Come d'autunno si levan le foglie

Come d'autunno si levan le foglie
l'una appresso de l'altra, fin che 'l ramo
rende a la terra tutte le sue spoglie...

(Inf. XXXI, 67-69)

 

La Fisica può essere interamente riscritta facendo ricorso alle cosiddette Leggi o Principi di Conservazione. Esse descrivono la conservazione nel tempo in un sistema di una grandezza fisica, e sono incredibilmente utili nella risoluzione dei problemi. Infatti, consideriamo un mazzo di chiavi lanciato in aria. Ogni chiave seguirà una traiettoria estremamente complessa, variando in ogni istante posizione, inclinazione, velocità, eccetera. Sicuramente è di grande consolazione per i Fisici sapere che, in tutta questa confusione di grandezze che variano con grande rapidità, almeno qualcosa resta costante! Per esempio, il fatto che la quantità di moto complessiva del mazzo di chiavi sia la stessa al momento del lancio, al momento della sua caduta sul pavimento e in tutti gli istanti intermedi fra questi due, essendo il sistema isolato, può essere enormemente utile per descrivere il moto di un sistema così complicato!

La prima legge di conservazione fu enunciata nel 1644 da René Descartes (Cartesio, 1596-1650) nei suoi "Principi di Filosofia" (II, 36), ed oggi è nota come conservazione della quantità di moto:

« In un sistema fisico isolato, la quantità di moto di un corpo, cioè il prodotto della sua massa per la sua velocità, resta costante »

Nel capitolo XVII del suo "Discorso di Metafisica" (1686), Gottfried Wilhelm von Leibniz (1646, 1716) criticò il principio di conservazione introdotto da Cartesio e propose di sostituirlo con quello della "forza viva", come egli chiamò il prodotto della massa per il quadrato della velocità. Oggi sappiamo che, a parte un fattore 1/2, la forza viva di Leibniz non era una forza, ma l'energia cinetica, cioè l'energia che un corpo possiede per il semplice fatto di possedere una massa e di muoversi. Dunque, chi aveva ragione, Cartesio o Leibniz? Entrambi. Nel capitolo dedicato alla Meccanica abbiamo infatti illustrato il Secondo Principio di Dinamica, ed esso può venire riscritto come segue:

essendo l'accelerazione la variazione di velocità nell'unità di tempo. Detta ora p = m v la quantità di moto introdotta da Cartesio, essa diventa:

Questa viene comunemente detta Prima Equazione Cardinale della Dinamica. Ora, se il sistema è isolato, cioè se su di esso non agiscono forze esterne, F = 0, ed allora anche la variazione nel tempo della quantità di moto è costante. Conclusione: in un sistema isolato, la quantità di moto conserva il suo valore nel tempo.

D'altra parte, sempre dal Secondo Principio di Dinamica enunciato da Newton è possibile risalire al Teorema dell'Energia Cinetica, il quale afferma che la variazione di energia cinetica di un sistema è pari al lavoro compiuto su di esso:

Ma allora, se sul sistema non è compiuto alcun lavoro esterno, cioè se esso è isolato, ne consegue che l'energia cinetica (e quindi la forza viva di Leibniz) si conserva. Poiché poi in assenza di attriti (e quindi di forze non conservative) si può introdurre il concetto di energia potenziale (l'energia che un corpo possiede per il fatto di trovarsi in un punto di un campo di forze), e il lavoro si può esprimere anche come la variazione di energia potenziale cambiata di segno, ne consegue che in un sistema conservativo (ovvero senza attriti) si conserva anche la somma tra energia cinetica ed energia potenziale, detta energia meccanica totale.

Nella sua "Mécanique analytique" (1788) il matematico torinese Giuseppe Luigi Lagrange (1736-1813) introdusse anche il concetto di momento della quantità di moto o momento angolare (la quantità di moto è detta anche momento lineare), e dedusse che, come in un sistema isolato in moto traslatorio vale la legge di conservazione della quantità di moto, così in un sistema isolato in moto rotatorio vale la legge di conservazione del momento angolare:

« In un sistema fisico isolato, il momento angolare di un corpo, cioè il prodotto della sua massa per la sua velocità per il raggio di rotazione, resta costante »

Questo principio spiega ad esempio perchè la ballerina che chiude le braccia, gira più veloce: dovendosi conservare il prodotto m v r, al diminuire di r deve aumentare v.

Nel 1772 il chimico francese Antoine Lavoisier (1743-1794) dimostrò sperimentalmente che la materia non può essere creata o distrutta, ma solo trasformata, elaborando così il principio di conservazione della massa. Dal canto suo Einstein dimostrò nel 1905 che la materia e l'energia non sono due entità separate, ma diversi aspetti della stessa realtà fisica, unificando il principio di conservazione della massa e quello dell'energia.

Se ne parliamo qui non è solo per ragioni di completezza, ma perchè questa lezione è dedicata alle simmetrie, all'ordine e al disordine nella Scienza. Che le Leggi di Conservazione portino ordine nella Fisica è fuor di dubbio, tanto che Lagrange dedusse l'intera Meccanica dai principi di conservazione di energia, quantità di moto e momento angolare. Ma sarebbe difficile comprendere il legame tra legge di conservazione e simmetrie, senza il contributo fondamentale di Amalie Emmy Nöther (1882-1935), grande scienziata ebrea tedesca figlia del matematico Max Nöther (1844-1921). Einstein la definì « il più grande matematico donna di tutti i tempi », ma nonostante gli sforzi dei suoi protettori David Hilbert e Felix Klein non riuscì ad ottenere una cattedra di matematica all'università se non in età già avanzata, poiché era ebrea e donna. Quando la ottenne, la conservò per poco a causa dell'ascesa al potere di Hitler; trasferitasi negli USA, morì prematuramente a causa di una cisti ovarica.

Questa sfortunatissima ma geniale scienziata ci ha lasciato in eredità quello che da lei prende il nome di Teorema di Nöther, il quale riguarda da vicino le leggi di conservazione, legandole alle simmetrie del sistema. Esso ha una formulazione molto complessa che chiama in causa la lagrangiana, cioè un particolare funzionale che dipende dalle variabili di un sistema, e gli integrali del moto, cioè le grandezze invarianti. Una sua formulazione accessibile a tutti può però essere la seguente:

« Se un sistema fisico mostra una qualche simmetria, allora vi sono delle corrispondenti grandezze i cui valori sono costanti nel tempo. »

Il suo significato è questo: se nello spazio e nel tempo non vi sono né punti né istanti privilegiati, allora certe grandezze devono essere le stesse in tutti questi punti. Ma allora, spostandomi da un punto all'altro, non devo notare alcuna differenza: e questo avviene se l'universo che mi circonda gode di un qualche tipo di simmetria.

Nell'universo di Dante qualcosa del genere accade. Riguardo allo spazio, basta pensare a quando egli giunge nel Primo Mobile, che come vedremo in seguito è il Cielo che attribuisce il moto a tutti gli altri cieli. Questa è la prima impressione che egli ne riceve:

« Le parti sue vivissime ed eccelse
sì uniforme son, ch'i' non so dire
qual Bëatrice per loco mi scelse. » (Par. XXVII, 100-102)

Come si vede, in questo Cielo non ci sono punti privilegiati rispetto agli altri: esso appare al nostro astronauta ante litteram del tutto uniforme, cioè dotato di simmetria sferica! Riguardo poi al tempo, ecco come si rivolge il Ghibellin Fuggiasco al suo avo Cacciaguida, desideroso di conoscere qualcosa di più circa il proprio futuro:

« ...Così vedi le cose contingenti
anzi che sieno in sé, mirando il punto
a cui tutti li tempi son presenti » (Par. XVII, 16-18)

Dio è il punto per il Quale tutti i tempi sono presenti: ogni istante di tempo è indistinguibile dagli altri, per cui l'universo per Lui è assolutamente uniforme nel tempo! Appare allora evidente che, tanto in un universo dotato di simmetria sferica, quanto in uno privo di istanti privilegiati ed uniforme nel tempo, qualcosa deve apparire assolutamente invariante, altrimenti la simmetria sarebbe spezzata!

Proviamo ad applicare il Teorema di Nöther ad una simmetria molto semplice. Per la Prima Equazione Cardinale della Dinamica scritta sopra, la risultante di tutte le forze esterne è nulla se la quantità di moto si conserva. Pertanto, se  tale risultante risulta nulla, è nullo anche il lavoro per traslazioni in qualsiasi direzione, e viceversa. In altre parole, poiché nessun lavoro viene speso o ottenuto per  traslare il sistema, per il sistema le due situazioni prima e dopo la traslazione sono  identiche. L'identità delle due situazioni si esprime dicendo che il sistema è invariante  per traslazioni nello spazio, ovvero che lo spazio per esso è omogeneo. Viceversa, se per un sistema fisico lo spazio risulta omogeneo, non si compie alcun  lavoro traslandolo. Ciò implica che la risultante delle forze esterne è nulla, e quindi, sempre in base alla Prima Equazione Cardinale della Dinamica, la quantità di moto si conserva. Conclusione: uniformità dello spazio significa conservazione della quantità di moto, e viceversa!

Un altro modo di vedere la questione è il seguente. Lo scienziato cinese Der-Tsai Lee ha affermato che « il fondamento di tutte le simmetrie in Fisica sta nell'impossibilità di misurare certe quantità fondamentali ». Si consideri per esempio un cristallo perfettamente ordinato nello spazio, diciamo con struttura cubica. Questa struttura del cristallo non cambia minimamente aspetto per effetto di una traslazione di una lunghezza pari al passo reticolare. L'impossibilità di rilevare tale spostamento, o (il che è lo stesso) l'impossibilità di effettuare una misura assoluta di posizione, conferisce al cristallo una "simmetria traslazionale". Poiché lo spostamento rigido del cristallo non dà luogo ad alcuna forza, per via della Prima Equazione Cardinale della Dinamica si ritorna ineluttabilmente alla conservazione della quantità di moto.

Se analogamente consideriamo un sistema in rotazione rispetto ad un asse, la conservazione del momento angolare comporta il fatto che anche il momento delle forze applicate è nullo, e perciò il  lavoro è nullo. Poiché nessun lavoro viene speso o guadagnato nel ruotare il sistema, per esso  nulla cambia in conseguenza della  rotazione. Ciò si esprime dicendo che il sistema è invariante per rotazione, oppure che tutte le  direzioni dello spazio sono equivalenti, o anche che lo spazio è isotropo. Viceversa, se per il sistema fisico lo spazio è isotropo, nessun lavoro viene compiuto, e perciò il momento delle forze applicate è nullo; di conseguenza il momento  angolare si conserva. L'invarianza rotazionale è dunque la proprietà che comporta la conservazione del  momento angolare. Analogamente si potrebbe dimostrare che l'invarianza dei risultati degli esperimenti rispetto  all'istante in cui sono stati eseguiti comporta la conservazione dell'energia meccanica totale.

Conclusione: l'uniformità dello spazio comporta la conservazione del vettore quantità di moto; l'isotropia dello spazio comporta la conservazione del momento angolare; l'uniformità nel tempo comporta la conservazione dell'energia. Appuntiamo ora il nostro discorso sulla prima legge di conservazione, e cominciamo ad osservare questo esametro del « duca, segnore e maestro » (Inf. II, 140) di Dante, l'« anima cortese mantoana » (Inf. II, 58):

« Quadrupedante putrem sonitu quatitu ungula campum »
[Batte con tonfo quadruplice la terra dei campi lo zoccolo] (Eneide VIII, 596)

A differenza della metrica italiana, basata sugli accenti, quella greca e latina è quantitativa, cioè basata sulla lunghezza delle sillabe. L'esametro, come dice la parola, è formato da sei metri o piedi; i primi quattro possono essere dattili (una sillaba lunga accentata e due brevi) o spondei (due sillabe lunghe, la prima accentata), il quinto in genere è sempre dattilo, il sesto è spondeo oppure trocheo (una sillaba lunga accentata e una breve). L'esametro pentadattilico, formato cioè da cinque dattili e da uno spondeo o trocheo, è in effetti piuttosto infrequente; quando lo si incontra, molto probabilmente è perchè il poeta ha voluto che quel particolare verso fosse strutturato in quel modo. Consideriamo l'esempio fornito qui sopra, e trascriviamolo in questo modo, mettendo in evidenza in maiuscolo le sillabe accentate:

QUA dru pe | DAN te pu | TREM so ni | TU qua tit | UN gu la | CAM pum

Appare evidente che tutti e cinque i dattili hanno la stessa struttura ritmica. Proviamo a far scivolare il quinto dattilo in prima posizione, traslando in avanti tutti gli altri di un piede:

tUN gu la | QUA dru pe | DAN te pu | TREM so ni | TU qua ti | CAM pum

Inglobando la "t" finale di "quatit" nella sillaba lunga iniziale di "ungula", ci accorgiamo che la musicalità del verso è rimasta la stessa! Eseguiamo di nuovo la stessa operazione:

TU qua tit | UN gu la | QUA dru pe | DAN te pu | TREM so ni | CAM pum

Nulla cambia. Provando fino a girare tutti dattili, appare evidente che il verso è caratterizzato da una simmetria traslazionale fonica. Poiché essa comporta la conservazione della quantità di moto dei cavalli di Enea e dei suoi uomini, noi avvertiamo per onomatopea il suono di quella cavalcata, di quel ritmico battere dello zoccolo sui sassi. È la stessa impressione che noi ricaviamo osservando questa metopa di Fidia (490-430 a.C.) proveniente dal Partenone di Atene e risalente al 447 a.C.:

Qui però l'idea della conservazione del momento angolare è fornita all'osservatore non fonicamente, ma per immagini: i cavalli sono tutti identici fra di loro, come i loro cavalieri, e dunque possono essere tranquillamente traslati gli uni sugli altri, dando l'idea della conservazione della quantità di moto e quindi della cavalcata a ritmo costante, soprattutto attraverso quel groviglio di garretti e di zoccoli che sembrano materialmente alzarsi e abbassarsi per sovrapporsi gli uni agli altri, in un perenne inseguimento che dura ormai da quasi 25 secoli! L'analogia tra il verso virgiliano e il bassorilievo di Fidia è tale da ricordarci i versi di Dante che contempla gli esempi di umiltà istoriati sulle pietre della Prima Cornice del Purgatorio::

« Colui che mai non vide cosa nova
produsse esto visibile parlare,
novello a noi perché qui non si trova. » (Purg. X, 94-96)

Sembrerà incredibile, ma il Teorema di Nöther può essere applicato anche alla musica, la regina di tutte le arti foniche. Eccone un esempio eloquente:

Come si vede in questa partitura (tratta dal seguente sito) del Primo Contrappunto dell'"Arte della Fuga" (BWV 1080) di Johann Sebastian Bach (1685-1750), il tema fondamentale si ripete mediante simmetria traslazionale ogni quattro battute e, inseguendo se stesso, dà proprio l'idea di una fuga, cioè di una quantità di moto costante (e quindi di una velocità costante!)

Vediamo ora un esempio contrario, di rottura di simmetria. Si consideri il seguente vaso, la cosiddetta Anfora Panatenaica, proveniente dalla Tomba della Panatenaica ed oggi al Museo nazionale di Vulci:

Quelli raffigurati non sono quattro corridori: sono sempre gli stessi due, ripresi in due istanti diversi. L'idea del moto accelerato scaturisce dalla rottura della simmetria: se i due corridori fossero stati rappresentati alla stessa distanza fra loro sia a destra che a sinistra, la simmetria traslazionale avrebbe comportato la conservazione della quantità di moto. Siccome invece la distanza è cambiata, il corridore che insegue ha dovuto compiere un passo più lungo di colui che lo precede, e quindi aumentare la propria quantità di moto!

A questo punto, vi domanderete tutti: anche nella Divina Commedia esistono esempi di applicazione del Teorema di Nöther e delle simmetrie che portano alle leggi di conservazione della meccanica classica? Naturalmente sì. Analizziamo ad esempio la seguente terzina:

« Come fa l'onda là sovra Cariddi,
che si frange con quella in cui s'intoppa,
così convien che qui la gente riddi » (Inf. VII, 22-24)

Si noti che il primo verso può essere così suddiviso:

Co me fa | L'ON da là | So vra Ca | RID di

La struttura è la medesima dell'esametro virgiliano da noi analizzato sopra: se facciamo passare in secondo piano l'accento sul "là", scopriamo che il verso è formato da tre dattili e un trocheo, e dunque è studiato appositamente per assicurare, attraverso la simmetria traslazionale, la conservazione della quantità di moto delle acque del mare, tanto che ci sembra di vedere queste tre onde, le cui creste sono rappresentate dalle sillabe CO, L'ON, SO, avanzare verso i terribili scogli dello Stretto di Messina! E non è tutto, perchè il verso successivo sembra avere una struttura del tutto speculare:

che si FRAN | ge con QUEL | la-in cui s'in TOP | pa

I primi due sono "dattili rovesciati", con l'ultima sillaba accentata delle tre, mentre il terzo è un gruppo di quattro sillabe di cui l'ultima accentata, se consideriamo secondario l'accento su "cui". Qui appare evidente la rottura della simmetria traslazionale rispetto al verso precedente: l'andamento è anzi il contrario, tanto da visualizzare ai nostri occhi l'immagine di tre onde che viaggiano in direzione contraria verso le tre dell'emistichio precedente, fino ad "intopparsi" in esse! E si noti che la rottura di simmetria è evidente anche nel fatto che a tre terne di sillabe segue un gruppo di quattro, il che ci fa pensare che l'ultima onda sia maggiore e più veloce delle altre, tanto da spingerle fragorosamente ad infrangersi contro quelle del verso 22!!

Hiroshige Utagawa (1797-1858), Le onde del mare

Ma sicuramente il brano dantesco in qui è più evidente il concetto di simmetria è quello degli esempi di superbia punita, una delle costruzioni più raffinate di tutta la poesia dantesca.

Gli esempi sono in tutto tredici, ognuno dei quali occupa una terzina, e sono divisi in tre gruppi di quattro, più una conclusione riassuntiva. I primi quattro sono esempi di superbia contro la Divinità, punita da Dio stesso:

« Vedea colui che fu nobil creato
più ch'altra creatura, giù dal cielo
folgoreggiando scender, da l'un lato.

Vedëa Brïareo, fitto dal telo
celestïal giacer, da l'altra parte,
grave a la terra per lo mortal gelo.

Vedea Timbreo, vedea Pallade e Marte,
armati ancora, intorno al padre loro,
mirar le membra d'i Giganti sparte.

Vedea Nembròt a piè del gran lavoro
quasi smarrito, e riguardar le genti
che 'n Sennaàr con lui superbi fuoro. » (Purg. XII, 25-36)

Tutti e quattro sono introdotti dalla formula d'apertura "VEDEA", probabilmente ricavata da questa citazione evangelica, che ha fornito il primo spunto all'idea poetica della successione dei bassorilievi:

« Egli disse: "Io vedevo Satana cadere dal cielo come la folgore" » (Luca 10, 18)

Evidenti sono i quattro esempi: Satana, colui che era stato creato migliore di ogni altra creatura, è precipitato dal Paradiso per la sua ribellione contro Dio; Briareo è stato abbattuto dalle frecce divine per aver tentato di dare la scalata all'Olimpo; i Giganti sono stati fatti a pezzi da Apollo (detto "Timbreo" perchè era venerato nel santuario di Timbra, nella Troade), Athena, Ares e Zeus dopo che si erano ribellati all'autorità di quest'ultimo; e Nembròt, il biblico gigante di cui riparleremo nel seguito, non riesce a portare a termine la Torre di Babele ("il gran lavoro") nella pianura di Sennaàr (Babilonia), e guarda ormai rassegnato i suoi compagni di cui non intende più le lingue.

Seguono poi quattro esempi di vanagloriosi che causarono la rovina di se stessi, puniti dal proprio rimorso, ed introdotti dall'invocazione "O" seguita da un nome proprio:

« O Nïobè, con che occhi dolenti
vedea io te segnata in su la strada,
tra sette e sette tuoi figliuoli spenti!

O Saùl, come in su la propria spada
quivi parevi morto in Gelboè,
che poi non sentì pioggia né rugiada!

O folle Aragne, sì vedea io te
già mezza ragna, trista in su li stracci
de l'opera che mal per te si fé.

O Roboàm, già non par che minacci
quivi 'l tuo segno; ma pien di spavento
nel porta un carro, sanza ch'altri il cacci. » (Purg. XII, 37-48)

Stavolta i protagonisti sono Niobe, la figlia di Tantalo la quale osò vantarsi di aver avuto più prole della dea Latona (sette figli e sette figlie contro i due soli Apollo e Diana), la quale ordinò ai suoi due rampolli di uccidere tutti i quattordici dell'incauta madre; il re Saul che, abbandonato da Dio per la sua superba disobbedienza, morì suicida sul monte Gelboe dopo essere stato sconfitto dai Filistei (e Davide pianse così su di lui: « O monti di Gelboe, non più rugiada né pioggia su di voi, perché qui fu avvilito lo scudo di Saul »: 2 Samuele 1, 21); Aracne, la tessitrice della Lidia, che avendo sfidato Athena in una gara di abilità ed avendola vinta, fu trasformata in ragno dalla dea dopo che questa ebbe fatto a pezzi la sua tela; e Roboamo, figlio ed erede di Re Salomone che, avendo tentato di alzare le tasse, fu costretto a fuggire a Gerusalemme su un carro in seguito all'insurrezione del popolo.

Aragne "già mezza ragna", vista da Gustave Dorè

Segue poi un terzo gruppo di terzine, contenente quattro esempi di superbi contro il prossimo, puniti dai loro avversari, ed introdotti dalla formula "MOSTRAVA", ovviamente "il pavimento", come detto nella prima terzina e sottinteso nelle altre tre:

« Mostrava ancor lo duro pavimento
come Almeon a sua madre fé caro
parer lo sventurato addornamento.

Mostrava come i figli si gittaro
sovra Sennacherìb dentro dal tempio,
e come, morto lui, quivi il lasciaro.

Mostrava la ruina e 'l crudo scempio
che fé Tamiri, quando disse a Ciro:
«Sangue sitisti, e io di sangue t'empio».

Mostrava come in rotta si fuggiro
li Assiri, poi che fu morto Oloferne,
e anche le reliquie del martiro. » (Purg. XII, 49-60)

Qui sono immortalati rispettivamente:

A questi tre gruppi di terzine ne segue una conclusiva, che riguarda la città di Troia, già definita da Virgilio « superbum Ilium » (Eneide III, 2-3) e da Dante « 'l superbo Ilïón » (Inf. I, 75):

« Vedeva Troia in cenere e in caverne;
o Ilïón, come te basso e vile
mostrava il segno che lì si discerne! » (Purg. XII, 61-63)

Come si vede, ogni verso della terzina è introdotto da una delle formule utilizzate nei gruppi precedenti, ad indicare, come scrisse il Parodi, che « fu da sola esempio tipico di quei tre tipi di superbia: ribelle alla divinità, vanagloriosa, cupidamente tirannica ». Tra l'altro le iniziali delle tre formule "Vedea", "O", "Mostrava" danno vita all'acrostico VOM, così da indicare che l'uomo è creatura superba per natura, fin dal principio della sua storia. Quello che a noi interessa notare è soprattutto la disposizione assolutamente simmetrica dei tredici esempi di superbia punita, secondo uno stile geometrizzante di gusto tipicamente medioevale. La simmetria può essere prolungata se si ritiene, come fa Manfredi Porena, che l'esempio di Briareo e dei Giganti rappresenti in realtà un unico esempio di superbia punita, disteso su due terzine, perchè dopotutto Briareo era considerato da Dante uno dei Giganti; se è così, gli esempi di superbia punita sono in tutto dodici (un numero chiaramente simbolico), alternativamente sei tratti dalla storia sacra e sei dalla mitologia pagana; i primi sei rappresenterebbero atti di superbia contro la Divinità, i restanti contro gli uomini.

In ogni caso, una distribuzione talmente simmetrica non può non obbedire al Teorema di Nöther. Sì, ma in che modo? Prendiamo le prime quattro terzine: esse hanno la stessa iniziale, e non cambierebbe nulla, alla luce del racconto dantesco, se le sottoponessimo a permutazione circolare, cioè se invece della 1a, 2a, 3a e 4a le leggessimo in quest'ordine: 2a, 3a, 4a e 1a, oppure 3a, 4a, 1a e 2a, o infine 4a, 1a, 2a e 3a: la simmetria resterebbe rispettata. Ne consegue la simmetria traslazionale di questi versi, e quindi la conservazione della quantità di moto... di chi? Di Dante, ovviamente, che sta avanzando per osservare i bassorilievi scolpiti sulla pavimentazione del girone! In pratica, i versi 25-36 ci danno l'idea che Dante avanzi progressivamente, con passo lento ma costante, sopra gli esempi di Satana, di Briareo, dei Giganti e di Nembròt, osservandoli e descrivendoli mentre procede dall'uno all'altra, quasi essi fossero i fotogrammi di un film. Non è certo un caso se alla fine il Poeta commenterà:

« Morti li morti e i vivi parean vivi:
non vide mei di me chi vide il vero,
quant'io calcai, fin che chinato givi. » (Purg. XII, 67-69)

L'impressione del movimento dell'osservatore è dunque connaturato nella descrizione degli esempi di superbia! Tuttavia nei versi 37-48 cambia il modulo verbale, dal "Mostrava" si passa all'"O". Il 5°, il 6°, il 7° e l'8° esempio sono permutabili tra loro per simmetria traslazionale, ma non più con i primi quattro. Ciò fornisce l'impressione di un cambio di passo. Dante ha continuato ad avanzare sugli esempi di Niobe, Saul, Aracne e Roboamo, ma lo ha fatto con velocità diversa dai primi quattro. E siccome la particella "O" è più breve da pronunciare di "Mostrava", ci lascia pensare che il passo si sia fatto più svelto, come se il Pellegrino indugiasse maggiormente sugli esempi di superbia contro la Divinità, che non su quelli di vanagloria. Nei versi 49-60 la formula di introduzione cambia di nuovo, passando a un "Mostrava" che è più lungo (trisillabo) sia di "Vedea" (bisillabo) sia del monosillabico "O". Nel calpestare i bassorilievi di Erifile, Sennacherib, Ciro e Oloferne Dante procede ancora a velocità costante, ma più lentamente che nei due casi precedenti, forse perchè la storia di ciascuno è complessa da spiegare, come visto sopra, o perchè gli esempi di superbia contro il prossimo richiamano a Dante qualche fatto personale. Infine, i versi 61-63 sembrano indicare un nuovo cambio di passo, quasi una rapida corsa, come se il Poeta fosse stanco di tanta superbia mostrata davanti ai suoi occhi, e non vedesse l'ora di iniziare il cammino per salire alla nuova Cornice degli Invidiosi!

Prima di cambiare argomento è giusto aggiungere che, nella Fisica Moderna, il concetto di simmetria ha un'importanza fondamentale dopo l'introduzione delle cosiddette simmetrie di gauge. Il primo a introdurle fu il tedesco Hermann Weyl (1885-1955), il quale tentò unificare l'elettromagnetismo di Maxwell e la Relatività Generale di Einstein, ipotizzando che l'invarianza al variare della scala di misura ("gauge" in inglese) o Eichinvarianz potesse valere anche per la relatività generale, ma fu costretto a concludere che quest'ipotesi era priva di significato fisico. Tuttavia, dopo l'avvento della meccanica quantistica, lo stesso Weyl insieme al sovietico Vladimir Fok (1898-1974) e al tedesco Fritz London (1900-1954) scoprì che la sua vecchia idea, sostituendo la trasformazione di scala con una trasformazione di fase, spiegava elegantemente l'effetto di un campo elettromagnetico sulla funzione d'onda di una particella quantistica dotata di carica elettrica (vedi una delle lezioni successive). Questa fu la prima teoria di gauge della storia, a cui seguirono molte altre, tutte caratterizzate da trasformazioni locali che lasciano invariata la cosiddetta "lagrangiana" del sistema, dette per l'appunto simmetrie di gauge. Questo formalismo matematico ottenne un enorme successo nel descrivere, in un solo quadro teorico unificato, le teorie di campo quantistico dell'elettromagnetismo, dell'interazione nucleare debole e dell'interazione nucleare forte. La teoria di gauge oggi nota come Modello Standard descrive accuratamente tre delle quattro forze fondamentali della natura, lasciando fuori la sola forza gravitazionale, il che fa pensare che il Modello Standard sia incompleto, e sia necessaria una teoria di gauge più ampia, tuttora inseguita dagli scienziati di tutto il mondo. La Teoria delle Superstringhe, cui accenneremo nell'ultima lezione, non è altro che una nuova teoria di gauge con cui si è cercato di superare le difficoltà del Modello Standard, anche se finora con successi assai limitati rispetto alle attese. Se volete sapere qualcosa di più sul Modello Standard, cliccate qui.

Il Teorema di Nöther presuppone l'esistenza di un preciso ordine nella Natura, costituito dalle relazioni di simmetria a cui corrispondono le leggi di conservazione suddette. Se però la Natura fosse ordinata come le piastrelle che pavimentano una chiesa gotica, ci accorgiamo ben presto che il libero arbitrio umano verrebbe meno. Perchè?

Perchè tutte le equazioni fin qui viste, alla base della Fisica Classica e Relativistica, sono equazioni lineari. Ciò significa che, a partire da determinate condizioni iniziali, esse possono portare ad una soluzione e ad una soltanto. Facciamo un esempio molto semplice.

Consideriamo un punto materiale (cioè un corpo le cui dimensioni sono piccole rispetto alla distanza dall'osservatore) che si muove in un mondo unidimensionale, cioè lungo una linea retta orientata. Se parte con velocità iniziale v0 = 4 m/s e procede con accelerazione costante pari ad a = 2 m/s2, dopo 6 secondi in che posizione si ritroverà? Risolvendo il Secondo Principio della Dinamica di Isaac Newton, oppure usando la Prima Equazione Cardinale della Dinamica, si ricava facilmente che la legge oraria del moto rettilineo uniformemente accelerato è:

E sostituendo i dati:

Se invece partissi da  v0 = 3 m/s ed a = 4 m/s2, dopo 8 secondi avremmo s = 152 m. Come si vede, a partire da determinate condizioni iniziali, la soluzione può essere soltanto una. Ma, se fosse così, inserendo in opportune equazioni del moto le condizioni iniziali al momento della nostra nascita, potremmo determinare in ogni istante dove saremo, con che velocità ci staremo muovendo, e così via. La Fisica Classica e quella Relativistica sono fondamentalmente deterministiche, e non lasciano alcun grado di libertà alla nostra esistenza, come se tutta la storia dell'universo fosse già stata ineluttabilmente scritta fin da principio. Lo aveva capito bene il fisico francese Pierre Simon de Laplace (1749-1827), il quale nell'introduzione all'"Essai philosophique des probabilités" (1814) così scrisse:

«Un'intelligenza che in un certo istante conoscesse tutte le forze che mettono la natura in moto e tutte le posizioni di tutti gli oggetti la quale natura è conosciuta, se questo intelletto fosse anche abbastanza vasto per analizzare questi dati, raccoglierebbe in una singola formula i movimenti dai più grandi corpi dell'universo a quelli del più piccolo atomo; per una tale intelligenza niente sarebbe incerto e il futuro, come il passato, sarebbe il presente ai suoi occhi. »

Nel XVI Canto del Purgatorio Dante discute ampiamente del libero arbitrio umano con Marco Lombardo (lo stesso da noi visto a proposito della Relatività), il quale così lo mette in guardia:

« Voi che vivete ogne cagion recate
pur suso al cielo, pur come se tutto
movesse seco di necessitate.
Se così fosse, in voi fora distrutto
libero arbitrio, e non fora giustizia
per ben letizia, e per male aver lutto. » (Purg. XVI, 67-72)

Naturalmente Marco Lombardo (attraverso cui parla lo stesso Dante) confuta questa opinione, riaffermando l'importanza della condotta umana

« Ben puoi veder che la mala condotta
è la cagion che 'l mondo ha fatto reo,
e non natura che 'n voi sia corrotta. » (Purg. XVI, 103-105)

Nel campo della Fisica contemporanea, a confutare la convinzione che tutto sia già scritto, e che l'uomo sia una mera marionetta nelle mani della Divinità (quando non, come nel caso degli autori pagani, di un cieco fato), viene la cosiddetta Teoria del Caos. Si tratta indubbiamente di un argomento molto complesso, ma cercherò di renderlo accessibile ai miei lettori con il numero minimo di parole necessarie, e soprattutto senza troppi tecnicismi. Abbiamo detto che le equazioni di Newton e di Einstein sono essenzialmente deterministiche, ma non tutti i fenomeni fisici sono prevedibili con tanta precisione. Si consideri ad esempio un rubinetto e lo si apra pochissimo, in modo che esca solo un sottilissimo filetto fluido. Questo tipo di moto si chiama laminare, e le molecole d'acqua sembrano seguire percorsi esattamente determinati, cioè tutti paralleli verso il basso come punti materiali in caduta libera, che potrebbero risultare facilmente da soluzioni delle equazioni della Dinamica. Tuttavia, appena si apre maggiormente il rubinetto, ci accorgeremo che il moto diventa ben presto turbolento, cioè le molecole d'acqua seguono complessi vortici e mulinelli, qualcosa di ben diverso dalle prevedibili soluzioni delle equazioni deterministiche della Fisica Classica (o Relativistica). Ma non è tutto. Se chiudiamo il rubinetto e lo riapriamo esattamente quanto era aperto prima, ci potremmo aspettare che i vortici e le turbolenze dell'acqua siano identici ai precedenti, siccome siamo partiti dalle stesse condizioni iniziali. Invece, chiudendo e riaprendo il rubinetto dieci volte e fotografando i vortici ottenuti, otterremo dieci fotografie completamente diverse. In questo caso, ad identiche condizioni iniziali corrispondono evoluzioni completamente diverse del sistema fisico, a prima vista assolutamente imprevedibili!

Perchè ciò avviene? Perchè le equazioni del moto turbolento dell'acqua in uscita da un rubinetto, al contrario di quelle di Galilei, Newton ed Einstein, sono equazioni non lineari. Se noi perturbiamo di pochissimo le condizioni iniziali di un sistema fisico che obbedisce ad equazioni lineari (deterministiche), anche l'evoluzione del sistema sarà perturbata di pochissimo. Al contrario, modificando anche solo lievemente le condizioni iniziali di un sistema soggetto ad equazioni non lineari, com'è appunto la turbolenza in una tubatura d'acqua, ci accorgeremo che le perturbazioni del sistema divergono all'infinito. Una piccola differenza all'inizio comporta un'evoluzione assolutamente non prevedibile. I sistemi che obbediscono a equazioni di questo tipo e che hanno questo genere di evoluzione inaspettata prendono il nome di sistemi caotici, dal greco "caos", "disordine" (questa radice indoeuropea porta al greco "chiaino", "mi apro", "chasma", "apertura", al sanscrito "hanu", "fauce", e al tedesco "gähnen", "sbadigliare": vi è dunque il senso di un ampio spazio vuoto esistente prima dell'universo, nel quale gli elementi erano mescolati alla rinfusa, prima dell'intervento di una Entità ordinatrice).

Il termine "caos" fu usato per la prima volta in Fisica Matematica da Tien-Yien Li (1945-) e James A. Yorke (1941-) in un articolo intitolato "Period Three Implies Chaos" (1975), ma le basi della teoria erano già state poste fin dai primi del Novecento da Henri Poincaré (1854-1912). Questi, cercando di risolvere le equazioni del moto di tre corpi che interagiscono mediante forze gravitazionali, si era accorto che le traiettorie cambiavano fortemente in conseguenza di piccole variazioni delle condizioni iniziali, e quindi che il problema non era di natura deterministica; gli studi erano stati poi proseguiti tra gli altri da Jacques Hadamard (1865-1963) e da Andrei Kolmogorov (1903-1987). Anche Albert Einstein con la sua Teoria della Relatività Generale mise in rilievo l'esistenza di fenomeni non lineari nell'Universo. Nel frattempo i metodi di questa teoria si diffusero al di fuori della Matematica e della Fisica, fino a coinvolgere la Biologia, la Statistica, le Scienze Sociali e naturalmente la Filosofia. Considerate ad esempio l'immagine sottostante, nella quale potete vedere un celeberrimo dipinto di Vincent Van Gogh (1853-1890) intitolato "Notte Stellata", dipinto nel 1889 ed oggi al Museum of Modern Art di New York. Come ha scritto un critico, « violenti colpi di pennello generano vortici di luce e di colore che suggeriscono il senso di vertigine dell'autore davanti allo spettacolo notturno. La natura appare percepita come potenza incontrollabile, nella quale l'uomo si smarrisce ». Per fornire quest'impressione di incontrollabilità, che nessuna equazione lineare della Fisica può addomesticare, niente di meglio che rappresentare il cielo notturno (normalmente, come in Pascoli, simbolo dell'immutabilità, dell'eternità e della quiete) come un vorticoso e caotico gorgo marino. La Teoria del Caos al servizio dell'Arte!

Vincent Van Gogh, Notte stellata, 1889, Museum of Modern Art, New York

Nella Commedia di Dante vi sono molti esempi di sistemi caotici. Il più famoso è certamente la turba dei dannati che si affolla senza alcun ordine sulle rive dell'Acheronte, bramosa di essere traghettata al di là dalla barca di Caronte; il nostro Poeta è talmente persuaso della caoticità di questo sistema da paragonarlo, per darcene un'idea, a un'altra delle situazioni più caotiche che ci possa venire in mente: la dispersione delle foglie d'autunno da parte del vento:

« Come d'autunno si levan le foglie
l'una appresso de l'altra, fin che 'l ramo
rende a la terra tutte le sue spoglie,
similemente il mal seme d'Adamo
gittansi di quel lito ad una ad una,
per cenni come augel per suo richiamo. » (Inf. III, 112-117)

Se noi disponiamo cinquanta foglie secche nella stessa posizione per dieci volte e poi le soffiamo via per dieci volte sempre con la stessa intensità (ad es. con un ventilatore fisso a velocità costante), vedremo che esse si disperdono per dieci volte in maniera completamente differente. La stessa immagine è talmente legata nella nostra mente all'idea di caos, da tornare sotto forma di similitudine anche alla fine del Paradiso:

« Così al vento ne le foglie levi
si perdea la sentenza di Sibilla. » (Par. XXXIII, 65-66)

Si noti che la similitudine "caotica" è suggerita a Dante dal suo mentore Virgilio, quando descrive lui pure la turba delle ombre che cerca di salire sulla barca di Caronte:

« Quam multa in silvis autumni frigore primo
Lapsa cadunt folia, aut terram gurgite ab alto
Quam multae glomerantur aves, ubi frigidus annus
Trans pontum fugat et terris inmittit apricis. » (Eneide VI, 309-312)
[Tante così nei boschi, al primo freddo d'autunno,
volteggiano e cadono foglie, o a terra dal cielo profondo
tanti uccelli s'addensano, quando, freddo ormai, l'anno
di là dal mare li spinge verso le terre del sole.]

Basta una piccolissima variazione nelle correnti d'aria turbolente generate dal ventilatore, perchè le foglie siano soffiate via secondo itinerari completamente differenti. Questo concetto fu espresso acutamente nel 1842 da Edgar Alan Poe (1809-1849), nel suo romanzo giallo "Il mistero di Marie Rogêt", con le seguenti parole:

« Per quanto riguarda l'ultima parte della supposizione, si dovrà considerare che la più insignificante differenza nei fatti delle due vicende potrebbe dar luogo ai più importanti errori di calcolo, facendo divergere radicalmente le due sequenze dei fatti; proprio come in aritmetica un errore che in sé non ha valore, alla fine, moltiplicandosi da un punto all'altro del procedimento, produce un risultato lontanissimo dal vero. »

Non diversamente si espresse il matematico britannico Alan Turing (1912-1954) nel suo saggio "Macchine calcolatrici ed intelligenza" (1950):

« Lo spostamento di un singolo elettrone per un miliardesimo di centimetro, a un momento dato, potrebbe significare la differenza tra due avvenimenti molto diversi, come l'uccisione di un uomo un anno dopo, a causa di una valanga, o la sua salvezza »

Non si può fare a meno di citare in proposito la splendida lirica "Essere Rondine" del grande poeta fiorentino Mario Luzi (1914-2005), che come pochi ha saputo descrivere l'impossibilità di descrivere il moto caotico in termini puramente razionali:

« Sgorgano 
l'una dall'altra 
esse, traboccano 
fuori dal loro primo caldo gruppo, l'una 
dopo l' altra, disfano 
le loro rapide pattuglie 
sbandando sotto la loro impavida veemenza 
ed eccole si lanciano, 
nero zampillo ricadente, 
su, alte nell' aria, ma poco - 
è solo 
un primo assaggio 
quello, un primo guizzo 
di compressa fiamma 
poi allungano 
ciascuna più in alto - ciascuna 
più, vorrebbe - il loro getto 
ma non oltre il perimetro 
del loro aereo campo, 
non oltre il dominio della loro forza 

e toccato quel limite rientrano 
planando ad alta quota, 
impetuosamente si rituffano 
nella conca di quella 
inesauribile fontana. 

C'è pena 
o c'è felicità in quel fervere 
o in quell' affannarsi? 
che c'è in quel vorticare 
della vita dentro i suoi recinti? 
Sono libere 
quelle anime 
ma libere di muoversi 
a un ritmo segnato... 
che dice la molle ricaduta 
che cosa la razzante ascesa 
e la frenetica frecciata - 
si occulta spesso, 
talora si lascia leggere 
un pensiero 
scritto in ogni parte 
in ogni parte operante. 
Lo esprimono 
forse esse, lo gridano con strazio ed ebrietà, 
ne infuriano- 
è questo il loro essere rondini, 
in quella irrequietudine è la loro pace. »

Un altro uomo di scienza ad anticipare questo concetto fu lo scrittore di fantascienza Ray Bradbury (1920-), che nel suo racconto "Fragore di tuono" del 1952, immagina che in un lontano futuro venga inventata la macchina del tempo e sia possibile organizzare dei safari preistorici, in cui dei turisti vengono trasportati nell'era Mesozoica a caccia di dinosauri, a patto di restare sempre all'interno di percorsi ben delimitati. Inavvertitamente però un cacciatore inciampa e calpesta una farfalla fuori del percorso segnato; al suo ritorno a casa, troverà cambiata la situazione politica del suo paese!!

Uno dei sistemi più caotici che oggi noi cerchiamo di ingabbiare dentro equazioni risolubili è il tempo atmosferico. Ma l'atmosfera terrestre è un sistema talmente caotico che, come disse il matematico americano Edward Norton Lorenz (1917-2008), uno dei pionieri della Teoria del Caos, « basta che una farfalla sbatta le ali a Pechino, per modificare il clima a New York ». L'insignificante apporto di energia fornito all'atmosfera da quel battito di ali sarebbe infatti sufficiente per alterare completamente l'evoluzione prevista dalle equazioni non lineari della Fisica Atmosferica. Ecco perchè le previsioni meteorologiche a lungo termine sono del tutto inaffidabili. Ed ecco perchè, per riferirsi a questa particolare "sensibilità" dei sistemi caotici a minime variazioni dei parametri iniziali, si usa di solito la metafora dell'"effetto farfalla". Tanto per restare in tema, eccone un esempio in questa celebre filastrocca del poeta inglese George Herbert (1593-1633):

« Per colpa di un chiodo, si perse il ferro di cavallo;
Per colpa di un ferro, si perse il cavallo;
Per colpa di un cavallo, si perse il cavaliere;
Per colpa di un cavaliere, si perse un messaggio;
Per colpa di un messaggio, si perse la battaglia;
Per colpa di una battaglia, si perse il regno. »

Innumerevoli sono i sistemi che obbediscono alle equazioni del Caos, e non a quelle di Newton ed Einstein. Tra questi, per esempio, il fumo che si leva da una sigaretta; l'andamento delle borse internazionali; la diffusione dell'inchiostro nell'acqua; l'insorgere di attacchi di epilessia; e, naturalmente, il comportamento di una grande folla di individui, come  un branco di pesci, uno stormo di uccelli o i partecipanti a una grande manifestazione. Sono ad esempio caotiche, nell'Inferno dantesco, la gran folla di demoni che tenta di sbarrare ai due Poeti la porta della Città di Dite:

«Io vidi più di mille in su le porte
da ciel piovuti, che stizzosamente
dicean: "Chi è costui che sanza morte
va per lo regno de la morta gente?" » (Inf. VIII, 82-85)

E le anime degli Iracondi tuffate nello Stige, che non a caso all'arrivo del Messo Celeste si comportano come il fuggi fuggi delle rane appena spunta un serpente:

« Come le rane innanzi a la nimica
biscia per l'acqua si dileguan tutte,
fin ch'a la terra ciascuna s'abbica,
vid' io più di mille anime distrutte
fuggir così dinanzi ad un ch'al passo
passava Stige con le piante asciutte. » (Inf. IX, 76-81)

In pratica, quasi tutti i fenomeni che riguardano l'esistenza umana subiscono un'evoluzione estremamente sensibile alle condizioni iniziali, e quindi risultano caotici. E dal momento che appare assolutamente impossibile prevedere l'evoluzione a lungo termine di siffatti sistemi, ciò garantisce l'impossibilità di prevedere il nostro futuro sulla base di una Fisica prevalentemente deterministica, e quindi il nostro libero arbitrio è ampiamente salvaguardato. D'altro canto, come ha osservato il grande fisico e divulgatore inglese Paul Davies (1946-), anche ammettendo di vivere all'interno di un cosmo puramente deterministico, se un'Entità superiore fosse in grado di prevedere esattamente le nostre scelte, non potrebbe assolutamente comunicarcelo, perchè se lo facesse noi modificheremmo di conseguenza le nostre "condizioni iniziali", e le sue previsioni sarebbero vanificate. Perciò Marco Lombardo, strenuo assertore del libero arbitrio umano, una volta finito di scontare la sua pena nel Purgatorio tra gli Iracondi, potrà godersi il meritato riposo eterno.

Esiste però nell'Inferno un altro esempio meno noto che è riconducibile alla Teoria del Caos, e che vorrei trattare prima di ultimare questa lezione. In una delle lezioni precedenti abbiamo già parlato di Nembrotte, il biblico gigante la cui faccia era « lunga e grossa / come la pina di San Pietro a Roma » (Inf. XXXIII, 59-60); oltre ad essere l'unico che suona il corno (« Egli era valente nella caccia davanti al Signore », dice infatti di lui Gen 10, 9) egli è anche l'unico tra i giganti a parlare. Quando lo fa, però rimpiangiamo tutti che non se ne sia restato zitto. Ecco infatti le parole che egli rivolge a Dante:

« "Raphél maì amècche zabì almi",
cominciò a gridar la fiera bocca,
cui non si convenia più dolci salmi. » (Inf. XXXI, 67-69)

Quelle cinque parole assolutamente incomprensibili hanno fatto versore fiumi d'inchiostro a generazioni di dantisti. Qui non è il caso di dilungarsi sull'argomento, poiché il nostro è un ipertesto scientifico, non filologico; tuttavia, tra coloro che hanno cercato di dare un senso a quella strana imprecazione, vi è Domenico Guerri (1880-1934), nel suo saggio "Di alcuni versi dotti della Divina Commedia: ricerche sul sapere grammaticale di Dante" (1908). Secondo Guerri, Dante pensò che Nembrot si sarebbe espresso in una lingua non dissimile dall'ebraico dei personaggi biblici, e tentò di leggere in quel verso astruso le parole « Raphaim El, man amalech zabulon aalma? », cioè qualcosa tipo « Giganti! Che è questo? Gente lambisce la dimora santa! » Invece secondo il filologo Amerindo Camilli (1879-1960) in "Lingua Nostra, Il linguaggio di Nembrotto" (1953), la stessa frase ebraica andrebbe così interpretata: « O uomini simili a Dio, perché avete abbandonato la costruzione dell'alma torre? », riferendosi ovviamente alla Torre di Babele. L'abate Michele Angelo Lanci (1779-1867) nella sua "Dissertazione sui versi di Nembrotte e di Pluto nella Divina Commedia" (1819) andò al di là, sostenendo che Dante possedesse conoscenze di arabo, per tramite del suo maestro Brunetto Latini, vissuto per alcuni anni ad Oviedo nelle Asturie, e che questa frase sarebbe la traslitterazione della frase araba « Raphe lmai amec hza bialmi », cioè più o meno « Esalta il mio splendore nell'abisso, giacché esso rifulse nel mondo! »

Gustave Dorè, "La Torre di Babele", incisione, 1865

Gustave Dorè, "La Torre di Babele", incisione, 1865

Noi ci fermiamo qui, onde evitare di chiamare in causa altre lambiccate ipotesi, che fanno riferimento addirittura al siriaco o al copto. Il fatto è che, secondo me, pur essendo ottenuta accozzando effettivamente parole di origine araba o ebraica (e quindi appartenenti a lingue orientali), l'urlo di Nembrotte non ha volutamente alcun senso compiuto. Subito dopo infatti Virgilio spiega al suo accolito:

« Elli stessi s'accusa;
questi è Nembrotte, per lo cui mal coto
pur un linguaggio nel mondo non s'usa.
Lasciànlo stare e non parliamo a vòto;
ché così è a lui ciascun linguaggio
come 'l suo ad altrui, ch'a nullo è noto. » (Inf. XXXI, 76-81)

Insomma, secondo Virgilio le parole di Nembrotte rivelano chi egli è ("Elli stessi s'accusa"), cioè colui per colpa della cui cattiva pensata ("coto" da "cogito") non si usa un linguaggio solo sul pianeta Terra, avendo provocato la confusione babelica delle lingue. Subito dopo ingiunge a Dante di lasciarlo perdere e di non preoccuparsi di rispondergli, perché ogni linguaggio umano è per lui incomprensibile, come il suo è ignoto a tutti. Quelle cinque parole dunque sono state messe una accanto all'altra proprio per fornire al lettore un'immagine concreta della confusione delle lingue e del giusto contrappasso cui Nembrotte è condannato. Se le parole del gigante avessero un senso, per quanto recondito e sepolto sotto qualche esotica lingua orientale (ben pochi intellettuali europei al tempo di Dante parlavano l'ebraico o l'arabo, o anche solo il greco!), l'avvertimento di Virgilio ne risulterebbe contraddetto. Le singole parole possono avere un senso compiuto, perchè tratte da qualche lessico medievale: ad esempio "Zabì" potrebbe essere effettivamente derivato da "Zabulon", nome di uno dei figli di Giacobbe e Lia, la cui etimologia può essere collegata a "Zebadani", "dote" (« Lia disse: "Dio mi ha dato una buona dote." Perciò lo chiamò Zàbulon » dice Genesi 30, 20), o più probabilmente al cananeo "zebul", "signore". Ciò però non autorizza a concludere che l'urlo di Nembrotte debba essere traducibile con una frase di senso compiuto contenente una parola che significa "dote" o una che significa "signore". Conclusione: la frase di Nembrotto è un altro tipico esempio di Fisica del Caos. Cercare un senso compiuto in essa equivarrebbe a tentare di distinguere forme geometriche nelle nubi di passaggio, nella fiamme o nel fumo di una sigaretta, tutti fenomeni che noi sappiamo caotici e che quindi non possono essere razionalizzati da alcuna equazione lineare. A questo punto aveva proprio ragione Attilio Momigliano, commentando in proposito:

« Tutti i giganti di questo canto tacciono; il grido di Nembrotte, più bruto del silenzio, non è che dell'immane inespressività di questi guardiani del cerchio. Il motivo dominante del canto è appunto questo aspetto di materia enorme e idiota: lo stesso si vedrà nel canto di Lucifero. »

Ma non abbiamo ancora finito. Due sono infatti i versi cosiddetti "incomprensibili" dell'Inferno: l'uno è quello di Nembrotte discusso sopra, e l'altro è il famoso grido di « Pluto, il gran nemico » (Inf. VI, 115) con cui si apre il VII Canto dell'Inferno:

« Pape Satàn, pape Satàn aleppe! » (Inf. VII, 1)

Anche questo sembrerebbe a prima vista un bell'esempio di accozzaglia caotica di parole; ma non è esattamente così. E questo, per vari motivi, indicati dallo stesso Dante:

1) a differenza delle parole di Nembrotte, Virgilio ne afferra immediatamente il senso:

« E quel savio gentil, che tutto seppe » (Inf. VII, 3)

2) si tratta solo dell'inizio di un discorso più lungo, interrotto bruscamente dallo stesso Virgilio:

« cominciò Pluto con la voce chioccia »  (Inf. VII, 2)

3) si tratta un'espressione di rabbia:

« e disse: "Taci, maladetto lupo!
consuma dentro te con la tua rabbia!" » (Inf. VII, 8-9)

4) il loro scopo è quello di minacciare i due pellegrini, e Dante in particolare, inducendoli a tornare indietro:

« disse per confortarmi: "Non ti noccia
la tua paura; ché, poder ch'elli abbia,
non ci torrà lo scender questa roccia." » (Inf. VII, 4-6)

Pluto messo K.O. da Virgilio secondo Gustave Dorè

Pluto messo K.O. da Virgilio secondo Gustave Dorè

I ripetuti tentativi di dare un senso compiuto alla suddetta imprecazione sono più che giustificati. Voglio qui riportare solo alcuni di essi.

Il già citato Domenico Guerri, che eseguì innumerevoli ricerche nei glossari medioevali, ritenne di aver individuato in essi le parole che sarebbero all'origine di questo enigmatico verso. D'accordo con quasi tutti i commentatori contemporanei di Dante, per lui "Papè" è un'interiezione di stupore o di rabbia, attestata negli autori antichi, come il nostro "Oh, no!" "Satàn" sarebbe effettivamente Lucifero, principe di tutti i demoni, mentre "Aleppe" deriverebbe da "Aleph" (come "Giuseppe" da "Joseph"), prima lettera dell'alfabeto ebraico che, come l'Alfa greco da essa derivato, indica anche il numero uno, come si faceva ad esempio nella liturgia per enumerare i versetti delle "Lamentazioni", cantate nella Settimana Santa. In tal modo, secondo Guerri il verso incriminato significherebbe « Oh Satana, oh Satana re! », essendo Satana il sovrano dei diavoli: nell'ultimo Canto dell'Inferno, Dante chiamerà Lucifero « lo 'mperador del doloroso regno » (Inf. XXXIV, 28). Tale interpretazione è oggi sposata da quasi tutti i commentatori moderni, tra cui il Tommaseo, il Pagliaro e il Sapegno. Alcuni però leggono "Aleppe" in maniera diversa, facendolo derivare dal latino "alipes" cioè "con le ali ai piedi", dal momento che alcuni affreschi medioevali raffiguravano i demoni con le ali ai piedi come Mercurio, anziché dietro le spalle.

Manfredi Porena (1873-1955) dà una curiosa lettura dell'urlo del "gran nemico". Pluto è così definito da Dante perchè incarna l'avarizia e la cupidigia ("pluton" in greco significa "il ricco") punite appunto nel Quarto Cerchio dell'Inferno, ed è anche l'unica figura che vi spicca, giacché Virgilio specifica chiaramente che:

« la sconoscente vita che i fé sozzi,
ad ogne conoscenza or li fa bruni. » (Inf. VII, 53-54)

cioè i singoli avari e prodighi sono irriconoscibili, resi tutti uguali dal loro orrendo peccato. Solo di una cosa Dante è certo: che « tutti fuor cherci / questi chercuti a la sinistra nostra. » (Inf. VII, 38-39). L'avarizia ai tempi di Dante era peccato tipico degli ecclesiastici, i quali usavano le loro diocesi, abbazie, eccetera per arricchirsi, e non per servire a Dio. Tra l'altro Pluto è probabilmente da identificarsi con il mitologico Ade, figlio di Crono e fratello di Zeus, il cui nome per superstizioso timore non era mai nominato dai Greci, i quali lo chiamavano Pluton, "il ricco", essendo il sottosuolo ricchissimo di metalli preziosi. Il sovrano dell'Inferno pagano (tramutato dall'Alighieri in demonio come Cerbero, Minosse, Caronte, eccetera) era dunque il demone dell'avarizia; e nessuno era più avaro, sulla Terra, dei papi corrotti, impersonati al tempo di Dante dal suo nemico numero uno, Bonifacio VIII. Ciò premesso, secondo il Porena "Papè" deriva dal genitivo greco "Papài", "del Papa"; "Satàn" è riportato alla sua radice etimologica ebraica di "nemico", ben nota ai teologi medioevali; e "Aleppe" avrebbe lo stesso significato di "primo", "principale" assegnatogli dal Guerri. Il Porena così conclude:

« In un linguaggio che sa di Chiesa e di Bolla Pontificia (è il colmo del sarcasmo!), "Papè Satan Aleppe" significa "Primo Nemico del Papa!", che per Pluto, alleato di Bonifazio, è un insulto. Che un demonio possa per Dante essere alleato del Papa, e prendersela quindi con un suo nemico, non parrà strano a chi pensi che San Pietro in Persona, in Paradiso XXVII, 26-27, proclamerà che Lucifero si rallegra del punto di corruzione a cui Bonifazio ha portato la Chiesa di Roma! [...] E le parole "quel savio gentil che tutto seppe" vengono ad essere pienamente spiegate. Virgilio capì il significato delle parole di Pluto perchè sapeva l'animo del suo discepolo verso i papi avari, verso Bonifazio soprattutto; e comprese lo sgomento di Dante a vedersi così personalmente riconosciuto e investito. »

Secondo alcuni, il celebre verso rappresenterebbe nient'altro che una traslitterazione dal francese, lingua che forse a Dante non era ignota. Così Benvenuto Cellini (1500-1571) nella sua "Vita" (2, XXVII) dichiara di aver sentito una frase molto simile durante una lite a Parigi: « Phe phe Satan, phe phe Satan, alè phe », cioè « Sta' cheto, sta' cheto, Satanasso, levati di costí, e sta' cheto! ».Altri leggono invece : « Pas paix Satan, pas paix Satan, à l'épée! », cioè « « Niente pace, Satana, niente pace, Satana, alla spada! ». Ma certamente l'ipotesi più affascinante è quella di Ernesto Manara, che in un articolo del 1888 sostenne l'origine ebraica di questo verso. L'originale suonerebbe: « Bab e-Shatan, Bab e-Shatan aleb », in cui "Papè" corrisponderebbe a "Bab", cioè "porta" in aramaico; E-Shatan sarebbe il genitivo di "Shatan", ovvero Satana; ed "Aleb" sarebbe il verbo ebraico "prevalere", "vincere". In altre parole il verso suonerebbe: « la Porta degli Inferi, la Porta degli Inferi prevarrà! » Esattamente il contrario di quanto Gesù assicurò ai suoi discepoli:

« Le porte degli inferi non prevarranno contro di essa [la Chiesa] » (Matteo 16, 18)

Così conclude dunque il Manara:

« Ora domando io: alla soglia dell'Inferno, e sulla enfiata labbia di Plutone, che è spinto a fare maggiore sfoggio del suo potere dalla presenza del cristiano che s'avanzava, Dante, quali altre parole , se non il rovescio di quelle, avrebbe potuto mettere il poeta, per essere interprete vero e fedele della situazione creatasi nella sua mente? [...] Dante osa inoltrarsi nell'Inferno perchè si sa forte dell'egida di Dio. Trovatosi di fronte Plutone, che pecca sempre di superbia, epperò accoglie il sopravenuto colla minaccia della propria onnipotenza, cioè col vanto che il principio del male aveva trionfato del principio del bene, Dante s'impaura. Ed ecco soccorrerlo Virgilio esortandolo a discacciare la sua paura, chè, poter che abbia, Plutone è impotente contro i due poeti, e rintuzzando la vanteria di Plutone col ricordargli che v' è altri superiore alla sua potenza, perchè Vuolsi così colà dove si puote Ciò che si vuole. E questa interpretazione spiega pure perché Dante avesse così gelosamente custodito il segreto di quel verso enigmatico. E per vero egli avrebbe messo a serio repentaglio la fortuna del proprio libro se l'avesse svelato. Niun pontefice avrebbe permesso, anche in bocca a Plutone, l'audace smentita alla promessa fatta da Cristo che le porte dell'Inferno non avrebbero giammai prevalso! »

Naturalmente c'è anche la semplicissima spiegazione di Attilio Momigliano, secondo cui queste parole non avrebbero alcun senso, proprio come quelle di Nembrotte, e che sarebbero soltanto « un segno dell'imbecillità a cui riduce l'avidità delle ricchezze »; o quella di Domenico Palmieri e Giacomo Poletto, secondo i quali questa esclamazione sarebbe sono una « immagine della confusione babelica che regna nell'Inferno ». Un puro esempio di Fisica del Caos, insomma. Io però non sono affatto d'accordo. Come spiegato sopra, le parole di Pluto sono solo apparentemente inintelligibili; attraverso un'attenta analisi filologica è possibile dare loro un senso, anche se i filologi sono in disaccordo tra di loro su questa interpretazione, e dunque rappresentano a mio avviso un esempio di quello che la Matematica e la Fisica moderne conoscono sotto il nome di caos deterministico. Ma che cosa significa questo termine? Non è forse un ossimoro?

Si consideri lo spazio delle fasi di un sistema, cioè lo spazio i cui punti rappresentano tutti e soli i possibili stati del sistema: nel caso di un punto materiale, lo spazio delle fasi fornirà posizione e velocità del punto in ogni istante. In tale spazio l'evoluzione del sistema è descritta da innumerevoli orbite dette "traiettorie di stato", il cui andamento visto dall'esterno appare completamente caotico. Ora, se tali orbite restano tutte confinate all'interno di un certo spazio, ruotando intorno a uno o più punti, il sistema non evolve verso l'infinito per nessuna variabile, e quei punti dello spazio delle fasi prendono il nome di "attrattori". Ne consegue l'incredibile esistenza di modelli matematici non lineari eppure deterministici: alcuni fenomeni del mondo reale che ci appaiono del tutto caotici, quindi impossibili da rappresentare mediante modelli matematici deterministici, potrebbero in realtà essere governati da equazioni ben precise, anche se non lineari. In questo senso si parla di "caos deterministico".

Per avere un'idea di questo fatto, si consideri la semplice funzione:

Se si considera f(1), si trova 1; reinserendo questo valore nella funzione f, si trova ancora 1. Si approda insomma alla successione perfettamente costante { 1 ; 1 ; 1 ; 1 ; 1 ... } Evidentemente, x = 1 è un punto di equilibrio per questo semplice modello matematico. Partiamo invece da 2. f(2) = 1,41421356... Reinserendo questo valore nella funzione si ha f(1,41421356...) = 1,18920712... Di nuovo: f(1,18920712...) = 1,09050773... Insomma, continuando di questo passo otteniamo la successione decrescente { 2 ; 1,41421356... ; 1,18920712... ; 1,09050773... ; 1,04427378... } Come si può notare, anch'essa converge ad 1. Analogamente, partendo da f(0,5) si ottiene la successione: { 0,5 ; 0,70710678... ; 0,84089642... ; 0,91700404... ; 0,95760328... } che a differenza dell'altra è crescente, ma converge sempre ad 1. Non è difficile verificare che spostandosi di poco da 1, cioè partendo da 1,0001 o da 0,9999, la successione ottenuta iterando la funzione f torna sempre a convergere ad 1.

Anche x = 0 sembra un punto di equilibrio per la funzione f, dando vita alla successione costante { 0 ; 0 ; 0 ; 0 ; 0 ... }. Tuttavia, se ci spostiamo di poco da esso, per esempio portandoci in x = 0,001, si ottiene la successione { 0,001 ; 0,03162278... ; 0,17782794... ; 0,42169650... ; 0,64938163... } che manifestamente diverge irreversibilmente, allontanandosi progressivamente dallo zero. La situazione è analoga a quella di una pallina posta su di una guida metallica. Se la pongo nel punto più basso di essa, spostandola essa tende a tornarvi, mentre se la pongo nel punto più alto, spostandola essa si allontana indefinitamente da esso. Il primo si chiama perciò punto di equilibrio stabile, il secondo di equilibrio instabile. Nel nostro esempio numerico, x = 1 è un punto di equilibrio stabile, e quindi un attrattore.

Esempio di attrattori nello spazio delle fasi

Esempio di attrattori nello spazio delle fasi

Se osserviamo la successione delle cifre decimali di tali numeri, comprendiamo facilmente l'origine del termine "caos deterministico": sebbene i valori di f(x) siano ottenuti attraverso l'applicazione ripetuta della funzione radice quadrata, e quindi di un meccanismo puramente deterministico, queste cifre sembrano susseguirsi in modo apparentemente "casuale", senza alcuna regolarità o ricorrenza. Ne consegue che, analizzando le traiettorie nello spazio delle fasi, è possibile accorgersi che i punti di una traiettoria, i quali per brevi intervalli di tempo sembrano muoversi in modo del tutto casuale, sul lungo periodo non si sparpagliano a casaccio nello spazio delle fasi, ma vanno a disporsi su particolari "nuvole" di punti. Le strutture geometriche "emergenti" permettono di ricavare alcune importanti informazioni globali sul comportamento sul lungo periodo dei sistemi in regime caotico, come fece Edward Lorenz per le previsioni meteorologiche, e poi altri per il moto dell'aria nella galleria del vento intorno ad un profilo alare, in Economia per cercare di prevedere l'andamento dei mercati borsistici, o in Statistica per studiare la dinamica delle popolazioni.

Sulla base del concetto di caos deterministico, il fisico Bernard d'Espagnat (1921-) ha riformulato nel modo seguente il principio di identità tra grandezze fisiche: « Se due insiemi statistici sono sottoposti a trattamenti identici e se osservazioni successive rivelano tra essi significative differenze statistiche, se ne deduce che i due insiemi non erano identici fin d all'inizio ». Così scrive a sua volta il matematico ed economista Gian Italo Bischi:

« Se da una parte il fenomeno del caos deterministico limita la capacità di fare previsioni mediante modelli matematici, dall'altra suggerisce che fenomeni apparentemente complessi e aleatori potrebbero avere una semplice legge deterministica che ne sta alla base, e quindi essere simulati mediante semplici modelli matematici deterministici, purché non lineari. Per illustrare questo punto faccio ricorso a una frase di Umberto Eco, tratta dal romanzo "Il pendolo di Foucault" (1988): "Il mondo si muove in modo apparentemente disordinato, mentre c'è un disegno dietro." »

Esattamente come nel famoso verso dantesco « Pape Satàn, pape Satàn aleppe » da cui la nostra analisi ha preso le mosse: in apparenza parole latine o francesi o ebraiche o Dio sa cos'altro, accumulate a caso come nel brutale urlo di Nembrotte; in realtà, una loro analisi attenta porta queste parole a "convergere" verso un "attrattore" rappresentato da un significato ben preciso, probabilmente da individuarsi nel fatto che Dante Alighieri è nemico giurato dell'umana cupidigia, e quindi della Chiesa corrotta dei suoi tempi, con la quale è invece alleato il demonio Plutone.

 

Detto questo, è ora di lasciare la Meccanica per passare allo studio dei Fenomeni Ondosi. Per proseguire con me il viaggio nella scienza dantesca, cliccate qui.