Quattro cerchi giugne con tre croci

Surge ai mortali per diverse foci
la lucerna del mondo; ma da quella
che quattro cerchi giugne con tre croci...

(Par. I, 37-39)

 

« E ancora [l'Astronomia] è altissima di tutte le altre, però che, sì come dice Aristotile nel cominciamento de l'Anima, la scienza è alta di nobilitade per la nobilitade del suo subietto e per la sua certezza; e questa più che alcuna de le sopra dette è nobile e alta per nobile e alto subietto, ch'è de lo movimento del cielo; e alta e nobile per la sua certezza, la quale è sanza ogni difetto, sì come quella che da perfettissimo e regolatissimo principio viene. E se difetto in lei si crede per alcuno, non è da la sua parte, ma, sì come dice Tolomeo, è per la negligenza nostra, e a quella si dee imputare. » (Convivio II, XIII, 30)

Queste parole, tratte dal Convivio, mi sembrano le più adatte per aprire questa lezione, in cui intendo affrontare alcuni dei più complessi problemi astronomici propostici da Dante nella sua Commedia. Vi avviso subito che si tratterà di un percorso tutt'altro che agevole, per la complessità della materia trattata e per l'incredibile virtuosismo di Dante nel trasformare una fredda esposizione geometrica in un incomparabile sfoggio di poesia. Non è certo un caso se, nel secondo Canto del Paradiso, il nostro poeta ha voluto ammonire i suoi lettori circa l'impossibilità di leggere il suo viaggio attraverso i Cieli senza una notevole preparazione scientifica e dottrinale:

« O voi che siete in piccioletta barca,
desiderosi d'ascoltar, seguiti
dietro al mio legno che cantando varca,
tornate a riveder li vostri liti:
non vi mettete in pelago, ché forse,
perdendo me, rimarreste smarriti. » (Par. II, 1-6)

Rappresentando la sintesi somma del Medioevo, il nostro poeta fa largo uso della Geografia Astronomica, detta anche Astronomia Sferica, cioè del dettagliato studio della Sfera Celeste, con i suoi sistemi di circoli ed i suoi astri rotanti, per indicare l'ora o il momento dell'anno in cui avviene un certo incontro con questa o quell'altra anima. Nello schema sottostante si distinguono alcuni di questi cerchi ed assi, che avremo modo di spiegare più avanti. Nelle nostre lezioni abbiamo già riportato molte delle indicazioni astronomiche forniteci dal Ghibellin Fuggiasco; ora vedremo come esse possono essere utilizzate per ricostruire una sorta di cronologia del viaggio dantesco.

Le indicazioni astronomiche servono anzitutto a Dante per indicare la data in cui prende le mosse il suo viaggio ultraterreno, anche se, come vedremo, esse conducono a conclusioni fortemente discordanti. Per la grande maggioranza dei commentatori, l'anno in cui il Poeta colloca la sua incredibile avventura è il 1300, anno del Primo Giubileo della storia, indetto da Papa Bonifacio VIII. Dante sicuramente prese parte al pellegrinaggio giubilare alla basilica di San Pietro, come si evince dalla seguente similitudine, da lui imbastit per descriverci l'aspetto della Prima Bolgia:

« Nel fondo erano ignudi i peccatori;
dal mezzo in qua ci venien verso 'l volto,
di là con noi, ma con passi maggiori,
come i Roman per l'essercito molto,
l'anno del giubileo, su per lo ponte
hanno a passar la gente modo colto,
che da l'un lato tutti hanno la fronte
verso 'l castello e vanno a Santo Pietro,
da l'altra sponda vanno verso 'l monte. » (Inf. XVIII, 25-33)

In questi versi Dante ci riporta immediatamente ad una situazione di vita vissuta. Avendo concesso il Papa l'indulgenza plenaria ai pellegrini che si fossero recati nelle basiliche romane, prima tra tutte quella di San Pietro, Roma era invasa dai fedeli, e fu quindi necessario trovare un modo per regolare il traffico sull'unico ponte esistente, quello di Castel Sant'Angelo, che fu diviso a metà da una transenna in maniera: chi andava verso San Pietro lo poteva percorrere solo da un lato, e chi tornava indietro dall'altro. Si tratta di uno dei primi casi di regolazione del traffico cittadino, assai prima della diffusione delle automobili!

Più precisamente, il viaggio avrebbe luogo tra la fine di marzo e i primi giorni d'aprile. A questa conclusione portano numerose indicazioni di carattere non astronomico che si trovano in diversi passi del "Sacrato Poema":

A) L'età di Dante. La primissima terzina della Commedia recita:

« Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
ché la diritta via era smarrita » (Inf. I, 1-3)

Ora, nel Convivio Dante scrive testualmente:

« Tutte le terrene vite (...), [mon]tando e volgendo, convengono essere quasi ad imagine d'arco assimiglianti. (...) Tornando dunque a la nostra, sola de la quale al presente s'intende, sì dico ch'ella procede a imagine di questo arco, montando e discendendo. Là dove sia lo punto sommo di questo arco, è forte da sapere; ma ne li più io credo tra il trentesimo e quarantesimo anno, e io credo che ne li perfettamente naturati esso ne sia nel trentacinquesimo anno. » (Convivio IV, XXIII, 6.9)

Essendo Dante nato nel 1265, si arriva incontrovertibilmente all'anno 1300.

B) La profezia di Ciacco. Questo misterioso personaggio, probabilmente da identificarsi con Ciacco dell'Anguillaia, di cui si sono conservate fino ad oggi alcune poesie, parla a Dante del destino della sua parte politica, quella dei Guelfi Bianchi:

« ...Dopo lunga tencione
verranno al sangue, e la parte selvaggia
caccerà l'altra con molta offensione.
Poi appresso convien che questa caggia
infra tre soli, e che l'altra sormonti
con la forza di tal che testé piaggia » (Inf. VI, 67-68)

Dopo lunghi contrasti, vuol dire Ciacco, il 1 maggio 1300, in occasione di una festa in Piazza di Santa Trinità, nascerà una zuffa tra alcuni giovani del clan dei Cerchi e altri del clan dei Donati, rispettivamente i Bianchi e i Neri. La "parte selvaggia", cioè i Cerchi, così detti perchè provenivano dal contado, cacceranno tutti i capi dei Neri in esilio nel giugno 1301, dopo aver sequestrato loro i beni. Ma a loro volta i Bianchi avranno la peggio "infra tre soli", cioè entro tre anni, e i Neri riprenderanno il sopravvento grazie a colui che ora si destreggia tra le due fazioni senza prendere apertamente posizione, cioè Bonifacio VIII. Questi eventi avranno luogo ai primi del 1302, periodo a cui risale la cacciata in esilio di Dante, e dunque ancora una volta il calcolo ci riporta alla prima metà del 1300.

C) La profezia di Farinata degli Uberti. Questo personaggio, per il quale Dante mostra grande ammirazione benché fosse un ghibellino e un epicureo, risponde così al poeta che gli ha ricordato la cacciata da Dante della sua parte politica dopo la sconfitta di re Manfredi a Benevento il 26 febbraio 1266:

« "S'elli han quell'arte", disse, "male appresa,
ciò mi tormenta più che questo letto.
Ma non cinquanta volte fia raccesa
la faccia de la donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell'arte pesa." » (Inf. X, 77-81)

La "donna" cui Farinata accenna è Proserpina, la regina dell'Inferno pagano, che i Romani adoravano anche come Diana cacciatrice e come Luna in cielo (mentre in Grecia si trattava di tre divinità ben distinte). La sua faccia non sarà riaccesa, cioè la Luna non tornerà piena per 50 volte, periodo corrispondente a quattro anni e due mesi, prima che anche Dante sperimenti quant'è difficile rientrare da un esilio. Dante, esiliato come detto nel 1302, partecipò fino al 1304 ai falliti tentativi dei Bianchi di fare rientro in città, e dunque sottraendo quattro anni ci ritroviamo di nuovo nell'Anno Giubilare.

D) La morte di Guido Cavalcanti. Contemporaneamente al capo del Partito Ghibellino, Dante incontra anche Cavalcante Cavalcanti, padre del suo amico Guido, che domanda a Dante perchè il figlio non sia con lui nel suo viaggio ultraterreno. Equivocando le parole e ancor più il silenzio, del poeta Cavalcante crede che Guido sia morto e ricade supino dentro l'arca infuocata. L'Alighieri tenta allora di rimediare all'equivoco dicendo a Farinata:

« Allor, come di mia colpa compunto,
dissi: "Or direte dunque a quel caduto
che 'l suo nato è co' vivi ancor congiunto" » (Inf. X, 110-111)

Guido Cavalcanti era stata una delle personalità più eminenti della cultura fiorentina alla fine del Duecento, autore di raffinate rime e per un certo tempo maestro di Dante Alighieri, che gli aveva dedicato la "Vita Nuova". Prese parte attiva alla vita politica del Comune, militando come Dante tra i Guelfi Bianchi, ma nel giugno del 1300 i Priori di Firenze, tra cui c'era lo stesso Dante, decretarono l'esilio dei rappresentanti più faziosi dei due partiti, e Guido fu esiliato a Sarzana, dove morì nell'agosto del 1300, a causa di una malattia contratta in quel confino. Giusto dunque affermare che egli fosse ancora vivo nella Settimana Santa del 1300.

Farinata degli Uberti visto da Gustave Doré

Farinata degli Uberti visto da Gustave Doré

E) I ponti crollati di Malebolge. Com'è noto, a cavallo della Quinta Bolgia, quella dei Barattieri, il diavolo Malacoda informa Virgilio che i ponti che collegano le bolge crollarono al momento della morte di Cristo, avvenuta esattamente 1266 anni, un giorno meno cinque ore prima di quel momento:

« Ier, più oltre cinqu'ore che quest'otta,
mille dugento con sessanta sei
anni compié che qui la via fu rotta. » (Inf. XXI, 112-114)

Nel Medioevo si riteneva che Cristo fosse morto al compiersi dei 34 anni dal momento della Sua Incarnazione, fissata al 25 marzo perché dista nove mesi dalla tradizionale data della Natività (il 25 dicembre), ma anche perchè tale data è vicina all'equinozio di primavera. Ora, nel corso del Medioevo non era consuetudine iniziare a contare i giorni dell'anno dal 1 gennaio: i documenti notarili fiorentini ci tramandano che uno dei più comuni criteri di datazione fra XIII e XIV secolo era quello "ab incarnatione", cioè a partire dal 25 marzo. Sulla base di questa terzina è possibile dedurre che l'incredibile viaggio di Dante ebbe inizio il 25 marzo 1300, giorno che a Firenze era anche il primo giorno del nuovo anno e del nuovo secolo. E si sa che ogni passaggio di secolo ha sempre portato con sé un'ansia di rinnovamento e di rinascita, proprio come quella a cui Dante anelava dopo il suo traviamento nella Selva Oscura del peccato. Altri invece sostengono che Dante faccia riferimento al Venerdì Santo, che nel 1300 cadde l'8 aprile. Di questo problema di datazione riparleremo tra poco.

F) L'episodio di Casella. Appena giunto sulla spiaggia del Purgatorio, Dante vede arrivare l'Angelo Nocchiero che traghetta le anime nel Secondo Regno ultraterreno, dopo averle raccolte alla foce del Tevere. Tra i nuovi venuti c'è Casella, cantante fiorentino secondo Pietro, figlio di Dante, mentre per altri era pistoiese. Di lui poco sappiamo, ma è certo che dovette essere in grande familiarità con Dante, tanto da musicarne alcune canzoni, tra cui « Amor che ne la mente mi ragiona », la poesia con cui si apre il Terzo Trattato del Convivio. Doveva essere morto prima della fine del 1299, ma l'Angelo Nocchiero non aveva fino ad allora avuto modo di caricarlo sul suo vascello, che volava sulle acque come un hovercraft ante litteram:

« "Casella mio, per tornar altra volta
là dov'io son, fo io questo vïaggio",
diss'io; "ma a te com'è tanta ora tolta?"
Ed elli a me: "Nessun m'è fatto oltraggio,
se quei che leva quando e cui li piace,
più volte m'ha negato esto passaggio;
ché di giusto voler lo suo si face:
veramente da tre mesi elli ha tolto
chi ha voluto intrar, con tutta pace." » (Purg. II, 91-99)

Da tre mesi, dice Casella, l'Angelo ha accolto nella sua nave senza problemi tutte le anime che vogliono essere traghettate. E la spiegazione di ciò può essere una sola: nel Natale 1299 Bonifacio VIII ha bandito l'Anno Santo, e da allora tutte le anime beneficiano delle indulgenze concesse per il Giubileo e applicabili ai defunti. I tre mesi dall'inizio dell'Anno Santo ci portano necessariamente alla primavera del 1300.

G) La profezia di Corrado Malaspina. Nipote di Corrado il Vecchio, marchese di Villafranca, Corrado Malaspina, morto verso il 1294, era il signore della Lunigiana. Quando Dante lo incontra nella Valletta dei Principi, quasi sulla soglia del Purgatorio vero e proprio, Corrado gli parla della decadenza della classe dirigente, che ha smarrito i valori della tradizione cavalleresca, un tema rimasto scottante dai tempi di Dante sino al nostro. Il poeta però afferma che la famiglia Malaspina è tra le poche casate che non si sia smarrita nella decadenza generale, certamente in cambio dell'ospitalità che i Malaspina dovettero offrirgli durante l'amaro esilio. Corrado afferma tra l'altro:

« Or va; che 'l sol non si ricorca
sette volte nel letto che 'l Montone
con tutti e quattro i piè cuopre e inforca,
che cotesta cortese oppinïone
ti fia chiavata in mezzo de la testa
con maggior chiovi che d'altrui sermone,
se corso di giudicio non s'arresta » (Purg. VIII, 133-139)

Cioè: il Sole non tornerà per sette volte nel segno dell'Ariete (ciò ci riporta all'astronomia dantesca analizzata nella lezione precedente), ovvero non passeranno sette anni, che la tua ottima opinione nei confronti dei Malaspina sarà verificata nei fatti. Dante fu infatti ospite dei signori della Lunigiana nel 1306, come dimostra un documento in cui egli compare come procuratore dei marchesi Corradino, Franceschino e Moroello per concludere un accordo con Antonio, vescovo di Luni. Tornando indietro di sette anni si giunge proprio al solito 1300.

H)  L'età di Cangrande della Scala. Cangrande, terzo figlio di Alberto I della Scala, nacque nel 1291, e dopo la morte del padre nel 1301 e del fratello maggiore Bartolomeo nel 1304, già nel 1311 fu associato al governo di Verona dal fratello Alboino, alla cui morte, avvenuta nel 1329, restò unico signore della città. Egli fu Vicario Imperiale di Arrigo VII di Lussemburgo, ed ospitò amichevolmente Dante durante l'esilio, per cui il Ghibellin Fuggiasco ne dice tutto il bene possibile. Ora, il suo antenato Cacciaguida fa presente a Dante:

« Non se ne son le genti ancora accorte
per la novella età, ché pur nove anni
son queste rote intorno di lui torte » (Par. XVII, 79-81)

Cangrande aveva nove anni nel 1300, dunque anche questa citazione, come le precedenti, converge sull'Anno Giubilare, che agli occhi di Dante era senz'altro gravido di significati religiosi e simbolici.

Ma, oltre a questi riferimenti storici, Dante ci fornisce anche indicazioni astronomiche rigorose sulle posizioni del Sole, della luna, di Venere, di Saturno, all'inizio e lungo le varie tappe del viaggio; posizioni che, confrontate con quelle ricavate dai calcoli astronomici, ci indicano date ben diverse da quelle sopra dedotte. Esaminiamole brevemente una ad una.

1) Il Sole in Ariete. La posizione del Sole in questo segno, di poco successiva all'equinozio di Primavera, è indicata già nel Primo Canto  dell'Inferno:

« Temp'era dal principio del mattino,
e 'l sol montava ‘n sù con quelle stelle
ch'eran con lui quando l'amor divino
mosse di prima quelle cose belle » (Inf. I, 37-40)

Era opinione comune che, al momento della Creazione, quanto Dio impresse per la prima volta ai Cieli il loro movimento, il Sole fosse congiunto con la costellazione dell'Ariete, come ad indicare che l'universo fosse iniziato nella stagione primaverile. Il concetto è poi ribadito nel Quarto Canto del Purgatorio, versi da noi già analizzati in quel che precede:

« Se Castore e Poluce
fossero in compagnia di quello specchio
che sù e giù del suo lume conduce,
tu vedresti il Zodïaco rubecchio
ancora a l'Orse più stretto rotare,
se non uscisse fuor del cammin vecchio » (Purg. IV, 61-66)

Da questi versi si evince chiaramente la distanza temporale dal solstizio d'estate, il quale ha luogo quando il Sole si trova nella Costellazione dei Gemelli.

2) Il viaggio ha inizio in un plenilunio. L'indicazione della coincidenza dell'inizio del viaggio con una Luna Piena è fornita da Virgilio nella Quarta Bolgia, quella degli Indovini:

« E già iernotte fu la luna tonda;
Ben ten dee ricordar, chè non ti nocque
Alcuna volta per la selva fonda. » (Inf. XX, 126-128)

Dall'esame delle longitudini del Sole e della Luna risulta che il plenilunio del marzo 1300 si verificò il 5 alle 22.00.16 di Greenwich, mentre quello di aprile cadde il 4 alle 13.52.51. La prima data è lontana da quel 25 marzo 1300 che abbiamo indicato sulla scorta delle parole di Malacoda, mentre la seconda è molto vicina a quell'8 aprile che nel 1300 fu Venerdì Santo; l'"iernotte" può essere spiegato con un errore di alcuni giorni nei calcoli, dato che egli scriveva a una certa distanza temporale dal Giubileo. Da notare che invece il plenilunio del marzo 1301 si verificò il 24 alle 18.16.35. Questo fatto ha portato alcuni a postdatare di un anno il viaggio dantesco rispetto alla cronologia comunemente accettata, spostandolo al 25 marzo 1301. Capofila di questa scuola di pensiero fu Filippo Angelitti (1856-1931), illustre dantista nonché direttore dell'Osservatorio Astronomico di Palermo, che nel 1897 presentò all'Accademia Pontaniana di Napoli una sua memoria dal titolo "Sulla data del viaggio dantesco desunta dai dati cronologici e confermata dalle osservazioni astronomiche riportate nella Commedia". L'ipotesi è suggestiva, ma farebbe crollare tutte le considerazioni di rinnovamento spirituale, di "novus ordo saeclorum" per dirla con Virgilio, che l'Anno Giubilare porta con sé, per non parlare di tutti gli altri riferimenti storici sopra menzionati.

Venere e la Luna, foto di Dan Bush (clic per ingrandire)

3) La posizione mattutina di Venere nei Pesci. All'inizio dell'ascesa alla montagna del Purgatorio Dante sottolinea la posizione di Venere nei ben noti versi:

« Lo bel pianeto che d' amar conforta
Faceva tutto rider l'oriente,
Velando i Pesci ch'erano in sua scorta. » (Purg. I, 19-21)

Un'altra indicazione sulla posizione di Venere è fornita alla fine del terzo giorno della salita al Monte, quando Dante si addormenta e gli appare in sogno la bellissima Lia:

« Nell'ora, credo, che dall'oriente
prima raggiò nel monte Citerea,
che di fuoco d'amor par sempre ardente,
giovane e bella in sogno mi parea
donna veder andar per una landa
cogliendo fiori... » (Purg. XXVII, 95-100)

Filippo Angelitti sostiene che Venere si trovò a sorgere verso le tre del mattino e a trovarsi nei Pesci a precedere il sorgere del sole nell'Ariete proprio a fine marzo 1301, mentre negli stessi giorni del 1300 Venere era a levante del Sole, nella costellazione del Toro, ed era visibile di sera. D'altro canto chi sostiene la datazione tradizionale, in accordo con i 1266 anni di Malacoda e soprattutto con il fatto che nel 1301 Guido Cavalcanti era già morto, si appoggia semplicemente a una confusione di date e di posizioni planetarie da parte dell'Alighieri. Dante cioè ha idealmente fatto iniziare il suo viaggio nel giorno dell'equinozio, dandoci quindi un'indicazione astronomica realistica ma non indicativa del giorno preciso: a favore di questa ipotesi si è schierata gran parte della critica contemporanea, tra cui Rodolfo Benini e Corrado Gizzi, i quali sostengono che Dante nella Commedia sia principalmente un poeta e non un astronomo.

4) La posizione di Saturno nel Leone. Come si ricorderà, parlando di Saturno abbiamo detto che il Poeta parla di una congiunzione di tale pianeta con la costellazione del Leone:

« Noi sem levati al settimo splendore,
Che sotto il petto del Leone ardente
Raggia mo misto giù del suo valore. » (Par. XXI, 13-15)

L'indicazione "sotto il petto" si addice stavolta anche al marzo 1300, poiché a quell'epoca Saturno si trovava non lontano dalla stella Regolo, che Tolomeo chiamava "Cor Leonis". Il problema apparirebbe dunque insolubile: i fatti storici nominati da Dante con grande precisione ci riportano al marzo o al massimo all'aprile 1300, mentre il plenilunio e la posizione di Venere ci riportano al marzo 1301.

Ora, non è assolutamente accettabile parlare di un Dante del tutto ignorante di astronomia, che ha dovuto fare affidamento ai calcoli (sbagliati) di altri, viste le precisissime conoscenze di questa scienza che egli dissemina nella Commedia. Si consideri a titolo di esempio la seguente terzina:

« Quant'è dal punto che 'l cenìt inlibra
infin che l'uno e l'altro da quel cinto,
cambiando l'emisperio, si dilibra... » (Par. XXIX, 4-6)

Effettivamente, ad una prima lettura sembra assolutamente incomprensibile. Proviamo a sviscerarla insieme: essa ha come soggetto « ambedue li figli di Latona », cioè il Sole e la Luna, che nella lezione precedente abbiamo già visti « coperti dal Montone e da la Libra ». Lo Zenit, chiamato "cenìt" da Dante, è l'intersezione della perpendicolare al piano dell'orizzonte passante per l'osservatore, con l'emisfero celeste visibile, e quindi rappresenta il punto della volta celeste che si trova esattamente sopra la testa dell'osservatore. Tale termine, di uso comunissimo in astronomia, deriva dall'espressione araba "samt al-ra's" ("direzione della testa"), essendo "samt" costruito sul greco semeion, "segno". Il punto diametralmente opposto, che si trova sotto i piedi dell'osservatore, è detto Nadir, dall'arabo "nazìr al-samt", cioè "corrispondente dello Zenit". In pratica, Zenit e Nadir sono i poli dell'orizzonte per ciascun osservatore.

La complessa terzina sopra riportata va dunque letta così: allorché il Sole e la Luna vengono a trovarsi contemporaneamente sulla linea dell'orizzonte in due punti opposti del cielo, dal momento ("punto") in cui essi sono in condizione di perfetto equilibrio rispetto allo Zenit, e cioè equidistanti da esso come i piatti di una bilancia ("'l cenìt inlibra"), fino al momento in cui si staccano dall'orizzonte, uno tramontando ed uno sorgendo, per discendere l'uno dall'emisfero boreale all'australe e l'altro dall'australe al boreale, corre tanto tempo quanto Beatrice sostò in silenzio, eccetera. Il "si dilibra" va inteso dunque come "si scioglie da quella zona", cioè "esce dalla linea dell'orizzonte". Come si vede, Dante ama le lunghe e complicate perifrasi astronomiche per dare l'idea dell'ora del giorno in cui si trova, o della sua posizione, o della durata di un determinato evento, come in questo caso: un gusto schiettamente medievale che il nostro poeta sposa ben volentieri. Un poeta che elabora terzine come queste vi sembra forse ignorante di astronomia?

D'altro canto, se é vero che dei moti planetari e della posizioni stellari il nostro poeta era tutt'altro che digiuno, è senz'altro da respingere l'opinione secondo cui ci si potrebbe basare unicamente sulla posizione di due o tre pianeti per datare il viaggio di Dante, in quanto la complessità dalla Commedia va ben oltre qualunque interpretazione banalmente astrologica. Ma allora, esiste un modo per uscire da questa impasse?

Come ha scritto Valentina Costamagna, dell'"Accademia Internazionale Dante Alighieri", una questione da cui non si può prescindere se si vuole risolvere il problema della datazione del viaggio di Dante riguarda i calendari che erano in uso nel Medioevo, e soprattutto il calendario usato da Dante per datare il suo viaggio nell'oltretomba. Noi oggi siamo abituati ad avere un unico calendario, quello Gregoriano, introdotto il 4 ottobre 1582 da Papa Gregorio XIII (1572-1585), ma nel XIII secolo ogni comune aveva una sua propria tradizione di calendario, che si basava su presupposti molto diversi da quelli delle città vicine.

Innanzi tutto nel Medioevo era generalmente riconosciuto il Calendario Giuliano, cioè quello introdotto da Giulio Cesare nel 46 a.C. per evitare lo sfasamento tra le festività civili e religiose ed il ciclo stagionale. Il periodo che impiega il sole per ritornare all'equinozio di primavera, detto Anno Tropico, ha una durata di 365 giorni, 5 ore, 48 minuti e 46 secondi. L'astronomo egiziano Sosigene, consultato da Giulio Cesare, fissò la durata dell'anno in 365 giorni e 6 ore; Cesare decise perciò di computare gli anni di 365 giorni, ma di recuperare le sei ore tralasciate ogni quattro anni, quando si aggiungeva un giorno (6 ore all'anno danno vita in quattro anni a 24 ore, cioè un giorno esatto). Questo giorno in più veniva aggiunto dopo il 24 febbraio, che essi chiamavano sexto die ante Kalendas Martias ("sesto giorno prima delle Calende di marzo"); il giorno aggiuntivo si chiamava "bis sexto die", da cui l'aggettivo "bisestile" da noi tuttora usato. Oggi noi aggiungiamo semplicemente il 29 febbraio, e addirittura il 1712 in Svezia fu un anno "doppiamente bisestile", cioè con il 29 e il 30 febbraio, per poter recuperare lo svantaggio rispetto al calendario Gregoriano!

Sfortunatamente però il giorno aggiuntivo non bastava per arrivare alla durata esatta dell'Anno Tropico, del quale l'Anno Giuliano era più lungo di circa 12 minuti. Questi 12 minuti in cinque anni diventano un'ora, in 120 anni un giorno e in 1200 anni 10 giorni. Se ne conclude che al tempo di Dante l'anno civile era rimasto indietro di circa otto giorni sull'Anno Tropico, e questo significa che il primo giorno di primavera, nonché primo giorno dell'anno astronomico, anziché il 21 marzo cadeva il 13: il 21 marzo era un equinozio puramente convenzionale. Dante era certamente al corrente di questa inesattezza del calendario Giuliano, in quanto nel Paradiso scrive:

« Ma prima che gennaio tutto si sverni
per la centesma ch'è là giù negletta » (Par. XXVII, 142-143)

"Centesma" indica chiaramente la centesima parte del giorno che viene trascurata ("negletta"), e che col passare dei millenni finirà per far uscire il mese di gennaio dall'inverno. Infatti, se gli uomini avessero continuato ad utilizzare il Calendario Giuliano a tempo indeterminato, prima o poi l'equinozio di primavera sarebbe arretrato così tanto da giungere in dicembre, e da far diventare gennaio un mese primaverile: il calcolo impostato poco fa ci dice che l'equinozio di primavera sarebbe caduto il 21 dicembre (cioè in quello che per noi è il solstizio d'inverno) quando la differenza tra il Calendario Giuliano e quello astronomico fosse diventata di 90 giorni, il che sarebbe avvenuto intorno all'anno 10.800 d.C. (giustamente considerato da Dante un periodo lunghissimo oltre ogni misura umana).

Al tempo di Papa Gregorio XIII la differenza tra equinozio convenzionale ed equinozio reale era di dieci giorni, per cui egli decise di sopprimere questi dieci giorni in più, ordinando che al 4 ottobre 1582 seguisse immediatamente il 15 ottobre 1582 (da cui il mito dei "giorni inesistenti"). Siccome ogni 480 anni, come detto, si accumulano 4 giorni, dietro consiglio dello scienziato gesuita tedesco Cristoforo Clavio (1538-1612), per evitare che l'inconveniente si ripetesse egli stabilì che gli anni secolari sarebbero stati bisestili solo se divisibili per 400: in tal modo furono bisestili il 1600 e il 2000, ma non il 1700, il 1800 e il 1900, né lo sarà il 2100. Insomma, ogni 400 anni non vi saranno più 100 bisestili, ma solo 97, in modo da evitare lo sfasamento delle stagioni. Questo nuovo calendario fu tuttavia adottato subito solo in Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Polonia, Lituania e Fiandre, in Austria e Ungheria nel 1583, in Boemia, Moravia e nei cantoni cattolici della Svizzera nel 1584. I paesi protestanti inizialmente resistettero alla riforma "papista", ma infine dovettero gettare la spugna ed adeguarsi: la Prussia nel 1610; gli stati tedeschi, i cantoni svizzeri protestanti, l'Olanda, la Danimarca e la Norvegia nell'anno 1700, il Regno Unito e le sue colonie (inclusi gli attuali Stati Uniti) nel 1752; la Svezia e la Finlandia nel 1753 (dopo un fallito tentativo nel 1700), quando fu necessario sopprimere 11 giorni e non più 10. Seguirono poi il Giappone nel 1873, l'Egitto nel 1875, la Corea nel 1895, l'Albania nel 1912, la Bulgaria nel 1916, l'Unione Sovietica nel 1918, la Romania e la Jugoslavia nel 1919, la Grecia nel 1923 (a questo punto dovettero essere soppressi ben 13 giorni), la Turchia nel 1926, la Cina nel 1929, Israele nel 1948. Le Chiese Ortodosse russa, serba e di Gerusalemme continuano tuttora a seguire il Calendario Giuliano, e da ciò nasce l'attuale differenza di 13 giorni tra le festività religiose ortodosse e quelle delle altre confessioni cristiane. A partire dal 2100 i giorni da saltare per rimettere in pari i due calendari diverranno 14.

Tornando al nostro discorso, il calendario adottato da Bonifacio VIII per datare il primo Giubileo faceva incominciare l'anno il 1 Gennaio, ed incominciava a contare gli anni dal 1 a.C. Ciò ha dato luogo ad alcune incongruenze, che erano ben note già ai tempi di Dante. Secondo questo computo, Cristo si sarebbe incarnato giovedì 25 marzo dell'anno 1 a.C., sarebbe nato sabato 25 dicembre del 1 a.C., sarebbe morto giovedì 25 marzo del 34 d. C. e sarebbe risorto sabato 28 marzo del 34 d.C. Questa cronologia rispetta sia la durata della vita di Cristo, tradizionalmente pensata di 34 anni, sia la tradizione medievale secondo cui Cristo si incarnò e morì nello stesso giorno. A Pisa all'epoca era in vigore un calendario molto simile a questo, che però faceva cominciare l'anno il 25 marzo, poiché in questa data era stato fissato l'equinozio. A Firenze, come già accennato sopra, l'anno cominciava parimenti il 25 marzo, ma non dello stesso anno fissato a Roma, bensì dell'anno dopo. Ricordiamo che nel calendario civile l'anno Zero non esiste, e al 1 a.C. segue immediatamente l'1 d.C.; solo in seguito gli astronomi introdussero nei loro calcoli l'anno 0. Secondo questa cronologia, Cristo risulterebbe essersi incarnato venerdì 25 marzo dell'anno 1 d.C., sarebbe nato domenica 25 dicembre del 1 d.C., sarebbe morto venerdì 25 marzo del 35 d.C. ed infine sarebbe risorto domenica 27 marzo del 35 d.C. Anche in questo caso la durata della vita di Cristo è sempre di 34 anni, ed Egli si sarebbe incarnato e sarebbe morto nello stesso giorno, ma soprattutto la sua nascita sarebbe avvenuta di domenica, il Giorno del Signore, cosa che a Roma e a Pisa non avveniva.

Noi oggi siamo in grado di affermare con certezza che a Firenze era in vigore un calendario diverso da quello comunemente adottato dalla Chiesa grazie ad una legge promulgata nel 1749 dal Granduca Francesco Stefano di Lorena (1708-1765), il cui scopo era l'adeguamento del calendario toscano a quello ecclesiastico. Ecco il testo, pubblicato nella "Legislazione Toscana" raccolta dall'avvocato Lorenzo Cantini nel 1806:

« Essendo noi informati che nel nostro granducato di Toscana sono vari gli stili di computare gli anni, e l'ora del giorno, e che ciò produce una difficoltà non meno dentro lo stato che fuori per fissare chiaramente il principio degli avvenimenti umani e civili, comandiamo che in tutti i nostri stati il primo dì del prossimo futuro mese di gennaio sia il principio dell'anno 1750 dopo la Natività del Nostro Signore Gesù Cristo, secondo il computo conosciuto comunemente sotto il nome di Era Cristiana Volgare »

Queste righe ci dicono chiaramente che a Firenze la diversità non era solo nel principio dell'anno, ma nell'anno stesso. Tra Firenze e Pisa insomma c'era un anno di differenza: a Firenze era il 1749 quando a Roma era già il 1750. Tornando all'epoca di Dante, quando a Roma sorse l'alba del 1 gennaio 1300, a Firenze era ancora il 1 gennaio 1299 (tra l'altro Papa Bonifacio VIII indisse il Giubileo il 22 febbraio 1300, ma gli diede valore retroattivo a partire dal 25 dicembre 1299). Il Papa era certamente al corrente delle diversità di calendari esistente in quegli anni nelle varie città italiane, e si preoccupò di precisare che il calendario del Giubileo avrebbe dovuto seguire il calendario da lui adottato "a Nativitate", piuttosto che quello in vigore a Pisa e a Firenze "ab Incarnatione", come si può leggere nella stessa Bolla Papale con cui si indice il Giubileo:

« Declarat [...] noster Summus Pontifex quod annus iste Jubileum trecentesimus hodie fit finitus, nec extendatur ad annum incarnationis, secundùm quosdam, sed ad annos domini secùndum ritum Romane ecclesie. »

Da qui l'ipotesi, avanzata da taluni, che Dante avrebbe compiuto il suo grande pellegrinaggio oltremondano (rispetto al quale anche quello giubilare sarebbe passato assolutamente in secondo piano) nell'anno 1301 secondo il Calendario Romano, in modo da farlo coincidere con il 1300 del Calendario Fiorentino. Quanti sostengono quest'ipotesi, come il fiorentino Giovangualberto Ceri e il torinese Giorgio Bàrberi Squarotti, affermano anche che i documenti relativi alla morte di Guido Cavalcanti sarebbero stati male interpretati, essendo questi spirato nel 1301, non nel 1300, e che compiendo la propria avventura nell'Oltretomba Dante intendesse entrare in polemica con Roma, contrapponendo al pellegrinaggio terreno un pellegrinaggio ultraterreno, e sottolineando la data del 25 marzo 1301 come inizio di una cristianità rinnovata e finalmente libera dalla corruzione.

Papa Bonifacio VIII arrestato ad Anagni (miniatura dalla "Cronica" di Giovanni Villani)

Papa Bonifacio VIII arrestato ad Anagni (miniatura dalla "Cronica" di Giovanni Villani)

Ora, che Dante Alighieri fosse acerrimo nemico di Papa Bonifacio VIII lo si evince da vari passi della Commedia. Per esempio, dalle parole di Papa Niccolò III che scambia Dante con il proprio successore Bonifacio, venuto all'Inferno a scontare con lui la colpa della simonia:

« Ed el gridò: "Se' tu già costì ritto,
se' tu già costì ritto, Bonifazio?
Di parecchi anni mi mentì lo scritto.
Se' tu sì tosto di quell'aver sazio
per lo qual non temesti tòrre a 'nganno
la bella donna, e poi di farne strazio?" ». (Inf. XIX, 52-57)

Bonifacio dunque ne avrebbe avuto abbastanza in anticipo di ingannare la Chiesa (qui personificata in una bella donna, come spesso facevano i predicatori medievali) e di prostituirla per mezzo della simonia. Non meno pesante è la condanna di Benedetto Caetani (nome da laico di Bonifacio VIII) nell'invettiva scagliata contro di lui da San Pietro, che fa cambiar colore a tutto il Paradiso:

« Quelli ch'usurpa in terra il luogo mio,
il luogo mio, il luogo mio che vaca
ne la presenza del Figliuol di Dio,
fatt'ha del cimitero mio cloaca
del sangue e de la puzza; onde 'l perverso
che cadde di qua sù, là giù si placa » (Par. XXVII, 22-27)

Addirittura la condotta perversa di Papa Caetani farebbe rallegrare Lucifero, colui che cadde dal Cielo! Tutto ciò non basta però per affermare che l'antipatia di Dante nei confronti del Pontefice si estendesse all'istituzione pontificale stessa, o addirittura alla Chiesa gerarchica del suo tempo, facendo di lui un "protestante ante litteram". Infatti, quando nella Quinta Cornice del Purgatorio, quella degli Avari, egli incontra Ugo Capeto, capostipite della dinastia regnante in Francia ai suoi tempi, egli denuncia a chiare lettere i misfatti dei Capetingi, sottolineando la crudeltà di re Filippo IV il Bello proprio contro Bonifacio VIII:

« ...Veggio in Alagna intrar lo fiordaliso,
e nel vicario suo Cristo esser catto.
Veggiolo un'altra volta esser deriso;
veggio rinovellar l'aceto e 'l fiele,
e tra vivi ladroni esser anciso.
Veggio il novo Pilato sì crudele,
che ciò nol sazia, ma sanza decreto
portar nel Tempio le cupide vele. » (Purg. XX, 86-93)

Il brano significa: vedo il fiordaliso, cioè l'insegna dei Capetingi di Francia, entrare in Anagni, dove Papa Bonifacio VIII si era rifugiato, e far prigioniero Cristo nella persona del suo vicario ("catto" dal latino "captus"); lo vedo nuovamente deriso, come il Venerdì Santo, vedo di nuovo l'offerta dell'aceto e del fiele come sulla croce, e lo vedo di nuovo essere ucciso tra due ladroni, ma stavolta vivi, non morti insieme a lui; vedo il nuovo Ponzio Pilato così crudele, che ciò non gli basta, ma senza autorità lo vedo mettere le mani sull'ordine del Tempio. Qui Dante si riferisce al celeberrimo "schiaffo di Anagni", avvenuto il 7 settembre 1303: dopo che il Papa aveva scomunicato il sovrano francese, questi fece dichiarare illegittima l'elezione di Bonifacio da parte di un concilio di vescovi, e quindi mandò il suo luogotenente Guglielmo di Nogaret e Sciarra Colonna (i Colonna erano fierissimi nemici di Bonifacio VIII) ad arrestarlo nella sua residenza di Anagni. Il Villani racconta che Sciarra Colonna, al rifiuto da parte del Papa di seguirlo, lo schiaffeggiò. Liberato dall'insurrezione popolare, Bonifacio VIII morì di dolore l'11 ottobre 1303. Ovviamente il nuovo Ponzio Pilato cui accenna Ugo Capeto è Filippo il Bello, perchè consegnò Bonifacio nelle mani dei Colonna, e i due ladroni sono Sciarra Colonna e Guglielmo di Nogaret. L'impressione in tutto il mondo cristiano fu vivissima, tanto che persino Dante (che con Bonifacio non era certo tenero) condannò duramente l'iniziativa del re francese contro la massima autorità religiosa in terra, e colui che aveva condannato all'Inferno tra i Simoniaci ancor prima che morisse diveniva per lui quasi un secondo Cristo oltraggiato e crocifisso. Bene si espresse a questo proposito lo storico Giovanni Villani, un altro che per "Bonifazio" non doveva nutrire particolari simpatie:

« E non è da maravigliare della sentenzia di Dio, che, con tutto che papa Bonifazio fosse più mondano che non richiedea alla sua dignità, e fatte avea assai delle cose a dispiacere di Dio, Idio fece punire lui per lo modo che detto avemo, e poi l'offenditore di lui punì, non tanto per l'offesa della persona di papa Bonifazio, ma per lo peccato commesso contro a la maestà divina, il cui cospetto rappresentava in terra. » (Cronica VIII, 64)

Se ne conclude che Dante poteva avere un cattivo concetto di Papa Bonifacio, ma non di sicuro dell'istituzione pontificale o addirittura dell'intera Chiesa, alla quale invece fu sempre devotissimo. Il critico svizzero Theophil Spoerri (1890–1974)  sostenne giustamente che « dubitare dell'autorità del Papa gli era sostanzialmente impossibile ». Nessun "Giubileo" alternativo a quello di Papa Bonifacio, quindi: l'Alighieri riconobbe la validità del Giubileo, pur condannando apertamente la condotta del Papa che lo aveva promulgato, e quindi la data del viaggio nel 1300 rimane la più probabile. Il problema dell'incongruenza tra dati storici e riferimenti astronomici resta dunque per ora insolubile.

Questo però non è l'unico enigma che Dante ha consegnato ai propri lettori, utilizzando la Geografia Astronomica per fornire loro le proprie coordinate spaziotemporali. Uno dei passi più controversi di tutta la Divina Commedia riguarda proprio un riferimento astronomico, e lo ritroviamo all'inizio dell'ascesa di Dante al Paradiso. Rileggiamolo insieme.

« Surge ai mortali per diverse foci
la lucerna del mondo; ma da quella
che quattro cerchi giugne con tre croci,
con miglior corso e con migliore stella
esce congiunta, e la mondana cera
più a suo modo tempera e suggella. » (Par. I, 37-42)

Il Poeta chiama "foci" i diversi punti dell'orizzonte dai quali il Sole sorge nel corso dell'anno. Il senso letterale comunemente dato a questi versi è dunque il seguente: « la lucerna del mondo (cioè il Sole) sorge ai mortali attraverso diversi sbocchi; ma esce unita a miglior corso e a migliore stella - e tempra e modella più a sua immagine la materia del mondo - da quello sbocco che congiunge quattro cerchi formando tre croci ».

Tutti concordano sul fatto che Dante vuole indicare i particolari aspetti astronomici dell'equinozio di Primavera: il Sole sorge esattamente dal punto Est dell'orizzonte; il suo corso è detto "migliore" perché, essendo sull'equatore, è il più simmetrico rispetto ai poli celesti e risulta in perfetto equilibrio fra il giorno e la notte per tutti gli abitanti della Terra; con l'inizio della Primavera si ha il risveglio della natura nell'emisfero Nord terrestre, l'unico considerato abitato al tempo di Dante; il Sole si trova in in congiunzione con l'Ariete, come per tradizione si riteneva fosse stato al momento della creazione del mondo (e appunto tale potenza creativa tornava puntualmente alla natura a Primavera, cioè in tale periodo il Sole disponeva meglio alla sua opera fecondatrice la materia del mondo). Non è facile invece individuare, tra le scelte possibili, i quattro cerchi e le tre croci di cui ci parla il nostro poeta.

Secondo la versione tradizionalmente accettata, i quattro cerchi sono:

1) l'orizzonte: è la circonferenza ottenuta dall'intersezione della sfera celeste con un piano tangente alla superficie terrestre nel punto dove è situato l'osservatore. Ovviamente, esso è diverso per ogni punto della superficie terrestre.

2) l'eclittica: è la circonferenza ottenuta dall'intersezione della sfera celeste con il piano dell'orbita terrestre, e coincide con il cammino apparente che il Sole traccia nel cielo nel corso dell'anno. Il suo nome deriva dal fatto che le eclissi di Sole avvengono solo su di essa. Poiché l'asse di rotazione della Terra non è perpendicolare al suo piano orbitale, il piano equatoriale non è parallelo al piano dell'eclittica, ma forma con esso un angolo di circa 23° 27'. Gli otto pianeti del Sistema Solare ruotano in piani che distano al massimo di pochi gradi dall'eclittica.

3) l'equatore: è la circonferenza ottenuta dall'intersezione della superficie della Terra con un piano perpendicolare all'asse di rotazione terrestre e passante per il suo centro. Le intersezioni dell'equatore con l'eclittica prendono il nome di punti equinoziali. Essi sono il Punto d'Ariete o Punto Gamma (dal simbolo simile a γ che contraddistingue la costellazione dell'Ariete) e il Punto della Bilancia o Punto Omega (dal simbolo simile ad Ω che contraddistingue tale costellazione nello zodiaco). Quando il Sole, nel suo apparente moto annuo, transita per il Punto d'Ariete, "risale" dall'emisfero celeste australe a quello boreale e si ha l'equinozio di primavera; quando transita per il Punto della Bilancia, "ridiscende" dall'emisfero boreale a quello australe, e si ha l'equinozio di autunno.

4) il coluro equinoziale: è il il meridiano della volta celeste che passa per i poli celesti e per i punti equinoziali. Nel sistema delle coordinate celesti, è il meridiano fondamentale dal quale si misura l'ascensione retta di un punto della volta celeste: il coluro equinoziale ha ascensione retta pari a 0. Tuttavia, a causa del movimento di precessione degli equinozi, esso non è fisso ma si sposta verso ovest di circa 50 secondi d'arco l'anno, ed è necessario tenere conto di tali spostamenti nelle determinazioni delle ascensioni rette dei corpi celesti.

Sempre secondo la tradizione, le tre croci sarebbero formate nel punto cardinale di Levante al momento del sorgere del Sole dall'orizzonte con equatore, eclittica e coluro. Ma non tutti gli astronomi moderni sono soddisfatti di questa interpretazione, dato che nessuna delle croci ha i bracci perpendicolari tra di loro, e quindi si dovrebbe parlare di "incroci", non di croci; inoltre, appare arbitraria la scelta di queste tre croci tra le sei possibili che si ottengono combinando i quattro cerchi a due a due.

L'astronomo Filippo Angelitti, da noi già nominato a proposito della datazione del viaggio dantesco, propose invece di utilizzare quattro cerchi tutti solidali con la sfera celeste, sostituendo l'orizzonte con il cerchio di latitudine, cioè il cerchio passante per i poli dell'eclittica e per i punti equinoziali. In questo modo ottenne due vere croci a bracci perpendicolari: quella formata dall'equatore con il coluro, e quella formata dall'eclittica con il cerchio di latitudine. E la terza? Egli pensò a quella formata dai fusi sferici ampi 23° 27' definiti dai quattro cerchi: era una croce "tirata un po' per i denti", come scrisse l'Angelitti stesso, ma pure questa era una "vera" croce a bracci perpendicolari.

Un altro studioso, Ideale Capasso, nel suo volume "L'Astronomia nella Divina Commedia", scelse invece quattro cerchi fissi rispetto all'osservatore, e che quindi si incontrano sempre nel punto di Levante: orizzonte, equatore, primo verticale e primo orario. Il primo verticale è il cerchio passante per il Punto Cardinale Est, il Punto Cardinale Ovest, lo Zenit e il Nadir, che ovviamente cambiano tutti da osservatore a osservatore; il primo orario è invece il cerchio passante per il Punto Cardinale Est, il Punto Cardinale Ovest i poli celesti Nord e Sud. Questi ultimi due cerchi non sono fondamentali come i primi due, e non sono quindi altrettanto conosciuti, ma erano usati spesso al tempo di Dante per i computo rispettivamente degli azimut e del tempo. Una possibilità suggerita da Capasso è che Dante attribuisca al punto Est il compito di "giugnere" i quattro cerchi, compito che in realtà compete al diametro congiungente i Punti Cardinali Est-Ovest, usando un punto estremo per tutto il diametro. Il diametro Est-Ovest considerato, e appartenente al piano dell'orizzonte, forma una croce con l'asse dei poli celesti giacente sul piano del primo orario, un'altra con l'asse Zenit-Nadir giacente sul piano del primo verticale, e una terza con la "linea dei mezzi cieli" comune al piano dell'equatore e al piano del meridiano. Tutte queste croci sono vere croci, ma non sono sulla sfera, e questo non appare accordarsi bene con il quadro astronomico in discussione.

L'esperto di geografia astronomica Davide Conigliaro ha perciò proposto tutt'altra interpretazione. Egli ragionò così: visto che si parla di Est e di equinozio, si dovevano considerare e mettere in relazione tra loro tutti i cerchi che passano per il punto Est dell'orizzonte e quelli per il Punto Gamma dell'equatore celeste. Secondo lui sarebbe necessaria una pausa dopo la parola "giugne", separando il problema dei quattro cerchi da quello delle tre croci. Secondo la sua opinione, insomma, Dante intendeva dire: « la lucerna del mondo sorge ai mortali attraverso diversi sbocchi; ma esce unita a tre croci, a miglior corso e a migliore stella - e tempra e modella più a sua immagine la materia del mondo - da quello sbocco che congiunge quattro cerchi. » A questo punto, anche secondo Conigliaro i quattro cerchi congiunti dal punto Est sono quelli scelti da Capasso: orizzonte, equatore, primo verticale e primo orario. Diverse sono invece le tre croci. Per l'osservatore esistono sempre due croci nel punto Est, l'una formata dall'orizzonte con il primo verticale, e l'altra dall'equatore con il primo orario. Egli le chiama per semplicità "croci immobili", in quanto non partecipano alla rotazione apparente del cielo. Considera poi le due croci formate dai quattro cerchi scelti dall'Angelitti: esse partecipano alla rotazione apparente del cielo e i loro centri coincidono con il Punto Gamma. Tutti i giorni il punto Gamma percorre in cielo quella stessa via che percorre il Sole il giorno dell'equinozio, e al punto Gamma si possono pensare unite due croci: una formata dall'equatore con il coluro degli equinozi, l'altra dall'eclittica con il cerchio di latitudine. Egli le chiamare per semplicità "croci mobili". Quando il punto Gamma è alto nel cielo, tutti i bracci di queste croci sono visibili, a differenza delle "croci immobili" che stanno sempre per metà sotto l'orizzonte. Mettendo insieme il tutto, Conigliaro considera l'istante in cui il moto apparente del cielo porta il Punto Gamma a sorgere dal Punto Cardinale Est (istante che anticipa di circa quattro minuti ogni giorno). In quel momento le due croci mobili sono unite alle due croci ferme, dato che i centri sono sovrapposti: ma l'osservatore vede tre croci e non quattro, perché in quell'istante la croce formata da equatore e primo orario è esattamente sovrapposta a quella formata da equatore e coluro. Anche se questo evento si ripete ogni giorno, esso diventa importante e significativo solo all'equinozio di Primavera, quando nel punto Gamma si trova il Sole, perché allora l'astro sorge "congiunto" con tre croci, come afferma Dante.

Tutte considerazioni sensate e condivisibili, quelle degli esperti che abbiamo citato; ma quale di esse Dante aveva in testa, quando scrisse quei versi? Impossibile dare una risposta certa a questa domanda, tanto che Filippo Angelitti concludeva sconsolato: « Questo è uno degli arzigogoli danteschi, la cui interpretazione si indovina con tutta sicurezza, ma non si giustifica con piena soddisfazione. »

Solo su una cosa quasi tutti i commentatori sono d'accordo: i quattro cerchi rappresentano le quattro virtù cardinali (Prudenza, Giustizia, Fortezza, Temperanza), le tre croci rappresentano invece le tre virtù teologali (Fede, Speranza, Carità), congiunte e cooperanti per la salvezza dell'anima umana. A questo proposito vale la pena di prendere in considerazione anche il parere dell'ingegnere ed astrofisico Raffaele Barletti. Secondo lui la Pasqua è associata all'equinozio di Primavera, dato che la data della Pasqua si calcola a partire dalla data dell'equinozio. A sua volta nella settimana di Pasqua si ricorda la morte di Cristo sulla croce assieme a due "ladroni" (in realtà probabilmente due Zeloti, cioè due guerriglieri contrari all'occupazione romana della Palestina. Quindi il riferimento astronomico della crocifissione è l'equinozio, e lo sfondo iconografico (come si vede in tanti capolavori di arte sacra) è costituito dalle tre croci sul Golgota. L'Est viene visto dal nostro poeta come il punto d'incontro di cerchi astronomici, figure perfette adatte ai moti celesti; il Sole, simbolo di Cristo già nel "Cantico delle Creature" di San Francesco d'Assisi, è visto sorgere da Est congiunto alle croci, figure angolose adatte alla Terra. Nell'ottica degli scopi dichiarati del "Sacrato Poema", Dante non si limita a vedere l'aspetto astronomico dell'equinozio e i suoi benefici effetti per il risveglio della vita dopo il buio dell'inverno, ma ricorda con quelle croci il momento della Redenzione dell'umanità attraverso la morte di Cristo. Sotto questa luce, risultano particolarmente illuminanti le parole di quel grande critico che fu Attilio Momigliano:

« Con i versi di Par. I, 37-42 Dante, come già aveva fatto costante mente nel Purgatorio, dà uno sfondo celeste ai mo menti del suo viaggio, e quindi ne accresce la solennità. Siamo ancora sul purgatorio, sulla vetta, quindi sulla  terra; e il riferimento da questa agli astri è ancora possibile (...) E quell'insistere sulla posizione del Sole,  che può sembrare soltanto sfoggio di dottrina astrono mica, è invece... un motivo che approfondisce il signifi cato di questo momento della vita spirituale di Dante.  Qui per l'ultima volta il Sole è il faro del viaggio di  Dante: per l'ultima, e per la più significativa; e qui si  avvera splendidamente la definizione che del Sole Dan te aveva data già sulla soglia del poema. »

Un terzo problema astronomico che vogliamo affrontare, in questo studio dei riferimenti scientifici di cui pullula la Divina Commedia, riguarda le stelle dell'emisfero australe. Quando Ulisse, dannato con Diomede nella Bolgia dei Consiglieri Fraudolenti, racconta a Dante del suo ultimo viaggio verso l'ignoto, afferma tra l'altro:

« E volta nostra poppa nel mattino,
de' remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.
Tutte le stelle già de l'altro polo
vedea la notte, e 'l nostro tanto basso,
che non surgëa fuor del marin suolo. » (Inf. XXVI, 126-131)

L'eroe omerico, dopo il discorso nel quale sprona i suoi marinai a « seguir virtute e canoscenza » (Inf. XXVI, 120) volge la poppa "verso il mattino", cioè verso il levante, e quindi la prua verso occidente, e dà inizio all'incredibile viaggio di esplorazione dell'emisfero oceanico, in palese violazione dei termini posti da Dio all'uomo (Ercole aveva fissato le sue colonne « acciò che l'uom più oltre non si metta » in Inf. XXVI, 109). La notte già vede tutte le stelle dell'altro polo, cioè del Polo Antartico, mentre la stella Polare è ormai così bassa da non vederla più sopra l'orizzonte marino: l'"uomo dal multiforme ingegno", come lo aveva definito Omero, ha ormai superato la linea dell'Equatore. Come andrà a finire lo sappiamo tutti: dopo cinque lunazioni dalla partenza, Ulisse e i suoi uomini vedono spuntare « una montagna, bruna /per la distanza, e parvemi alta tanto / quanto veduta non avëa alcuna » (Inf. XXVI, 133-135). È la Montagna del Purgatorio. Ma la sua impresa non è di quelle a cui basta il soccorso della ragione umana: per portarla a compimento è necessaria la Grazia Divina, a lui vietata. E così un tornado, scaturito dalla montagna, fa naufragare la nave e trascina in fondo al mare tutti i suoi occupanti.

Ma all'impresa fallita dall'eroe pagano, alla sconfitta della ragione abbandonata alle sue sole forze, Dante vuole contrapporre la sua impresa, felicemente condotta a termine proprio grazie all'assistenza del Cielo. L'Alighieri giungerà infatti alla Montagna del Purgatorio, la scalerà, e vedrà le stelle dell'altro polo. Subito infatti egli le descrive al momento dell'uscita dal "cammino ascoso" che lo ha portato fuori dalla "valle inferna":

« I' mi volsi a man destra, e puosi mente
a l'altro polo, e vidi quattro stelle
non viste mai fuor ch'a la prima gente. » (Purg. I, 22-24)

Notiamo l'esattezza di quel volgersi a destra, al polo sud, per osservare le misteriose quattro stelle. Niente di strano in questa spettacolosa visione, se non fosse per il fatto che, non lungi dal Polo Sud Celeste, quattro stelle abbastanza luminose ci sono davvero: si tratta della Croce del Sud. Il problema è che quelle stelle sono interamente visibili nel nostro emisfero solo dal 27° parallelo Nord in giù, ossia dalle isole Canarie o dall'estremità meridionale della Penisola del Sinai. Senz'altro i marinai arabi le conoscevano, dato che essi nel Medioevo navigarono a lungo nell'Oceano Indiano e lungo le coste orientali dell'Africa, ma le prime notizie di questa costellazione furono portate in Europa dal navigatore fiorentino Andrea Corsali nel 1518, il quale la definì « così leggiadra che nessun altro segno celeste può esserle paragonato », e dal suo collega vicentino Antonio Pigafetta (1492-1531), che dal 1519 al 1522 accompagnò Magellano nella prima circumnavigazione del globo. Le prime rappresentazioni cartografiche europee sono ancora più tarde: quella dell'olandese Pieter Platevoet (1552-1622) è datata 1598, e quella di Joost de Hondt (1563-1612) è datata 1600. Prima di allora non si conoscono in Europa descrizioni di questo asterismo. È possibile che Dante ne fosse al corrente?

Fiumi di inchiostro sono stati versati a questo proposito, nella speranza di trovare una spiegazione ragionevole a questo enigma, che ha l'aspetto di un OOPART: termine con cui gli ufologi e gli esperti di archeologia alternativa indicano una testimonianza epigrafica o un artefatto incompatibile con le conoscenze scientifiche dei tempi a cui esso risale (dall'inglese "Out Of Place ARTifact"). Io mi limiterò qui a riassumere per sommi capi cosa ne pensano i critici che si sono cimentati con questo problema.

La Croce del Sud nell'"Uranographia" di Johann Bode (1801)

La Croce del Sud nell'"Uranographia" di Johann Bode (1801)

La Croce del Sud, raffigurata qua sopra come la vide l'astronomo Johann Bode, si trova immediatamente sotto le zampe del  Centauro, ed è facile trovarla prolungando il segmento che congiunge la stella α Centauri a β Centauri. Si tratta della più piccola costellazione dei cieli (copre appena 68 gradi quadrati, contro i 1280 dell'Orsa Maggiore), ma anche di una delle più appariscenti, perchè contiene ben tre stelle di poco inferiori alla prima grandezza. α Crucis, detta anche Acrux (deformazione della sua denominazione scientifica), che delimita la parte inferiore del braccio verticale, è una stella azzurra di magnitudine 0,77 (è la tredicesima stella più brillante del cielo), ma se la si osserva con un piccolo telescopio essa appare come una stella doppia, le cui componenti hanno magnitudine rispettivamente 1,4 e 2,09, e distano da noi 321 anni luce. Si tratta della stella brillante più meridionale del cielo, avendo declinazione - 63°. β Crucis, nota anche come Mimosa o Becrux, delimita la parte sinistra del braccio orizzontale, ed è una stella azzurra di magnitudine 1,25, la ventesima stella più luminosa del cielo; si tratta in realtà di una variabile pulsante, e la sua distanza da noi è di circa 352 anni luce. γ Crucis o Gacrux delimita la parte superiore del braccio verticale, ed è una stella dal colore rosso che contrasta fortemente con le altre stelle brillanti di colore azzurro delle della costellazione; ha magnitudine 1,59, possiede un moto proprio piuttosto elevato ed è la stella dell'asterismo più vicina a noi, distando solo 88 anni luce. δ Crucis delimita il braccio orizzontale destro ed è la meno brillante del quartetto: è una stella azzurra di magnitudine 2,79, distante 364 anni luce. Invece ε Crucis è una stella di colore arancione, distante 228 anni luce e di magnitudine 3,59, posta sulla linea di congiunzione fra Acrux e δ Crucis. La costellazione comprende anche la stella HD 108147, che è solo di settima magnitudine ma possiede un pianeta di massa inferiore alla metà di quella di Giove, che ruota su un'orbita molto stretta, e quindi ha una superficie caldissima. La Croce del Sud giace sul piano della Via Lattea, e ciò fa sì che entro i suoi confini siano visibili diversi oggetti del profondo cielo interni alla nostra Galassia. Tra questi, la principale è la Nebulosa Sacco di Carbone, una nebulosa oscura ben visibile ad occhio nudo come una toppa scura sullo sfondo della Via Lattea, poco ad est di Acrux. L'ammasso aperto NGC 4755, conosciuto anche come Scrigno di Gioielli, fu scoperto nel 1751 da Nicolas Louis de Lacaille (1713-1762). Si trova ad una distanza di circa 7.500 anni luce da noi, e comprende almeno 100 stelle azzurre sparse su un'area larga 20 anni luce, sulle quali domina una stella rossa che contrasta con le altre e che conferisce il nome all'ammasso.

L'importanza della Croce del Sud risiede nel fatto che essa era usata dai naviganti come indicatrice del Polo Sud Celeste, mancando nel cielo una stella a poca distanza da esso, com'è invece α Ursae Minoris nell'emisfero boreale (σ Octantis è la più vicina, ma è così debole da essere pressoché inutile). Se infatti si prolunga il segmento congiungente Acrux e Gacrux per quattro volte e mezza la loro distanza, si individua con buona approssimazione il Polo Sud Celeste. Nell'emisfero australe la Croce del Sud sempre più alta nel cielo poco dopo il tramonto indica che la stagione estiva volge al termine, mentre nelle sere autunnali la costellazione raggiunge il suo punto più alto sopra l'orizzonte. Molti stati moderni hanno incluso la Croce del Sud nella loro bandiera: tra questi il Brasile, l'Australia, la Nuova Zelanda, la Papua Nuova Guinea, le Isole Samoa, l'isola di Niue, le Isole Cocos e Keeling, l'isola Christmas e persino il Mercosur, il Mercato Comune dell'America Meridionale.

Le costellazioni visibili sulla bandiera del Brasile

Ora, come abbiamo visto, per vedere la Croce del Sud è sufficiente trovarsi nell'Alto Egitto, lungo la valle del Nilo. Tolomeo di Alessandria elenca le sue stelle nel suo catalogo tra le stelle del Centauro; essa sarebbe identificabile, inoltre, nella costellazione chiamata Trono di Cesare, che Plinio (Naturalis Historia II, 68) descrive come non più visibile dall'Italia, ma ancora visibile dall'Egitto. I cataloghi stellari arabi e le Tavole Alfonsine (compilate a Toledo intorno al 1252 per conto di re Alfonso X di Castiglia e León) le riportavano chiaramente, ed i mercanti veneziani e genovesi che nel Medioevo frequentavano il porto di Alessandria, dovevano conoscere la Croce, forse non solo per sentito dire, se l'avevano vista risalendo il Nilo per motivi di commercio; per non parlare di Marco Polo, anche se, come si è visto, il suo viaggio sembra fosse sconosciuto a Dante. E forse la videro, o perlomeno ne ebbero notizia, i guerrieri che avevano partecipato alla Quinta Crociata (1217-21) sotto il comando del duca Leopoldo d'Austria, e quelli che presero parte alla Sesta Crociata (1248-54) sotto il comando del re di Francia San Luigi IX, dato che entrambe le spedizioni si rivolsero contro l'Egitto. Se si aggiungono poi eventuali mappe celesti dei naviganti arabi, si vede bene che lo occasioni per conoscere la Croce Australe a Dante non mancavano di certo. Tuttavia, se vogliamo esplorare la possibilità che le quattro stelle viste da Dante siano state ispirate davvero dalla Croce del Sud, bisogna tenere conto di un fatto essenziale. Tale asterismo era sì noto agli astronomi antichi, ma come parte della costellazione del Centauro, dalla quale è attorniata su tre lati; come costellazione autonoma, come si è detto, pare che essa sia nata solamente nel 1589, quando Pieter Platevoet e Jacob Floris van Langren realizzarono un globo celeste che mostrava per la prima volta la Croce del Sud, il Triangolo Australe ed entrambe le nubi di Magellano. Ma, tanto per aumentare la confusione, lo stesso Pieter Platevoet nel 1592 aveva pubblicato un'altra autorevole opera, la "Nova et exacta Terrarum Tabula geographica et hydrographica", in cui aveva disegnato un'altra Croce del Sud in una diversa porzione del cielo australe, e precisamente a sud della costellazione dell'Eridano, là dove attualmente si trova la costellazione dell'Idra Maschio. E non basta ancora, perché alcuni fra i primi naviganti europei che si spinsero nell'emisfero australe descrissero l'odierna costellazione della Croce del Sud non come una croce, bensì come una "mandorla".

Bisogna poi tenere conto dell'enigma costituito dal verso 24: « non viste mai fuor ch'a la prima gente ». Chi è questa "prima gente"? Tutti i commentatori antichi e molti tra i moderni sono d'accordo: essi sono Adamo ed Eva. Dopo che i leggendari progenitori furono cacciati dall'Eden, posto come sappiamo in cima al Purgatorio e quindi nell'emisfero australe, nessuno vide più quelle stelle con occhi mortali. Del resto, dal punto di vista allegorico, appare evidente come la luce delle quattro virtù dovesse risplendere più fulgida e piena all'umanità innocente del Paradiso Terrestre, che, come diceva Francesco d'Ovidio (1849-1925), « la possedette come cosa congenita, istintiva, scevra di sforzo ». Non a caso, immediatamente dopo l'Alighieri si affretta a deplorare quanti guai abbia causato all'umanità, costretta ad abitare nell'emisfero boreale e lontano da quelle « quattro luci sante » (Purg. I, 37), l'assenza del conforto delle virtù cardinali:

« Goder pareva 'l ciel di lor fiammelle:
oh settentrïonal vedovo sito,
poi che privato se' di mirar quelle! » (Purg. I, 25-27)

Vi è però un'altra possibile spiegazione: se teniamo conto della Precessione degli Equinozi, l'umanità primitiva avrebbe potuto godere delle "fiammelle" allorché esse erano visibili anche a latitudini più settentrionali. Dunque "la prima gente" sarebbero i nostri lontani antenati vissuti migliaia di anni fa. Senza dubbio è un'ipotesi intrigante, che rende più probabile l'identificazione delle quattro luci con le stelle α, β, γ e δ della Croce del Sud. In questo caso, per salvare il senso allegorico dell'invenzione dantesca (che non può mai passare in secondo piano, in un poema che per antonomasia è allegorico e didascalico) bisogna far coincidere quei nostri antenati con gli uomini dell'età dell'oro, prima della corruzione che portò al diluvio universale, come sosteneva il bolognese Jacopo della Lana, commentatore del Trecento. E Benvenuto de Rambaldis di Imola, lui pure commentatore del XIV secolo, sulla scorta di un passo del "De Civitate Dei" di Sant'Agostino, suppose che si trattasse degli antichi romani, i quali praticarono le virtù cardinali anche senza praticare la vera religione (anche alcuni commentatori moderni hanno sposato quest'ultima tesi). Tutto ciò, naturalmente, in contrapposizione agli eredi di quei virtuosi abitanti delle prime ere del mondo, cioè a noi stessi, contro i quali Dante scaglia un'invettiva tutt'altro che rassicurante:

« Lo mondo è ben così tutto diserto
d'ogne virtute, come tu mi sone,
e di malizia gravido e coverto » (Purg. XVI, 58-60)

Ed ecco un altro argomento contro l'identificazione delle quattro stelle con la Croce del Sud come oggi lo conosciamo: come si è detto, per vedere la Croce del Sud non è necessario spostarsi nell'emisfero australe. Basta raggiungere latitudini abbastanza basse, quali erano certamente incluse nei mappamondi del tempo di Dante. Il nostro poeta ad esempio nomina ripetutamente i Garamanti, popolo che controllava le antiche vie carovaniere attraverso il Deserto del Sahara, come esempio di abitatori delle regioni equatoriali:

« ...Dove sono intra l’altre genti li Garamanti, che stanno quasi sempre nudi; a li quali venne Catone col popolo di Roma, la signoria di Cesare fuggendo » (Convivio III, V, 12)

« Aliter quippe regulari oportet Scithas qui, extra septimum clima viventes et magnam dierum et noctium inequalitatem patientes, intolerabili quasi algore frigoris premuntur, et aliter Garamantes qui, sub equinoctiali habitantes et coequatam semper lucem diurnam noctis tenebris habentes, ob estus acris nimietatem vestimentis operiri non possunt. » (De Monarchia I, XIV, 6)
[Invero altre regole si richiedono per gli Sciti che, vivendo al di là della settima zona, esposti a giorni e notti di lunghezza fortemente sproporzionata, sono oppressi da rigori quasi intollerabili; altre per i Garamanti che, abitando sotto la linea equinoziale, e avendo sempre la luce del giorno di durata pari alle tenebre notturne, non possono coprirsi di vesti per l'eccessiva calura.]

Ma allora, le Quattro Stelle non erano state viste solo "dalla prima gente": anche questi popoli che vivevano in regioni equatoriali potevano scorgerle benissimo. Alla latitudine di zero gradi, infatti, un osservatore può vedere le stelle di tutto il cielo, giacché i Poli Nord e Sud si trovano esattamente sull'orizzonte. Da lì è possibile vedere sia la Polare che la Croce del Sud, e dunque questa vista non era riservata ai fortunati uomini dell'Età dell'Oro! Ed anche Ulisse ed i suoi uomini devono averle viste benissimo, quando penetrarono nel « mondo sanza gente » (Inf. XXVI, 117). E non è tutto. Infatti nel Canto VIII del Purgatorio, quando l'Alighieri si trova nella Valletta dei Principi, leggiamo:

« Li occhi miei ghiotti andavan pur al cielo,
pur là dove le stelle son più tarde,
sì come rota più presso a lo stelo.
E 'l duca mio: "Figliuol, che là sù guarde?"
E io a lui: "A quelle tre facelle
di che 'l polo di qua tutto quanto arde."
Ond'elli a me: «Le quattro chiare stelle
che vedevi staman, son di là basse,
e queste son salite ov'eran quelle» (Purg. VIII, 85-93)

Dunque, le quattro stelle sono scese verso l'orizzonte dall'altra parte della montagna, e quindi non sono più visibili, ma sono state rimpiazzate da altre tre "facelle" altrettanto luminose. Anche in questo caso, tutti sono concordi sul significato allegorico di questo nuovo asterismo: rappresentano le tre virtù teologali, così come le stelle vedute al mattino rappresentavano le quattro virtù cardinali. Queste ultime, particolarmente finalizzate alla vita attiva, gli appaiono la mattina, quando inizia la giornata lavorativa, mentre gli altri tre astri gli appaiono di sera, perchè la notte predomina la vita contemplativa. D'altro canto, le tre stelle appaiono immediatamente prima dell'attacco da parte del serpente, messo poi in fuga dagli Angeli, ed allora diventa urgente la necessità del soccorso da parte delle virtù soprannaturali.

Il Triangolo Australe nell'"Uranographia" di Johann Bode (1801)

Il Triangolo Australe nell'"Uranographia" di Johann Bode (1801)

Ora, nel Cielo Australe esiste anche una costellazione a forma di triangolo! Si tratta infatti del Triangolo Australe, una piccola ma appariscente costellazione le cui tre stelle più brillanti sono disposte a formare un triangolo pressoché equilatero. Anch'essa, come la Croce del Sud, si trova sul bordo meridionale della Via Lattea, ed è facile individuarla grazie alla presenza a nordovest della brillantissima α Centauri. Il Triangolo Australe fu introdotto da Johann Bayer nella sua "Uranometria" (1603), onde riempire alcune aree di cielo rimaste ancora prive di costellazioni a sud dello Scorpione; egli pensava probabilmente ad una livella da cantiere edile. La si vede chiaramente nell'emisfero australe, dove appare circumpolare, e alle basse latitudini dell'emisfero boreale, a partire dal Tropico del Cancro, per cui evidentemente non era ignota nel Medioevo; anch'essa, insieme alla Croce del Sud, campeggia sulla bandiera del Brasile. La sua superficie è di 110 gradi quadrati. La stella α Trianguli Australis, nota anche come Atria, è una gigante arancione di magnitudine 1,91 che dista da noi circa 415 anni luce. β Trianguli Australis o Betria è una gigante gialla di magnitudine 2,83, e si trova ad appena 40 anni luce dalla Terra. Il terzo vertice del triangolo è rappresentato da γ Trianguli Australis, una stella bianca di magnitudine 2,87 che dista 183 anni luce da noi. Val la pena di ricordare anche δ Trianguli Australis, una gigante gialla di magnitudine 3,86, distante 621 anni luce, e l'ammasso aperto NGC 6025, grande un terzo della Luna piena, facilmente riconoscibile anche con un binocolo e posto a 2700 anni luce dal sistema solare.

Invece l'astronomo napoletano Ernesto Capocci di Belmonte (1798-1864), patriota e direttore dell'osservatorio di Capodimonte, nel suo scritto "Illustrazioni astronomiche della Divina Commedia", avanza un'ipotesi completamente diversa sulle "tre facelle. La prima di esse sarebbe la luminosissima α Eridani, nota anche come Achernar (dall'arabo "akhir an-nahr", "la foce del fiume"), una stella stella bianco-azzurra di magnitudine 0,50 e distante circa 144 anni luce dalla Terra; pur essendo la nona stella più brillante del cielo, essa è così meridionale da risultare invisibile dall'Europa, ed infatti non è menzionata neppure da Tolomeo. E le altre due "facelle"? Esse sarebbero le Nubi di Magellano, due piccole galassie che orbitano attorno alla Via Lattea, visibili ad occhio nudo nel cielo notturno dell'emisfero sud; esse prendono il loro nome dal navigatore Ferdinando Magellano, che nel 1519 fu il primo occidentale ad osservarle, ma la prima menzione della Grande Nube di Magellano si deve all'astronomo persiano Al Sufi, che nel suo "Libro delle stelle fisse" (964) la chiamò "Al Bakr", il "Bue Bianco". La Grande Nube di Magellano dista da noi circa 157.000 anni luce, mentre la Piccola Nube di Magellano si trova a poco più di 200 000 anni-luce. Entrambe le galassie sono collegate fra loro e con la Via Lattea da un lungo ponte di stelle, noto come Corrente Magellanica, formatosi a causa delle intense forze mareali tra la nostra Galassia e le sue galassie satelliti. Secondo Capocci di Belmonte, esse sarebbero vicine al meridiano superiore quando le stelle della Croce sono prossime al meridiano inferiore, e quindi occuperebbero l'esatta regione di cielo indicata da Dante nel Canto VIII del Purgatorio. La stessa parola "facelle", usata in luogo di "stelle", farebbe pensare che Dante volesse indicare oggetti celesti diversi dalle stelle, ma pur sempre reali, oltre che allegorici. Se Capocci ha ragione, Dante ha inserito nel suo poema anche degli oggetti extragalattici!

La Grande Nube di Magellano, foto di John P. Gleason

La Grande Nube di Magellano, foto di John P. Gleason

Naturalmente, il discorso già fatto per la Croce del Sud potrebbe essere ripetuto per le "tre facelle", sia che esse siano da identificarsi con il Triangolo del Sud, sia che in esse siano da vedersi Achernar e le due nubi magellaniche: Dante, sempre molto attento alle questioni astronomiche, avrebbe consultato i cataloghi stellari arabi, trovandovi un gruppo di quattro astri e uno di tre astri chiaramente delineati nell'emisfero meridionale, ed avrebbe deciso di usarli come allegoria delle virtù, proprio come nel Canto I dell'Inferno usò per fini allegorici animali reali come il leone, la lonza, la lupa e il veltro. Il fatto che le costellazioni dantesche ad avere una controparte reale siano due, depone a favore del fatto che l'autore della Commedia si sia ispirato a stelle reali, anche se il problema della "prima gente" che, sola, avrebbe potuto vederle, fa pendere la bilancia a favore della pura invenzione a fini allegorici. Anche in questo caso, come in quello della datazione del viaggio dantesco e in quello dei quattro cerchi uniti con tre croci, resta sostanzialmente insolubile.

Ora, che ne pensano i più famosi dantisti a proposito dell'identificazione delle quattro stelle scorte da Dante sulla spiaggia del Purgatorio? Bisogna dire che questa curiosità astronomica non li ha mai entusiasmati troppo, dato che essi sono più propensi a cercarne il significato allegorico, non la presunta realtà scientifica. Così si esprime ad esempio Carlo Grabher:

« Che Dante potesse pensare alla Croce del Sud, di cui si aveva notizia in opere astronomiche medievali, o ad altro gruppo di stelle realmente esistenti nell'altro emisfero, non ha per noi alcuna importanza. Le quattro stelle, che Dante ha immaginato per incarnarvi il detto simbolo delle quattro virtù cardinali, poeticamente lo trascendono e brillano della loro viva chiarità indipendentemente da qualsiasi identificazione scientifica; e il cielo "ne gode" sì per il loro valore allegorico, ma anche e più per il loro reale effetto. »

Natalino Sapegno, da parte sua, preferisce tenersi prudentemente alla larga da ogni tentativo di identificazione astronomica:

« Secondo la concorde opinione dei commentatori antichi, le quattro stelle significano le quattro virtù cardinali. Del resto non sarà inutile avvertire subito che gli elementi naturali e le stesse intenzioni allegoriche, in questo proemio del Purgatorio, assai più che non in quello dell'Inferno, son trattati con una leggerezza che non ha più niente di schematico. Venere, le quattro stelle, sono prima d'ogni altra cosa vere stelle, dal cui aspetto emana un senso di gioia diffusa (vv. 20, 25), che porge diletto agli occhi e ricrea il cuore. »

Fa eccezione il filologo Manfredi Porena (1873-1955), il quale all'individuazione delle quattro stelle ha dedicato uno spazio molto più approfondito della maggior parte dei commentatori moderni, anche se interamente dedicato alla confutazione della identificazione delle quattro stelle con la Croce del Sud:

« Le quattro stelle sono un'invenzione di Dante, o Dante rappresenta in esse quella costellazione di quattro stelle chiamata Croce del Sud, sconosciuta ai suoi tempi al mondo civile, ma di cui potesse aver avuto notizia in qualche modo? Questa seconda opinione è oggi molto in discredito; ma poiché ha ancora qualche tardo sostenitore, val la pena di confutarla ancora una volta: tanto più che il discorso delle quattro stelle mi darà occasione di ribadire quanto ebbe ad affermare circa il posto che deve darsi alla verità scientifica nella Divina Commedia. (...) Che se, come da qualcuno si è preteso, egli avesse ricevuto notizie della Croce del Sud da fonti classiche da noi ignorate (cosa estremamente inverosimile) o da cartografi o da navigatori medievali, come avrebbe potuto dire che quelle stelle erano state viste soltanto dalla prima gente? Ma c'è poi un altro fatto di cui non si è abbastanza tenuto conto. Le quattro stelle della Croce del Sud, salvo l'esser quattro, non corrispondono punto all'aspetto delle quattro stelle dantesche: di esse solo una è di prima grandezza, e assai meno luminosa non solo di Sirio ma di non poche stelle a noi visibili. Invece le quattro stelle di Dante sono di una luminosità superiore a tutte quelle che noi vediamo, onde l'apostrofe al "settentrional vedovo sito" che non può contemplare in cielo uno spettacolo simile. »

Al contrario dei dantisti, gli studiosi di archeoastronomia (la scienza che si occupa di come i nostri antenati vedevano il cielo) hanno avanzato numerose ipotesi sull'enigma delle "sette stelle" dantesche, fino a sconfinare nell'esoterismo e nell'ufologia. Vale la pena di esaminare il parere di uno studioso serio di problemi archeoastronomici, Giulio Magli, ordinario di Meccanica Razionale al Politecnico di Milano, che nel suo testo "I segreti delle antiche civiltà megalitiche" così scrisse:

« Questa costellazione [la Croce del Sud], come anche il vicino Centauro non è più visibile alle latitudini del mediterraneo. La precessione infatti portò entrambe le costellazioni a culminare al di sotto dell'orizzonte nel corso degli ultimi due millenni prima di Cristo; in Italia, la Croce scomparve progressivamente tra il 700 a.C. e il 100 a.C. circa; a latitudini un po' più basse, per esempio all'altezza di Gerusalemme, il fenomeno avvenne qualche secolo dopo. (...) In ogni caso è probabile che la conoscenza di questa costellazione non si fosse persa completamente durante il Medioevo.(…) Senza dubbio Dante usa queste stelle come immagini delle quattro virtù teologali (Prudenza, Giustizia, Fortezza, Temperanza), ma è molto probabile che l'idea gli sia venuta da una conoscenza, perlomeno approssimativa, delle principali stelle dell'emisfero sud. Questa idea - oggi, ma forse è inutile dirlo, ferocemente negata dai più - venne di fatto già ad Amerigo Vespucci che, dopo aver visto per la prima volta le stelle della Croce, in una lettera datata 18 luglio 1500 e diretta a Lorenzo di Pierfrancesco de' Medici, scrisse:
"Mi pare che il Poeta in questi versi voglia descrivere per le 'quattro stelle' del polo dello altro firmamento, e non mi diffido fino a qui che quello che dice non salga verità: perché io notai quattro stelle figurate come una mandorla, che tenevano poco movimento."
È interessante notare che Dante sembra sapere anche che queste stelle un tempo erano visibili nel Mediterraneo, quando dice "non viste mai fuor ch'a la prima gente. Non è facile stabilire da dove Dante abbia attinto queste informazioni (...) In ogni caso, e indipendentemente dalla spinosa questione di come venivano effettivamente individuati i contorni delle costellazioni nell'antichità, non c'è alcun dubbio sul atto che le stelle di quello che per chiarezza chiamerò "gruppo Croce-Centauro" sono state una presenza importantissima nel cielo del Mediterraneo nei millenni precedenti alla nascita di Cristo; esistono infatti solide prove archeoastronomiche dell'interesse degli antichi per esse, ed in particolare proprio per le stelle della Croce dalla disposizione geometrica così peculiare, fin dal IV millennio a.C. »

Il Magli avanza addirittura l'ipotesi che gli spettacolari templi megalitici dell'arcipelago di Malta (Skorba, Gantija, hagar Qim, l'ipogeo di Hal Saflieni), eretti a partire dal 4000 a.C. da una civiltà della quale sappiamo ancora pochissimo, siano stati edificati con un allineamento astronomico ben preciso, presentando l'ingresso verso il settore sud-est del cielo, nella direzione del punto di levata del gruppo Croce-Centauro in quella lontana epoca storica. La civiltà megalitica di Malta si espanse poi su altre isole del Mediterraneo occidentale, da Minorca nelle Isole Baleari (Navetas, Talaiots) fino alla civiltà nuragica della Sardegna (cultura di Bonu Ighinu, circoli di Arzachena, Domus de Janas), e in esse sono stati rinvenuti edifici analoghi, che presentano lo stesso orientamento. Ad esempio, lo storico Eugenio Muroni sostiene che il complesso megalitico di Monte d'Accoddi, una sorta di "ziggurat sarda" a 11 Km da Sassari, riprodurrebbe nella sua pianta la Croce del Sud, chiaramente visibile nel cielo della Sardegna nel 2800 a.C., quando il monumento sarebbe stato eretto.

Se Magli ha ragione, gli antichi popoli stabilitisi nelle isole del Mediterraneo prima dell'irruzione di Fenici e Greci credevano in una religione astrale, nella quale le stelle che formano l'attuale costellazione della Croce del Sud dovevano svolgere un ruolo particolarmente importante, e ciò spiegherebbe la sopravvivenza della loro memoria anche dopo che, per il fenomeno della precessione degli equinozi, esse erano divenute invisibili alla latitudine dell'Italia centrale e della Sardegna, il che avvenne verso il V secolo a.C. Ma come Dante abbia potuto venire a conoscenza di questa tradizione ed inserirla nel proprio poema, resta a tutt'oggi un enigma degno di un moderno Sherlock Holmes dell'archeoastronomia. Ed io, che in questo ipertesto sto parlando della Scienza nell'opera di Dante, preferisco fermarmi qui. Mi piace chiudere la lezione con la stessa citazione dalla tragedia "Tamerlano il Grande" di Christopher Marlowe (1564-1593), con cui l'astrofisico Mario Livio chiude il suo saggio dedicato alla Sezione Aurea:

« Nature, that fram'd us of four elements
Warring within our breasts for regiment,
Doth teach us all to have aspiring minds:
Our souls, whose faculties can comprehend
The wondrous architecture of the world,
And measure every wandering planet's course,
Still climbing after knowledge infinite,
And always moving as the restless spheres,
Will us to wear ourselves, and never rest. »
[La Natura, costituendoci con quattro elementi
che lottano per la supremazia nel nostro petto,
insegna a noi tutti ad avere menti ambiziose:
le nostre anime, le cui facoltà possono comprendere
la meravigliosa architettura del mondo
e misurare il percorso di ogni pianeta vagabondo,
dando l'assalto al sapere infinito
e sempre in moto con le instancabili sfere,
vogliono che ci spingiamo avanti e non ci riposiamo giammai.]
("Tamerlano il Grande", Parte II, Atto II, Scena VII)

Le stelle della Croce del Sud viste al telescopio

Le stelle della Croce del Sud viste al telescopio

 

Ma non crediate che il nostro viaggio nell'Astronomia Dantesca sia finito qui; anzi, le più ardite interpretazioni dell'opera di Dante sono ancora da venire! Se quanto ho discusso con voi fino a questo momento non vi ha tediato, cliccate qui per proseguire il viaggio in mia compagnia.