La Gelida Caccia

di Luca Chiurazzi


Il gelido vento invernale riecheggiava in tutta la foresta. La bufera ci aveva colti impreparati, imprigionandoci nella sua fredda morsa e facendoci perdere il sentiero per casa. La nostra ancora di salvezza fu una piccola insenatura nella roccia che mio padre notò prima che la neve annebbiasse la sua vista. A quell'epoca avevo solo otto anni, e questa fu la mia prima battuta di caccia. Mio padre era entusiasta all'idea di portarmi nel bosco a cacciare. Mia madre invece disapprovava questa sua decisione, come era solita fare. Diceva che ero ancora troppo piccola, e che la foresta fosse un posto troppo pericoloso per me. Le temperature si erano inoltre irrigidite parecchio in quei giorni e mamma ci aveva avvertito della possibilità di incappare in una tormenta. Papà non le diede retta: era un cacciatore professionista, o almeno così amava definirsi, sapeva determinare bene il cambiamento climatico, e sapeva come sopravvivere in qualsiasi situazione estrema. Dopo ore di suppliche, da parte di entrambi, mia madre cedette e mi lasciò andare, non prima di avermi inondato di raccomandazioni e norme sulla sicurezza.

Ma dopo un pomeriggio intero passato a catturare lepri e volpi, la bufera sembrò apparire dal nulla.
In pochi minuti, il terreno erboso fu ricoperto da uno spesso manto di neve, che cancellò ogni traccia del sentiero da cui eravamo arrivati. Se non fosse stato per l'occhio vigile di mio padre, saremmo probabilmente morti assiderati nel giro di un'ora. Nell'insenatura in cui avevamo trovato riparo c'era abbastanza spazio per stare comodamente sdraiati. Accendemmo un fuoco utilizzando qualche legnetto e l'accendino di papà e rimanemmo ad osservarne le fiamme per molto tempo, cuocendo anche una delle lepri catturate per preparare la cena.

« Appena la tormenta si sarà placata un po', allora usciremo e cercheremo la strada per casa », farfugliò mio padre con voce tremolante per il freddo. « Non preoccuparti, andrà tutto bene. »

Ricordo di non aver avuto paura in quei momenti. Mi fidavo di lui, e nel profondo ero felice di passare un po' di tempo insieme. Spesso lo vedevo solo alla sera, al rientro della sua battuta di caccia giornaliera. Mi voleva bene, e sapevo desiderasse vedermi più spesso. Forse fu proprio questo il motivo per cui mi spinse a venire con lui. Spendemmo quelle che sembrarono ore a parlare accanto al falò. Mi raccontò di tutte le sue prede più importanti, di tutti i suoi successi e insuccessi della vita, e anche io feci lo stesso. Gli parlai dei miei compagni, delle mie maestre e della mia prima cotta amorosa. Ridemmo e scherzammo come mai prima di allora. Ripensando a quei momenti, li considero fra i migliori della mia vita. Mi diede inoltre un pacchetto di biscotti al miele, i miei preferiti. Non erano esattamente come si potrebbero immaginare: erano biscotti normalissimi, ma mamma gli spalmava sopra interi cucchiai di miele, perchè sapeva che ne andavo matta. Ne mangiai qualcuno e misi i rimanenti nella tasca del cappotto.

Infine, la bufera si placò. Era scomparsa quasi all'improvviso, così come era venuta. L'ululato del vento lasciò posto alla quiete della notte, ma la neve continuò a cadere dal cielo, dolcemente.

« Dovremmo iniziare ad incamminarci, mamma sarà furibonda » disse Papà ridendo. Scavò con le mani tra la neve, che aveva quasi completamente bloccato l'uscita, e sgusciò fuori furtivamente, tenendo ben saldo a sé il suo fucile da caccia. Io lo seguii immediatamente. La foresta si era completamente trasformata. Gli unici colori visibili erano il bianco del soffice manto nevoso e il nero delle oscure nuvole tempestose, che non accennavano a diradarsi. Mio padre tirò fuori dallo zaino la sua torcia e me la tese, facendo cenno di accenderla davanti a lui. Il silenzio tombale di quel luogo era interrotto solamente dal suono dei nostri passi e di qualche spiffero di vento occasionale che si insinuava tra gli arbusti. La neve continuava a cadere delicatamente, senza emettere alcun rumore. Gli alberi sembravano aver assunto un aspetto più spaventoso con l'oscurità della notte. Fu in quei momenti in cui cominciai a provare veramente paura. Dopo solo un quarto d'ora di marcia, iniziai a patire il freddo. Tremavo come una foglia, volevo chiedere a mio padre di scaldarmi, ma notai che anche lui non se la stava passando bene: il volto era pallido, mettendo ancora di più in risalto le labbra viola, e la sua barba stava diventando bianca e ghiacciata.

« P-papà... » balbettai con un filo di voce.

« Che c'è piccola? » Il suo tono cercava di essere forte, ma era ben udibile il tremolio.

« Riusciremo a trovare la strada di casa, v-vero? » « Ma certo tesoro, ti ricordi quel brutto albero storto che abbiamo visto quando siamo entrati nella foresta? Basterà cercarlo e ritroveremo così la strada di casa. »

Mi poggiò quindi la mano sulla spalla e la strinse forte, sorridendomi. Era il suo modo per dirmi di non arrendermi.

Camminammo in silenzio per altri minuti, quando un rumore irruppe la quiete del luogo. Mio padre fece scattare il fucile davanti a sé e si bloccò di scatto. Mi feci prendere dal panico.

« Cosa è stato papa? » chiesi terrorizzata.

« Shh! » mi sussurrò lui, senza neanche guardarmi.

Pochi secondi dopo, il rumore si sentì nuovamente. Entrambi capimmo cosa stava accadendo. Era il verso inconfondibile di un animale, ma non si trattava di una volpe o di un lupo.

« Papà, c'è un orso? » Stavo per mettermi a piangere. Mio padre mi aveva raccontato tutto sugli orsi, di come fossero territoriali e aggressivi, e di come proteggessero i loro cuccioli a costo della vita.

« Shh! » mi rispose nuovamente. Stava tremando, ma questa volta non per il freddo. Faceva scattare il fucile a destra e a sinistra senza sosta, con gli occhi sembrava esaminare ogni centimetro davanti a sé. « Non muoverti piccola mia, non emettere alcun suono. »

Ancora una volta, il vento riecheggiò fra gli alberi, ma della bestia nessuna traccia. Io ero immobile dietro mio padre, con le lacrime che mi solcavano il viso, ma la bocca sigillata. In quegli attimi di terrore, mi ricordai dei biscotti che avevo in tasca. Gli orsi adorano il miele, pensai, potrebbe averlo fiutato. Con cautela li tirai fuori dal cappotto, posizionai silenziosamente il braccio dietro la testa e lanciai lontano il pacchetto.

« Che fai?! » chiese mio padre sottovoce, ma con tono severo.

Io non risposi, rimasi lì e aspettai. Passarono minuti interminabili. Se c'è una cosa che ho imparato da questa esperienza è che il vero terrore non è trovarsi davanti un mostro o una bestia feroce. Il vero terrore è non sapere se o quando la creatura attaccherà. Non dimenticherò mai quei momenti passati nel gelo dell'inverno, senza sapere se l'orso sarebbe sbucato fuori o se ci avesse lasciati in pace.

Per nostra fortuna, l'animale non si presentò quella volta. Mio padre, non sentendo più il suo verso, abbassò lentamente la guardia e il fucile, si girò verso di me e mi guardò. I suoi occhi erano lucidi e rossi, ma la sua espressione sembrava ispirare determinazione e voglia di continuare.

« Forza, dobbiamo muoverci » disse secco.

Io non parlai e lo seguii silenziosamente. Non so se furono i miei biscotti ad allontanarlo o semplicemente non ci vide come una minaccia, ma l'importante era essere salvi.

Camminammo nella gelida selva per almeno un'altra ora. Stavamo cercando a vuoto, non avevamo idea di dove andare. Accendemmo un altro fuoco per combattere il freddo ormai divenuto insopportabile, finimmo di mangiare la lepre e ci rimettemmo in cammino subito dopo. I miei pensieri iniziarono a rivolgersi a mia madre. Se fossimo mai tornati, di sicuro non sarei più potuta uscire con papà, e come minimo mi avrebbe messo in punizione per un mese. Ma il solo pensiero di rivederla era abbastanza per farmi continuare a camminare, e sono certa che fu così anche per papà. Ad un certo punto, ci trovammo sulla cima di una collinetta. Il terreno non era particolarmente ripido, ma potevamo godere di una buona veduta panoramica sulla foresta attorno a noi. Ci mettemmo immediatamente a scrutare verso l'orizzonte. Fui io a gridare trionfante.

« L'albero storto, è laggiù! Siamo arrivati da laggiù! » gridai, saltellando dalla felicità « Andiamo a casa adesso! »

Mio padre mi abbracciò e a stento trattenne le lacrime. In quel momento, la neve smise di cadere.

Le nuvole iniziarono a diradarsi, lasciando il posto ad una luminosa luna e ad un cielo stellato. Ci precipitammo giù dalla collina a tutta velocità. Non sentivamo più il freddo, non avevamo più paura di niente, avevamo ritrovato la strada per casa. Papà sembrò riacquistare tutte le sue forze, non lo avevo mai visto così felice in vita mia. Rallentammo un po' giunti ai piedi della collina, poichè la neve era molto profonda e rendeva difficili i nostri movimenti. Già mi immaginavo la sgridata della mamma con conseguente punizione, ma non mi importava. Sapevo che in fondo sarebbe stata felice di vederci tornare salvi e con qualche preda catturata da arrostire.

« Tesoro? » mi chiamò mio padre.

« Dimmi, papà. »

« Ascolta, mi dispiace moltissimo per quello che è successo. Non avrei mai immaginato che sarebbe andata così. Ti ho messo in pericolo, e di questo non potrò mai perdonarmi, anche se tutto è finito bene... »

Cercai di interromperlo, di dirgli che non mi importava e che sarei venuta con lui fino in capo al mondo, ma lui continuò a parlare, con voce spezzata.

« No, non dire niente. Se ti fosse accaduto qualcosa, non me lo sarei mai potuto perdonare, capisci? Questi sono i rischi del mestiere, e sono rischi troppo grandi per una bambina di otto anni, tu non sei... »

In quel momento, un rumore familiare interruppe la nostra conversazione. Mio padre si girò di scatto. Davanti a lui troneggiava la sagoma di un'enorme belva. Sembrava una grossa macchia nera, che nell'oscurità sarebbe potuta essere scambiata per un gigantesco masso, se non si fosse mossa.

Non c'era bisogno della torcia per capire cosa fosse. Dietro di essa, altre tre piccole sagome se ne stavano in disparte a guardare la scena. Papà impugnò saldamente il fucile e lo puntò all'orso; era immobile come una statua, questa volta non tremava nemmeno. L'animale si alzò in piedi, diventato ancora più imponente, e ruggì. Un ruggito udibile da chilometri di distanza, che avrebbe fatto scappare anche il più impavido fra i cacciatori. Ma non mio padre. Con un veloce movimento del braccio, si tolse qualcosa dal collo. Era il ciondolo che mamma gli aveva regalato per i dieci anni di matrimonio, celebrati solo l'anno prima. Lo tese verso di me.

« Portalo a mamma », disse. La sua voce era priva di qualsiasi emozione.

« Papà, cosa fai? » Stavo piangendo come mai prima d'ora. « Papà, scappa! »

« Corri! » gridò lui come risposta: « Corri e non girarti. Non fermarti per nessuna ragione, corri più veloce che puoi. Porta il ciondolo a mamma. »

« Papà, io... »

« Fallo, non protestare! » sbottò infine.

Non volevo farlo, non volevo abbandonarlo, ma il secondo ruggito dell'orso mi fece cadere nel panico. Afferrai la collana e corsi in direzione di casa, senza guardarmi alle spalle, come papà mi aveva detto. Non badai nemmeno alla profonda neve che intralciava i miei movimenti.

Ero ormai lontana qualche decina di metri quando lo sparo di un fucile rimbombò nelle mie orecchie. Sentii il lamento della bestia, sentii il suo verso dolorante. Non mi voltai, ma sapevo che lo aveva colpito. Per un attimo mi rincuorai, sperai che mio padre mi avrebbe ora raggiunto. Ma il ruggito del mostro risuonò ancora nella foresta. Non ci volle molto per capire che quel verso era carico di rabbia. In quel momento persi ogni speranza. Le gambe mi tremavano, mi sentivo svenire, ma sapevo di dover fuggire. Dovevo farlo per arrivare da mia madre, dovevo farlo per mio padre.

Fu sparato un secondo colpo, ma questa volta non sentì nessun lamento, solo la furia di un predatore. Seguirono suoni che non riesco e non voglio nemmeno descrivere, dopodichè la foresta ricadde nel silenzio più totale. Quella notte, nessuno sparo fu più udito nella selva. Di mattina, mamma aprì la porta e si trovò davanti solo una bambina piangente ed infreddolita, con un ciondolo fra le mani.

Luca Chiurazzi

Scritto da Luca Chiurazzi (5A, ITG di Somma Lombardo). Docente di riferimento: Prof.ssa Patrizia Olivieri.

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Il nostro Bhrihskwobhloukstroy ha voluto scrivere una continuazione di questo racconto, eccola:

Forse la mamma non avrebbe retto all'impressione della scena, se appena prima di richiudere la porta dopo avermi fatta entrare non avesse scorto in lontananza un puntino grigio sufficiente a distogliere la sua attenzione dall'angoscia del momento. Si trattò probabilmente di pochi secondi in tutto, che tuttavia a me parvero lunghissimi: poi la mamma uscì di corsa, lasciandomi in casa con la porta aperta.

Ancora oggi non saprei dire per chi dei tre l'esperienza sia stata più forte. Di certo, da quel giorno mio padre non è più andato a caccia, né nel bosco né altrove; si vede però che, man mano che l'emozione del pericolo corso sfuma nell'insieme dei ricordi del passato, la passione per la caccia lo coinvolge ancora: non solo ogni volta che mi sono preparata a una nuova battuta mi ha saputo regalare consigli che nessun altro, verosimilmente neppure egli stesso – prima – sarebbe stato in grado di riassumere in forma altrettanto pregnante, ma è perfino accaduto che si spingesse a chiedermi, con evidente desiderio, per quando programmassi l'occasione successiva.

Per mia madre si è svolto tutto in pochi secondi: trovarmi fuori dalla porta, sola, dopo la tempesta, immaginare il peggio, riconoscere mio padre in lontananza più con la forza dell'intuizione che in base a indizi oggettivi, correre verso di lui come in nessun altro momento sarebbe mai riuscita, capire tutto senza bisogno di chiedere, aiutarci entrambi a tornare senza traumi alla vita di prima. A volte penso che, senza l'aiuto di mia madre, forse adesso mio padre non riuscirebbe più a parlare e io non sarei in grado di dedicarmi ad alcuna attività per più di qualche minuto. Temo, d'altra parte, che il prezzo di tutto ciò sia stato pagato proprio dalla mamma ed è questo il fondo amaro che rimane dopo tutta la storia.

Quanto a me, il lavoro più faticoso è stato di riparare, attimo per attimo, il ricordo di quella notte, che ha rappresentato senza dubbio l'iniziazione al sentimento della vita contro l'esperienza della morte. In questo devo ringraziare mio padre, che ha avuto la capacità di ricordare e confermare passo dopo passo tutto ciò che man mano ricostruivo e sostituivo all'orrore che mi ero raffigurata. Il secondo colpo aveva disperso gli orsi – per questo non ne era seguito alcun lamento – e la rabbia per la sconfitta aveva provocato la reazione furiosa di quello ferito, contro il proprio stesso istinto che lo costringeva a ritirarsi.

Ma ciò che mi ha fatta uscire dall'incubo è un atto che non ho mai confessato ai miei genitori. È stata un'imprudenza imperdonabile, un'incoscienza che, quando qualcuno mostra di fidarsi di me, vorrei gridare ai quattro venti per convincerlo che sbaglia ad aspettarsi un comportamento razionale da una pazza come me; eppure è equivalso a una discesa e risalita dagli Inferi e, dopo, è come se fossi rinata.

Sapevo che mia madre non avrebbe aspettato lo scioglimento completo della neve per portare mio padre dal medico, prima che questi fosse in grado di raggiungere in auto la nostra casa. Quando i miei sono usciti, sono corsa di nuovo nel bosco, senza neppure sapere quante ore avrei avuto a disposizione. Raggiunto l'albero storto, ho proseguito il cammino per più di un'ora seguendo la traccia dei nostri stessi passi, rimasta intatta per il grande gelo di quei giorni. Dopo un'ora ho visto le orme di un orso, che doveva essere il primo in cui ci eravamo imbattuti. Ho cercato a lungo e ho trovato i biscotti al miele che quella notte avevo lanciato lontano. Li ho raccolti e sono tornata indietro di corsa, ma arrivata in vista dell'albero storto ho notato le macchie di sangue congelato sulla neve e mi sono fermata di colpo.

Non ricordo più, nonostante gli sforzi per riuscirci, che cosa ho pensato in quei momenti; so soltanto che, quasi per istinto, mi sono avvicinata alle macchie e ho appoggiato lì i biscotti.

Quando sono tornata a casa non c'era ancora nessuno. Mia madre è arrivata verso sera, dicendomi che papà sarebbe rientrato con lei il giorno dopo. Quella notte mi sono sognata mio padre circondato dagli orsi e con in mano i biscotti al miele, dopo avermi dato la collana; nel sogno, cercavo di correre verso casa, ma il ciondolo mi cadeva dalle mani e, al momento di sprofondare nella neve, esplodeva come un colpo di fucile. Svegliatami di soprassalto, ho fatto in tempo a sentire l'eco del ruggito udibile da chilometri di distanza.

Non ho più preso sonno, ma ho fatto finta di dormire quando al mattino la mamma è partita per riportare papà a casa. Mi sono vestita in fretta e ancora una volta sono tornata all'albero storto. Ho cercato i biscotti, ma c'erano solo le macchie di sangue ancora visibili in mezzo a tante orme fresche.

Questa volta, anche se erano trascorse meno ore che il giorno prima, non ho fatto in tempo a tornare a casa prima dei miei genitori. Non so come mi sia venuto di dire che ero uscita per cercarla, spaventata di non vederla in casa; forse perché si rimproverava di non avermi svegliata prima di partire, forse perché voleva scacciare sùbito i nuovi pensieri angosciosi che sicuramente aveva avuto non trovandomi, fatto sta che sembra aver creduto alla mia spiegazione e non mi ha chiesto altro, ordinandomi invece di non uscire mai più di casa da sola senza il suo permesso.

Da quel giorno porto dentro di me questo piccolo segreto e anche adesso che ho più dell'età di allora dei miei genitori non l'ho mai raccontato a nessuno. Se oggi lo metto per iscritto, è perché per la prima volta ho riflettuto sulle parole scritte sul ciondolo. «Bear with me»: ero sempre stata distratta dal fatto che dopo dieci anni di matrimonio la frase più importante da dirsi fosse “abbi pazienza” (chissà che cosa si vorranno dire adesso, ammesso che abbiano ancora bisogno di ricorrere al linguaggio verbale dopo più di cinquant'anni di vita insieme) e non avevo notato – o avevo rimosso – l'altro significato.

Sì, lo so, il nome senza articolo, la frase senza verbo suonano un po' native (almeno come il cinema ci fa credere), ma nessuno mi toglie più dalla testa che “orso con me” sia stato un presagio: oggi vicino all'albero storto hanno costruito un villino dove abita una famiglia di origine russa, i Medvedev, “Quelli dell'orso (letteralmente “mangiatore di miele”)”, e il loro bambino, che ha la mia età di allora, si chiama Arthur, “il re degli orsi”. Ma, soprattutto, mi viene un sospetto e vado a cercare in Rete il significato del nome del fiume principale della nostra Contea, Makwa (River), che scorre appena a valle dell'albero storto: "orso", in algonchino...

Bhrihskwobhloukstroy

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E ora, due racconti di Agatha Christie:

26/1/71: Novilunio

— Ciao, Luna, dalla pelle d'argento e dalle chiome d'oro puro...

Ernesto era seduto sul tetto di casa sua, con gli occhi rivolti alla minuscola falce luminosa, che nonostante la sua piccolezza riusciva a rischiarare gran parte del cielo, ormai quasi color pece. In mano teneva un foglietto sgualcito sul quale c'erano annotate parole in versi. Ernesto, infatti, di giorno, invece che giocare con i bambini della sua età, passava il suo tempo scrivendo poesie per la Luna. Ogni sera si arrampicava sull'albero adiacente alla sua casetta e da lì saltava sulle tegole del tetto (rischiando sempre di farne cadere qualcuna) e si sistemava comodamente appoggiato al comignolo. Allora toglieva dalla tasca il suo foglietto e incominciava a declamare i versi alla Signora, Regina della Notte, che sedeva su uno scranno di pietre preziose ed era servita da centinaia di stelle, pronte ad obbedire ad ogni suo ordine.

Durante i noviluni era sempre molto triste. Di solito saliva ugualmente al suo punto di osservazione, ma, invece di leggere le poesie, stava per ore a sospirare, guardando con astio le stelle, come se fossero state loro a convincere la Signora a non venire allo scoperto. Ernesto, a scuola, aveva imparato il motivo per cui la Luna è crescente o calante e perché a un certo punto poi sparisce del tutto. Tuttavia non voleva crederci, preferiva pensare che le stelle, invidiose, l'avessero nascosta affinché lui non potesse ammirarla. Fu proprio durante un novilunio, per la precisione la notte del 26 gennaio del 1971, per di più giorno dell''undicesimo compleanno di Ernesto, che al bambino accadde qualcosa di veramente memorabile.

Il bambino era appoggiato al comignolo, teso per catturare ogni piccolo sbuffo di calore e vapore, tutto infagottato in un vecchio cappotto che aveva ereditato da qualche cugino che, stufo di portarlo, l'aveva regalato a lui. D'un tratto udì un rumore. Qualcuno era lì sul tetto assieme a lui e si stava avvicinando tentando di non farsi notare. Ernesto rabbrividì. Chissà chi era questo invasore! Cosa gli avrebbe fatto? Magari era uno dei bambini del paese che era venuto a spiarlo per poi prenderlo in giro con gli altri.

“ Proprio mentre la Luna non c'è? Con la sua luce avrei potuto vedere chi è!” pensava Ernesto, impaurito.

Con circospezione si tese in avanti e con una voce che avrebbe dovuto sembrare ferma urlò:

— Chi va là?

Lo sconosciuto, ormai scoperto, si avvicinò quanto bastava affinché Ernesto riuscisse a vederlo.

Il bambino rimase stupito. Lo sconosciuto era un ragazzo sui diciotto anni che lo guardava con un sorrisetto beffardo. Ernesto lo riconobbe come uno di quegli strani tipi di cui sentiva spesso parlare sua mamma e che ogni tanto vedeva nelle fotografie dei giornali, immortalati mentre erano impegnati in rivolte o manifestazioni che lui non riusciva ad afferrare. Non poteva essere altro che un hippy. Lo si capiva subito guardando i jeans sbrindellati e i capelli così lunghi che "offendevano la decenza" come diceva sua mamma.

— Ciao — disse semplicemente il ragazzo.

Ernesto, per tutta risposta lo guardò con sospetto e una punta di disgusto. Non credeva che sarebbe stato prudente fidarsi di uno che aveva appena finito si spiarlo e che in più era anche uno di quegli hippy.

— Chi sei?— gli chiese il bambino con malagrazia.

Lo sconosciuto fece un ghigno e si mise a sedere vicino a Ernesto, che velocemente si ritrasse e si allontanò di qualche centimetro. Con noncuranza il ragazzo tirò fuori una sigaretta dalla tasca e la accese con un fiammifero. Ne tirò fuori un'altra e la mise sotto il naso del bambino. Poi sembrò accorgersi di quanti anni potesse avere Ernesto e, ridacchiando, se la rimise in tasca.

— Allora come stai, Ernesto?— cominciò lo sconosciuto.

Ernesto emise un brontolio di cui si poterono intuire solo le parole "mio nome" e "chi sei".

— Allora, fratello, — disse il ragazzo senza dargli retta — mi hanno detto che ti piace parlare con la luna. Non ti hanno mai spiegato che è solo un sasso? Non dirmi che non hai sentito che quegli americani sono riusciti ad andarci sopra.

Eccome se lo aveva sentito. Era successo circa due anni prima e le radio non avevano parlato d’altro per giorni. A quei tempi era rimasto affascinato ad ascoltare ogni notiziario in attesa di cogliere qualsiasi indizio che riconducesse alla sua Signora. Non sapeva nemmeno lui cosa aspettarsi, forse il ritrovamento di una ciocca dorata, di una scarpetta di cristallo. Invece nulla. Tuttavia, benché gli americani fossero convinti che la luna non fosse altro che un sasso, Ernesto non cambiò mai idea e nemmeno fu colto da dubbi. La sua Signora esisteva, lui lo sapeva e tanto bastava.

— Forse, però, non hai tutti i torti — Il bambino fu ridestato di colpo dai suoi pensieri. Lo sconosciuto non rideva più. — Perché tutto dovrebbe essere davvero quello che sembra?

Il ragazzo tirò una boccata di fumo dalla sigaretta. — Ti faccio un esempio: dall’alto tutte le persone che vedi sono uguali. È impossibile perfino distinguere gli uomini dalle donne. Nessuno può essere riconosciuto. Anche tu e tutti i tuoi amici, i tuoi parenti. Da questo punto di osservazione, puoi essere confuso con una formica, sembri in tutto e per tutto una formica. Però, per cambiare subito idea basta avvicinarsi un po’ di più. Allora le persone diventano persone , gli amici amici. È quello che fai tu quando sali quassù. Non fai altro che avvicinarti di un passo alla verità.

Ernesto ascoltava. Non si chiedeva più chi fosse quello strano ragazzo senza nome. Gli pareva di conoscerlo da sempre. E forse era proprio così.

Lo sconosciuto schiacciò la sigaretta contro una tegola e la gettò via. Da una tasca dei jeans bucati estrasse una mazzo di carte. — Ti va una partita?

Ernesto annuì. Non guardava più sofferente verso il cielo. Adesso guadava solo il suo interlocutore. 
Giocarono a carte fino a mezzanotte senza scambiarsi più neanche una parola.

Ernesto continuava ogni sera a salire sul suo tetto per guardare la Luna, ma sembrava cambiato. Non scriveva più poesie.

Sua mamma rimase sconvolta, una volta, quando lo vide salire sul tetto con in mano, non il suo solito taccuino, ma una carta da gioco di un mazzo che non era quello di casa. E rimase ancora più stupita quando lo sentì sussurrare al cerchio luminoso:

— Asso di quadri, stavolta ho vinto io!

Agatha Christie

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La notte dello specchio

“Svegliati. Avanti, alzati. Subito. Muoviti.”

Il bambino si mise a sedere nel letto. Le campane della cattedrale della città, Malaga, suonarono proprio in quel momento l’una di notte. Il buio nella piccola stanzetta era totale. Non filtravano neanche i pallidi raggi della luna dallo spiraglio della tendina grigia con i fiori rosa che stava appesa a una minuscola finestrella. Da una fessura nell’intelaiatura tappata in malo modo proveniva con insistenza la brezza del mare, umida di salsedine e profumata da un vago aroma di pesce. Il bambino inspirò per un attimo a pieni polmoni e tese l’orecchio. L’unico rumore percettibile era il fruscio delle fronde mosse dal vento dell’ulivo di fianco al muro della sua camera. I suoi occhi si stavano abituando all’oscurità e cominciò a riconoscere i contorni tanto famigliari: il tavolino di cipresso intagliato rozzamente che gli aveva lasciato in eredità un suo bisnonno o trisnonno, non lo ricordava più; lo stendardo che suo papà gli aveva portato il mese prima da Madrid, uno dei suoi oggetti più preziosi. In fondo alla stanza c’era poi un armadio. Era pesante e massiccio, ma abbastanza nuovo: gli era stato portato da uno zio che viveva a Siviglia e faceva il falegname. Ormai erano passati quasi cinque anni e lo zio non era più tornato a trovarlo. Era arrivato al punto di non ricordarne più bene neanche la faccia. Nel buio ormai grigiastro, al bambino parve che una delle ante dell’armadio non fosse chiusa bene. Era strano. Solo la mamma la apriva di tanto in tanto e stava sempre attentissima a chiuderla come si deve. Lui di solito usava la parte di sinistra per riporre i suoi pochi giocattoli. A piedi scalzi, facendo lo stesso rumore di un pulcino sulle piume, si avvicinò, incuriosito. In effetti la porticina era proprio socchiusa. La curiosità di sapere cosa v’era nascosto assalì il bambino, tanto ingiustificata quanto potente, e con una forza insospettabile per la sua età attaccò le mani al bordo e tirò. In pochi secondi riuscì ad aprire completamente l’anta e con trepidazione guardò all’interno. Era vuoto a parte uno specchio piuttosto grande, di quelli ovali che si appoggiano a terra su un piedestallo. Era deluso. Non sapeva neanche lui cosa avrebbe voluto trovare, però un semplice specchio non riusciva a soddisfare la sua curiosità di bambino. Non era un brutto oggetto. Era uno dei più classici che si possano immaginare: l’ovale argentato era incorniciato da un bordino dorato e sostenuto da un piedestallo di ugual colore. In certi punti la vernice si staccava mostrando la sua vera anima: nient’altro che ferro opaco e rugginoso. Con un gesto dettato dall’abitudine, il bambino osservò la sua immagine riflessa che mostrava solo un viso stanco e assonnato dal quale erano spariti tutti i segni del primitivo interesse. Ad un tratto un lampo percorse i suoi occhi e, come un segugio fissa la preda, cominciò a guardare insistentemente l’ovale argentato. Era infatti comparsa dal nulla una enorme macchia rossa, come inchiostro, che si allargava sullo specchio. All’improvviso però, sopra il rosso apparve del giallo, poi ancora del verde e del blu. Andava formandosi un’immagine: su uno sfondo azzurro si stagliavano delle montagne gialline, ai piedi delle quali brucava tranquillamente un torello. Il bambino si avvicinò sempre di più allo specchio. Ormai non si sarebbe allontanato da dove stava per niente al mondo. Ciò che vedeva era così realistico che sembrava di guardare fuori da una finestra. Poco dopo la scena cambiò. L’inchiostro giallo cominciò a sbavare e ricoprire il torello. Grosse gocce colavano senza sosta come sangue e uno strato di grigio ricopriva con calma ogni angolo. Sotto di esso l’immagine era mutata. Il toro era completamente circondato da uomini a piedi e a cavallo. Era una situazione che al bambino ricordava il disegno che c’era sul suo stendardo di Madrid. Gli pareva una corrida, ma non del tutto. Quasi udiva le grida dell’animale che cercava di sfuggire al destino che l’attendeva. Ad un tratto il torello fece un salto e, come impazzito, si ribellò gettandosi contro tutti quelli che gli stavano attorno. Sangue nero schizzava come pioggia. C’era solo agonia e morte ovunque. Le urla erano sempre più lancinanti nella testa del bambino. Voleva che smettessero di lottare e, seguendo un istinto, colpì lo specchio con il pugno. Il dolore dell’impatto lo colpì in pieno. Con le lacrime agli occhi si guardò la mano. Con sua grande sorpresa notò che non c’era neanche un minimo graffio. Volse subito lo sguardo allo specchio. La battaglia si era fermata. Tutto era immobile e ogni essere guardava il bambino con occhi vitrei attraverso la ragnatela che si era formata a causa del pugno. Alle urla era seguito un silenzio assordante. Il bambino ricambiò lo sguardo, spaventato, e di colpo, dopo alcuni secondi, si mise a piangere. Senza neanche accorgersene si addormentò per terra, con la testa fra le braccia.

Quando al mattino si svegliò, era nel suo letto. Eppure ricordava tutto benissimo, non poteva essere stato solo un sogno! In men che non si dica si precipitò ad aprire l’anta destra dell’armadio. Dietro di essa però c’era solo il vuoto. Lo specchio era sparito. Per tutta la sua vita lo cercò ancora molte volte, ma non lo trovò mai più.

Pablo crebbe e da adulto diventò pittore. Non dimenticò, però, quella notte.

Quando, durante la guerra civile spagnola, fu bombardata Guernica, città da lui amata, dipinse un quadro. Un toro, gente a piedi e a cavallo, cadaveri: il tutto visto attraverso le sfaccettature di uno specchio in frantumi.

Agatha Christie

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