Dal , www.corriere.it

 
 

Giovedì, 31 Agosto 2000

 
Il pontificato di "Paolo Mesto"

Caro Montanelli,
è appena ricorso il 22° anniversario della morte di Paolo VI, un pontefice troppo spesso considerato amletico e dubbioso, se è vero che fu soprannominato « Paolo Mesto ».
Qual è il suo giudizio sulla sua figura e sul suo pontificato? Lo chiedo a lei perché di storia se ne intende almeno un milione di volte più di me.

Franco Maria Boschetto, franco.boschetto@tin.it

Caro Boschetto,
la sua domanda mi mette alquanto a disagio. Per due motivi. Primo, perché della Curia e dei suoi personaggi, protagonisti e comprimari, so poco, e quindi poco so anche di Montini che in Curia era, si può dire, nato: lì aveva fatto tutta la sua carriera, e ne aveva tutte le stigmate. Il secondo motivo è che la mia testimonianza può essere anche involontariamente viziata da un certo personale risentimento. Quando egli arrivò a Milano come Arcivescovo, ma senza cappello cardinalizio (ed era - mi hanno detto - la prima volta che succedeva nella storia dell’Arcidiocesi Ambrosiana), invitò gli editori del Corriere , i tre fratelli Crespi, a rompere i rapporti di collaborazione con Alberto Moravia e col sottoscritto. Da veri editori quali erano, i Crespi, a nome dei quali parlò quello di loro che più si occupava del giornale, Aldo, risposero che quello era un problema che riguardava il Direttore, e che quindi si rivolgesse a lui. L'Arcivescovo non lo fece perché capì - immagino - l’inopportunità di quel passo, di cui io fui informato solo molto tempo dopo. E non sono mai riuscito a capirne il perché. Quindi lei diffidi delle mie parole che potrebbero essermi suggerite dal rancore, anche se in realtà non ne provo nessuno.
Qualcosa però di umanamente poco attraente in Montini ci doveva essere per spiegare l'andazzo altalenante della sua ascesa. Cresciuto non nella cura di anime, ma nelle stanze del potere, in pratica egli fu, fin da giovanissimo, Segretario di Stato, anche se formalmente quella carica Pio XII non volle attribuirla a nessuno, e preferì dividerla fra due prelati di modesti galloni, che dessero garanzia di combattersi, e quindi di paralizzarsi a vicenda: Montini e Tardini, che di più dissimili e incompatibili era impossibile trovarne.
Così almeno mi raccontò un monsignore francese di modi molto mondani, e glielo dico perché lei diffidi anche di queste informazioni. Come tutti sanno, Montini a un certo punto cadde in disgrazia, e fu per questo che, secondo la regola del promoveatur ut amoveatur (cioè del promuovere per rimuovere), fu mandato Arcivescovo a Milano. Sempre secondo il mio informatore, il Papa prese questa decisione perché aveva saputo - o gli avevano riferito - che, a commento di non so quale suo gesto, Montini aveva sospirato, sguardo al cielo «Signore, aprigli gli occhi. E se non puoi, chiudiglieli». Ma io non ci credo. A parte la riservatezza e cautela, Montini non era un uomo di «battuta», e quella su riportata venne poi attribuita al Cardinale francese Tisserant, cui invece molto assomigliava.
Ma lasciamo i pettegolezzi, e veniamo all'uomo e al Papa Montini. Dobbiamo riconoscere che al successivo Conclave gli toccò una successione difficilissima perché difficilissimo, anzi impossibile era far dimenticare il suo predecessore Roncalli, di cui non possedeva la simpatia e il calore umano. Ne soffrì, visibilmente. Ma il confronto era impari. Tanto Papa Giovanni sprizzava e comunicava gioia - la gioia del vivere e del Credere -, quanto Paolo allontanava e raggelava. Anzi, le dico francamente che se un motivo di simpatia il suo ricordo suscita in me, ad animarlo, se non proprio la pietà, è la comprensione del dubbio e del tormento che mi sembrava di leggergli in volto.
Come vede, caro amico, le ho detto poco. E di questo poco, non tutto, probabilmente, risponde a verità.


 

 

Mi può dire per favore qualcosa dello scandalo della Banca Romana? Perché non portò a una Tangentopoli di fine '800? Che sarebbe potuto accadere in Italia se il Partito Liberale di allora avesse fatto la fine del Psi di Craxi?

Franco Maria Boschetto, | franco.boschetto@tin.it

 


Caro Boschetto,
nel 1889, quando cominciò il prologo dello scandalo, la Banca Romana era una delle sei banche che avevano il diritto di emettere biglietti legali. 
Le altre erano la Banca Nazionale, il Banco di Napoli, il Banco di Sicilia, la Banca nazionale toscana e la Banca Toscana di credito. Come i lettori avranno capito, il governo centrale, dopo l’Unità, aveva faticosamente realizzato l’unità monetaria del Paese, ma non aveva unificato gli istituti di emissione e aveva lasciato a ciascuno di essi margini di libertà che erano difficilmente compatibili con il controllo nazionale della circolazione monetaria. 
La Banca Romana, in particolare, era diretta da un governatore, Bernardo Tanlongo, che Nello Quilici definì «un rozzo e frusto arnese dell’affarismo romano», e poteva emettere biglietti per una circolazione non superiore al 40% del suo capitale. Ma una ispezione, nella primavera del 1889, constatò che la circolazione eccedeva di 25 milioni quella autorizzata dalla legge, che la banca aveva fatto stampare clandestinamente 9 milioni di biglietti, soprattutto in tagli da 200 lire, e che nel suo bilancio vi era molta «carta di comodo», vale a dire crediti sofferenti, non più riscuotibili, che davano all’istituto un’aria di floridezza apparente. Per evitare il panico e la corsa agli sportelli in un momento in cui l’economia italiana attraversava una fase difficile, il governo (ministro del Tesoro era allora Giovanni Giolitti) decise di coprire con il segreto il rapporto sull’ispezione e di mettere ordine nella faccenda con la massima riservatezza. 
Ma nel 1892, divenuto ormai presidente del Consiglio, Giolitti prese decisioni che parvero, dopo lo scoppio dello scandalo, nettamente contrarie agli obiettivi del governo. 
Mise i l nome di Tanlongo in una «infornata» di futuri senatori e fece emettere dal ministro competente un decreto che prorogava di sei anni la validità legale dei biglietti. 
Si disse che Giolitti aveva obbedito alle sollecitazioni di Rattazzi, ministro della Real Casa, e che la sua sorprendente decisione mirava soprattutto a proteggere Umberto I, fortemente indebitato con la banca di Tanlongo. Ma la mossa non impedì lo scandalo. 
Quando il decreto venne in discussione alla Camera per la sua trasformazione in legge, la vicenda, grazie a molte fughe e indiscrezioni, era ormai diventata pubblica. 
Giolitti cercò di correre ai ripari e di modificare le disposizioni più contestabili del decreto, ma dovette nominare un’altra commissione d’inchiesta. Il nuovo rapporto scoperchiò definitivamente la pentola maleodorante in cui erano finiti tutti gli affari di Tanlongo. Il governatore venne arrestato e cominciò a fare i nomi degli uomini politici che la Banca aveva sovvenzionato soprattutto durante le campagne elettorali. 
Lo scandalo non era più soltanto finanziario. Era anche e soprattutto etico e politico. 
Vi furono altri arresti e un presunto suicidio. E vi fu soprattutto, grazie a Giolitti, una legge per la ristrutturazione del sistema bancario che permise la creazione, nel 1893, della Banca d’Italia. Ma le reticenze e ambiguità della fase precedente finirono per coinvolgerlo nella vicenda e fare di lui un possibile imputato. Lei si chiede, caro Boschetto, che cosa sarebbe accaduto se il partito liberale avesse fatto la fine dei socialisti all’epoca di Tangentopoli. 
Fra la sorte di Giolitti e quella di Craxi esiste una somiglianza e una differenza. Anche il primo, come il secondo, fuggì all’estero per sottrarsi a un possibile arresto. 
Ma rimase in Germania soltanto un mese e mezzo. Alla fine di gennaio del 1895, quando ricevette dalla moglie un mandato di comparizione di fronte al tribunale di Roma, decise di tornare in Italia e si difese chiedendo di essere giudicato dal Parlamento. 
L’«udienza», alla Camera, ebbe luogo nel dicembre del 1895, quando i deputati furono chiamati ad autorizzare un procedimento della magistratura ordinaria contro l’uomo politico piemontese. 
Giolitti reagì abilmente con argomenti convincenti e vinse la partita. Aveva probabilmente commesso qualche errore, soprattutto per difendere la monarchia, ma era pur sempre l’uomo che aveva aperto una fase nuova nella storia del sistema bancario nazionale. La domanda a cui dovremmo rispondere, caro Boschetto, è quindi un’altra: che cosa sarebbe accaduto del partito socialista se Bettino Craxi fosse tornato dalla Tunisia per difendersi in Italia?


Copyright © RCS Corriere della Sera

Torna alla mia Home Page