangue che ribolle. Se parli come l'uomo di Tessalonica che sei, nel loro orgoglio mai si piegheranno a te e, del tuo dire, non vedranno che l'amaro.”

Il pellegrino, dopo aver detto ciò, sparì misteriosamente, convincendo sant'Acolio che in realtà si trattasse di San Demetrio o, addirittura, Gesù Cristo stesso. Questo incontro lo spinse a contendere i fedeli ad Eunomio imparandone la lingua e predicando in essa. Sant'Anisio, seguace e successore di Sant'Acolio, tradusse quindi la bibbia in lingua gallotracica, ottenendo così la riconversione della popolazione. Ma non è solo per una questione religiosa che tale evento ebbe un impatto gigantesco, nella storia della regione. Di colpo, il gallotracico assumeva un peso specifico completamente diverso, diventando una lingua d'acroletto, capace di stare a fianco al greco, non solo nella Gallotracia propriamente detta, ma anche nella restante parte della Tracia (strappando al besso il ruolo di lingua locale 'di prestigio'), spingendosi nella sua influenza sino alla Mesia ed al fiume Danubio.

Non sappiamo cosa indusse davvero i santi Anisio e Acolio a prendere una scelta del genere. Forse la pressione alla rapida conversione dei gallotraci ha una qualche relazione con l'editto di Tessalonica e all'abolizione dei culti pagani. Dopo la strage del 390, avvenuta per quel residuo di paganesimo che potevano rappresentare gli eventi ludici, forse le gerarchie ecclesiastiche della città volevano mostrarsi all'imperatore in prima linea come città animata da autentico spirito cristiano e conscia della sua missione evangelizzatrice (e superando in questo i parvenues della nuova capitale Costantinopoli). Non lo sapremo mai. Resta la portata di quella che a tutti gli effetti, nel panorama della chiesa del tempo, fu una sorprendente eccezione.

Nel breve e immediato periodo, tuttavia, la Gallotracia non poté dirsi felice degli eventi che accaddero nell'ultimo quarto del IV secolo. Nel 378 dopo Cristo, infatti, Fritigerno e i suoi goti annientarono in maniera devastante l'esercito romano ad Adrianopoli e lo stesso imperatore Valente cadde in battaglia. I goti nelle loro razzie giunsero in Gallotracia compiendo saccheggi e devastazioni di ogni sorta. I gallotraci rimasero pressoché soli ad affrontare gli invasori per un lungo periodo e ciò ebbe come conseguenza le prime rivolte armate contro l'autorità romana, che emersero sporadicamente in particolare dopo il 382, anno in cui l'imperatore Teodosio sancì il patto di foederatio con i goti, concedendo loro numerosi territori in Mesia, Tracia e Macedonia. I gallotraci si sentirono traditi da questo trattato, a tal punto che avvenne una situazione a dir poco paradossale, almeno secondo lo storico Giordane: alcune fazioni di gallotraci ribelli si unirono alle fazioni antiromane in seno ai goti (per esempio nel conflitto tra Eriulfo e Fravitta, in cui la popolazione di Resobria diede ricetto ai seguaci del primo, che intendevano vendicarsi dell'assassinio del proprio comandante). Sempre secondo alcune fonti, quando Alarico si rivoltò, diversi gallotraci si unirono a lui ed al suo esercito.

Giordane (e probabilmente anche Cassiodoro prima di lui), ravvide un parallelismo tra le imprese dei galli di Brenno del III secolo a.C e quelle di Alarico tra il 395 ed il 399 dopo Cristo. Questo paragone, poi, assieme al parallelismo tra Alarico e un altro Brenno, il saccheggiatore di Roma, divenne una sorta di 'proverbio classico', per spiegare la 'gallicizzazione' dei goti di Tracia nei secoli successivi.

In realtà, la motivazione è più che altro di natura culturale: i goti, infatti si convertirono progressivamente al cristianesimo di 'rito galata', la cui lingua liturgica era, appunto, il gallo-tracico. Non si trattò semplicemente di un fattore geografico; il rito galata, infatti, manteneva degli aspetti di ambiguità verso l'arianesimo che lo rendevano comunque preferibile, da parte dei barbari filo-ariani, rispetto al rito greco.

Questa evoluzione riveste una importanza particolare in quanto descriverebbe un unicum, nella storia delle invasioni germaniche: gli invasori, infatti, sarebbero stati assorbiti culturalmente da una popolazione non romanizzata o grecizzata.

Non tutti i goti si unirono all'invasione dell'Italia di Alarico. Molti di essi, infatti, rimasero in oriente, e rimasero coinvolti nella contesa politica che vide al centro il generale Gainas, di origine ostrogota, che in quegli anni riuscì a diventare il padrone quasi incontrastato della vita politica di Costantinopoli. Una rivolta della popolazione portò tuttavia al massacro del contingente gotico in città, dietro ordine dello stesso imperatore Arcadio. Fu in questo frangente che Gainas si rifugiò proprio a Resobria, incitando la popolazione locale a seguirlo. Questo creò una sorta di 'situazione di stallo' per diversi anni, in cui sia Arcadio, sia Gainas cercarono l'ausilio dei temibili unni stanziatisi in Pannonia e oltre il Danubio, comandati da Uldino. In quel periodo, Gainas si fece molto simbolicamente chiamare anche 'Flavio Brenno Amalo' per indicare una sorta di triplice dignità al comando: romana, gallica e (ostro)gota. Ad essere decisiva per sorte di Gainas fu, paradossalmente, la morte di un generale fedele a Roma. Onorio, infatti, fece assassinare Stilicone, magister militum d'occidente; questo indusse il generale di origine gota Saro, fino a quel momento rimasto sempre fedele alla causa imperiale, ad essere attratto dalle offerte di Arcadio, abbandonando Ravenna e l'Italia nelle mani di Alarico. Nel 409, Saro sconfisse Gainas a Naisso. Quando giunse a Costantinopoli per celebrare il proprio trionfo, tuttavia, Saro chiese all'imperatore una posizione nei fatti non molto differente da quella che Gainas si era attribuito: quella di farsi chiamare re dei goti e dei galli in Illirico.

Questo non significa, come una retorica più tarda ha spesso voluto far credere, che Saro si considerasse un sovrano 'nazionale' nell'accezione ottocentesca del termine; semplicemente, voleva crearsi una base di potere locale sufficientemente forte da non poter essere facilmente scalzabile dalle sempre attive trame sotterranee della corte sul Bosforo.

Ciò nonostante, il suo gesto non poté evitare di creare un notevole precedente, a maggior ragione per il fatto che i galli fossero esplicitamente nominati nel titolo che pretendeva per sé: era chiaro come questi ultimi venissero ormai considerati (e si considerassero) come qualcosa di diverso dall'aggettivo 'romani' in cui gli stessi abitanti greci dell'impero d'oriente si identificavano (Ρωμαίοι), in maniera non molto differente dai bagaudi nell'impero d'occidente. La differenza (sostanziale) con i bagaudi in Gallia e in Hispania fu che la struttura ecclesiastica regionale stessa si identificava con la popolazione non grecizzata e non romanizzata, permettendo al germe autonomistico di crescere a dismisura, involontariamente aiutato e sospinto dall'apporto militare germanico.

Saro non generò una dinastia; pur tuttavia, la titolazione, per quanto spesse volte più onoraria che altro, negli anni seguenti rimase, restando nelle mani di capi militari di origine germanica foederati all'impero, che sempre più spesso, quando non risiedevano a Costantinopoli, ponevano la loro dimora a Resobria, Marogiaca, Nicopoli, Naisso, Filippopoli o Adrianopoli.

La piaga delle invasioni non terminò con i goti. Alla metà del V secolo, infatti, giunse la grande invasione degli unni. Il popolo (o meglio, la confederazione di genti) fece la sua prima apparizione in Mesia nel 408, con Uldino. La sua sconfitta illuse le genti balcaniche che il pericolo fosse stato sventato, invece non fu affatto così. Poco meno di quaranta anni dopo, il re unno Attila, approfittando di un temporaneo indebolimento del fronte danubiano, penetrò nella penisola, ponendola a ferro e fuoco e costringendo l'imperatore Teodosio II ad una pace umiliante nel 447. Per le popolazioni locali fu da considerarsi una fortuna che il terribile capo barbaro muovesse verso occidente, in risposta ad una presunta offerta di matrimonio da parte di Onoria, sorella dell'imperatore d'occidente. Ciò non toglie che il livello di devastazione che gli unni lasciarono fosse immenso. Intere città furono spopolate e non si ripresero mai più. Una di queste fu Perperikon, che venne progressivamente sostituita nel ruolo di città principale della regione gallotracica da Marogiaca, più a sud. Vi è comunque da dire che la Gallotracia e la Gallomacedonia furono, in proporzione, tra le regioni meno colpite dalle devastazioni di questi anni, tanto che molti profughi provenienti da altre zone della prefettura illirica vi si stanziarono.

Mezzo secolo più tardi, l'imperatore Anastasio I, per normalizzare e inquadrare all'interno dell'amministrazione imperiale i barbari, decise di affidare loro praticamente in perpetuo il governo della diocesi di Tracia (ma cedendo in cambio qualsiasi funzione politica diretta o indiretta rivestita nelle diocesi di Macedonia e Dacia), pur riservandosi il diritto teorico di ultima parola sulla nomina. Per controbilanciare il loro potere, decise, comunque, di staccare dalla diocesi di Tracia la parte di territorio più vicina alla capitale, che prese il nome di 'Diocesi delle lunghe mura'.

Questo accordo durò senza particolari scossoni per tutto il regno di Anastasio e per quello del suo successore, Giustino. I problemi sorsero con il figlio Giustiniano, intenzionato a ridurre ai minimi termini quella sorta di eccezione al potere imperiale. La prima mossa fu togliere dalla diocesi di Tracia la Mesia e la Scizia minore, per creare la 'Prefettura delle isole', di fatto, togliendo al vicario il controllo di un'ampia parte del limes danubiano. Il vicario Amalrico, secondo il racconto di Procopio di Cesarea, ne fu grandemente infastidito, tanto che pensò di sollevare una rivolta anti-imperiale, ma venne ridotto a miti consigli da San Deorige, vescovo di Maronea.

Addirittura, nella Storia Segreta, particolarmente ostile alla coppia imperiale, si racconta che Teodora avesse tentato di sedurre Amalrico e ordire con lui niente meno che l'assassinio di Giustiniano. Di fronte al rifiuto del comandante goto, la moglie dell'imperatore lo accusò pubblicamente di essere stato lui ad aver ordito, con Teodato, l'assassinio della reggente del regno ostrogoto di Ravenna, Amalasunta, per spartirsi il potere in Italia.

A impetrare grazia per Amalrico e confutare le accuse nei suoi confronti intervenne nuovamente San Deorige. Il primo venne comunque spogliato del suo titolo di vicario e fu, come prova di fedeltà, costretto a prendere parte alla campagna d'Italia.

Non sappiamo quanto ci sia di veritiero in questa narrazione; pur tuttavia è certo che Giustiniano inviò Amalrico e un contingente goto-gallo con Belisario. Ciò non sarà determinante per l'esito del conflitto, per quanto vada fatta debita menzione del tentativo di mediazione tra Vitige e Belisario per ordine, sembra, di Giustiniano stesso, il quale propose l'idea di un regno ostrogoto a nord del fiume Po, con la penisola in mano imperiale. A quanto sembra, fu lo stesso generale bizantino a rifiutare.

La guerra durerà ancora per molto tempo, per via della insormontabile tenacia di re Totila, che fu domata solamente dall'eunuco Narsete. Terminerà ufficialmente nel 555 dopo Cristo (anche se molte fortezze rimasero in mano gota sino alla fine degli anni '50 del secolo).

Amalrico e Narsete ebbero un pessimo rapporto di collaborazione, tanto che, verso il termine del conflitto, il primo cadde nuovamente in disgrazia presso la corte per un apparente tentativo di assassinio ai danni del secondo. Procopio afferma che fosse una falsa accusa a motivo della gelosia dell'eunuco nei confronti del generale di origine gota. Alla notizia dell'arresto di Amalrico, tuttavia, una rivolta delle truppe a lui fedeli, oltre che un sommovimento generale in Tracia, condussero l'imperatore a giudicare più saggio lasciar cadere le accuse. Non tanto per pietà, quanto per timore che la situazione potesse vanificare ancora una volta le conquiste fatte. Anche se di ciò non si avranno mai notizie certe, Agazia sostiene che una parte dei guerrieri ostrogoti sconfitti, dopo la battaglia di Gualdo Tadino, si sia prima arresa, quindi abbia giurato fedeltà proprio ad Amalrico e che poi un gran numero di loro abbia deciso di seguirlo per stanziarsi in Gallotracia.

Durante la restante parte del regno di Giustiniano e durante il regno del suo successore, Giustino II, il tentativo di limitare l'autonomia del potere goto (o gallo-goto?) pare sia andato progressivamente scemando. In particolare, stando alla cronaca di Teofane (che però è successiva di due secoli agli eventi), Giustino, dopo aver respinto il pagamento del tributo agli avari, mutò contegno verso i 'barbari interni' di Tracia, in quanto gli erano necessari per sorvegliare il limes e prevenire loro eventuali tentativi di invasione.

Se la distruzione provocata da Attila fu talmente ingente da divenire proverbiale, a conti fatti, ben più distruttive, per le conseguenze di lungo termine, furono le invasioni che imperversarono nei Balcani tra la fine del VI e l'VIII secolo. Gli avari crearono infatti a loro volta una vasta confederazione nelle pianure dell'Europa centro-orientale, sospingendo progressivamente nuove popolazioni verso la penisola balcanica: gli slavi. Tali invasioni ne mutarono la composizione demografica per sempre: la Mesia, l'Illiria, finanche la Macedonia e la Grecia (compreso il Peloponneso), in uno stato di grave abbandono e devastazione, vennero occupate da tali genti, che in molti casi imposero al territorio la propria impronta culturale e linguistica.

E la Gallotracia? Si può dire che le genti galliche, al pari di quanto accadde in Grecia, si ritirarono nelle città; anzi, effetto secondario, fu che esse, rifugiandosi in molte occasioni verso i borghi costieri, mutarono a propria volta l'equilibrio demografico di quei luoghi (una sorta di de-grecizzazione). Le campagne, in sostanza, erano state occupate quasi completamente da slavi, mentre le città murate ancora integre erano abitate ancora da popolazioni di lingua gallica. Fu di non poco conforto, in questi periodi bui, l'attivismo politico dei due arcivescovi metropoliti di Resobria (quest'ultima diocesi era inizialmente suffraganea di Tessalonica, ma venne elevata alla fine del IV secolo, probabilmente per ragioni politiche) e Marogiaca.

Nel periodo di tempo intercorrente tra il V e il VII secolo, il processo di gallicizzazione dei goti proseguì inesorabile. Una prima prova di tale sviluppo è la Storia Ecclesiastica di Evagrio, che, fortemente calcedoniano, spesso cita gli arcivescovi di Resobria, oscillando da una valutazione negativa (perché ambiguamente filo-ariani) ad una positiva (perché nettamente e attivamente anti-monofisiti). Il motivo per cui tali citazioni sono linguisticamente probanti è, banalmente, l'onomastica dei personaggi citati: nonostante progressivamente appaiano in maniera sporadica nomi di chiara ascendenza germanica, Evagrio fa indirettamente intendere come essi siano linguisticamente 'γνωστοί ' (anche se sicuramente vuole intendere con questo la lingua ecclesiastica, non quella parlata).

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III - L'inizio del Medioevo

I trenta anni successivi al termine della guerra greco-gotica rappresentarono un amaro risveglio dai sogni di grandezza di Giustiniano. Nel 568 i longobardi entravano in Italia, sottomettendone ampie parti; una quindicina di anni più tardi, gli avari conquistavano Sirmio, facendone un avamposto oltre la Sava dal quale poter saccheggiare a proprio piacimento i Balcani.

L'impero bizantino, impegnato com'era in un conflitto contro i persiani per l'Armenia, poteva contare su pochissime guarnigioni. Ciò fece ricadere la responsabilità di difendere le terre oltre il limes danubiano, peraltro già fortemente impoverite, ai soli goto-gallotraci. Pur tuttavia, lo scontro era impari. Fossero essi sotto la diretta autorità del khan avaro Baian o procedessero autonomamente, le migrazioni slave presero presto la forma di un vero e proprio diluvio incontrollabile. Come già accennato, durante i regni di Giustino II e di Tiberio II a Costantinopoli, l'autonomia del vicario Friderico, nipote di Amalrico, era andata progressivamente aumentando, tanto da indurlo, sempre secondo Teofane, dopo la notizia della morte di Giustino, al desiderio di allearsi con gli Avari per spartirsi l'Illiria e cercare di conquistare nientemeno che la stessa capitale imperiale. Vedendo però poi la minaccia rappresentata dagli slavi, Friderico mutò di avviso e accettò di buon grado l'atteggiamento amichevole di Tiberio.

Un vero sodalizio si ebbe però con l'avvento dell'imperatore Maurizio. Dopo anni di totale disinteresse, per vie delle continue guerre di confine a oriente, i bizantini tornavano ad affacciarsi sul lato europeo dei loro possedimenti. Le guerre contro gli avari proseguirono con alterne vicende sino al 599, quando il generale Prisco conseguì una serie di vittorie che permisero all'impero di riportare il confine sul Danubio. Il trionfo, tuttavia, non recava solo risvolti positivi. Inevitabilmente, si erano creati screzi crescenti tra Prisco ed il vecchio Friderico, che lasciavano intuire a quest'ultimo come l'imperatore, una volta domati i barbari esterni, avrebbe probabilmente cercato nuovamente di limitare il potere dei 'barbari interni'. Nelle ultime campagne di quegli anni, Friderico fece assumere dalle sue armate una posizione defilata e di rincalzo, tanto che non partecipò alla riapertura del valico delle porte traianee e alle battaglie contro gli avari in Pannonia.

Del resto, anche nelle stesse legioni balcaniche iniziava a serpeggiare il malcontento contro Maurizio: i soldati erano stati impegnati in maniera quasi continuativa per diversi anni e, nel 601, la notizia che gli ordini dalla capitale prevedevano di svernare in territorio nemico, non vennero accolte con favore.

I malumori generarono ben presto una ribellione generalizzata: l'esercito si ammutinò e pose a capo il centurione Foca (il quale, con ogni probabilità, poteva contare di più sangue gallo-tracio nelle vene rispetto ai vicari della gallo-tracia di quel tempo, di ascendenza gotica, dato che la sua famiglia era di origine traco-romana), il quale decise di marciare contro Costantinopoli e eliminare l'imperatore. Si trovarono però la strada sbarrata dall'esercito di Ulrico (o Urrigo/Urrige, secondo diverse versioni del nome a seconda delle fonti), nipote di Friderico. Di preciso non sappiamo cosa accadde: la versione 'classica', presente nell'opera di Teofane afferma che Foca e Ulrico si sfidarono a duello e il secondo disarcionò e uccise il primo. Oggi gli storici sono propensi a credere che la morte di Foca sia stata 'anomala', figlia cioè o di incidente o di assassinio DOPO l'accordo con i goto-gallotraci; non si spiegherebbe infatti altrimenti come l'esercito bizantino (tra l'altro, reduce da diverse vittorie contro gli avari, quindi per nulla inesperto) abbia 'accettato di buon grado' l'idea di farsi sottomettere da una forza numericamente inferiore.

Indipendentemente da come sia andata tra i due capi, quel che è certo è che Ulrico decise di abbandonare il lealismo nei confronti di Maurizio e prima si unì, poi, con la morte di Foca, si pose persino alla guida delle legioni ribelli. Giunto a Costantinopoli, depose e accecò sia Maurizio, sia Teodosio. Secondo Simocatta, Sincello e Teofane, Ulrico non osò uccidere Maurizio per debito di riconoscenza e rispetto (oltre che per timore reverenziale verso la maestà dell'imperatore).

Il testo di Giovanni di Nikiu racconta tuttavia una storia differente: inizialmente Ulrico aveva deciso e stabilito di risparmiare la vita a entrambi, convinto in questo dall'ormai anziano zio Friderico; in seguito ad un tentativo di fuga verso la corte di Cosroe da parte di Teodosio, Ulrico mutò opinione e decise di decapitarli.

Per secoli la tradizione ha dato ragione alla narrazione teofaniana; con la traduzione dal ge'ez dell'opera del vescovo copto, gli storici moderni, a partire dal lavoro di Robert Henry Charles (1855 – 1931), tendono a ritenere piuttosto quest'ultima versione la più verosimile.

Poiché 'Ulrico' aveva un suono troppo straniero, si fece incoronare come Flavio Ulrico Zenone Augusto secondo. Non si sa le scelta sia stata voluta o frutto del caso, dato che anche Zenone primo aveva assunto questo nome per la medesima ragione (si chiamava infatti Tarasis Kodisa).

Una volta incoronato, si sposò (o, piuttosto, la costrinse a sposarlo, almeno stando a Teofilatto Simocatta) con Domenzia, figlia del defunto Foca.

Allo stesso tempo organizzò un matrimonio altrettanto significativo: impose infatti alla sorella Litila di sposare Atanagildo (fuggito a Costantinopoli dal 584), figlio del defunto erede al trono dei visigoti di Spagna Ermenegildo.

Il giudizio sull'imperatore Zenone II è controverso: i cronisti bizantini ne danno una trattazione a tinte piuttosto negative, dedito agli stravizi, alla violenza ingiustificata contro i propri oppositori politici e cripto-eretico, oltre che di scarse doti diplomatiche. Pur tuttavia, quegli stessi cronisti ne lodano in pari tempo il valore ed il coraggio dimostrati in battaglia.

Agli storici moderni è parso di intravedere in questa ambiguità una sorta di dilemma ideologico. La tendenziale xenofobia bizantina e la tipica retorica contro i barbari d'occidente, oltre che la necessità di giustificare la ribellione eracliana, avrebbe indotto gli scrittori (specialmente quelli più lontani temporalmente dagli avvenimenti) ad esagerarne oltre misura i difetti. D'altro canto, le capacità militari mostrate dal basileus gotico-gallo erano talmente evidenti da non poter essere completamente taciute.

Sin dal principio del suo dominio, fu chiaro come intendesse continuare l'opera del suo predecessore, ossia il completo assoggettamento dei Balcani e l'annientamento della minaccia avara. Tuttavia, le nubi della guerra si affacciavano al confine orientale, con Cosroe II di Persia che si ergeva a vendicatore del defunto Maurizio; per di più, a Ctesifonte era comparso un giovane che asseriva di essere Teodosio, figlio di Maurizio, scampato al colpo di stato e pronto a riprendersi il trono del padre.

Zenone si guadagnò in un primo momento qualche anno (o così sperava) di pace donando un ingente tributo allo Shah, oltre che la restituzione di ampie parti di quanto Cosroe aveva ceduto a suo tempo a Maurizio.

Narsete, il governatore di Edessa, si ribellò apertamente di fronte all'atteggiamento del nuovo imperatore verso i persiani, ma, per il momento, senza generare reazioni significative.

Questo perché tra il 604 ed il 605 venne lanciata una campagna in grande stile con l'intento di irrompere in Pannonia e schiacciare definitivamente gli Avari.

L'esercito bizantino si scontrò una prima volta contro un'eterogenea coalizione avaro-slava presso le rovine di Sirmio. La battaglia, secondo tutte le fonti fu particolarmente dura, ma la vittoria arrise infine ai bizantini. Simocatta sottolinea che:

“Gli Anti, un tempo alleati dei romani, erano stati appena sconfitti dagli Avari e costretti con minacce da Bayan a partecipare alla battaglia. Vedendo però la potenza dell'esercito imperiale, essi disertarono e giurarono fedeltà a Zenone. Egli promise poi che avrebbe personalmente provveduto a liberare le loro terre, in cambio di obbedienza e tributi. Infine, il nostro imperatore si fregiò del titolo di 'antico'.”

Ovviamente, Zenone II decise di non fermarsi e di eguagliare il generale Prisco; varcò il Danubio per penetrare nel cuore del dominio avaro, la pianura pannonica. Sconfisse quindi ripetutamente le forze avare, sino alla resa definitiva di Bayan. L'imperatore, tuttavia, non concesse alcuna pietà e giustiziò il leader nemico. La potenza avara, che tanto scompiglio aveva causato nel mondo bizantino, era stata infranta per sempre. Teofane cerca di sminuire l'operato di Zenone II, sottolineando a più riprese come gli avari fossero stati ridotti all'impotenza dalle campagne mauriziane e che al basileus di origini gotiche non restasse che vibrare il colpo di grazia. Gli storici contemporanei, sebbene concordino con il fatto che il khanato fosse stato molto indebolito sotto Maurizio, tendono a rivalutare il merito di Zenone II, non solo dal punto di vista militare, ma anche da quello diplomatico (in quanto avrebbe creato i prerequisiti per una ribellione di molte tribù slave al dominio avaro).

Ad ogni modo, tale impresa causò una netta ridefinizione di confini e un nuovo rimescolamento di popolazioni, sia a nord, sia a sud del Danubio. E' molto probabile che il basileus non avesse ben chiaro in mente come ristabilire il limes o la sfera di influenza bizantina a nord di esso.

Mentre ancora si trovava in Pannonia, accettò le ambascerie di numerosi capiclan slavi o avaro-slavi che giungevano a portare omaggi e sottomissione al sovrano di Costantinopoli. Il quale, dal canto proprio, non poté fare a meno di accettare, in cambio della loro conversione al cristianesimo e garantendo loro l'invio di missioni di monaci per l'istituzione di una gerarchia ecclesiastica locale.

In particolare, si presentarono dinnanzi a Zenone II cinque sovrani: il capo degli anti, dall'est (rispetto alla Pannonia), il duca dei vendi, da ovest, il re dei serbi da nord, il re dei gepidi da sud e il 'duca dei romani del lago Pelso'. Quest'ultima informazione è particolarmente interessante, in quanto si tratta della prima testimonianza storica di una formazione politica di chiara impronta romanza in Pannonia.

Non solo, nei frammenti a nostra disposizione della cronaca di Giovanni Antiocheno relativi al periodo, viene fatta menzione anche del suo nome, 'Bono' e che questi risiedeva abitualmente nella città di 'Eraclea, presso l'estremità orientale del lago'. Poiché tale città è stata distrutta in seguito alle invasioni magiare, non se ne conosce l'esatta ubicazione. Ciò nonostante, gli archeologi ritengono si tratti della romana Gorsium, detta anche Herculia (Da cui probabilmente la denominazione usata da Giovanni di 'Eraclea').

La stranezza che salta più all'occhio è che nessuna delle fonti a nostra disposizione, nemmeno quelle tarde come Teofane, menziona la presenza a questo incontro di alcun delegato degli onoguri, potenza in forte ascesa nelle pianure a nord del Mar Nero, da cui deriveranno direttamente i bulgari. Non vengono citati né la figura semi-mitica del khan Organa, né quella ben più documentata storicamente di Kubrat. Il fatto che i cronografi bizantini manchino di far notare un legame tra il collasso degli avari e la grande migrazione bulgara è una ulteriore fonte di perplessità che è difficilmente spiegabile, specialmente in autori perfettamente a conoscenza di ciò che sarebbe accaduto in seguito.

A seguito di questo significativo incontro, l'imperatore prese una serie di decisioni che sarebbero state fonte di feroci polemiche. In ottemperanza ad una prassi già sperimentata dai sovrani bizantini, decise infatti di deportare parte della popolazione sottomessa a sud, nella diocesi di Dacia; in particolare, concesse la zona di Sirmio ai Gepidi, dando loro il compito di rifondarla. Le antiche provincie (approssimativamente) di Pannonia prima e di Pannonia Valeria, vennero invece affidate in gestione al duca Bono, ferma restando la promessa di tributi e sottomissione, oltre che una vaga assicurazione relativa all'invio di personale (civile e militare) bizantino per il controllo del territorio. Al re dei Vendi venne offerta una posizione simile. In ogni caso, qualsiasi conflitto o divergenza interna tra Bono e i Vendi sarebbe stata mediata da Costantinopoli (con la minaccia di una occupazione militare più massiccia in caso di gravi disordini).

Il resto della pianura pannonica venne, forse con troppa superficialità, temporaneamente affidato agli Anti, che potevano quindi, almeno teoricamente, disporre di un territorio considerevole, tra il Tibisco a ovest, il Danubio a sud, i Carpazi a nord ed il Mar Nero a est. I testi non precisano quali territori venissero concessi ai Serbi bianchi, ma con ogni probabilità fu concesso loro di occupare i Tatra e di insediarsi liberamente all'interno della pianura pannonica (in concomitanza con gli Anti?).

Zenone II sapeva che un'occupazione diretta e prolungata dei territori conquistati sarebbe stata, almeno per il tempo presente, molto ardua; ciò nondimeno, molti suoi detrattori criticarono la troppa leggerezza nell'affidare l'amministrazione di territori imperiali a barbari federati. Molto verosimilmente tali critiche sarebbero state di gran lunga inferiori se il nome di battesimo dell'imperatore non fosse stato Ulrico e (in realtà di gran lunga più importante) se, da un punto di vista religioso, non avesse compiuto il passo falso di favorire apertamente il rito galata a scapito del rito greco nei nuovi territori.

Infatti, come mossa per legare a sé la regione pannonica e balcanica, promosse l'invio di una massiccia quantità di monaci e chierici (su esplicita richiesta dei sovrani locali, sostengono alcune fonti) di rito galata. Ciò avrebbe creato una feroce diatriba con il patriarca Ciriaco, che, stando a Simocatta, avrebbe diffuso nella capitale accuse infamanti riguardo all'ortodossia dell'imperatore (e in generale del rito galata, in realtà). Per tutta risposta, lo storico sostiene che Zenone avrebbe addirittura paventato la possibilità di spostare la corte imperiale a Resobria e di chiedere persino, per pura ripicca, al pontefice romano sostegno per la ricristianizzazione della regione pannonica.

A prescindere dal peso che tali scelte avrebbero avuto sulle ribellioni che avrebbero condotto alla deposizione di Zenone II, esse influirono in maniera molto pesante sugli equilibri linguistici della regione pannonica e balcanica. Il rito galata era assolutamente preponderante nelle diocesi di Dacia e di Tracia, così come nella Pannonia gepidica e nella regione mineraria appena a sud di essa. Si dice che l'opera di (ri?)conversione si dovette a san Barto di Maroduno. Conseguenza fu anche che il (goto)gallotrace (di cui peraltro iniziarono a svilupparsi una serie di varianti locali distinte) divenne principale lingua veicolare per tutta la regione balcanica a nord di Tessalonica; anche nelle regioni in cui le lingue slave infine prevalsero, esso ebbe una pesantissima influenza. Per converso, nella Pannonia tra Sava e Danubio si assistette al progressivo prevalere del rito romano e della lingua romanza di Pannonia. Venne fondata la diocesi di Castellum, l'attuale Casteï, sul lago Pelso (HL: Fenekpuszta ). Il primo vescovo fu san Daniele (San Danêl), ancor oggi uno dei santi più venerati della regione. Monaco di Sant'Andrea sul Celio, a Roma, era stato inizialmente destinato a sostituire Agostino nella sua missione presso re Etelberto del Kent.

Daniele, tuttavia, tanto disse e tanto fece, da convincere il proprio priore a portare a termine la sua missione in Britannia. Quando a Roma giunse la lettera in cui si richiedeva personale per far tornare alla cristianità le regioni danubiane da parte di Zenone II, papa Gregorio era già morto. Gli era succeduto Sabiniano, ostile alla linea 'monastica' e 'moralizzatrice' del precedente pontefice. Poiché Daniele era diretta espressione della linea gregoriana e quindi un personaggio potenzialmente scomodo per il suo pontificato, decise di approfittare della richiesta imperiale e spedire lontano dall'Urbe Daniele, il quale, tuttavia, secondo l'agiografia, rispose: 'Pensate di farmi torto, ed invece fate un favore sia a me, sia al buon Dio'.

Il ritorno di Zenone II a Costantinopoli non fu dei migliori, nonostante il trionfo sul nemico. Narsete aveva abbandonato Edessa, sobillato l'intera Asia Minore e da Antiochia sul Meandro era ora pronto a marciare verso Nicomedia e quindi Costantinopoli. Eccettuate le truppe al confine persiano, presto unitesi al prefetto, gli uomini lasciati in stanza in Anatolia era esiguo e perlopiù i comandanti locali avevano utilitaristicamente pensato di lasciare il passo, se non unirsi direttamente all'esercito dei ribelli.

Nemmeno Cosroe non si era fatto pregare, e in nome del falso Teodosio, stava lentamente occupando la parte orientale della penisola anatolica. Le sue forze avevano sferrato nel contempo un'offensiva sulla Siria e Antiochia, la terza città più importante dell'impero, era caduta. Le forze bizantine nella regione, per la verità non avevano opposto molta resistenza, complici anche una serie di diatribe religiose (non solo perché Zenone era di rito galata, quindi 'criptoariano', ma anche perché la provincia era prevalentemente monofisita. Attanasio Gammolo, il patriarca giacobita, aveva guadagnato il favore di Cosroe) che avevano esacerbato gli animi della provincia nei confronti dell'imperatore.

Al pari di Maurizio, nemmeno Zenone si era mostrato particolarmente tempestivo nei pagamenti delle truppe, per cui temeva di dover mettere alla prova la loro fedeltà in una guerra civile. Questo lo portò a quello che Sincello considerò un gravissimo errore, ossia abbandonare Costantinopoli. Teofane, che proprio da Sincello attinge a piene mani, rincara la dose:

'Irruento e capriccioso, il basileus non capì che la gente della città avrebbe preferito senza dubbio anche un Caligola o un Nerone, piuttosto che vedere il gran re dei parti banchettare in Santa Sofia. Essi non avrebbero spalancato le porte al prefetto Narsete, che aveva volto le spalle al nemico per ottenere la porpora, per nulla al mondo, se egli fosse stato saldo al suo posto. Invece, tanto valente era stato in guerra con gli avari, tanto codardo fu poi: scappò dalle cisterne fuori dalle mura di Costantinopoli, senza curarsi di abbandonarla alla vergogna ed al saccheggio.'

Che sia verosimile o meno il giudizio dello storico, la fuga si rivelò tuttavia infelice: secondo il racconto, fu infatti scoperto dal cognato Atanagildo che, indignato, lo sfidò e lo uccise. Gli storici moderni non ritengono tuttavia improbabile che Zenone e Atanagildo non si fossero incontrati per caso, quanto piuttosto che stessero approntando una strategia: all'imperatore sarebbe andato il compito di uscire dalla città per radunare ulteriori truppe, mentre Atanagildo avrebbe avuto la missione di rimanere a Costantinopoli e resistere. Qualcosa sicuramente non andò per il verso giusto e tra i due scoppiò un litigio che si concluse con la morte del sovrano.

Già distintosi come comandante al fianco dell'imperatore, Atanagildo prese le redini dell'esercito, stroncando sul nascere qualsiasi tentativo di diserzione. Non sappiamo se il patriarca Tommaso rifiutò di concedergli la porpora (Simocatta) o se lui stesso non la pretese (Giovanni Antiocheno, Teofane). Quel che è certo è che decise di non scendere a patti con Narsete, che a quel punto fu presa d'assedio.

A complicare ulteriormente il quadro fu l'arrivo di Eraclio il giovane con la sua armata da Cartagine. Confuse circostanze, che nemmeno le contraddittorie fonti del periodo aiutano a chiarire, comportarono il successo dello sbarco delle sue forze sul lato europeo del Corno d'Oro, appena al di fuori della triplice cinta muraria.

Ma non era ancora finita: prevedibilmente, di tale confusione approfittò proprio Cosroe, che con le sue armate, penetrò praticamente senza colpo ferire in Anatolia, fino a giungere anch'egli in Troade.

Il risultato fu che il gioco per il trono imperiale aveva ora quattro contendenti: Eraclio, Narsete, Atanagildo e Teodosio (ovvero, di fatto, Cosroe).

Ciò che destò maggiore scalpore all'epoca, fu l'inazione di Narsete, cosa che fece sorgere negli autori successivi dubbi su una sua possibile connivenza o quantomeno un accordo di spartizione preliminare con i sassanidi, forse influenzati dal senno del poi.

"Se il prefetto di Edessa avesse attaccato subito il gran re persiano, fors'egli, stanco per la lunga marcia attraverso l'Asia Minore, sarebbe stato messo in rotta. Pur tuttavia, Narsete diede ordine ai suoi di attendere senza far nulla. Fu così che Cosroe poté approntare un grande accampamento presso Abido."
(Costantino Manasse)

A questo punto, i cronografi bizantini raccontano che Atanagildo si incontrò di nascosto, una notte, con il prefetto di Edessa e quella successiva con l'esarca di Cartagine. Evidentemente il secondo aveva offerto condizioni migliori, poiché il mattino dopo Atanagildo aprì le porte all'esercito di Eraclio e lo acclamò come legittimo imperatore, con la benedizione del patriarca. Nel frattempo Narsete decise di accordarsi effettivamente con Cosroe, per quanto ciò generasse più di un malcontento all'interno delle sue fila. Il campo si era dunque semplificato, riducendo i rivali a due. Il 29 maggio del 606 avvenne una grande battaglia navale presso i Dardanelli. La vittoria arrise ai bizantini, che tuttavia decisero di ritirarsi al sicuro presso il porto della capitale, in vista dell'assedio. In realtà, si trattava di una trappola: gli spazi stretti del Corno d'Oro avrebbero reso più devastante il danno provocato dai sifoni montati sulle galee imperiali, che soffiavano il famoso 'fuoco greco' sugli avversari.

I persiani giunsero a metà giugno a Crisopoli, dove stabilirono il proprio accampamento principale. I tentativi di attraversare il Bosforo con battelli o con ponti di barche, furono però frustrati dai bizantini e dalle loro navi.

Dopo 20 frustranti giorni, Cosroe si ritirò, senza avere ottenuto un nulla di fatto. La gioia del popolo per la fine dell'assedio non poteva però trarre in inganno: rimaneva il fatto che tutta la Siria e la Palestina erano nel frattempo cadute, grazie ad una serie di vittorie del grande generale sassanide Sharbaraz; la stessa croce di Cristo era stata trafugata e, fattore ancora più grave, i persiani erano entrati persino in Egitto. Se ai due reggitori di Costantinopoli poteva fare comodo ascrivere a torto la causa della situazione a Zenone II, occorreva agire per ristabilire rapidamente quantomeno lo statu quo ante.

Atanagildo radunò nuovamente le forze delle provincie europee, in gran parte gotogallotraci, e buona parte dei veterani delle campagne avare, oltre che richiedere e ottenere contingenti di foederati da anti, gepidi, avari, serbi, vendi, pannoni e onoguri. Dal canto suo, Eraclio radunò i suoi africani e, dopo un rapido giro di vite, riorganizzò le armate anatoliche, isauriche e armene. I generali Filippico e Comenziolo, fratello di Foca, che erano stati arrestati da Narsete (il quale aveva deciso di seguire Cosroe nella sua ritirata, per timore di essere condannato a morte), vennero liberati e posti a capo delle truppe dell'Asia Minore.

Ad Atanagildo venne dato il compito di attraversare le porte cilicie e penetrare in Siria, per riprendere Antiochia; Eraclio (che non era ancora idrofobico) avrebbe organizzato una ambiziosa spedizione navale per sbarcare ad Alessandria e liberare l'Egitto dalle guarnigioni lasciate da Sharbaraz e guidate da Shaharplakan; Filippico avrebbe invece dovuto marciare lungo la Paflagonia e il Ponto, sino a Neocesarea, svernare a Trebisonda e da lì raggiungere il Caucaso, per affrontare i persiani in Albania caucasica e Iberia; Comenziolo, infine, sarebbe avanzato sino ad Arabisso e da lì, raggiunto Edessa e l'Eufrate.

Il successo maggiore arrise al novello imperatore: in Egitto non erano ancora giunti adeguati rinforzi a rimpolpare le guarnigioni e i persiani vennero piuttosto agilmente scacciati dal paese. Eraclio, dal canto suo, fu abile a promettere ai monofisiti copti che avrebbe attuato una politica religiosa più tollerante, se non di favore, nei loro confronti. Comenziolo incappò invece nelle truppe del generale Shahin e le sconfisse presso Cesarea; non riuscì tuttavia a metterle in rotta, anzi, un contrattacco al guado dell'Eufrate, permise ai persiani di guadagnare tempo e ritirarsi in buon ordine a Edessa, che non riuscì dunque ad essere conquistata di sorpresa. Il generale bizantino non disponeva di mezzi d'assedio, pertanto decise di non forzare e svernare a Hierapolis, da cui pensava, eventualmente, di accorrere in aiuto delle truppe di Atanagildo, impegnato contro Sharbaraz.

Quest'ultimo subì il confronto più duro: il sassanide lo intercettò all'uscita dalle porte cilicie e gli inflisse una netta sconfitta. Si dovette principalmente agli ausiliari onoguri, se la ritirata non si concluse in una autentica disfatta, poiché la loro cavalleria leggera aggirò rapidamente sul fianco i catafratti persiani e li colpì, generando disordine e confusione tra le loro fila, prima che potessero caricare il lato sinistro dello schieramento bizantino e distruggerlo.

Filippico inizialmente ebbe una serie di discreti successi, tanto che lo storico armeno Sebeo lo descrive in termini entusiastici. Shahin, tuttavia, per impedire che il generale bizantino convergesse verso sud, pur correndo il rischio di essere intercettato dai movimenti di Comenziolo, decise di non aspettare e gli corse incontro, infliggendogli una serie di sconfitte. Filippico fu così costretto a ritirarsi presso Trebisonda.

All'alba del 608-609 fu il momento più tragico per l'impero romano d'oriente: avuta notizia della sconfitta di Atanagildo e della sua intenzione di ritirarsi verso Arabisso, Comenziolo pensò di cogliere alle spalle i Persiani, attaccando Antiochia da est, ipotizzando Sharbaraz impegnato a varcare le porte cilicie e occupare Tarso. Grande fu la sua sorpresa quando, presso l'Oronte si trovò davanti l'esercito del generale nemico al gran completo. Per i bizantini fu una tremenda sconfitta, nella quale per poco lo stesso Comenziolo non perse la vita. Sharbaraz, infatti, aveva dato il compito a Shahin di tornare a marce forzate a sud, aggirare l'esercito di Atanagildo e intrappolarlo ad Arabisso. Nel frattempo, immaginando il ragionamento dei bizantini, li avrebbe annientati presso Antiochia; quindi, senza aver più davanti alcun ostacolo, avrebbe varcato le porte cilicie e si sarebbe diretto verso Cesarea di Cappadocia e da lì ad Ancyra e poi Amorio.

A quel punto, la strada per Costantinopoli sarebbe stata spianata.

A settembre del 609, la capitale imperiale si trovò nuovamente l'esercito persiano accampato a Hieria. Shahin era stato lasciato a est, con il compito di presidiare Neocesarea, Cesarea e le porte Cilicie, di fatto bloccando qualsiasi movimento di Filippico e Atanagildo. La sorte dell'impero sembrava segnata e l'unica cosa che impediva a Sharbaraz di conquistare la città erano le galee alla fonda nel Corno d'Oro. Distrutte quelle, l'esercito persiano avrebbe avuto davanti le mura di Costantinopoli con un numero troppo esiguo di soldati per difenderle tutte.

Fu a quel punto che Eraclio e Atanagildo ebbero la stessa disperata idea: volgersi verso il cuore dell'impero sassanide.

L'imperatore organizzò una folle (logisticamente parlando) marcia attraverso il Sinai e giunse in Palestina, scarsamente difesa. Riconquistò Gerusalemme, per poi marciare verso nord. Allo stesso tempo, il generale di origine gota, da Arabisso (presso cui si erano rifugiati anche i resti dell'esercito di Comenziolo) si lanciò verso Melitene. Per uno strano scherzo del destino (Per Costantino Manasse si trattò di un miracolo di san Sergio), i suoi movimenti non vennero a conoscenza di Shahin, il quale si accorse che i bizantini non si trovavano più ad Arabisso quando erano già giunti sino ad Amida. Qui Atanagildo ottenne una prima vittoria contro i persiani. Senza fermarsi, decise di procedere verso Martiropoli e da lì, scendere verso l'Adiabene. Cosroe rimase stupito dalla mossa inaspettata e si ritrovò incapace di farvi immediatamente fronte. Shahin, da Cesarea, si lanciò all'inseguimento, ma era troppo tardi. Filippico, accortosi che le forze che lo tenevano in scacco erano diminuite, decise avventatamente di provare a dirigersi verso sud, invece che verso ovest, marciando verso Teodosiopoli. Eraclio percorse quindi l'antica strada diocleziana verso Leontopoli.

Sharbaraz, una volta giunto a conoscenza di quelle notizie, decise di togliere l'assedio a Costantinopoli e tornare indietro, in cuor suo maledicendo Shahin. Filippico, per quanto molto dubbioso, infine decise di andargli incontro, allo scopo, rallentare la sua avanzata per dare tempo ad Atanagildo e all'imperatore Eraclio di riorganizzarsi ed, eventualmente, riunirsi, anche a prezzo di una sua disfatta. E in effetti, così fu: Sharbaraz sconfisse l'esercito di Filippico presso Sebastea e ne catturò il generale. I bizantini, tuttavia, avevano un asso nella manica: non si sa né come, né perché, essi erano giunti in possesso di lettere di Cosroe che attestavano quanto lo Shah temesse il generale 'troppo' vittorioso. In sostanza, il sovrano sassanide aveva deciso di eliminare il suo più valente capitano. Per quanto nessuno degli storici antichi abbia mai messo in dubbio la veridicità delle lettere, la scelta di tempi sembra troppo fortuita per essere un caso. E' possibile dunque che i bizantini siano riusciti ad ingannare Sharbaraz presentandogli lettere false? Non lo sapremo mai. Ad ogni buon conto, sia che quest'ultimo ci abbia davvero creduto, sia che ne abbia approfittato per mettere in pratica la sua personale agenda, è indubbio che tale azione abbia fermato l'avanzata del suo esercito verso Edessa.

A Gazarta, Atanagildo riuscì a strappare una ulteriore vittoria, ma il suo esercito era ormai spossato, quindi incapace di procedere presso le piane di Ninive. Decise quindi di ripiegare verso sud-ovest e occupare Nisibi, nella speranza di vedere prima i vessilli di Eraclio rispetto alle bandiere di Shahin.

Eraclio, dal canto suo, riuscì a sconfiggere un esercito mandatogli contro da Cosroe a Thannourios, all'imbocco della piana di Ninive, per poi raggiungere Atanagildo a Nisibi.

Entrambe le parti erano esauste e, soprattutto a Ctesifonte, il clima politico si stava facendo rovente. La fazione dei Parsig (i persiani) era in sempre più aperta ostilità con la fazione dei Pahlav (i parti) e l'andamento della guerra e le spese per essa non facevano altro che esacerbare gli animi.

Il 29 di settembre del 610, Eraclio e Cosroe firmarono una tregua cinquantennale tra i due imperi, che specificava la consegna di Dara, Nisibi e Dura Europos all'impero romano d'oriente e, per il resto (vale a dire in Armenia), ricalcava i confini del 591.

A Eraclio venne attribuito da Ostrogorsky, ancora non è chiaro quanto a ragione, la riforma del sistema amministrativo bizantino, con l'introduzione dei cosiddetti 'temi'. In realtà, sembra molto più probabile che la struttura tematica sia l'evoluzione (molto lenta e graduale) degli 'accampamenti permanenti'. Eraclio infatti, non fidandosi interamente della parola dello Shah, non smobiliterà, se non in misura molto modesta, almeno tre della quattro grandi armate di manovra che erano state necessarie per sconfiggere i persiani; ciò condusse le regioni che ospitavano tali masse di armati a dover provvedere ad una riorganizzazione funzionale al loro continuo sostentamento. Questo, lentamente, porterà progressivamente l'organizzazione militare a sopravanzare, poi cancellare quella civile.

Ciò non toglie il fatto che lo stesso Eraclio si fece, nel frattempo, continuatore (e in questo caso sì, documentato), dell'esperienza (forse) mauriziana degli esarcati, creandone sicuramente altri due, ossia l'esarcato di Hispania (separando la Spagna bizantina dall'amministrazione Cartaginese, dunque) e l'esarcato di Macedonia (con Tessalonica smetteva di essere la capitale della intera prefettura illirica per esserne il centro).

In realtà, più che per una oculata lungimiranza politica, ciò fu almeno in parte derivato dagli accordi politici che l'imperatore aveva stipulato, alla sua incoronazione, con Atanagildo. Quest'ultimo, infatti, oltre a farsi incoronare come rex gothorum et gallorum in Thracia (da cui non derivava alcun incarico istituzionale ufficiale, ma che era sempre un titolo importante) a Maroduno, nella basilica di Sant'Acolio, l'8 novembre del 610, venne nominato temporaneamente come prefetto dell'intero Illirico, la cui sede venne posta a Resobria.

L'anno dopo, i veri termini dell'accordo vennero a galla: Atanagildo venne insignito da Eraclio e dal patriarca del nome e del titolo di Flavius Athanagildus, Caesar pars occidentis romanorum imperii. Si sarebbe dunque trattato di una spartizione in piena regola: Ad Eraclio sarebbero toccato 'L'impero romano d'oriente', mentre ad Atanagildo, 'L'impero romano d'occidente'. La prefettura dell'Illirico, però, aveva la notevole differenza di includere al suo interno anche gran parte delle province della diocesi di Tracia, facenti parti, appunto, del regno dei goti e dei galli di Tracia (Eccettuate, quindi la provincia di Europa e quasi tutta la provincia di Emimonto).

Quello che appare agli occhi degli storici moderni molto strano è che nessuno dei cronisti antichi interpretò questa mossa come un indebolimento del potere imperiale o come qualcosa di duraturo. Anzi, tutti sembrano concordare come la divisione (temporanea) fosse dovuta all'impossibilità per qualunque sovrano di badare sia al quadro levantino, sia a quello occidentale e che ciò avrebbe giovato alla stabilità alla possibilità di portare veramente a termine la renovatio imperii giustinianea.

Sia come sia, è pur vero che Atanagildo sentiva su di sé un ruolo molteplice e anche, almeno apparentemente, contraddittorio: continuatore o restauratore dell'autorità romana in territorio finiti in mani 'barbare' e allo stesso tempo re della stirpe reale gota legittima (anzi, se i pettegolezzi erano veri, suo figlio Bernardo avrebbe riunito in sé sia il sangue dei Balti, - risalente alla madre di Atanagildo Ingonda, a sua volta figlia di Brunechilde, figlia Gosvinda, figlia di Amalarico, ultimo re della dinastia - sia quello degli Amali, in virtù della storia che voleva Ermanrico, fratello del vicario Amalrico e nonno di Zenone II, coinvolto in una tresca amorosa con Matasunta e che il matrimonio di quest'ultima con Germano Giustino fosse stato 'riparatore', in quanto Giustiniano non desiderava in quel momento accrescere oltre misura il peso politico del capo dei goto-gallotraci).

Nella primavera del 612, decise l'obiettivo della sua prima, ambiziosa, campagna di conquista (che è presumibile fosse già nei piani dello stesso Zenone II quando pensò di dargli in sposa Litila): la conquista della Spagna.
Dopo la morte di Liuva II, cugino di Atanagildo, assassinato, il regno visigoto nella penisola iberica aveva conosciuto il dominio dell'usurpatore Viterico, che, a sua volta, era stato assassinato, lasciando il trono a Gundemaro. Quest'ultimo era appena morto per cause apparentemente naturali ed erano in corso una serie di conflitti di potere alla corte di Toledo.
Isidoro di Ispalia racconta così l'arrivo dell'esercito bizantino a Cartagine Spartaria:

« E una moltitudine di navi giunse nel porto di Cartagine, ed il patrizio dei romani che comandava quella città, chiamato Cesario, fece grande accoglienza a quell'apparato, che a lui pareva immenso. Esso era comandato da Atanagildo, il quale aveva ricevuto il titolo di Cesare d'Occidente da parte dell'imperatore e in quella guisa si presentava ai romani.

Allo stesso tempo si presentava ai goti come loro legittimo sovrano, in quanto figlio di Ermenegildo, di santa memoria. Sisebuto, appena eletto re dei goti di Spagna, ne fu grandemente turbato, tanto che tenne consiglio a Toledo con i più grandi capi del regno e disse a gran voce: “Non lasciatevi ingannare, ché questi non è né dei balti, né degli amali e ci porterà ben presto tutti quanti a sfilare nel circo di Costantinopoli con catene al collo per ordine del suo imperatore!” re Sisebuto non era però oratore tale da smuovere i cuori, né aveva dimostrato prodezze e valore indomito in battaglia; al contrario, non solo di schiatta Atanagildo era ben più di lui nobile, ma anche di gesta.

Di soldati eran piene le sue navi, ma anche di racconti delle sue imprese contro il re dei parti. Per tal motivo, sebbene molti dei grandi del regno ascoltassero e non ritenessero prive di senno le parole del sovrano, pure temevano di schierarsi subito con l'uno o con l'altro, preferendo aspettare e capire quale dei due ne sarebbe uscito vincitore.

Sisebuto dunque chiese a re Clotario, dei franchi di Neustria, aiuto e sostegno, in nome di antiche alleanze. Quello però rifiutò, giacché temeva il prossimo attacco di Teodorico, signore d'Austrasia, che da poco aveva conquistato la Burgundia al fratello. Si rivolse allora ad Agilulfo, re dei Longobardi, ma questi addusse come scusa quella di essere vecchio e malato. »

A proposito della via dell'alleanza con Clotario tentata da Sisebuto, Gregorio di Tours aggiunge:

« Giunse ambasciata dal re dei visigoti Sisebuto al re di Neustria. Ma questi declinò, poiché temeva che il signore d'Austrasia potesse allearsi con Atanagildo, in nome dei rapporti di parentela tra i due. Brunechilde, la cui opinione Teodorico non osava mai contestare, era ancor viva e ben si ricordava della defunta figlia Ingonda, il cui figlio rivendicava ora il trono dei goti con un esercito giunto dall'oriente. »

In sintesi, si può dire che, se programmazione vi fu, da parte di Zenone II prima e di Eraclio poi, per far tornare la penisola iberica sottomessa in qualche modo all'impero, non sarebbe stato possibile trovare uomo e occasione migliore. Il solo sbarco di Atanagildo era bastato per dividere la nobiltà visigota, paralizzandone l'azione e buona parte del potenziale bellico.

Prima di perdere ancor prima di combattere e convincere il partito dei neutralisti ad intervenire, Sisebuto mosse contro Atanagildo, che, dal canto suo, doveva ancora riorganizzare le sue forze ed elaborare un piano d'azione.

I due contendenti si incontrarono nella regione montuosa detta di Orospeda, presso la città di Bigastrum (non lontano dall'attuale Calasparra). Qui le forze di Atanagildo ebbero la meglio. Tuttavia, non sentendosi sicuro di prendere subito la via per Toledo attraverso la regione montuosa sud-orientale, quest'ultimo deviò verso ovest, entrando nella valle del Betis. Basti ed Egara gli aprirono le porte, mentre a Cordoba incontrò una fiera resistenza da parte delle forze realiste. Atanagildo preferì non protrarre l'assedio e fare di Astigi (Écija) la propria base operativa, progressivamente fortificandola sempre di più.

Più di uno storico si interroga sulla condotta estremamente accorta di Atanagildo, supponendo che, se si fosse diretto subito verso Toledo, probabilmente il regno visigoto sarebbe facilmente caduto nelle sue mani comunque e con minore spesa. Alcuni azzardano persino l'ipotesi che dietro questo comportamento vi fosse la necessità di crearsi un retroterra stabile nel quale stabilirsi, nel caso le cose non fossero andate secondo i piani; altri invece immaginano ragioni più contorte, legate al rapporto con Eraclio e la sua corte, supponendo che il legame tra i due non fosse in realtà così roseo come le fonti ci tramandano; altri ancora, infine, pensano che il piano di Atanagildo fosse quello di spingere la fazione neutralista ad abbassare la guardia e a schierarsi definitivamente con il re. Una volta sconfitto Sisebuto, avrebbe potuto annientare assieme a lui larga parte della classe aristocratica, per poter governare 'alla bizantina', ossia in modo centralistico.

A prescindere da tali teorie, resta il fatto che l'unica azione bellica in grande stile portata avanti in questa fase da Atanagildo, dopo la battaglia di Bigastrum, fu la conquista di Hispalis. In realtà, la vittoria non si dovette a particolari meraviglie tattiche. Di fatto, spinse il re ad attaccarlo, attuando per settimane sistematiche razzie e saccheggi della regione circostante, fino alle porte di Cordoba e Hispalis. Stanco della situazione e rassicurato dell'appoggio di diversi signori della Lusitania, inizialmente titubanti, Sisebuto avrebbe rovesciato il suo esercito su Astigi.

Quello che forse il sovrano di Toledo non sapeva, era che l'impresa meno nota, ma, forse, più rilevante compiuta da Atanagildo durante le guerre con i sassanidi, non era stata la battaglia di Gazarta, quanto, piuttosto, la riorganizzazione delle truppe di Comenziolo e le sue ad Arabisso, dopo la sconfitta alle porte cilicie e la resistenza per due settimane a Nisibi, in attesa delle armate di Eraclio. In sostanza, quello in cui eccelleva era la gestione logistica delle truppe e gli scontri difensivi. Per converso, il suo nemico era pressoché digiuno di poliorcetica.

L'esercito di Sisebuto venne decimato dalle sortite di Atanagildo, oltre che dalla incapacità di tagliare tutte le vie di rifornimento alla pur rudimentale fortezza. Una volta sicuro della debolezza dell'avversario, il Cesare d'Occidente sferrò un deciso contrattacco, che lo condusse a conquistare il centro allora più importante della Betica, ossia Hispalis. Per le armate visigote fu una disfatta, anche se il sovrano riuscì a fuggire a Toledo.

Sisebuto, tuttavia, non sopravvisse al suo insuccesso: Suintila, il più giovane (era ventenne) figlio di Recaredo I e della sua ultima moglie (e quindi cugino di Atanagildo), assassinò il re e tentò di prendere il controllo della città. Racconta Isidoro:

« Vi fu guerra per diversi giorni nella città tra i seguaci di Suintila, che volevano consegnare il trono ad Atanagildo e i sostenitori del re assassinato. Il vescovo Aurasio, ormai molto vecchio e prossimo alla morte, si frappose alle due parti e, certo, senza di lui, ogni abitante di Toledo sarebbe perito nei tumulti. Infine arrivò dunque Atanagildo con i suoi. Suintila gli porse la corona, ancora intrisa del sangue di Sisebuto, ma questi la rifiutò e, anzi, lo fece imprigionare per tradimento […]
Atanagildo consegnò dunque il gioiello al santo vescovo dicendogli queste parole: mettetemi in capo questo diadema, come suggello della mia signoria su tutti i popoli goti d'occidente e d'oriente. Quanto al governo della Spagna, non già da tale vostro gesto esso dipende, ma era già nel mio diritto dacché fui insignito del titolo di Cesare d'Occidente. »

In questo modo Atanagildo prese lo scettro del regno visigoto. Questo ebbe una diretta eco ed influenza sul vicino regno dei franchi. Nel frattempo Teodorico II aveva unificato Austrasia e Borgogna, dopo aver sconfitto il fratello Teodeberto. Clotario di Neustria si sentiva gravemente minacciato, convinto com'era che il nuovo sovrano visigoto avrebbe presto fatto sentire la sua voce anche al di là dei Pirenei.

La sorte gli venne tuttavia in aiuto: Teodorico II morì improvvisamente di dissenteria, lasciando il trono al dodicenne Sigeberto II e la reggenza alla bisnonna Brunechilde. I nobili austrasiani, tuttavia, mal sopportavano la politica accentratrice che già aveva più volte dimostrato durante i precedenti periodi di reggenza. Per parte sua, Clotario fece di tutto per aizzare i due grandi maggiordomi d'Austrasia, Pipino e Arnolfo. Questi ultimi, dopo molta titubanza, si decisero ad organizzare un colpo di stato ai danni di Sigeberto e Brunechilde. Costretti a fuggire, vennero catturati e consegnati a Clotario stesso dai traditori (che in cambio avevano ottenuto ampi riconoscimenti dei loro diritti e domini dal signore di Neustria).

Così Fredegario racconta la vicenda:

« Saputa la notizia, Atanagildo inviò emissari presso Clotario II, il quale per parte sua, ancora non aveva osato uccidere la vecchia regina e i di lei bisnipoti, Sigeberto, Corvo e Meroveo, avendo dato ordine – certo per timore - ai suoi di catturarli vivi, pena la morte. Il novello signore dei goti non desiderava la guerra, anche per timore di rendersi sospetto agli occhi dell'imperatore Eraclio. Pur tuttavia, rapporti di sangue lo legavano a Brunechilde: era a lei che si doveva il suo alto lignaggio. Intimò dunque ai franchi di consegnargli gli ostaggi, chiedendo in sovrappiù un compenso in forma di tributo.
L'opinione dei maggiordomi di palazzo si divise: chi era, come Arnolfo, per accettare, chi, come Pipino di Landen, pensava che re Atanagildo non avrebbe né voluto, né potuto, dar seguito ad alcuna delle sue minacce e che era bene sbarazzarsi una volta per tutte della genia di Brunechilde.
Clotario pensando di giocar d'astuzia, accettò di consegnare nelle mani dei goti la donna e il figlio più piccolo di Teodorico, tenendosi per sé primogenito e terzogenito. Questo poiché ei non voleva scucire nemmeno una moneta al re dei goti ed anzi, costringerlo a pagare per lasciare in vita Sigeberto e Corvo. »

Isidoro, dal canto suo, narra in questo modo il (temporaneo) epilogo:

« Per difendere l'onore della sua stirpe, Atanagildo, adirato, traversò i Pirenei. I selvaggi vasconi diedero passo all'esercito del re, poiché avevano meno in odio i goti dei franchi. Essi erano forti, ma erano tra loro divisi e litigiosi. Presso Aquae Tarbellicae i due signori si incontrarono e si rappacificarono di fronte ai propri rispettivi eserciti. I due bisnipoti di Brunechilde vennero consegnati sani e salvi e il nostro sovrano accettò di pagare un riscatto per la loro liberazione. Si dice che il sire dei franchi avesse avuto desiderio che i due giurassero solennemente che mai avrebbero reclamato il diritto su alcuno dei territori che aveva usurpato. Atanagildo dunque lo canzonò dicendo: 'Suvvia, che vivere è, essere amici di tutti e nemici di nessuno? Stare in guardia tiene in forma.' Ed egli, non sapendo che rispondere, ammutolì. »

Clotario II fu il precursore di tutti i cosiddetti 're fannulloni', definizione dispregiativa che connota i sovrani merovingi del VII secolo che, perso gran parte del loro potere, lasciavano che a prendere le decisioni fossero sempre più spesso i maestri di palazzo con il loro potente seguito; in particolare i pipinidi, discendenti da Pipino di Landen. Questo, oltre alle lotte di potere intestine della dinastia merovingica contribuirà all'insinuarsi anche nel territorio dei franchi dell'influenza gotica dei successori di Atanagildo.

Per quest'ultimo, tuttavia, si apriva una questione di non poco conto: come gestire in maniera efficace ed efficiente il suo dominio. Se formalmente era il sovrano della pars occidentis dell'impero, di fatto, sia Toledo, sia Resobria gli erano fedeli più in quanto re dei goti. Ciò significava anche che entrambe le realtà, molto diverse tra loro, tendevano ad esigere la sua presenza fisica come segno tangibile di autorità e questo implicava per lui una scelta.

I suoi favori andarono al regno di recente conquista in Spagna. Già nel 615 aveva fatto sposare la figlia Audolinda di dieci anni al franco Sigeberto, che di anni ne aveva 14.

I cronografi bizantini non dimenticarono mai questo evento; infatti nel 612, alla morte di Fabia Eudocia, l'imperatore Eraclio prese in moglie la nipote Martina, attirandosi gli strali del patriarca (in quanto il matrimonio era da considerarsi incestuoso). Molti ritennero questo matrimonio maledetto e qualcuno, come riportano numerose fonti, riprese anche da Teofane, sostenne che Eraclio aveva in progetto di sposare nientemeno che la piccola Audolinda, saldando così l'unione con i goti, ma che fu proprio Martina, avida di potere, a guastare il piano. Costantino Manasse ci riporta una versione diversa: Atanagildo sarebbe stato in procinto di tornare a Costantinopoli con l'idea di far sposare il figlio Bernardo proprio a Martina, ma che le trattative (per la gelosia e l'invidia di Eraclio, su cui era stata gettata una maledizione dal patriarca Niceforo) vennero interrotte: Atanagildo rimase così a Toledo e l'imperatore sposò la nipote.

Quel che è certo e che si evince senza dubbio dalle fonti in nostro possesso è che tra gli anni dieci e venti del VII secolo venne prospettata un'alleanza matrimoniale tra il basileus e il rex gothorum, ma che, per una ragione o per l'altra, essa non si concretizzò e, anzi, vi fu un inasprimento delle relazioni tra i due.

Il culmine della tensione avvenne nel 616. Nonostante Atanagildo fosse diventato Cesare d'occidente, non vi era stata ancora una reale sostituzione nel processo di nomina dei governatori: i rappresentanti imperiali a Ravenna e a Cartagine erano ancora decisi da Costantinopoli. Del resto, sino a quel momento, lo stesso sovrano dei goti non aveva opposto ancora particolari obiezioni, preso com'era dalla campagna contro i visigoti e dalla successiva riorganizzazione dei domini iberici su modello bizantino, oltre che dai suoi screzi con i franchi. L'occasione per mutare il vecchio ordine delle cose si dovette ad una grande rivolta nei domini italiani.

L'esarca Giovanni Lemigio venne ucciso dalle truppe in arretrato con il pagamento, cui si era unita parte della popolazione, stanca delle tasse troppo elevate.

Anche in questo caso, le fonti divergono: secondo il liber pontificalis Eraclio avrebbe inviato una nota ad Atanagildo che lo forzava ad intervenire, non volendo distogliere uomini dal fronte orientale e facendogli notare che non era di sua competenza. Al rifiuto del goto, che adduceva altri impegni (contro i vasconi), l'imperatore avrebbe inviato Eleuterio, che schiacciata la rivolta, si sarebbe a sua volta ribellato nel 619 e si sarebbe auto-nominato imperatore della pars occidentis, cercando la benedizione del patriarca di Ravenna Giovanni (IV); a questo punto Atanagildo avrebbe accusato l'imperatore di essere stato non solo a conoscenza dei piani del ribelle, ma di aver architettato tutto a suo danno . Eraclio avrebbe negato ogni responsabilità, ma troppo tardi: con parte dei veterani della campagna ispanica, Atanagildo sarebbe sbarcato a Roma e avrebbe marciato contro l'esarca.

Il re di Toledo non dovette neanche sforzarsi: al primo scontro, le truppe di Eleutero si sarebbero ribellate al proprio comandante e lo avrebbero eliminato. Tornato a Roma, il sovrano gotico sarebbe stato consacrato dal pontefice a ulteriore conferma della sua posizione di caesar pars occidentis, poi ribadita dopo un viaggio di 'riappacificazione' di Atanagildo nella capitale imperiale.

I cronografi bizantini (che citano il fatto più per mostrare l'esacerbarsi dei rapporti tra i due uomini forti del momento, più che per un reale interesse per le sorti del territorio bizantino in Italia), tuttavia, ci narrano una storia leggermente diversa: Atanagildo sarebbe sbarcato per primo e avrebbe soppresso la ribellione costata la vita all'esarca Giovanni. Eraclio a quel punto avrebbe preteso l'invio di un rappresentante di sua nomina a Ravenna come esarca e, anzi, avrebbe esautorato il goto dal ruolo di cesare della pars occidentis per conferirlo a Eleutero. Quest'ultimo, scontratosi con le truppe gallotracie, sarebbe stato infine sconfitto e ucciso; in seguito Atanagildo sarebbe stato consacrato nientemeno che dal papa. L'episodio sarebbe rientrato solo a seguito di una visita dello stesso Atanagildo a Costantinopoli.

Gli storici moderni sono propensi a cercare una mediazione tra le due fonti, non trovando tuttora un punto di vista univoco. Nel XIX secolo era prevalente il credito dato alla fonte latina, non privo di un certo nazionalismo, che rivendicava come per la prima volta le genti latine avessero espresso una voce esplicita contro la sottomissione a Costantinopoli e ai graeculi. Ora le interpretazioni sono più sfumate e si tende, piuttosto, a dare per veritieri gli storici di Bisanzio, interpretando quanto scritto nel liber pontificalis come l'esigenza di giustificare l'operato del papa e non porlo in opposizione netta e sostanziale (se non ribellione vera e propria) con l'imperatore, tanto più che poi lo scontro politico sarebbe rientrato.

Resta una grave mancanza l'assenza di riferimenti in merito all'accaduto da parte di Paolo Diacono: una prospettiva di parte longobarda avrebbe presumibilmente fatto ulteriore luce sul mistero.

Ciò che però il celebre storico longobardo cita sono, invece, le imprese del giovane Bernardo contro il duca di Benevento Arechi:

Prese le redini del governo imperiale in Italia dopo molti tumulti, Atanagildo re dei goti, ottenne da Eraclio Imperatore di nominare come esarca il figlio Bernardo. Ei in principio combatté gagliardamente con Teodelapio, duca di Spoleto, ma presto tra i due vi fu pace. Saputo però che Arechi, duca di Benevento, aveva conquistato Capua e Salerno e finanche Napoli, già ribellatasi al dominio dei romani, era in procinto di cadere, Atanagildo concesse le navi e gli uomini che s'era portato dalla Spagna al figlio.
Questi sconfisse Arechi, costringendolo a restituire Capua e Salerno. Gli anziani di quelle città, così come quelli di Napoli, lo acclamarono allora come proprio duca, perché non volevano che giungessero altri governanti da fuori. Bernardo accettò, riformando il paese e chiamandolo 'ducato di Campania'. Invece di tornarsene a Ravenna come essi avevano pensato, prese tuttavia dimora in Gaeta, del che le altre città si risentirono e presto volettero tornare alle antiche abitudini di governarsi da sé. Il nuovo duca che si erano scelti di una tempra diversa, tuttavia, da come l'avean figurato e represse le rivolte sorte contro di lui. Il duca di Benevento cercò di approfittare dell'accaduto per riprendersi alcuni territori e, in cambio di denaro, vi riuscì. Quando però volle anche recuperare Salerno, Bernardo gli mosse di nuovo guerra, costringendolo a ritirarsi. Da quel momento, tutta la costa del mare da Roma a Napoli era tornata nelle mani dei romani ed era governata con scettro di ferro dal duca Bernardo. Nello stesso torno di tempo, suo padre Atanagildo aveva lasciato il trace Sulasio a Ravenna come governatore ed era andato a parlamentare con l'imperatore a Costantinopoli, dando respiro ad Adaloaldo, che molto lo temeva.

Atanagildo, cui, oltre ad Audolinda nel frattempo era nato un altro figlio maschio, Ulrige (come il nome di battesimo del defunto Zenone; in quell'occasione Litila era morta di parto) nel 610, era destinato a non avere pace. Nel 622, dopo aver speso almeno un anno presso Eraclio a Costantinopoli, era stato costretto a recarsi nella 'sua' Resobria, per via di alcune rivolte. Troppo tempo e troppi uomini erano stati impiegati lontano dal regno dei goti e dei galli di Tracia e il malcontento era così esploso, anche per via del fatto che il confine settentrionale era stato trascurato e alcune tribù slave cisdanubiane (che quindi avevano giurato fedeltà all'impero) avevano cercato di estendere il proprio territorio a danno dei goti. La questione non aveva per il momento avuto conseguenze serie, ma le scorrerie e le interferenze reciproche avevano creato un clima teso, terreno fertile per una rivolta.

Atanagildo, dopo aver fatto giustiziare i principali capi della sedizione, aveva dovuto promettere che lui o, almeno, un membro della sua famiglia avrebbero preso stabilmente dimora a Maroduno o Resobria per gli anni successivi. In seguito, il sovrano ristabilì nel 623 un accordo di alleanza con gli Anti, secondo la – non del tutto errata – convinzione che molte tribù slave attraversassero il Danubio e da lì cercassero di attraversare i monti Balcani con il beneplacito, se non addirittura con l'ausilio del sovrano di quella confederazione tribale. Fu un grosso colpo per lui quello di porre entro i termini dell'accordo, la fondazione di un arcivescovato di rito galatico all'interno del territorio antìco, per la precisione nell'antica città di fondazione romana di Apulum, che era divenuta la capitale (o, quantomeno, il centro urbano principale) del 'regno' degli Anti. Nonostante ciò, il loro sovrano, di cui non conosciamo il nome, rifiutò la conversione, probabilmente sia per timore di perdere influenza sui capi tribù ancora pagani, sia per mantenersi in equilibrio equidistante tra Eraclio e Atangildo. A dimostrazione di quest'ultimo fatto , sappiamo della fondazione, poco dopo questo accordo, di una diocesi di rito greco a Malva, poco a nord del fiume Danubio. Fino al 631, per otto anni, vi fu un sostanziale clima di pace, in cui Atanagildo risiedeva principalmente a Resobria, con Ulrige, mentre Bernardo si alternava tra Ravenna, Toledo e Gaeta, assieme al trace Sulasio e al franco Sigeberto.

Molto complessa si faceva tuttavia nel frattempo la situazione politica nelle terre sotto influenza bizantina nell'Illirico e in Pannonia. Ne siamo a conoscenza grazie a diverse fonti bizantine, ma, soprattutto per la cronaca di Fredegario e per via del primo scritto storico in galatico, ossia la 'cronaca di sant'Ulrige di Mesembria'. Quest'ultimo testo, redatto nella seconda metà del IX secolo, per molti avvenimenti della penisola balcanica e dell'Europa centro-orientale è una fonte preziosissima, spesso l'unica, nonostante sia distante più di due secoli dagli eventi; essendo l'autore un religioso, ciò che conta per lui è tenere, infatti, traccia delle opere missionarie dei suoi confratelli nella fede in terre straniere e pagane.

Intorno al 626-627, Dervano, 'duca dei serbi', espanse in misura notevole il proprio dominio, approfittando delle divisioni tribali tra slavi, germani e ultimi residui celtici in Boemia. Questo generò grande preoccupazione sia tra i franchi di Austrasia, sia tra i 'romani di Pannonia'.

Fredegario narra infatti che re Dagoberto, timoroso di perdere il lucroso traffico di schiavi provenienti da quelle regioni, abbia approntato una spedizione punitiva. A complicare ulteriormente le cose ci si mise il fatto che proprio un mercante di uomini di origini franche, Samo, riuscì a porsi a capo dei Vendi. Questa situazione particolare era stata resa possibile da un non meglio precisato 'scempio a danno dei galati di quelle regioni'. Evidentemente si era trattato di una reazione pagana contro la crescente cristianizzazione della regione, che aveva visto le genti preromane di quelle zone abbracciare il rito galata. A quel punto però i capitribù dei vendi si erano divisi tra chi cercava un'alleanza con i Serbi, in senso pagano, e chi invece era convinto che fosse necessaria una celere mediazione con l'impero attraverso i duchi di Pannonia, per evitare dure rappresaglie. Samo riuscì a unirli con una terza allettante alternativa: un'alleanza con il regno franco. Da un punto di vista religioso questo voleva significare uscire dalla sfera di influenza del rito galata per entrare in quella di Roma.

Ciò significava porsi in contrasto con i pannoni, che in quel momento appoggiavano lo scisma tricapitolino di Aquileia; per converso, trovarono un appoggio nel re Traustila dei gepidi, protagonista, nello stesso periodo, di una reazione ariana alla crescente galatizzazione proveniente da sud-est e romanizzazione dal litorale adriatico. Anche nelle terre sotto il controllo del regno germanico venne riesumato il conflitto tricapitolino e dato appoggio allo scisma aquileiese, così come in pari tempo avveniva nel Friuli longobardo.

Atanagildo, i cui rapporti con il mondo franco non potevano certo dirsi buoni, accettò al volo una richiesta di alleanza dei serbi. In questo modo avrebbe unito due piccioni con una fava: da una parte punire i 'vassalli ribelli', ossia i vendi ed i gepidi; dall'altra dare una lezione ai franchi e ridurre la loro sfera di influenza in Europa centrale.

Nel frattempo, stando a quanto sostiene il cronista Fredegario, Cariberto II, fratellastro del re dei franchi Dagoberto e sovrano d'Aquitania, tramò per spodestarlo. In questo avrebbe ottenuto l'amicizia e il sostegno di Sigeberto, che di fatto in quel periodo era reggente a Toledo per Atanagildo. Secondo Fredegario il patto stabiliva che alla morte di Dagoberto, Cariberto avrebbe preso il trono di Austrasia, Neustria e Borgogna e avrebbe devoluto l'Aquitania proprio a Sigeberto.

La battaglia decisiva avvenne nel 631, nella non meglio precisata 'Wogastisburg' (sulla cui ubicazione ancora adesso si indaga). Da un lato franchi d'Austrasia, Longobardi del Friuli (contro il volere del re Adaloaldo) e Alamanni; dall'altra serbi, pannoni e un contingente misto di anti e gallotraci, comandati dal giovane Ulrico. Per la coalizione franca guidata da Dagoberto fu una completa disfatta, dalle molteplici conseguenze.

La prima fu una campagna repressiva da parte di Atanagildo contro gepidi e vendi: Per quanto riguarda i primi, Traustila venne deposto e sostituito da Cunerico, di fede cattolica romana. Rimase comunque una forte resistenza di una parte della aristocrazia di fede ariana, specialmente nelle aree montuose dell'interno del regno, scarsamente popolate e romanizzate; nel contempo i pannoni ne approfittarono per espandersi verso sud-ovest.

Il territorio dei Vendi finì in gran parte sotto il dominio di Dervano, che in occasione del trionfo decise, assieme (secondo la cronaca di sant'Ulrige) a 100 dei suoi più fedeli vassalli, di battezzarsi, secondo il rito galata. Leggenda vuole che ebbero come padrino lo stesso Ulrico, il quale 'molto piamente acconsentì alla richiesta. Il suo valore in battaglia unitamente alla santa sua devozione nella tuttasanta madre di Dio avevano sciolto finalmente il cuore di quel re e degli accoliti suoi, che prima tanto avevano evitato le parole di tutti i venerabili monaci inviati sin lì da tutti i monasteri del mondo'.

Ovviamente, il peso di questo gesto non deve essere sopravvalutato per la cristianizzazione dei serbi in sé: il processo andava avanti lentamente ed inesorabilmente da ben prima, da molte direttrici differenti.

Né questa scelta si può già dire definitiva: gli eredi di Dervano si alterneranno nella scelta tra paganesimo e cristianesimi di rito diverso ancora per diverso tempo, prima di prendere una decisione stabile. Dal punto di vista linguistico, però, ciò contribuì, sul versante meridionale delle Alpi, nel territorio dei Vendi, alla progressiva retrocessione della lingua venedica a favore della variante galata locale oltre che ai dialetti romanzi(secondo uno schema molto variegato, ma riassumibile nella prevalenza del galatico nei territori montuosi e del romanzo in quelli collinari e di pianura).

Dagoberto, al ritorno, venne accolto dal tentato colpo a suo danno di Cariberto, che Fredegario vuole orchestrato dai visigoti. Oggi gli storici ritengono però più probabile che l'attacco visigoto guidato da Sigeberto in Aquitania fosse semplicemente coevo al conflitto tra i due fratellastri. Cariberto, riappacificatosi, morì già nel 632, probabilmente assassinato da una delle parti in causa. Resta il fatto che Chilperico, figlio di Cariberto, secondo un testamento più che dubbio, fu preso sotto tutela da Sigeberto stesso (le cronache da parte iberica vogliono che Sigeberto non si fosse mosso per fini personali, bensì per tutelare i diritti di Chilperico) e l'Aquitania finì nell'orbita visigotica (e quindi, per proprietà transitiva, nell'orbita dell'impero).

La sconfitta ebbe forti ripercussioni anche nel regno longobardo. La fronda ariana, che mostrava crescenti segni di insoddisfazione contro la politica di buon vicinato imposta dal re Adaloaldo (e che non si era ancora mossa solo per timore di un intervento in forze da parte di Bernardo o dello stesso Atanagildo, un vero e proprio spauracchio) e proponeva, al contrario, un avvicinamento ai franchi, si trovò di colpo indebolita: questo diede il destro al sovrano per effettuare un giro di vite, di cui fu vittima in special modo suo cognato, il duca di Torino Arioaldo.

Caco del Friuli era perito in battaglia e Tasone venne preso in ostaggio dai Serbi. Duchi al posto loro divennero i loro fratelli più giovani Radoaldo e Grimoaldo, i quali, secondo Paolo Diacono, avevano cercato di dissuadere i maggiori dalla battaglia di Wogastisburg dicendo loro:

'Vi è più da guadagnare a battagliar coi Vendi. Allearsi con loro contro i romani per cedere alle lusinghe di Dagoberto dei Franchi è follia.'

Il primo gesto dei nuovi duchi fu negoziare una pace duratura con Sulasio e l'Esarca Bernardo, con la mediazione, così vuole la tradizione, di San Magno di Oderzo. Con lui vennero anche intavolate le trattative per ricomporre definitivamente lo scisma aquileiese: venne confermato come patriarca Primogenio, che in quel momento risiedeva a Grado, controllata dai bizantini.

Nello stesso anno, 632, venne celebrato il matrimonio tra Eudocia Epifania, unica figlia femmina di Eraclio e Ulrige. La ragazza era già andata in sposa per procura, all'età di 15 anni, ad un capo tribù turco, chiamato Ziebel; tuttavia, il marito era morto senza nemmeno aver conosciuto la sposa. Come celebrazione della distensione tra Atanagildo ed Eraclio, quest'ultimo ottenne l'annullamento del precedente sposalizio da parte del patriarca di Costantinopoli e la diede in moglie al goto. Questa decisione, a quanto pare, ebbe molti oppositori, che temevano che colui che a suo tempo aveva rifiutato di lottare per la porpora, stesse preparando il suo secondogenito a farlo.

Con l'occidente pacificato, fu il turno per l'oriente di essere coinvolto nella guerra. Nel 632 era morto Cosroe II e suo figlio Kavad II sembrava avere tutte le intenzioni di riprendere le ostilità. La guerra, tra le due superpotenze, venne tuttavia rimandata all'ultimo minuto per il contemporaneo attacco ad entrambi gli imperi di nuovi nemici provenienti dal sud-est, per la precisione dalla penisola arabica. Sobillati dal fervente credo in una nuova religione, predicata dal profeta Maometto, le molte tribù della regione si erano unite e, poco dopo la morte del loro capo spirituale, avevano deciso di lanciarsi alla conquista dei due grandi stati che erano alle loro porte. Sia i bizantini sia i sassanidi si stavano preparando ad uno scontro campale, per cui già disponevano di forze mobilitate. In particolare Eraclio, memore delle rapide conquiste persiane nella campagna di vent'anni prima, aveva deciso di migliorare le difese in Siria e in Palestina. Ciò nonostante, lanciati dall'ardore del loro nuovo credo, gli invasori inanellarono una serie di successi strategici contro i ghassanidi, arabi cristiani e storici alleati dell'impero. Si giunse così alla decisiva battaglia di Ajnadayn, nel 634, alle porte di Damasco. Gli arabi furono sul punto di sconfiggere, con la loro mobilità e con la loro tenacia, l'esercito bizantino, ma, al termine della giornata, quest'ultimo, pur con pesanti perdite, riportò la vittoria, prevalentemente grazie alla forza del numero. Teodoro Sacellario, comandante in capo dei romani, fu però molto scosso dal rischio subito e chiese subito ad Eraclio di mandare ulteriori rinforzi per sostenere l'ondata di invasione.

In pari tempo, accadevano situazioni simili sul versante mesopotamico: nella 'battaglia del ponte', non lontano da Hal Hira, caduta l'anno prima (nel 633) e principale centro dei lakhmidi, i Sassanidi riportarono una difficile vittoria contro gli arabi maomettani, grazie agli elefanti da guerra.

Il generale Bahman convinse Kavad II a concedergli rinforzi per sgominare i nemici dai territori dell'Arabestan. Nel 636 il generale arabo Kalid Ibn Al Walid venne pesantemente sconfitto nella celebre 'doppia battaglia': prima dovette fronteggiare l'esercito del generale sassanide Rustam presso Dura Europos, poi, ritiratosi verso sud-est, in territorio imperiale, venne attaccato dalle armate bizantine di Teodoro Triturio nelle gole di Yarmuk.

La pesante sconfitta condusse molto rapidamente allo sfaldamento dell'unità dei maomettani: molte tribù, infatti, demoralizzate dai rovesci subiti, reclamarono nuovamente la propria indipendenza da Medina, il centro principale della nuova fede. La forza d'urto di queste truppe, altamente mobili e abituate ai climi aridi, non passò tuttavia inosservata a nessuno dei due imperi, che tentarono molto presto di reclutare entro le propria fila mercenari provenienti dall'Arabia Deserta, oltre che estendere la propria sfera di influenza su quei popoli e tribù. Fu così che la costa nord-orientale del mar Rosso, gradualmente, subì l'influsso bizantino e, con esso, il cristianesimo. Non pochi di coloro che si erano inizialmente convertiti all'Islam di Maometto si orientarono verso il monofisismo. Nel contempo, sulla costa occidentale del golfo Persico, tornò prepotentemente l'influsso persiano. Anche presso quelle tribù si sviluppò il cristianesimo, ma, coerentemente con gli equilibri geopolitici, nella forma nestoriana. Quest'ultima confessione, sempre più perseguitata entro i confini bizantini, si stava sviluppando all'interno dei confini dell'impero sassanide, tanto che nella parte mesopotamica e araba dell'impero era ormai praticamente maggioritaria. Lo zoroastrismo restava largamente predominante nella parte iranica dell'impero, oltre a trattarsi della religione di stato, ma folte comunità nestoriane stavano sorgendo anche al di là dei monti Zagros, in particolare a Bishapur, Gur-Ardashir, Estakhr e Spahan. Nel 641 vi fu una prima riforma del culto, da parte di Yeshuyab II, poi completata dieci anni più tardi dal patriarca d'oriente Yeshuyab III; in pari tempo Simeone, vescovo di Rev Ardashir, promosse una traduzione ufficiale in lingua medio-persiana della Bibbia e degli altri testi rituali, la quale venne presto approvata come canonica dal patriarca di Ctesifonte e trovò l'appoggio interessato dello Shah Ardashir III (sovrano dal 645). Fu fatto anche un tentativo, sempre durante questo periodo, di combinare lo zoroastrismo con il cristianesimo. L'eresia che ne seguì, che porta il nome Yazdadismo, dal nome del suo fondatore, non ebbe però molto seguito, se non uno sporadico interesse da parte di pochi esponenti dell'aristocrazia di corte.

A proposito di eresie, negli ultimi anni del regno di Eraclio esplose il 'caso' del monotelismo. Il tentativo della Ekthesis del 638 di affermare che in Cristo esiste una sola volontà voleva andare incontro alle esigenze di unione, anche in questo caso, tra ortodossi e monofisiti, ma ebbe il tragico risultato di far infuriare entrambe le parti in causa. Per ovvie ragioni dottrinali, i vescovi gallotraci si opposero fermamente, per quanto Atanagildo in questo caso evitasse di schierarsi apertamente contro il suo imperatore. Ne sorse ad ogni modo un'aspra contesa tra il patriarca di Alessandria, il papa romano e il metropolita di Resobria, tutti e tre in ostilità nei confronti del patriarca di Costantinopoli Sergio e i suoi successori, Pirro e Paolo III. La questione nata per riportare l'unità, non fece che condurre verso nuove fratture in seno al gregge cristiano.

Tornando agli eventi storici, nel 639, appena tre anni dopo la sventata minaccia araba, vi fu un nuovo scontro tra persiani e romani; l'ormai anziano Eraclio lasciò il comando delle operazioni belliche ai figli Costantino III ed Eracleona; questi tuttavia si rivelarono comandanti in capo poco abili, dato che l'esercito bizantino andò incontro ad una serie di sconfitte nel settore armeno-caucasico, tanto che la regione fu persa di nuovo per l'impero; un tentativo di invasione dell'Egitto dalla Palestina, grazie all'aiuto di forze arabe, venne comunque abbastanza fortunosamente sventato nel 640. L'anno seguente Eraclio si spegneva, acclamato da molti come un rifondatore dell'impero e colui che aveva debellato le grandi minacce che gravavano sui confini a oriente come a occidente. Restavano delle ombre sul suo secondo matrimonio, sulla questione del monotelismo e sulle ultime campagne fallimentari contro i sassanidi, ma vennero presto tacitate dai successori, Costantino III ed Eracleona.

Dopo soli quattro mesi dalla successione il maggiore dei due moriva però di tubercolosi. Questo scatenò una grande rivolta dell'esercito, che incolpava Eracleona e Martina per l'accaduto. Naturalmente, i persiani ne approfittarono per riprendere le ostilità. Inizialmente gli eserciti acclamarono come sovrano Costante II, l'undicenne figlio di Costantino III; tuttavia la crisi militare non faceva che aggravarsi, con i persiani che, come quaranta anni prima, guadagnavano posizioni su posizioni. In Egitto scoppiò una rivolta filo-monofisita, domata a fatica.

Nel 642 moriva anche Atanagildo, proprio quando a Costantinopoli sempre di più si chiedeva al goto di interpretare l'uomo della provvidenza una seconda volta. Fu a quel punto che avvenne il colpo di stato:

I due figli di Atanagildo, l'Esarca Bernardo e Ulrige, si incontrarono in Bari. Lì essi decisero di marciare su Costantinopoli e assumere la reggenza dell'impero per il giovane Costante II. Si dice che Ulrige volesse prendere su di sé la porpora, ma che il fratello maggiore lo sconsigliasse, dicendo: 'il nome che porti ti fu dato come aspirazione e come monito ad un tempo da nostro padre. Rifletti su questo e non fare la fine dell'imperatore Zenone II'. Al che il secondo gli rispose: 'Che la porpora sia tua, dunque, che non sei funestato da simili presagi'. Allora Bernardo replicò nuovamente: 'No, fratello, il compito di reggere l'oriente è stato preparato per te, come quello di comandare l'occidente spetta a me. Inoltre tu sei imparentato con la casa di Eraclio, non io.'

Questo dialogo è narrato nella 'Storia' di Teoderzo di Sozopoli, il principale cronista altomedievale in lingua galata. Se la cronaca di Sant'Ulrige è utile per comprendere la storia ecclesiastica e le migrazioni dei popoli, senza dubbio l'opera di Teoderzo è più esaustiva per quanto riguarda la narrazione 'politica' degli eventi.

In modo molto più pacato e prosaico, anche gli storici bizantini sembrano convergere sull'idea di un incontro tra i due fratelli in cui si sarebbero decise le sorti dell'impero.

Nel settembre del 642, i due attuarono il colpo di stato, a cui, per la verità, in pochi opposero una seria resistenza. Di fronte all'assicurazione di non voler essere nominato co-imperatore, ma solo reggente, gran parte dell'esercito acclamò Ulrige (che però, ribadì il suo titolo di rex gothorum et gallorum). L'unica provincia ribelle fu, naturalmente, l'Egitto, le cui armate proclamarono un proprio governo secessionista guidato dal patriarca monofisita Beniamino. Ciro di Alessandria, patriarca melchita, venne ucciso nelle violenze che seguirono. Nonostante il rifiuto del nuovo signore della terra degli antichi faraoni di proclamarsi 're' o di accettare qualsiasi investitura temporale da un punto di vista formale, mantenne comunque la regione in stato di rivolta contro Costantinopoli, deciso a difenderla autonomamente dai persiani che nel frattempo erano penetrati in Palestina.

In realtà Ulrige non dovette fare molto: ricreata una catena di comando omogenea e coerente, l'esercito bizantino riprese morale e compattezza; fu questo, più che i rinforzi gallotraci, a invertire la marea.

Le due battaglie decisive avvennero – e non era una novità – in Armenia, presso le sponde del lago Van e in Siria settentrionale, in prossimità di Nisibi, rispettivamente, nel 645. Nel primo scontro Mardanshah ottenne una vittoria, nonostante i bizantini riuscissero a ritirarsi senza essere distrutti. Nel secondo, tuttavia, Bahman venne pesantemente sconfitto dal generale bizantino Manuele, assieme ai comandanti delle truppe 'occidentali' Trasarico e Tuone, di origini pannoniche. La morte di Kavad II, avvenuta lo stesso giorno della vittoria bizantina, rimise la volontà sassanide di proseguire la guerra in seria discussione. Nessuna delle due parti si trovava quindi nella situazione politica ideale per proseguire, cosa che condusse, per l'ennesima volta in un secolo, al ripristino dello statu quo ante. La resa dei conti con i persiani era rimandata.

Anche in occidente si erano rinfocolate delle tensioni, che, per via dello sforzo profuso al confine orientale, non poterono essere sfruttate appieno dal cesare Bernardo. Nel 641 morì Arechi I di Benevento. Con la pretesa di assumere la reggenza sul ducato (Aione, il figlio del defunto, aveva fama di follia) con un testamento di natura più che dubbia, l'esarca goto mosse contro i longobardi e li sconfisse presso Alife nel 642.

Aione rimase al potere, ma, di fatto, il potere nel ducato beneventano finì nelle mani di Bernardo, che fece in modo che Aione sposasse sua figlia Adelmara (ovviamente senza la pretesa che questo matrimonio potesse generare una discendenza). A fronte di questa piega degli eventi Teudelapio di Spoleto si sentì in pericolo e attaccò e conquistò Ortona. Nello stesso momento il goto dovette fare a meno di un numero consistente di suoi veterani, dirottati in Siria per lo scontro decisivo con i sassanidi. Fu così che gli Spoletini riuscirono ad avanzare fino a Larino prima di essere fermati sul fiume Fortore. Atto, il figlio di Teudelapio, si prese il titolo di 'Duca di Ortona', creando un nuovo centro di potere longobardo tra il Pescara, il Fortore, l'Adriatico e gli Appennini. Il duca tentò in seguito di rivolgere le armi anche verso nord, contro la Pentapoli, ma non ebbe lo stesso successo: infatti le armate bizantine, guidate dall'armeno Isacio (inviato a rinforzo da Ulrige, che, come magister militum orientis, aveva ricollocato l'illirico sotto il suo dominio, con l'assenso del fratello), sconfissero a Fossombrone quelle ducali.

Paolo Diacono così racconta la vicenda:

Al tempo in cui Arechi, duca di Benevento, perì, i romani elaborarono un subdolo piano per prendere possesso dei suoi domini. Essi si inventarono che Arechi avesse ceduto la tutela del figlio, il quale aveva la mente ottenebrata dalla pazzia, a loro. Teudelapio di Spoleto giunse in aiuto dei beneventani, ma giunse troppo tardi. Bernardo il duca dei goti aveva già sconfitto in Alife i longobardi e maritato la figlia Adelmara con Aione, il quale in nulla si avvedeva di esser stato raggirato dalla nequizia dei nemici di suo padre.

I romani posero inoltre molte guardie intorno al nuovo duca dei beneventani, affinché nessun longobardo potesse porre fine alla sua triste vita e trovare così un pretesto per scacciarli. Volle tuttavia la Provvidenza che molti dei guerrieri goti salpassero in quel torno di tempo per l'oriente. Teudelapio di Spoleto dunque attaccò i romani, ponendoli in rotta a Fossombrone; molto territorio dei Beneventani si prese, sin oltre Larino e pose sotto la tutela del figlio Atto, che venne fatto così duca d'Ortona e di quelle zone.

Per converso, Bernardo intrattenne rapporti sempre più cordiali con re Adaloaldo e Grimoaldo del Friuli, che durante il suo dominio perse il suo ruolo di centro di resistenza anticattolico e anti-imperiale (a vantaggio di altri ducati come Brescia o Trento).

Come Atanagildo prima di lui, Bernardo assocerà a sé figli e alleati nella gestione del potere: Il giovane secondogenito (nato nel 626) Adagildo seguirà inizialmente il padre, per poi trovare stanziamento più o meno stabile in Italia centrale o meridionale, prima a Gaeta, poi a Roselle. Ademiro, il primogenito (nato intorno al 622) troverà posto, affiancato dallo zio franco Sigeberto, in Spagna. In Nordafrica, invece, il goto invierà come esarca il fratello minore di quest'ultimo, Meroveo, con il compito di attaccare di rintuzzare la ribellione degli egiziani monofisiti con le forze di cui poteva disporre.

Tra il 643 e il 644 esplose una nuova rivolta contro il lungo regno di Adaloaldo, questa volta animata da Rotari, duca di Brescia e marito della sorella del re Gundeperga (matrimonio politico voluto dal sovrano alla morte del suo primo sposo, il ribelle Arioaldo). Il temporaneo indebolimento della presa imperiale sulla penisola aveva rinfocolato le posizioni della fazione ariana, spingendole all'azione. Adaloaldo, con i suoi figli affrontò l'usurpatore presso le sponde del lago Gerundo e ne venne sconfitto. Il re riuscì a fuggire, ma i suoi figli vennero uccisi nello scontro. In seguito al rovescio si rifugiò con l'unica figlia Cuneperga a Ravenna, presso Bernardo e Isacio.

Rotari venne proclamato re, per quanto alcuni duchi continuassero ad appoggiare la legittimità dell'esiliato Adaloaldo, che, dal canto proprio, chiese aiuto agli imperiali per riprendersi il trono.

Sempre Paolo Diacono commenta l'accaduto in questi termini:

I molti che avevan giudicato Adaloaldo dimentico del coraggio guerriero del suo popolo e ormai troppo imbelle nei confronti dei romani, trovarono, dopo le gesta di Teudelapio di Spoleto, nuova linfa. Gundeperga, già moglie di quello stesso Arioaldo che s'era ribellato alla genia di Teodolinda, aveva sposato Rotari e lo ammoniva di non finire anche lui come il marito defunto. Quello però non ascoltò e prese le armi contro il re. Ottenne gran seguito e piombò come il fulmine su Adaloaldo e i figli suoi, tanto da indurlo ad abbandonare Pavia. Presso le paludi intorno al lago di Lodi si riunì ai suoi e diede battaglia all'usurpatore. Non ebbe però fortuna, poiché il duca del Friuli, sul quale molto aveva contato, era ancora troppo lontano per giungere in suo soccorso.

Rotari dunque vinse e fu cinto sul campo stesso della battaglia, con la corona che Adaloaldo aveva abbandonato. Molto sangue nobile era stato sparso, non ultimo quello dei figli del re, che in preda al terrore fuggì a Oderzo e di lì a Ravenna. Fu lestamente raggiunto dall'astuta sua figlia Cuneperga, che in quel momento fortuna volle che si trovasse lontano da Pavia.

Isacio poco dopo affrontò Rotari stesso non lontano da Luni, nella battaglia dello Scultenna, venendone sconfitto.
Rotari divenne il nuovo campione della causa ariana, per quanto avesse una certa tolleranza verso il cattolicesimo ormai predominante anche tra il suo popolo. Cercò di attuare una politica accentratrice, che trovò spesso l'opposizione dei duchi, in particolare quelli di Spoleto e del Friuli. In più, fu famoso per essere un sovrano legislatore: promulgò infatti il celebre 'editto di Rotari', che codificava per la prima volta per iscritto le leggi dei longobardi. Per tutta la sua vita cercò di ampliare il dominio longobardo a spese degli imperiali. Bernardo, che peraltro ospitava a Ravenna il deposto sovrano, fece buon viso a cattiva sorte, rintuzzando con efficacia le velleità espansionistiche del nemico (anche grazie all'ambigua posizione di Grimoaldo del Friuli). Il tempo lavorava, dopo tutto, per la sua causa: la guerra con i persiani si era conclusa e i conflitti con i franchi stavano prendendo una piega favorevole: ciò avrebbe permesso a nuove forze di affluire in Italia per prendersi la rivincita. Nel frattempo, era stato celebrato il matrimonio, nel 648, tra Cuneperga e Adagildo, come chiaro segnale politico da inviare a Rotari e ai longobardi tutti.

Nel 652 i tempi erano finalmente maturi: In concomitanza con la morte di Rotari, Ulrige concesse il ritorno di Trasarico con i suoi veterani in Italia, permettendo ai romani di prendersi la rivincita con gli interessi, sconfiggendo a Sovena il nuovo re, Radoaldo.

Questa battaglia costrinse i longoboardi a restituire Luni e i territori liguri appena conquistati all'impero e, in più, cedere la Tuscia meridionale, con Roselle come centro principale. Bernardo decise di nominare Dux del nuovo territorio (più una parte del vecchio: dalla valle dell'Ombrone a quella del Marta) il figlio Adagildo.

Radoaldo non sopravvisse alla disfatta: pochi mesi dopo venne assassinato da un longobardo di cui aveva cercato di violentare la moglie. Adaloaldo colse l'occasione per riprendersi il trono, trovando poca resistenza, oltre che l'appoggio sia di Grimoaldo, sia di Ariperto, figlio di Gunodoaldo (fratello della celebre Teodolinda).

Il secondo regno di Adaloaldo durò solo due anni, ma furono decisivi per il futuro del regno longobardo: infatti pochi mesi dopo la sua riconquista del trono prese la decisione di adottare come erede, contro ogni aspettativa, Grimoaldo, duca del Friuli. Per Bernardo fu un grande smacco, poiché si aspettava che la successione fosse stata garantita ad Adagildo, grazie al matrimonio con Cuneperga. Secondo Paolo Diacono la scelta del re fu invece oculata; evitò infatti di esacerbare gli animi della corrente ariana che, per quanto indebolita dai recenti avvenimenti e dal lento, ma inesorabile percorso di romanizzazione dei longobardi, era ancora ben viva.

Nel frattempo, in quei vent'anni, vi erano stati sommovimenti anche tra goti e franchi, che avevano preso forma in modalità insolite e trasversali. Nel 639 Dagoberto era morto, lasciando il suo vasto regno diviso tra i figli: a Sigeberto III toccò l'Austrasia, mentre al fratellastro Clodoveo II, di soli sei anni, andò Neustria e Borgogna. L'Aquitania era sempre governata dal piccolo Chilperico, figlio di Cariberto II, sotto la tutela di Sigeberto e Audolinda (ai quali era nato nel 624 un figlio, Teodeberto). Ovviamente sotto la spinta del suo 'maggiordomo', il bambino di nove anni avanzò pretese dinastiche sull'Austrasia, in quanto cugino di Clodoveo e sulla base del fatto che Ragnetrude, madre di Sigeberto, non era moglie legittima di Dagoberto, ma solo sua concubina. A questo fatto si aggiunse la ribellione di Radulfo, duca di Turingia, che alla morte del suo re si era dichiarato indipendente. Dopo la battaglia di Wogastisburg, le regioni più orientali dell'Austrasia avevano subito un forte indebolimento, sotto la pressione dei serbi da est e dei sassoni da nord. Questa situazione indusse il duca a cercare altre vie, rispetto alla sottomissione al proprio sovrano, per mantenere i propri territori.

Nello specifico, cercò e trovò l'alleanza con i Silingi, popolo – o, meglio, confederazione tribale – di stirpe germanica orientale che aveva radunato per aggregazione, i vari stanziamenti residuali tra Slesia, Warta e Vistola, risalenti al periodo precedente alle grandi migrazioni verso l'impero. Già nel 640, i serbi, impegnati ad espandersi in Boemia, avevano trovato una sconfitta di fronte a questa nuova alleanza tra i popoli a nord-est e a ovest dei loro domini. Nel 641, quando Sigeberto III (o, piuttosto, Grimoaldo dei pipinidi) mosse guerra a Radulfo, quest'ultimo riportò, anche grazie ai suoi nuovi amici, una grande vittoria. Così racconta Fredegario:

Radulfo conte di Turingia, aveva grandemente difeso le terre d'Austrasia sino a quel momento dai sassoni e da tutti gli altri barbari. Morto che fu Dagoberto, non riconobbe l'autorità del figlio suo avuto da Ragnetrude, poiché ella non era sua moglie legittima. In verità, però, egli meditava di fare da sé e ribellarsi dell'autorità dei re dei franchi, ma temendo ancor troppo Dagoberto esitava. Dalla grande battaglia contro i serbi egli aveva goduto dell'amicizia della pagana stirpe dei Silingi, antichi parenti di Genserico il vandalo, empio saccheggiatore di Roma, che non avean seguito attraverso il Reno e da lì nelle Gallie, in Ispagna e da ultimo in Africa, contro i mauri. Ad essi pare si fossero uniti anche i figli dell'erulo Odoacre, in fuga dai goti al tempo di Teodorico. Essi eran divenuti un popolo forte e temuto dai venedi e dai sassoni. Fino a quel momento, tuttavia, i nostri re non li avevano tenuti in nessun conto, poiché parevano troppo feroci in guerra e impossibili da convertire alla vera fede, quanto e peggio dei sassoni che depredavano la Frisia.

Radulfo a quel punto si fece incoronare 're' in Turingia e anche i silingi accettarono in un primo momento la sua autorità o, quantomeno, di farsi battezzare secondo il rito romano (essi erano prevalentemente pagani o superficialmente ariani).
Sia Clodoveo II, sia Chilperico d'Aquitania (o, piuttosto, chi ne muoveva i fili) pretesero il trono d'Austrasia. I primi scontri per l'egemonia dovettero attendere il 647, quando l'esercito visigoto, riformato sul modello imperiale, poté intervenire; nel frattempo i nobili austrasiani, insoddisfatti, l'anno precedente avevano rovesciato il maestro di palazzo Grimoaldo e l'avevano consegnato a Clodoveo II.

Quest'ultimo, per fronteggiare la minaccia proveniente da sud e allungare nel contempo le mani sul nord, aveva teso la mano a Radulfo, promettendogli, in cambio del suo aiuto, il trono di Borgogna.

Il loro aiuto fu essenziale nella battaglia che seguì a Chalon, nel 649, in cui i turingi, assieme ai silingi, sconfissero nuovamente gli Austrasiani presso Magonza, catturando lo stesso Sigeberto III.

Nel frattempo, a Chalon, nello stesso anno, l'esercito neustriano si scontrò con quello aquitano (rafforzato da truppe gote) e la vittoria arrise a Chilperico d'Aquitania. Radulfo a quel punto si lasciò ingolosire: trattò infatti con Sigeberto per spartirsi il dominio franco.

Si sarebbe preso le corone di Austrasia e Borgogna, mentre la parte avversa avrebbe ottenuto la corona di Neustria e la Provenza. Sempre Fredegario collega l'esito di queste lotte con una sedicente profezia data in punto di morte da una vendicativa Brunechilde, in esilio a Toledo.

Nello stesso anno due battaglie decisero la sorte dei re d'Austrasia e Neustria insieme. Entrambi vennero malamente sconfitti: l'uno dai barbari silingi comandati da Radulfo l'astuto e l'altro dai goti di Ispagna, che combattevano per Chilperico, figlio di Cariberto. Ma in tutta l'Aquitania certo era Sigeberto nipote di Brunechilde che si teneva in maggior conto. Un empio terrore si era generato negli uomini di Clodoveo e si era così avverata la profezia di Brunechilde, che prima di morire aveva promesso ai nipoti suoi che non avrebbero tardato a lungo prima di riprendersi il maltolto.

Le due parti quindi si accordarono per una spartizione che consegnava l'Aquitania nelle mani di Chilperico e riconosceva Radulfo come sovrano legittimo in Austrasia, mentre Teodeberto sarebbe divenuto re di Neustria; in cambio però, Grimoaldo il pipinide sarebbe stato liberato e reintegrato nel suo ruolo di maestro di palazzo (questa clausola fu particolarmente difficile da digerire per Radulfo, ma alla fine accettò) e la Provenza sarebbe passata nella mani dei goti di Spagna e, quindi, dell'impero.

Quest'ultimo, in particolare, fu un grande colpo per l'impero, che così si vedeva garantito un collegamento via terra dalla Spagna all'Italia. Sigeberto III fu tonsurato e mandato in in un monastero, mentre Clodoveo II riuscì a fuggire in esilio in Inghilterra.

Il dominio di Radulfo sull'Austrasia non era però destinato a durare a lungo. Nel 652, Grimoaldo guidò una ribellione, presumibilmente orchestrata da Teodeberto, per restituire il potere al legittimo sovrano. L'evento che spinse il pipinide ad agire fu una ribellione dei silingi contro Radulfo scatenata da ragioni sia religiose (una reazione dei capitribù contro l'invasione di clero franco cattolico nelle loro regioni), sia politiche (Radulfo aveva cercato di avvicinarsi ai serbi per timore - fondato, visto che i serbi stessi erano tra i popoli clienti dell'impero - di una alleanza tra questi ultimi e la Neustria). Stretto in una temibile morsa, Radulfo venne ucciso dai silingi conquistavano la stessa Turingia, mentre Sigeberto III veniva ristabilito sul trono dal suo maestro di palazzo. Il prezzo, tuttavia, fu l'adozione a erede di Childeberto, figlio di Grimoaldo. Molto probabilmente Teodeberto non si aspettava tale mossa: a riprova di questa supposizione fu l'invio, che sappiamo indirettamente dalla cronaca di Ulrige, di una missione del clero di rito galata presso i silingi, segno evidente di un cambio delle alleanze:

Dopo molte discordie, per le grazie dei buoni goti di Ispagna, i serbi fecero pace con i loro nemici, su nel nord; questi ultimi, da pagani ed eretici che erano, accettarono il verbo di Dio da parte nostra, cosa che non era riuscita ai franchi, troppo tracotanti, dediti al vino e adulteri.

Ad ogni buon conto, Sigeberto morì già nel 656 e il figlio, Dagoberto II, seguì un destino molto simile a quello del padre, ossia spedito in esilio in un monastero in Scozia.

A quel punto Teodeberto decise di muovere apertamente guerra a Grimoaldo. Non dovette tuttavia muovere alcun esercito: furono gli stessi nobili austrasiani che, timorosi dell'intervento neustriano, oltre che in difficoltà per la potenziale minaccia dei silingi, deposero l'usurpatore e lo consegnarono a Teodeberto, il quale si sposò in seconde nozze con Bilichilde, figlia di Sigeberto III. In cambio, la nobiltà austrasiana chiese di poter essere ancora governata da un proprio re. Venne così richiamato dalla Scozia nel 658 il piccolo Dagoberto. I nobili austrasiani pensavano in questo modo di aver ottenuto il riconoscimento delle loro usuali prerogative, grazie all'ennesima nomina di un re bambino, ma, ormai, i tempi erano cambiati. L'alleanza della Neustria con l'impero, i serbi e i silingi (di cui conosciamo, per questo periodo, anche il nome del primo re cristiano di rito galata: Gheilariso) metteva Teodeberto nella condizione di controllare ogni ambizione autonomista dell'aristocrazia franca d'Austrasia e, lentamente ma inesorabilmente, privarla di ogni potere. Egli stesso divenne maggiordomo per Dagoberto II e quest'ultimo, nel 662, fu costretto ad accettare l'adozione a erede di Teodorico (III), figlio di Teodeberto e Bilichilde nato l'anno prima.

Nel frattempo, appena giunto alle soglie della maggior età, Costante II mostrò sempre maggior insofferenza per la reggenza di Ulrige e, in generale, dell'ingombrante genia di Atanagildo.

Una delle ragioni per cui lo storico Varenne Fildòr ascrive a lui e non ad Eraclio la riforma tematica è da ricercarsi proprio nella volontà di arginare il potere dei goti all'interno dell'impero. Inquadrare in un preciso assetto amministrativo la 'gestione familiare' assunta dai figli di Atanagildo sulla pars occidentis gli avrebbe quantomeno restituito qualche margine di manovra su di essi.

Altri oppongono alla sua teoria il fatto che tale ragionamento possa essere benissimo utilizzato al contrario, ossia che l'ingombrante presenza di Ulrige a Costantinopoli avrebbe potuto impedire qualsiasi manovra ideata da Costante che potesse apertamente danneggiare la sua base di potere.

Ciò detto, sappiamo per certo che i temi vennero prima introdotti in oriente (Si ha notizia del tema degli opsiciani, di quello anatolico, di quello armeniaco e di quello siriaco), mentre in occidente la struttura 'a esarcati' era ancora in piedi nel VIII-IX secolo.

Altrettanto certo è che il decisionismo di Costante abbia, almeno dal 648, indebolito gradualmente la posizione di Ulrige in oriente. Alcuni storici moderni suggeriscono il ritorno o, piuttosto, l'afflusso di nuove forze 'occidentali' in Italia contro i Longobardi o in Aquitania contro i Franchi sia dovuta non solo o non tanto ad una diminuzione della pressione al confine con l'impero sassanide, ma a precisi ordini imperiali, volti a 'fare pulizia' di ogni milizia fedele al suo ingombrante tutore almeno in Asia minore e in Siria.

Uno dei primi provvedimenti da ascrivere certamente all'imperatore fu il contestato Typos, l'editto imperiale che vietava di esprimersi esplicitamente a favore o contro la teoria sull'unica volontà di Cristo. A quanto sostiene la 'storia breve' di Niceforo patriarca:

“Egli [l'imperatore] sperava in questo modo di esacerbare l'animo di Ulrige, il quale, come tutti i galati, era nascostamente ariano; in questo modo voleva inoltre ingraziarsi gli egiziani, ancora pervicacemente ribelli. Si dice che, non fosse stato il principe dei goti e dei galati a impedirlo, Costante avrebbe ordinato di far assassinare il papa di Roma. Il pontefice Martino aveva infatti convocato un concilio in cui aveva condannato l'editto dell'imperatore come errato, così come la dottrina dell'unica volontà e dell'unica natura.”

È molto probabile che l'imperatore fosse spinto all'uso delle maniere forti sull'obbedienza al suo editto proprio per proclamare il suo potere e la sua autonomia decisionale, per quanto lo scopo dichiarato fosse apparentemente quello di una riconciliazione con i copti.

Nel 652 Costante ebbe l'occasione per la prima volta di usare la forza. Con una vasta flotta, salpò alla volta di Alessandria per reprimere le ribellioni che ancora stavano animando la provincia egiziana. Uno dei suoi primi gesti fu la decapitazione del patriarca monofisita Beniamino. Naturalmente questo determinò una recrudescenza delle rivolte, tutte represse con durezza. A quanto sembra, l'esercito gli rimase tuttavia fedele, preso da uno zelo quasi fanatico all'imperatore.

Avvantaggiato dalla quiete sul fronte mesopotamico e armeno, approfittò per organizzare una vasta campagna in Arabia. Nel 654 l'esercito si spinse lungo la costa del mar Rosso, sostando in diversi centri carovanieri, sino a giungere a Yatrib, dove dovette affrontare i primi seri scontri con gli arabi maomettani. La città venne infine conquistata, ma, invece di proseguire per la Mecca e distruggere i Quraishiti, come era nelle sue intenzioni, ritenne più prudente ritirarsi a causa dell'impreparazione dell'esercito a quei climi e quelle temperature. Lasciò comunque delle guarnigioni nei centri conquistati, con la promessa di rendere più costante e capillare il dominio sulla regione. Costituì il tema di Arabia e, come un novello Costantino, nel 655 fece ricostruire Petra (rinominandola Eraclea in onore del padre), dotandola di un forte e attuando una ripopolazione forzata con deportazioni dalle località arabe conquistate e, soprattutto, dall'Egitto. In quegli anni, dopo aver usato il pugno duro Costante II tentò di tornare sui propri passi e attuare una politica conciliatoria nei confronti del monofisismo, scatenando però, per converso, tumulti e malumori nelle provincie ortodosse dell'impero. Teofane addirittura sostiene che Costante II si fosse convertito, ma che per timore di coagulare troppe forze contro di lui, mantenesse un contegno riservato in tema di fede:

Costante imperatore, ebbro delle sue conquiste, rinnegava Costantinopoli e preferiva dedicarsi alle provincie d'Arabia, da lui appena conquistate. Diede il nome del padre suo Eraclio alla città di Petra, un tempo tra le maggiori d'Arabia, ma che al tempo giaceva in stato di rovina e abbandono. Troppo tempo però era rimasto in Egitto e certo, mentre ne perseguitava l'eretica gente, ne aveva udito i discorsi. In qualche modo ne era rimasto affascinato, al pari di Teodora moglie di Giustiniano. Egli si manteneva nei modi e nelle intenzioni in tutto ortodosso, ma si diceva che segretamente si fosse fatto monofisita. Il popolo della capitale ne fu in tutto certo quand'egli decise, stanco delle continue dicerie e pettegolezzi, di recarsi in Alessandria e lì rimanere in perpetuo, spostando tutta la corte in Egitto.

Deluso e amareggiato, stando alla fonte, prese dunque una decisione inaudita, probabilmente già meditata da tempo: spostare la sede della corte da Costantinopoli ad Alessandria (probabilmente imitando la volontà di Eraclio, che secondo alcuni avrebbe desiderato spostare la capitale a Cartagine). Altrettanto deluso e amareggiato, Ulrige, assieme alla sua famiglia, decise di non seguire l'imperatore e tornare a Resobria, come viene sottolineato dal cronista Teododersio.

Intanto, altre forze nelle steppe erano all'opera, in grado di ribaltare nuovamente tutti gli equilibri raggiunti. Intorno al 650 i Chazari, approfittando delle divisioni interne sorte nel clan egemone dei Dulo alla morte della carismatica figura di Kubrat, sconfissero i bulgari, che fino ad allora avevano dominato le pianure a nord del Mar Nero. Questo evento spinse diverse tribù bulgare verso ovest, portandole presto a contatto con gli alleati dell'impero bizantino. Ad aprire la strada furono i clan guidati da Kuber (sulla cui reale esistenza ancora si dibatte, tra gli storici) che passarono a nord dei Carpazi per giungere nella valle del Tibisco intorno agli anni '60 del 600. Qui trovarono una popolazione prevalentemente slava (per quanto alcuni degli insediamenti più grandi lungo il fiume fossero istroromanzi). Essa obbediva tendenzialmente al 're' degli Anti, ai quali pagava un tributo. Quest'ultimo non si fece pregare, accogliendo con la forza i nuovi venuti. Sorprendentemente, i bulgari, pur in inferiorità numerica, sconfissero nettamente i nemici, che si dovettero 'ritirare sulle montagne da cui erano venuti', stando a quanto dice la cronaca di Sant'Ulrige. Va detto che Ulrige – che, anche senza il riconoscimento di Costante II, si era associato al potere il figlio Teodoro (nome tipicamente greco, evidentemente voluto dal padre per rivendicare la sua appartenenza alla famiglia imperiale) – non vedeva di malocchio il ridimensionamento degli Anti, i quali si stavano rivelando sempre più fastidiosi per i galati a causa della loro progressiva infiltrazione presso la sponda orientale del Danubio. Sembra che lo stesso sovrano gotogallo abbia tentato di intrattenere rapporti cordiali con Kuber e abbia spinto Stefano, citato da Teododersio come 'dux pannoniae' a fare altrettanto. Nonostante ciò, sappiamo da altre fonti che i rapporti tra gli istroromanzi di Pannonia i bulgari furono tutto meno che amichevoli in un primo tempo; addirittura si creò una 'strana alleanza' tra pannoni e gepidi della Sirmia per scacciarli ma, a quanto pare, senza successo.
Fu però dopo la morte di Costante II, nel 668, che una seconda e più grande ondata bulgara si abbatté sulla penisola balcanica. Guidati da Asparuh, essi premettero in maniera sempre più intensa sulle tribù slave che occupavano l'antica Dacia Romana e le pianure del Danubio. Gli Anti chiesero l'ausilio dell'impero, ma esso, con la scusa della difficile situazione interna, si limitò a presidiare il limes Danubiano. Dopo un decennio di lotte, gli antichi alleati dell'impero contro gli avari soccombettero all'urto; i superstiti fuggirono oltre il Danubio e si insediarono nella valle del fiume Margo (o Morava, per gli slavi), con l'approvazione di Costantinopoli.

Alla morte di Costante II, gli successe il figlio Costantino IV. Per la prima volta, un imperatore non veniva incoronato dal patriarca di Costantinopoli, ma da quello di Alessandria. Non solo, egli non scelse il patriarca dei greci, ma il patriarca monofisita dei copti, Agatone. Questo voleva sin da subito essere un chiaro segnale, quasi una professione di fede, che lasciò stupefatta persino la corte. Nonostante non osasse fare aperta professione di fede monofisita, agli abitanti della seconda Roma appariva sempre più chiaro che il nuovo sovrano non aveva intenzione di spostare la capitale. Questo gli alienò molte simpatie, tanto da scatenare una serie di rivolte in molte provincie dell'impero, in particolare in Asia minore. Con una decisione non minore di quella paterna, volle stroncare ogni focolaio di ribellione personalmente, con brutalità ed efficienza. Nel 673 ogni aperta sfida al suo dominio era stata distrutta. Per rinsaldare ulteriormente la presa degli uomini a lui fedeli sulle provincie più riottose, provvedette a una riorganizzazione dei temi (i quali, con grande scontento, vennero estesi anche al nord Africa, alla Grecia al Sud Italia e persino alla Spagna), oltre alla nomina di molti strateghi provenienti dall'Armenia e dalla Siria. Infine, decise di dare atto a spostamenti di popolazioni, per creare dappertutto centri a lui fedeli, non escludendo l'occidente dalle sue manovre. In apparente contrasto con questa linea, non volle (o, forse, non osò) disconoscere il dominio dei goti sull'occidente. Troppo grande era l'impalcatura creata a suo tempo da Atanagildo e ora, arrivati alla generazione dei suoi nipoti, l'impero era giunto alla situazione di non poterne fare a meno. Confermò nella carica di esarca di Spagna Adalberto, ed esarca di Africa Bertrando (figli di Ademiro), mentre Adagildo venne ufficialmente nominato Esarca d'Italia. Infine, insignì Teodoro del titolo di Caesar pars occidentis. Si creò dunque una sorta di strana 'diarchia', in cui vi erano degli strateghi fedeli a Costantino che dovevano convivere con gli esarchi goti ed il loro seguito. Teodoro però, degno figlio di Ulrige e nipote di Atangildo, decise di fare lo stesso gioco del suo – ormai è il caso di chiamarlo tale – rivale. Prese infatti dimora a Costantinopoli e, lentamente ma progressivamente, si guadagnò un forte seguito nella capitale e a Tessalonica, oltre che nei temi anatolici, che mal digerivano il criptomonofisismo dell'imperatore. In questo clima di pericolosa tensione, Costantino nel 675 decise comunque di portare avanti il suo grande progetto di conquista. Le vittime designate furono i regni nubiani di Nobazia, Makuria e Alodia. Se il primo venne sottomesso abbastanza rapidamente, per gli altri due fu un'altra storia. Essi si allearono contro l'esercito imperiale e in più di un'occasione rischiarono di farlo soccombere grazie alla maggior conoscenza del territorio. La perseveranza dell'imperatore ebbe infine la meglio e, dopo un lungo assedio, Dongola, la capitale di Makuria, cadde l'anno successivo. Il figlio del re, Mercurio, venne preso in ostaggio dall'imperatore e battezzato nuovamente con il nome di 'Costantino'. La marcia verso sud, tuttavia, non si fermò. I sovrani del regno più meridionale si erano erroneamente convinti che dopo la difficile conquista l'esercito imperiale si sarebbe accontentato della riscossione di un forte tributo e sarebbe tornato a nord. Di fronte all'inaspettato spiegamento di forza e resistenza, Soba, la capitale di Alodia, decise, per evitare inutili spargimenti di sangue, di aprire le porte al nemico. Questo, però, per Costantino era solo l'antipasto: l'obiettivo vero della grande marcia lungo il Nilo era di entrare in contatto con il regno etiope di Aksum. L'inclemenza delle condizioni climatiche e la difficoltà di approvvigionamento mietevano sempre più vittime per cui, a malincuore, l'imperatore venne convinto, finalmente a ritirarsi,al principio dell'anno 677. Ovviamente, l'obiettivo ultimo dell'imperatore era il monopolio della via commerciale del mar Rosso, con il controllo di tutti i principali scali(di mare o di terra) su entrambe le sue rive. In attesa del possesso diretto, per il momento poteva bastare anche una sottomissione formale. Una volta rassegnatosi all'idea di ripartire per Alessandria, accettò la visita a Soba di ambasciatori di Degne Mikael, il sovrano etiope. La realtà, di cui forse Costantino non si rendeva conto, era che il regno che aveva intenzione di conquistare iniziava proprio in quel periodo a versare in una condizione di ristagno economico, a cui facevano seguito le prime difficoltà militari. Il trattato di amicizia e alleanza commerciale che ne derivò venne reputato estremamente vantaggioso per l'impero, ma, forse, lo era ancor di più per Aksum: era vero che i mercanti egiziani e gli arabi della Petrea sarebbero stati esentati da dazi, ma era anche vero che il volume di affari nel regno aksumita si sarebbe enormemente accresciuto, permettendo nuova circolazione di moneta sonante nelle sue casse.
Del resto, come Costante II non aveva lesinato sul rinnovamento urbanistico di Petra/Eracleopoli, allo stesso modo, Costantino IV non lesinerà sull'invio di tecnici e artisti per la costruzione di chiese, strade, ponti e acquedotti in Nubia. Anche questo ebbe l'effetto, indiretto e non previsto, di rafforzare economicamente proprio Aksum: venne infatti edificata una strada carovaniera da Soba alla capitale Etiope e da lì al porto di Adulis, sempre in mano ad Aksum; quest'ultimo era uno dei principali terminali commerciali della via marittima verso l'India.
Prima del suo definitivo ritorno a nord, per quanto paia paradossale, il figlio del nemico sconfitto, Mercurio 'Costantino', venne insignito del titolo di 'Esarca di Nubia' e, affiancato da una forte guarnigione comandata da uno stratego, gli venne permesso di governare da Dongola in nome del suo nuovo signore (e padrino).

Non è un caso che i regni di Costante II e di Costantino IV siano caratterizzati da una serie di fortunate campagne espansionistiche. Ciò fu reso possibile anche dai coevi impegni dell'impero sassanide in oriente. Ashina Helu, leader del Khaganato degli Onoq, penetrò sino in Battriana e Sogdiana, assoggettando i popoli ivi dimoranti; spinse dunque gli Oghuz ad attaccare l'impero persiano, costringendolo ad una serie di difficili guerre per fronteggiare tali incursioni. Nel 657, però, quasi all'improvviso, tali problemi vennero meno, allorché il generale cinese Su Dingfang sconfisse pesantemente Ashina Helu ed estese il dominio della dinastia Tang verso occidente. A quel punto, il regno di Ardashir III si volse al contrattacco, penetrando in Transoxiana ed entrando in contatto, attraverso la via della seta, con le guarnigioni più occidentali dell'impero cinese. Ciò ebbe forti influssi sia economici, sia culturali e permise la diffusione del nestorianesimo sia tra i turchi, sia in Cina; viceversa, il buddhismo penetrò ulteriormente verso occidente, in particolare in uno degli stati 'figli' del Kahaganato turco occidentale, ossia il regno dei Chazari. Tra gli anni '50 e gli anni '70 del 600, tra chazari e persiani si conteranno diversi conflitti, probabilmente alimentati, almeno in parte, dal desiderio sassanide di entrare nel Caucaso.

Ciò avrebbe permesso loro di aggirare l'impero romano e portare avanti un attacco combinato sia dall'Anatolia, sia dalle steppe pontiche. Ciò nonostante, l'effetto di tali scontri fu proprio quello meno desiderato da Ctesifonte: Costantino IV, infatti, cercò di legare a sé questo popolo attraverso trattati di alleanza, secondo una strategia già portata avanti in precedenza da Eraclio. Alcuni storici moderni mettono in relazione l'ostinazione dell'imperatore nel voler sottomettere la Nubia e le propaggini del corno d'Africa con la sua politica di amicizia verso la Chazaria, ritenendo si trattasse di una grande strategia volta ad avere maggior controllo delle vie di comunicazione con l'oriente, proprio nel momento in cui l'impero cinese raggiungeva la sua massima espansione verso occidente. La tesi è avvalorata dal fatto che l'imperatore cercò, tra il 670 e il 680 di estendere la propria influenza sulla parte sud-occidentale della penisola arabica, stabilendo relazioni con Himyariti e Hadramauti. Addirittura, in alcune iscrizioni arabe dell'epoca, Costantino IV viene salutato con il titolo di 'Mukarrib', ossia di 'unificatore', segno evidente che quella che viene sbrigativamente interpretata da Teofane come una 'richiesta di tributi in seguito a campagne di pacificazione della nuova provincia d'Arabia', fosse stata ben di più per gli arabi.

Nel frattempo, la situazione in Italia si stava evolvendo rapidamente. Sorprendentemente (o, come sostiene Paolo Diacono, illegittimamente) Adelmara aveva dato una figlia ad Aione, che venne chiamata Romilda. Essa venne fatta sposare nel 668 a Romualdo, figlio di primo letto di Grimoaldo, cui il padre aveva affidato il controllo del ducato del Friuli in sua vece. In pari tempo Roderico, figlio di Adagildo e Cuneperga, si sposò con Aldeberga, figlia di Ariperto, duca di Asti. La dinastia atanagildiana non aveva però alcuna intenzione di abbandonare la propria presa su Benevento. In occasione del doppio matrimonio, venne dunque stabilito tra Grimoaldo e Adagildo uno scambio: Aldeberga avrebbe ceduto i suoi diritti sul ducato astigiano (tra i principali della Neustria longobarda) a Romualdo, mentre Romilda avrebbe ceduto i suoi sul beneventano a Roderico. Così riporta Paolo Diacono:

Adelmara, della stirpe dei goti, diede dunque una figlia ad Aione, cui venne dato il nome di Romilda. Non pochi credettero che la creatura fosse progenie di altri e non del duca di Benevento, ma poiché greci e goti ne avevano interesse, minacciarono di morte chiunque dicesse ad alta voce la verità. Si dice inoltre che alle serve della duchessa venisse barbaramente tagliata la lingua, di modo che, se interrogate, quelle rimanessero mute. Di chi ella fosse figlia, nessuno lo sa per certo, ma chi osò sfidare il perfido divieto, confessò il segreto ai monaci di San Michele sul Gargano. Essi assicurano Romilda essere figlia di Adagildo stesso, che usò violenza alla sorella, non si sa se per calcolo o mera lussuria. La giovine di cui tutti ammiravano la beltà, venne promessa dallo zio a Romualdo, figlio di Grimoaldo. Roderico, figlio d'Adagildo, che già aveva fama di prode, stava per maritarsi con Aldeberga, figlia d'Ariperto duca di Asti. Morti i fratelli suoi, ella sola infatti era erede del più grande e bello dei ducati di Neustria. Il capo dei goti propose al re uno scambio di doti tra parenti, poiché da gran tempo voleva avidamente Benevento per sé. Da uomo d'onore, Grimoaldo fidò in Adagildo e accettò: Asti sarebbe dunque stata dono di nozze per Romualdo.

L'accordo tenne sino alla morte del re longobardo, nel 671. A questo punto infatti, Roderico, forte del sostegno imperiale dei goti, pretese nientemeno che il trono di Pavia, contro Romualdo.
Quest'ultimo, affiancato dalla nobiltà dell'Austria longobarda e dai duchi di Tuscia, Spoleto e Ortona, ebbe inizialmente la meglio, sconfiggendo presso Mantova Roderico, che fu costretto a ritirarsi a Ravenna. Il trionfo, per Romualdo, non durò però a lungo: i franchi di Neustria, guidati da Teodeberto, l'anno seguente valicarono le Alpi e gli inflissero una sconfitta. A quel punto, molti nobili neustriani, rimasti fino a quel momento neutrali nel conflitto, decisero di allearsi con Roderico, anche per timore di vedersi sostituiti da nobili franchi in caso di vittoria di quest'ultimo. Questo determinò la sua riscossa e la vittoria definitiva contro il figlio di Grimoaldo nella battaglia di Verona nel 673. In questo modo anche Pavia finiva tra le corti nelle mani della dinastia atanagildiana (per quanto il suo controllo effettivo sul territorio fosse ancora tutto da costruire, in particolare per quanto riguarda Friuli, Tuscia e Spoleto). Il rovescio della medaglia era che l'occidente non era affatto 'unificato' in senso propriamente imperiale, quanto piuttosto retto da una rete di rapporti personali e familiari molto labili e potenzialmente facili a deteriorarsi.
Il primo segno di tali dinamiche avvenne nel 675, quando Teodoro decise di associare al potere suo figlio Tommaso, avuto da Zoe, figlia di una famiglia aristocratica bizantina. Pur avendo fatto esattamente come sue padre, questa volta, in seno alla dinastia atanagildiana si creò dissenso. Roderico infatti contestò il diritto di Tommaso di succedere al titolo di rex gothorum et gallorum, che sembrava ormai il preludio all'investitura a cesare. Oppose infatti il ragionamento che solo il detentore di Ravenna e, ancor di più, il possessore dell'antica capitale imperiale, Roma, potesse ambire a quest'ultimo titolo. A questo punto, Costantino IV si inserì astutamente nella contesa, ribadendo che la pars occidentis non era indipendente, ma in tutto e per tutto parte dell'impero e che il dominio eminente su di essa era comunque suo. La carica di cesare non era dunque né trasmissibile agli eredi (ma concessa a discrezione dell'imperatore), né dipendente dal controllo di una determinata e particolare città, per quanto importante. Lasciò però credere di avere effettivamente intenzione di tornare sui suoi passi e addirittura destituire Teodoro.
Teofane in questo passaggio non da' adito a dubbi: non si trattava altro che di tattica.

L'imperatore Costantino volle in quell'anno stabilire chiaramente il suo potere presso i barbari. Egli decretò dunque che il titolo di Cesare d'occidente a lui e lui soltanto spettava di concederlo e poteva darlo o toglierlo secondo le sue ugge. Fece intendere a Teodoro il goto che volesse strapparglielo e affidarlo al parente suo che dominava in Italia in nome dei romani, Roderico. In verità voleva che i goti s'uccidessero tra loro e s'indebolissero, poiché a suo dire s'erano fatti tracotanti e non tenevano più in nessun conto il nome dell'imperatore né in pace, né in guerra.

A questo punto Roderico, garantitosi nel frattempo l'appoggio del cugino Adalberto e del franco Teodeberto, decise di sfoderare l'arma della religione. Convinse infatti il pontefice Adeodato II a mettere in dubbio l'ortodossia del rito galata attraverso la condanna degli scritti di Deiotaro di Maronea, teologo della fine del V secolo e venerato come santo. L'oggetto del contendere erano in particolare alcuni passi in cui egli ribadiva il fatto che Cristo teoricamente avrebbe potuto anche peccare, per il fatto di avere una volontà pienamente umana, quindi libero di farlo; degna di lode è dunque la Sua perseveranza sul cammino della giustizia, sino al sacrificio redentore di sé sulla croce.
Tale era stato spesso usato durante tutto il VII secolo come arma teologica contro il monofisismo e soprattutto il monotelismo, ma era anche passibile dell'accusa di essere 'arianeggiante', o peggio, duofisita (quindi potenzialmente filopersiano).
L'imperatore colse la palla al balzo e decise la convocazione di un concilio ecumenico ad Alessandria per il 677. L'andamento dei lavori fu pilotato in senso anti-galata sin dal principio e si concluse in maniera molto teatrale con la scomunica dei metropoliti di Resobria e di Maroduno, oltre che del vescovo di Maronea, di Anchialo e quello di Filippopoli. Ci fu però notevole dissenso da parte del patriarca di Costantinopoli, Teodoro, così come di altri alti prelati dell'Asia Minore, messi in minoranza dalla grande presenza del clero egiziano e armeno. Da copto qual era, Giovanni di Nikiu così narra gli avvenimenti, nelle pagine finali della sua opera:

Per Grazia di Dio, il patriarca nostro Agatone, finalmente smascherò in pubblico l'eresia dei galati, che tentavano di nascondere il loro errore nelle vuote parole del loro capo che stava in Maroduno, Remigio. Teodoro patriarca di Costantinopoli, certo per invidia della santità del venerabile Agatone, rumoreggiò un poco, ma venne tacitato dall'imperatore Costantino che, devotamente, prese atto e approvò le decisioni di questo santo concilio.

Costantino IV aveva conseguito il risultato sperato, ma commise l'errore di volere troppo: tornò a Costantinopoli l'anno dopo e per prima cosa dichiarò deposto il patriarca Teodoro. A quel punto, Papa Agatone emanò una lettera apostolica in cui condannava fermamente il monofisismo e il monotelismo; ciò fece indusse l'imperatore a tentare di 'convocare', con la forza, il pontefice romano nella seconda Roma. Gli inviati imperiali trovarono però l'opposizione di Roderico, che prese le armi contro di loro; presso Orte vi fu battaglia tra lo stratego del tema di Italia e il re dei longobardi. La vittoria di quest'ultimo fu schiacciante: poche truppe si erano infatti unite allo stratego Isacco, che venne ucciso in combattimento.
Il liber pontificalis tratteggia in modo senz'altro parziale, ma comunque interessante, il corso degli eventi:

Isacco, fedele alle disposizioni del nefando imperatore Costantino, decise di prendere le armi contro il pontefice e trarlo in schiavitù. Il nemico della fede fu però vinto e ucciso dal pio Roderico, re dei Longobardi e legittimo Esarca, il quale con grande esercito mosse contro di lui presso Orte. Non importò dunque al pio sovrano subire l'onta d'esser chiamato traditore dell'impero: egli proclamava di non poter chinare la testa ad un padrone eretico e spergiuro.

Questo atto di ribellione condusse Roderico a cercare la riconciliazione con Teodoro contro l'imperatore. Il figlio di Ulrige non ci pensò due volte e accettò: questi eventi gli stavano dando la giustificazione che cercava per un atto di aperta rivolta; motivò inoltre la sua sollevazione con l'illegittimità dell'incoronazione imperiale, fatta da un prelato ufficialmente considerato eretico dal papa.
Costantinopoli era dalla sua parte, ma mancò l'obiettivo più importante, ovvero eliminare il suo nemico, che riuscì avventurosamente a fuggire ad Alessandria. Nel 679 Teodoro reinsediò il patriarca e si fece incoronare imperatore in Santa Sofia, elevando contemporaneamente a co-imperatore Tommaso. A Roderico, rex Langobardorum 'et totius Italiae', come si fece chiamare, concesse il titolo di Cesare d'Occidente, potenzialmente trasmissibile ai suoi eredi. In una fastosa cerimonia si fece incoronare a Roma dal pontefice ed ottenne giuramento di fedeltà da parte di diversi duchi e conti. Adalberto e Bertrando, figli di Ademiro, in cambio della conferma del loro titolo esarcale rispettivamente in Africa e in Spagna, accettarono la sottomissione formale a Roderico.
Narra Teodedersio:

Grande festa fu fatta per le vie di Roma, che sembrava fossero tornati finalmente i fasti antichi. Il papa unse Roderico re di tutta l'Italia e legittimo Cesare dell'impero d'Occidente, molto approvando le buone decisioni di Teodoro, novello imperatore, il quale aveva ridato lustro a Costantinopoli e a tutto il mondo, dopo che la progenie di Eraclio era caduta nell'eresia. Da quel momento ogni pontefice si riservò il diritto di consacrare e santificare il signore della parte occidentale dell'impero.

La contesa però era ancora lungi dall'essere terminata: Costantino, dall'Egitto, tornò a Costantinopoli con un esercito, con tutta l'intenzione di assediare la capitale. Roderico sbarcò con i suoi uomini a Durazzo, con l'intenzione di dare aiuto al parente, ma Teodoro chiese nel frattempo aiuto ai bulgari di Asparuh, che attaccarono a sorpresa l'accampamento di Costantino e ne sconfissero l'armata. Il figlio di Costante, vista la mala parata, decise di levare gli ormeggi e tornare nuovamente ad Alessandria. Da lì si fece riconoscere facilmente come legittimo imperatore da Siria, Palestina e Arabia.
A partire dal 680 iniziò ad attaccare la provincia di Africa: Adalberto non si dimostrò un avversario all'altezza e subì una sconfitta dietro l'altra. Con le truppe egiziane sin quasi a Cartagine, Roderico decise di prendere nuovamente le armi e affrontare direttamente l'imperatore in terra africana. Radunò un esercito composto da longobardi, goti, greci e romani e sbarcò a Tabraca; nella difficile battaglia di Teodoria sconfisse in maniera netta le truppe di Costantino, che furono costrette a ritirarsi.

L'anno seguente passò in una fase di stallo, in cui i tentativi di penetrazione nella Siria da parte di Tommaso venivano rintuzzati dalle forze siriane fedeli all'imperatore e, viceversa, Roderico che riprendeva gradualmente controllo delle coste nordafricane.

A questo punto, per avere ragione del nemico, Teodoro, nel 682 decise di ricorrere all'aiuto dell'atavico nemico dell'impero: i persiani. Ardashir III era appena morto, molto probabilmente assassinato dal suo stesso successore, il figlio Peroz II.
Con il confine orientale apparentemente tranquillo e la situazione interna relativamente stabile, il nuovo shah accettò l'alleanza in cambio della cessione di gran parte dell'Armenia (che, d'altro canto, l'usurpatore nemmeno controllava).
Avuta notizia dell'accordo, da Alessandria Costantino spinse nuovamente all'azione i suoi amici Chazari, sperando di costringere i sassanidi ad una guerra su due fronti.
L'esercito persiano conseguì una prima vittoria nei pressi di Aleppo, che permise nel contempo la conquista di Antiochia da parte delle armate guidate dal co-imperatore Tommaso. Quando la vittoria di Costantinopoli su Alessandria sembrava fosse imminente, Peroz decise di ritirare il proprio ausilio: la situazione delle steppe era nuovamente mutata, con Ilterish Quagan che aveva sottomesso gli Oghuz e gli Uygur, si era ribellato alla Cina e aveva compiuto raid verso le coste caspiche. Allo stesso tempo, sul fronte caucasico i Chazari avevano conseguito un nuovo, netto successo nella battaglia di Darband e Costantino I di Abcasia e Adarnase II di Iberia, alleati (o, per meglio dire, vassalli) rispettivamente di Teodoro e di Peroz, avevano cambiato fronte e si erano sottomessi al khan chazaro Busir Glavan, per non subire anche la contemporanea invasione da parte del comandante armeno Gregorio Mamiconeo. Quest'ultimo, molto astutamente, approfittò della temporanea difficoltà di Costantinopoli e Ctesifonte e giocò in maniera tale da crearsi un vasto principato indipendente, garantito dal vassallaggio ai chazari e riconosciuto, loro malgrado, sia da Teodoro, sia da Peroz II (per quanto il primo provasse a ritagliarsi un margine di azione nella regione stringendo accordi privati con la famiglia dei Bagratidi).
Nel 683 a Damasco venne stabilita una tregua, che stabiliva dei temporanei confini tra i due 'imperi'. Nessuno vide l'accordo come qualcosa di definitivo, ma la morte dei principali protagonisti ne accrebbe la durata. Nel 684 morì Teodoro e più avanti quell'anno Peroz II cadde vittima di un assassinio, sostituito da Yazdagerd II, il primo sovrano cristiano della storia dell'impero persiano. Questo fatto eclatante trovò divise le sette più grandi famiglie nobili dell'altopiano iranico: le casate di Zik e soprattutto di Karen, che contavano molti cristiani al loro interno, appoggiarono l'usurpatore; le casate poste più a oriente, Suren e Varaz, nonostante fossero militarmente influenti, decisero di rimanere neutrali (complice anche il clima di generale tolleranza religiosa, specie verso il buddhismo, delle provincie orientali dell'impero); apertamente contrari furono i clan Spandiyadh, Ispahbudhan e, soprattutto il più potente, la casa di Mihran, che nell'ultimo secolo aveva dato all'impero i suoi migliori generali. Essa alzò il vessillo della rivolta, nominando un proprio Shah, con il nome di Bahram VI.
L'anno successivo morì, probabilmente assassinato da sicari inviati da Roderico, anche Bertrando di Spagna, che iniziava a mostrare segni di insofferenza verso il suo ruolo subalterno.
Infine, nel 685, morì anche Costantino IV, che lasciò il potere al suo diciassettenne figlio Giustiniano II. Per quest'ultimo la frattura dell'unità persiana si poté considerare provvidenziale, oltre che la perdurante amicizia stretta con i Chazari, il cui timore impediva a Tommaso di agire in maniera più aggressiva.
Anche la pars occidentis ebbe la sua frattura: nel 686 Teodorico III, che regnava sull'Austrasia già dal 679, ovvero dalla morte di Dagoberto II, alla morte del padre divenne re anche di Neustria e Burgundia. Solo l'Aquitania, retta da Clotario, figlio di Chilperico, non era sotto il suo diretto controllo; d'altro canto, sembrava solo questione di tempo, in virtù del suo matrimonio con la giovane Clotilde (nata nel 667), primogenita di Clotario. In quell'anno Ardo (nato nel 659), figlio di Bertrando, sposò in seconde nozze Edvige(di dieci anni più giovane), seconda figlia di Clotario. Contrariamente alle aspettative, Ardo, che dal 679 era stratego della Provenza, non era ancora stato insignito da Roderico del titolo esarcale in Spagna. Questo indusse Ardo a chiedere il supporto del cognato per prendersi 'quanto gli spettava'. L'esercito franco attraversò i Pirenei e marciò con decisione su Toledo. Per tutta risposta, il sovrano d'Italia valicò le Alpi in Val di Susa. L'azione era stata però in qualche modo prevista dal re franco. Roderico si trovò di fronte un esercito capeggiato da Clotario d'Aquitania e Sigerico re dei Silingi, alleato con Teodorico. La battaglia si concluse senza un chiaro vincitore, ma certo costrinse i longobardi a ritirarsi verso la costa e dirigersi nuovamente in Italia. Nel contempo la nobiltà iberica si trovò divisa. Mentre Toledo accolse Ardo come proprio sovrano, Ispalia alzò il vessillo della rivolta e con lei tutto il meridione della penisola.
Riorganizzate le proprie forze, Roderico sobillò una vasta coalizione di serbi, bulgari e pannoni contro i silingi, mentre si servì delle forze terrestri e navali africane (tra cui un consistente numero di milizie berbere) per sbarcare in Spagna. Ardo non era in grado di prevenire lo sbarco in quanto non disponeva di una flotta e questo diede l'agio al suo nemico di prendere terra a Malaga nel 688 e stipulare accordi con Wamba, nobile goto che aveva preso il controllo della ribellione contro Ardo.
Nel frattempo, i rapporti tra il sovrano franco ed il suo alleato si stavano già logorando: la nascita di Cariberto III, figlio di Clotario d'Aquitania, porta Ardo a ritrattare sulla cessione della Provenza a Teodorico (prevista in cambio del territorio aquitano a sud della Garonna). La goccia che fece traboccare il vaso fu il fallito tentativo di assassinio del piccolo Cariberto da parte di sicari inviati da Ardo, che indusse il sovrano aquitano a cambiare fronte e schierarsi con Roderico. Secondo il liber historiae francorum, però, la realtà è ben diversa:

In quel torno di tempo, l'astuto Roderico tramò per dividere e confondere i franchi, alleatisi contro di lui per portare sul trono dei goti il pio Ardo. Egli inviò dei sicari per assassinare Clotario e Cariberto sovrani d'Aquitania. Il successo o il fallimento di quell'impresa non gli importava, ché se fossero stati presi, egli li istruì di confessare il nome di Ardo come mandante. E così invero fu: il Cesare dei romani ne trasse più vantaggio che se avessero portato a termine l'impresa.

Che fosse o meno un astuto stratagemma di Roderico (è pur sempre possibile, per quanto improbabile)per vincere il suo nemico, quello che sappiamo è che dopo il voltafaccia di Clotario, Teodorico ben presto lo seguì, prendendo la decisione di abbandonare Ardo al suo destino. Nel 689, con la battaglia di Merida, le truppe di Ardo vennero sbaragliate da quelle di Wamba. Egli venne ucciso e Edvige costretta a risposarsi con Arnaldo, figlio Roderico.

Sempre nel 689 i chazari vinsero una decisiva battaglia a Derbent contro Yazdagerd II, che fu costretto a pagare un forte tributo e allearsi con il khan. A quel punto, nonostante Bahram VI avesse i suoi problemi a oriente contro i turchi, riuscì a stringere alleanza con Tommaso in funzione anti-chazara. Nel 691 Tommaso si decise a muovere le proprie truppe in Armenia contro il nemico. L'esercito tuttavia, composto in buona parte da contingenti alleati di bulgari e slavi balcanici, si ribellò ai propri comandanti e a Sebastopoli subì un gravissimo rovescio. Tutta la penisola anatolica subì saccheggi e devastazioni e, non ultimo, lo stratego Leonzio si ribellò e marciò su Costantinopoli. Nel 693 Giustiniano II, approfittando del caos, armò una potente flotta con la quale, a sua volta, riprendere possesso della seconda Roma. Tommaso si rifugiò ad Amorio, cercando di risollevare le sue sorti con l'alleanza di Simbazio (Smbat), patrizio armeno ribelle al dominio di Gregorio Mamiconeo e Giovanni, ammiraglio della flotta imperiale. La battaglia navale tra sue forze e quelle egiziane presso le acque antistanti Rodi fu molto dura. Giovanni perì nello scontro (o forse nella confusione fu eliminato), ma Apsimaro, di origine germanica, prese le redini della flotta e la condusse alla vittoria. Giustiniano fu catturato e gli fu tagliato il naso. A questo punto si diresse alla volta di Costantinopoli, mentre Tommaso, da Amorio, faceva lo stesso; forte della propria forza navale, Apsimaro, giunto in possesso della città e ucciso Leonzio, si fece però proclamare imperatore con il nome di Tiberio III, mandando a monte qualsiasi piano dell'imperatore di origine gota (cui mancavano le navi necessarie per tentare un rapido colpo di mano). Ma, mentre la lotta tra i contendenti alla porpora imperiale si faceva di giorno in giorno più confusa, Busir Glavan non perdeva tempo. Presso le foci del fiume Hypanis – stando alle fonti bizantine – Asparukh, khan dei bulgari venne sconfitto e ucciso in battaglia dai chazari, che ora minacciavano direttamente anche i possedimenti balcanici dell'impero. Fu in quel momento che Tommaso si rassegnò, pur, secondo diversi autori, a malincuore, a chiedere ausilio al proprio 'cugino' occidentale, Roderico, per ristabilire il proprio potere e correre ai ripari di fronte ad una potenziale invasione chazara:

Il cesare Roderico era cresciuto in superbia e, pur gote che potessero essere le sue origini, egli in tutto si era fatto romano e longobardo. In tutto l'impero era temuto e rispettato ed egli, certo, lo sapeva. L'imperatore Tommaso suo parente era in quel momento in gravi difficoltà, poiché possenti orde barbare giunte dal cuore dell'oriente minacciavano di rendere Costantinopoli un deserto scitico. Eppure egli attese lungamente, prima di chiedere consiglio e aiuto ai valenti guerrieri di Roderico, poiché certo pensava che troppo caro prezzo la sua borsa avrebbe dovuto pagare per quel sussidio. Eppure nulla poteva da solo e, infine, si decise.

Come si evince dal testo della Historia Langobardorum di Paolo Diacono, il giovane Arnaldo sbarcò a Durazzo, con un esercito composto in gran parte di Longobardi, cui si unirono truppe locali balcaniche con il preciso scopo di penetrare in territorio bulgaro e sostenerli nella loro resistenza contro l'invasione chazara. Il figlio di Roderico non poteva sapere che il khan chazaro stava preparando una invasione in grande stile dell'impero, ignaro, o, forse, al contrario, perfettamente conscio delle lotte per il possesso della città.

“Quando l'esercito dei barbari circondò le mura di Costantinopoli, l'usurpatore Tiberio venne preso da grande spavento. Si era convinto, a torto, che il loro signore stesse dalla sua parte, giacché ogni mossa dei chazari era stata a lui benevola. Il panico si impossessò del popolo della città, che marciò sul palazzo invocando il nome di Tommaso imperatore, anche coloro che alla prima ora avevano sputato sulla sua stirpe, giudicandola indegna di sedere sul trono imperiale – come se quella di Leonzio o Tiberio lo fossero di più! 'Che i barbari vecchi scaccino quelli nuovi', molti dicevano per le strade.”

Di fronte ai tumulti, la flotta, fino a quel momento fedele al proprio capitano e baluardo contro qualsiasi nemico, non mosse un dito. Gli stessi capitani, sperando in un accordo, inviarono messi a Tommaso, che in quel momento si era stanziato con i suoi uomini a Hieria, poco lontano dalla capitale, salutandolo come l'uomo della provvidenza. I guai, tuttavia, non erano affatto conclusi: l'esercito armeno, rinforzato con contingenti persiani, probabilmente dietro ordini giunti dal khan stesso, si stavano portando anch'essi verso Costantinopoli, per non lasciare scampo alla città.
Fu una grande fortuna per l'impero che Busir Glavan fosse digiuno di poliorcetica e abilità navali, tanto da non essere in grado di impedire che le forze del restaurato imperatore entrassero in città.
Il tentativo di Arnaldo di spezzare l'assedio fu molto meno fortunato: l'esercito longobardo fu sconfitto; solo una sortita da parte dei difensori di Costantinopoli ne evitò l'annientamento. I superstiti dell'armata, tra cui lo stesso Arnaldo riuscirono fortunosamente a riparare all'interno delle mura.
Il 695 è noto agli storici come 'L'anno del lungo assedio': la seconda Roma resistette, grazie essenzialmente alla propria flotta da guerra, per sei lunghissimi mesi, alla morsa degli eserciti chazaro e perso-armeno. L'eccezionale durata di questo evento bellico si dovette principalmente all'incapacità degli assedianti di tagliare le vie di rifornimento marittime della città e, viceversa, alla pervicace convinzione del khan di riuscire a rompere la resistenza bizantina con la sola pressione del numero.
Tuttavia, alla lunga, i rigori dell'inverno, il depauperamento delle risorse e, soprattutto, il verificarsi di una serie di epidemie all'interno dell'accampamento (anche se i pareri sono discordanti: alcuni cronografi ritengono che la peste sia iniziata all'interno della città e che i difensori abbiano lanciato i cadaveri degli infetti contro gli assedianti come 'arma batteriologica') minarono a tal punto il morale dell'esercito all'esterno delle mure da costringere il khan a togliere l'assedio e tornare nelle sue terre.
Questo evento è narrato in termini entusiastici e semi-miracolosi da molte fonti di diversa origine. In particolare, nel folklore bulgaro, ancor oggi si celebra il 12 ottobre come la festa di San Tervel, quando Tervel, appunto, dopo aver ricevuto una rivelazione di Dio in sogno e aiutato da San Demetrio, si 'vendica' dell'uccisione del padre Asaprukh cogliendo di sorpresa il demoralizzato esercito chazaro in ritirata. Dopo questo fatto, Tervel si sarebbe convertito al cristianesimo come ringraziamento. Per quanto l'ufficiale conversione alla dottrina cristiana della corte sia molto più tarda, questa storia è sicuramente un chiaro indizio della rapida diffusione del nuovo credo presso i popoli bulgari già alla fine del VII secolo.
L'impero si era salvato, ma il colpo vibrato e le sue conseguenze lasciarono profonde ferite che avrebbero necessitato di molto tempo per essere rimarginate.
In primis, la situazione della capitale era pietosa: nonostante la flotta imperiale avesse assicurato i rifornimenti di cereali alla città, c'era stata comunque notevole penuria di cibo, senza contare che la recrudescenza della peste aveva colpito duramente.
In secondo luogo, molte questioni geopolitiche rimanevano in sospeso. Anzi, l'indebolimento improvviso della potenza chazara rischiava di ribaltare in modo radicale molti equilibri in fase di consolidamento.
Senza dubbio, la 'battaglia di San Demetrio' segnò l'ingresso della Bulgaria nel suo primo periodo di splendore. Da un punto di vista linguistico tale situazione portò ad una serie di conseguenze singolari. Nell'impero bulgaro infatti, si affermò una sorta di bilinguismo galatico-slavo: la prima, come lingua 'alta' dell'amministrazione si diffuse persino in zone in cui non era mai stata maggioritaria o, addirittura, presente; la seconda rimase e anzi ampliò il proprio areale come lingua bassa, a discapito delle residue e sempre più marginali parlate neolatine bassodanubiane e della lingua altaica (se non già turcica) originaria dei bulgari. Inutile dire che anche la religione seguì, come già accennato prima, questa tendenza, con l'affermazione sempre più marcata (anche se non ancora esclusiva) del cristianesimo galatico.
La fine di Busir Glavan fu al tempo stesso una buona e una cattiva notizia per il Gregorio Mamiconeo. Se il suo regno armeno dovette, giocoforza, rinunciare a velleità espansive verso ovest e tornare ad una politica di buon vicinato con Tommaso (obbligata, se non voleva perdere il suo predominio sull'area ciscaucasica a danno dei Bagratidi, che comunque da questo momento rappresenteranno un potentato semi-indipendente e una perenne spina nel fianco, dal loro centro di potere nel nord-est), d'altra parte, si liberava da uno status di pesante sudditanza politica nei confronti di un signore alla lunga molto pericoloso per la sua stessa indipendenza.
Del resto, un'Armenia indipendente recuperava senza Chazari la sua ragione d'essere come stato cuscinetto tra l'impero romano e il regno di Yazdagerd II, che di persiano, ormai, sembrava avere solo il nome. Certo, a corte a Ctesifonte si parlava ancora in medio persiano e formalmente lo zoroastrismo non era ancora stato abolito come religione di stato; purtuttavia lo stato stava ricostruendo una propria identità ufficiale scegliendo, come proprio collante ideologico, la religione cristiana di confessione nestoriana. Per logica conseguenza, anche i documenti ufficiali erano sempre più spesso scritti direttamente in lingua 'assira' (aramaica orientale), che, per oculata scelta del patriarcato, era anche lingua liturgica. A sancire in modo ufficiale questa notevole svolta, Yazdagerd II convocò a Ctesifonte, proprio nel 695, una sinodo delle chiese orientali per risolvere alcune ambiguità dottrinali, in maniera non dissimile da quanto avevano fatto numerosi imperatori romani. In particolare, questa fu l'occasione per:

In particolare quest'ultimo punto è quello più storicamente rilevante, in quanto attesta una divisione del cristianesimo orientale tra la parte 'assira' e quella 'persiana', quindi secondo un confine che è anche politico e linguistico.
In secondo luogo tale dottrina rappresenta il primo chiaro segnale di infiltrazione di credenze buddhiste all'interno del cristianesimo. La dottrina dello svuotamento, infatti, sostiene che, per accogliere la natura divina all'interno del corpo-tempio Cristo abbia intrapreso un percorso di diversi anni (di solito si intendono 'due volte sette anni', ovvero quattordici) per raggiungere il pieno 'svuotamento di sé e di liberazione dal desiderio, attraverso il conseguimento di un retto vedere, un retto proposito, un retto parlare, un retto agire, un retto sostentamento, un retto sforzo, una retta concentrazione e una retta meditazione.', una volta raggiunto il quale sarebbe stato pronto per accogliere al suo interno la natura divina e iniziare così i tre anni della sua vita pubblica. Il dolore provato da Dio nel corso della sua predicazione in talune circostanze (come per la morte di Lazzaro)e, in particolare, durante le diverse fasi della sua passione, non deriverebbero da lui stesso, ma sarebbero stati null'altro che l'assorbimento dei dolori umani degli altri intorno a lui (il cui culmine sarebbero i dolori dei suoi carnefici e di tutta l'umanità mortale) di cui progressivamente si fa carico sino al sacrificio.
In terzo luogo, dagli atti della sinodo abbiamo evidenti prove che Bahram VI stesso, avesse appoggiato ad arte la diffusione di questa dottrina all'interno dei suoi domini, per farne quantomeno un contraltare alle autorità ecclesiastiche cristiane ufficiali presenti a Ctesifonte.
Inutile dire che la condanna è in Absentia e che il reo non si fece certo da parte, ma che, anzi, la dottrina tomista (da non confondersi con il successivo tomismo cattolico occidentale) si diffuse sempre più nelle regioni centro-orientali dell'altopiano iranico e anche oltre.
Il danno maggiore causato dalla scomparsa del 'pericolo chazaro' fu però subito dall'Egitto. Senza la garanzia del potente e signore delle steppe e con la cattura del proprio imperatore in battaglia, la sorte Egiziana, militarmente parlando, pareva segnata. Senza una guida politica, nonostante l'apporto di truppe provenienti dalle lontane regioni ai confini con l'acrocoro etiopico e la cavalleria araba, l'esercito Alessandrino guidato dal patriarca Simeon aveva pochi mezzi per difendersi dalla congiunta vendetta di Tommaso e di Yazdagerd. L'unica speranza per la sua sopravvivenza sarebbe stata una recrudescenza immediata del conflitto tra i due; speranza che sfumò quando, in presenza di Arnaldo e Gregorio Mamiconeo come garanti essi firmarono un accordo di 'pace eterna' a Cesarea di Cappadocia (probabilmente il sovrano persiano sovrastimava la potenza militare bizantina, o quantomeno sovrastimava la sua capacità di recupero dalle perdite dovute alla battaglia di Darband).

Tabari, celebre storico persiano del IX secolo, descrisse così il trattato:

Tenendo in poco conto la parola data con il nostro Shahanshah, l'imperatore dei romani, per paura di un attacco a tradimento, mentre doveva ancora recuperare le forze dopo il lungo assedio della Città, si mise d'accordo con il re degli assiri, l'usurpatore Yazdagerd, per spartirsi le spoglie dell'Egitto, terra ormai senza legge e senza sovrano. Litigarono lungamente per il possesso dei luoghi santi dei cristiani, che l'usurpatore Giustiniano deteneva. Grande prestigio ne sarebbe giunto per entrambi e nessuno dei due voleva cedere. Infine, tuttavia, il pusillanime re degli assiri si tirò indietro, poiché vedeva che il signore dei romani, nonostante la debolezza, avrebbe fatto di tutto per ottenere Gerusalemme e la reliquia della vera croce di Cristo. Fu così che Yazdagerd si prese per sé Aleppo, Emathòus, Emesa, Damasco e tutte le altre principali città della Siria e dell'Arabia, compresa Eracleopoli. Pur tuttavia, la linea costiera da Antiochia fino al deserto del Sinai e al monastero del venerabile santo Antonio, insieme con la Palestina e la Giudea, con Betlemme e Gerusalemme passarono sotto il controllo dell'imperatore dei greci e dei romani.

Paolo Maltagliati

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Così risponde entusiasta Bhrihskwobhloukstroy:

Sottoscrivo tutto! Sono particolarmente legato a entrambi i popoli e prediligo le ucronie che arrivano fino al XX secolo (forse il peggiore di tutti i tempi, per cui quasi ogni ucronia è meglio). Il nome latino sarebbe forse un po' grecizzante, Gallothrāces o addirittura Galatothrāeces (col dittongo lungo) e di conseguenza il coronimo Gallothrācia o Galatothrācia (in questo caso, stranamente, il latino non ha mutuato il dittongo lungo attico), parallelamente Gallomacedones e Gallomacedonia (più classicamente Galatomacedones e Galatomacedonia). Le ‘contrazioni’ oggi ubiquitarie sono, anche se sembra incredibile, il risultato di un equivoco giornalistico dell'inizio del XX secolo (anche in questo il peggiore di tutti i tempi...)

Mesemarigio che nome è? Celtico o tracio? Mi ricorda Mismarigo, che però è tutto gallico, da *Mediomatrīkos.

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E Paolo sorride:

Eheheh... Non ti sfugge niente, vero? L'ho fatto ambiguo apposta. Con questo nome volevo mostrare la commistione dell'elemento trace con l'elemento gallo. L'idea era un nome composto, prima parte tracio, seconda celtico, di ambito marzial/militar/guerresco, in effetti...

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Bhrihskwobhloukstroy suggerisce:

*Brīgo-derzis “Audace in Guerra”, *Katu-derzis “Impetuoso in Battaglia”, *Dago-tarus “Buona lancia”? Con l'ordine celto-tracio Ti piacerebbe per esempio Vercingetoreso “Grande Re dei Guerrieri” (uguale a Vercingetorige ma con Reso “Re” tracio)? Ci vorrà anche un *Sulās “Boschetto”, in onore del nostro Webmaster...

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Paolo aggiunge:

Riguardo alla sezione altomedievale, mi sono basato sul fatto che:

1) orso in gallese è arth
2) orso in tedesco è bär e in inglese è bear
3) orso in greco antico è arctos

Ho immaginato che in una lingua gotogallotrace potesse anche forse avere un senso un nome del genere... perlomeno nelle ore di attesa della tua corretta precisazione.

La linea di interferenza già così è considerevole, ma potrebbe esserlo ancora di più se:

1) i Bulgari non riescono a insediarsi nell'attuale Bulgaria
2) gli Ungari non riescono a insediarsi nell'attuale Ungheria
3) permangono una Carantania slava e una Pannonia prima romanza, più tutte le successive conseguenze del sostanziale mantenimento del limes imperiale danubiano
4) la grande guerra bizantino-sassanide ha una evoluzione diversa
5) i sassanidi non vengono annientati
5alternativa) i sassanidi vengono annientati e i bizantini hanno forze bastanti per occupare stabilmente la Mesopotamia (a seconda se prevalga la considerazione che i bizantini partono in svantaggio perché Zenone ha sguarnito le frontiere orientali e quindi ci si accontenta della solita pace di compromesso, o se prevalga che i bizantini, senza timore di un attacco alle spalle degli avari possono concentrare ancora più forze in occasione del contrattacco dopo l'iniziale avanzata di Cosroe)
6) gli arabi non sfondano.

Il bello dell'ucronia: pensate a come il fatto che Maurizio non sia riuscito a finire quel che ha iniziato abbia conseguenze così dirompenti sul futuro dell'umanità.

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E Bhrihskwobhloukstroy esclama:

Messa così è sconvolgente... Ed è tutto quanto mai verosimile!
(Per il nome, che è un minimo dettaglio: il germanico *beran- ‘orso’ + il celtico *arto-s ‘orso’ producono un regolare composto che suona... *Bernartos!)

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Per farmi sapere che ne pensate, scrivetemi a questo indirizzo.


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