LA MADONNA DELLA GHIANDA A MEZZANA SUPERIORE (SOMMA LOMBARDO)

di Anna Elena Galli


Mezzana Superiore

La pieve

La pieve di Mezzana è ubicata a nordovest di Milano, incuneata fra quelle di Arsago Seprio (da cui dista poco più di un chilometro) e Somma Lombardo. Secondo don Giuseppe Selva « Mezzana fu così chiamata Mezzana Superiore, considerando che era posta a settentrione, in confronto degli altri paesi dallo stesso nome”. A parere di altri prende “il nome da un deposito alluvionale o rilievo morenico del Verbano; quindi il suo toponimo non è per nulla rilevatore dell'origine e della storia dell'abitato, ma indica la formazione geologica del suo territorio. »

Indipendentemente da queste considerazioni, bisogna rilevare che il borgo di Mezzana ebbe dall'epoca dell’età del bronzo ai secoli della dominazione romana grande rilevanza (lo testimoniano i numerosi reperti): si trovava su di un'importante strada militare, che scendendo dal Lago Maggiore, toccava Sesto Calende e penetrava, attraverso la Brughiera Gradenasca (attuale Malpensa) nell'Insubria. Tale strada dovette essere presidiata e fortificata come dimostra una lapide funeraria rinvenuta nei pressi di Sesto Calende, che rivelò l'insediamento di truppe romane nella zona, ed una mensa in pietra elegantemente scolpita nella parte inferiore con questa iscrizione: « I O M C / ET LIBERO PATRI VIN / IARUM CONSERVATORI / VERSUS ET VALERIUS / VALER. MAXIMI / V S L M ».

In merito all’origine della pieve, mancando le prove documentarie non si può né provare né smentire la derivazione, per scissione, dalla primitiva pieve di Arsago. Mezzana inoltre non poté essere indifferente alla vivace architettura della vicina Arsago, che già vantava monumenti di tradizione romana e forse longobarda. Durante l'epoca feudale dapprima fu signoria degli abati di San Gallo, poi dei Visconti, ai quali successero i Conti del Seprio, e poi nuovamente i Visconti. Il più antico documento che riguarda Mezzana risale al gennaio 1041: è un atto di donazione in cui sono menzionati due nomi longobardi, Dagiberto (officiale della cattedra estiva di Milano) ed Adalberto, padre e figlio.

La Chiesa prepositurale, dedicata a Santo Stefano, fu elevata al grado di collegiata verso il 1200: questa chiesa venne segnalata dallo storico Goffredo da Bussero come esistente fin dal 1288 e dedicata al Protomartire. Nell'archivio della prepositurale si conserva una pergamena del 12 luglio 1253 con la dicitura: « In canonica de Mezana in refectorio illius ecclesie seu canonice ». Con questo documento, il capitolo dei fratres della Chiesa di Santo Stefano di Mezzana, col Prevosto Filippo de Cuvirone, diede l'investitura locativa decennale delle decime di San Gallo sui luoghi di Vergiate e Oxonate.

Secondo il "Liber notitiae sanctorum Mediolani", alla fine del XIII secolo la pieve di Mezzana ebbe 11 chiese con 15 altari, distribuite in sette località: Caidate, Colliate-San Pancrazio, Cuirone, Cimbro, Ponte Laveggio e Tordera. Dalla "Notitia cleri" del 1398 si rileva che il collegio canonicale comprendeva il prevosto e sei canonici; mezzo secolo più tardi, dagli atti della visita pastorale dell’arcivescovo Gabriele Sforza il 4 agosto 1455, risulta che il collegio canonicale era ancora composto di sei membri, ma solo uno di essi oltre al prevosto presenziarono alla visita. Nel 1466, secondo lo "Status Ecclesiae Mediolanensis", risulta che le parrocchie delle pieve erano cinque, tuttavia il "Liber seminarii Mediolanensis", nel 1564, ne segnala solo tre (Cimbro, Villadosia, Caidate) più cinque canonicati.

I primi documenti certi risalgono all'epoca in cui Carlo Borromeo fu Arcivescovo di Milano ed inviò periodicamente alle singole parrocchie alcuni visitatori, volendo accertarsi dell’eventuale presenza di scisma nella sua diocesi. Essi avevano il compito di valutare la situazione spirituale ed economica: i loro giudizi vennero riportati al vescovo attraverso delle relazioni scritte che ancora oggi sono conservate, e che costituiscono un'importante fonte storica.

Nel volume XXXVI degli Atti delle visite pastorali alla pieve di Gallarate, conservato presso l'archivio diocesano, si trovava una mappa disegnata di Somma, Mezzana, Gallarate e del territorio circostante. L'8 ottobre 1566 Padre Leonetto da Clusone, inviato dal santo arcivescovo,  visitò S. Stefano, S. Antonino, San Giovanni Battista (battistero demolito negli anni '50 di questo secolo), San Rocco (pure demolito negli anni '30) ed infine la chiesetta della Madonna della Ghianda; dopo avere visitato il santuario, stilò queste osservazioni: « Die suprascripto visitavi Ecclesiam Stae Mariae extra Mezana ictu lapidis, que habet altare unum, est solata et coperta, non habet campanile nec campana; in dicta ecclesia celebratur diebus Sanctae Mariae tantum, nec est redditus. » Riferì dunque di un luogo di culto dall’aspetto semplice con un solo altare, senza campane né campanile: una modesta chiesa dedicata alla Madonna.

Il 22 giugno 1570 San Carlo visitò personalmente la pieve e si interessò personalmente al santuario della Madonna della Ghianda. Il 15 luglio dello stesso anno il cardinale inviò al prevosto di Mezzana per iscritto le proprie ordinazioni: « L’altar si rifaccia alla misura delle regole generali. Si facciano le stamegne di tella sopra le finestre. Si soffitti il Cielo della Chiesa. Se rifacci il pavimento. Si provveda di un altro vaso per l’aqua S.ta, più honorevole. La Chiesa si tenghi serrata se non mentre vi si celebra la Messa, solo e nelle feste per la frequentia del popolo che l’ha devotione. La strada che va dalla Chiesa prepositurale a questa Chiesa di S. Maria si alarghi et riduchi nel suo pristino stato fra un mese da quelli che l’hanno usurpata a ciò se vi possa continuar la solita processione con il Sacramento ed il Baldacchino ogni prima Domenica del Mese, altrimenti si astringano a ciò dal Vicario Generale per giustizia sommamente senza processo in essecuzione di questa nostra visita. » In seguito i lavori vennero realmente eseguiti e ne abbiamo prova nel resoconto del Vicario Foraneo.

Nel 1581 il Santo ordinò un’inchiesta sui fatti prodigiosi che si erano verificati. Ne conseguì la capillare organizzazione del culto eucaristico e dell’istruzione catechistica, attuata mediante l’impianto delle confraternite del SS. Sacramento e delle scuole della dottrina cristiana. L’arcivescovo ridusse i sei canonicati ad uno solo, imponendo al titolare anche il compito di impartire un’istruzione elementare ai bambini poveri del paese. Non vennero apportate modifiche allo status della prepositura, divenuta di giuspatronato dei Visconti di Somma nel 1484, in seguito ai cospicui lavori fatti eseguire per la chiesa plebana.

Le notizie che risalgono all’epoca del manzoniano cardinale Federigo Borromeo sono scarse, ma gli atti della visita datata 24 aprile 1596 di Monsignor Luigi Bossi, inviato dal cardinale a visitare la pieve, testimoniano che i suoi abitanti erano circa 1200, di cui 800 in età da comunione, mentre i sacerdoti residenti erano 7 (il prevosto, quattro parroci, il sostituto del canonico scolastico ed un cappellano di Cimbro). In seguito all'epidemia di peste citata nei "Promessi Sposi", gli abitanti erano scesi a 250, distribuiti in 46 famiglie; dunque anche a Mezzana vi furono delle vittime e la popolazione calò, ma non si sa quante furono i decessi, dal momento che il registro dell'anno 1630 è andato perduto; è sicuro che nel 1639 gli abitanti erano 227: secondo il Selva la differenza in meno può indicare i morti di peste. Fra costoro si annovera Gio Maria Fontana, notaio di Mezzana. A lui erano dovuti tutti gli atti inerenti la pieve ed in particolare quelli pertinenti alla fabbrica del Santuario; si presume che, a seguito della sua morte, al fine di evitare il diffondersi del contagio, venne bruciato tutto il suo archivio. Si giustifica così la perdita totale di atti legali riferibili alla costruzione del santuario. L’importanza della venerazione alla Vergine, tributatale nella chiesa della Ghianda, è attestata dalla volontà di erigervi un convento. Un decreto del cardinal Federico Borromeo, datato 25 settembre 1621, passò l’amministrazione della chiesa dalle mani di laici, ritenuti disciplinae ecclesiae imperitos, in quelle del prevosto della parrocchiale di Santo Stefano. Il santuario così come lo si può ammirare ancora oggi è il risultato dell’opera progettuale di Pellegrino Pellegrini.

Altre notizie circa le vicende che hanno interessato Mezzana risalgono all'epoca della a noi ben nota Battaglia di Tornavento del 22 giugno 1636. Nell'archivio diocesano di Milano si custodisce il resoconto degli oggetti rubati dai Francesi: furono rubate nella Chiesa due pissidi, il tabernacolo gestatorio, un calice, il baldacchino di damasco rosso, palli di damasco ed altre cose. Si poterono salvare due calici, un piviale, due tunicelle bianche, una guarnita d'oro ed altre suppellettili. Il documento riferisce inoltre di devastazioni ai danni dei poderi di proprietà della Chiesa.

Nel 1684, Mezzana fu visitata dal cardinal Federico Visconti che constatò una soddisfacente cultura e pratica religiosa nei fedeli: la popolazione era aumentata e ringiovanita (quasi 2000 abitanti, di cui più della metà in età da comunione). Il cardinal Giuseppe Pozzobonelli visitò personalmente la pieve dal 4 al 8 giugno 1750: la popolazione era scesa a 1900 anime ed era invecchiata; in tutte le parrocchie c’era la confraternita del SS. Sacramento e la scuola della dottrina cristiana.

Fino al XIX secolo, Mezzana Superiore è rimasta autonoma dal punto di vista amministrativo; nel 1860 fu aggregata al comune di Arsago Seprio, nel 1901 fu di nuovo indipendente ed infine nel 1927 è stata unita definitivamente al comune di Somma Lombardo.

Facciata del Santuario della Madonna della Ghianda, ritratta in una cartolina

Facciata del Santuario della Madonna della Ghianda, ritratta in una cartolina

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Il miracolo

Nel nome di Madonna della Ghianda sono racchiuse le origini ed il carattere popolare del culto mariano onorato nel Santuario: a quanto riferisce la leggenda, nel XIII secolo, in un bosco poco distante dall'abitato di Mezzana, una giovane sordomuta pascolava un piccolo gregge di pecore. Improvvisamente apparve una vivida luce fra i rami di una quercia e, nel mezzo, si materializzò l'immagine di una Signora che invitò la giovane a rientrare in paese e chiamare il padre affinché venisse in quel luogo. Padre e figlia, accompagnati da altri paesani, ritornarono nel bosco, ma non videro nulla. L'unica prova della visione fu il miracolo che consentì alla fanciulla di guarire dalla sua infermità.

Gli abitanti vollero onorare il luogo dell'apparizione, ovvero la quercia o "gianda" secondo la voce dialettale, costruendo un piccolo tempio intitolato alla Madonna, detta perciò "della Ghianda". In merito alle leggende di fondazione dei santuari mariani, è significativo ricordare il contributo dello storico G. Profeta che distingue quelle in cui il santuario è effetto della volontà divina e quelli in cui è conseguenza dell’iniziativa umana. L’autore ipotizza sei funzioni che ricorrono frequentemente: la richiesta epifanica come domanda di culto; la mediazione di una figura umana che manifesti l’evento alla comunità; la trasgressione quando la gente risponde negativamente al messaggio divino; l’ammonizione epifanica per gli increduli; la fede in ciò che viene richiesto dalla divinità; l’esecuzione finale. All’inizio si può collocare pure la funzione di bisogno di un santuario ed alla fine quella di soddisfazione de desiderio.

I documenti in merito all’edificazione del santuario sono pochi e frammentari, ma si può affermare che ebbe un’evoluzione scandita in tre tempi: da semplice cappelletta di campagna a chiesa di piccole dimensioni, fino al Santuario progettato dal Pellegrini.

Il sito antico

Nel 1288 lo storico Buonvicino annotò che, tra la città di Milano ed il suo contado, vi erano 1200 templi dedicati alla Vergine Maria: fra essi è annoverata anche questa chiesa, allora sorta da poco.

Lo storico sommese Ludovico Melzi (1837-1910) descrisse così il sito originario: “L'apparizione miracolosa della Vergine ad una povera villanella che pasceva gli armenti presso una quercia, diede occasione, correndo il secolo XIII, all'erezione di una modesta celletta, in un luogo che fu poi detto alla Madonna della Ghianda. Questa cappelletta fatta ad ancona misura m. 5,65 di lunghezza su metri 4 di profondità al centro, dove è alta metri 4. Era in origine aperta sul davanti, come tutte le cappellette di campagna.”

Goffredo da Bussero nel 1290 circa citò « Mezana ecclesia Sanctae Mariae », ed attestò quindi l'esistenza di una Chiesa di Santa Maria edificata già in quell’epoca. Inoltre vi sono due carte risalenti rispettivamente al XV ed al XVI secolo, che elencano i beni e le prebende della prepositurale di Mezzana; in questi atti compare per la prima volta il toponimo: « uno vignolo che tocha la Giesa di Santa Maria Gianda » ("un campo alla Madonna della Ghianda").

Il Selva citò la planimetria, inserita negli atti conservati all'archivio diocesano, che risale al 1570, e dalla grafia si potrebbe attribuire alla mano di Pellegrino Pellegrini, che giunse a Mezzana per un sopralluogo. In seguito, lo storico aggiunse: “Il Santuario era ad una sola navata, lunga circa 14 metri, larga nove, col tetto a tegole su capriate, un altare, una sola porta d'ingresso, quattro bifore, due per lato che davano luce all'ambiente.”

La forma del santuario, così come è riportata dai documenti, è stata confermata dagli scavi compiuti nel 1935-36 per il rinnovo della pavimentazione, lavori che hanno portato alla scoperta delle fondamenta primitive e hanno attestato le dimensioni che aveva il santuario antico. Il Selva, testimone oculare dei fatti, riportò nel Liber Chronicon questa annotazione:

« 13 luglio 1936. Nuova pavimentazione con offerte particolari del pubblico si intende rimuovere tutto il pavimento del Santuario. Mentre si compiono i lavori per levare il pavimento vecchio di mattone, molto consumato, nel sottosuolo vengono alla luce le fondazioni del primitivo santuario della Beata Vergine della Ghianda che si estendeva dall'abside (conservata) fino ad un metro dallo scalino più basso della balaustra. Bella scoperta interessante!! Vengono pure trovate diverse tombe, sia davanti l'altare maggiore sia lungo la chiesa. »

L'architetto Claudio Maffiolini calcolò con precisione le misure dell'antica chiesa, rilevòando che nel secolo XVI nel contado milanese il braccio valeva cm. 59,494 ed era diviso in 12 once. La larghezza misurava 14 braccia (8,33 m), la lunghezza 22 braccia e 9 once (13,54 m), l'abside 9 braccia e 9 once (5,80 m) per una profondità di 5 braccia (2,97 m), ed infine l'apertura della porta era di 2 braccia e 6 once, cioè 1,49 m).

Si sa che, nel corso dei decenni successivi, la chiesa dovette avere certamente una grande importanza per i fedeli locali, cosa che si desume chiaramente dalle relazioni compilate durante le suddette visite pastorali di padre Leonetto da Clusone e di Carlo Borromeo, avvenute rispettivamente nel 1566 e del 1570.

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Il Nuovo Santuario

La facciata

Preceduta da cinque gradini, si innalza classica ed armonica; è divisa in due piani: quello inferiore è scandito da sei lesene con alte basi e con capitelli corinzi. I quattro intercolumni laterali portano otto nicchie con statue, creando un motivo altamente pittorico nella ritmica scansione dei pieni e dei vuoti e nello sviluppo verticalistico che infondono alla facciata, pure nella sua massiccia compattezza rinascimentale.

Nel 1892, il Prevosto Carlo Cazzaniga annotò: « Si rinnova la facciata del Santuario per cui si spendono £2800. Le otto statue, opera del Farina, costano £ 150 cadauna. » Le otto statue, molto posteriori al progetto pellegrinesco, raffigurano nell'ordine S. Ambrogio, S. Carlo, S. Luigi, S. Anna, L’Immacolata, S. Gioacchino, S. Elisabetta, S. Giuseppe e si ha loro notizia nel "Liber Chronicon".

Nella parte superiore della facciata, sopra particolari lesene, stanno quattro erme che sostengono un grande timpano triangolare.  Ai tre portali della parte inferiore fanno riscontro i tre finestroni della parte superiore che anticipano, per il motivo triangolare e per la loro disposizione, il motivo conclusivo del timpano.

La ritmica ripetizione delle membrature architettoniche e decorative indica un profondo equilibrio: è un discorso logico, robustamente strutturato, che divide e seziona l'intera facciata nei suoi elementi costitutivi, riproponendo la validità di un'architettura essenziale, non leziosa, di una plasticità architettonica , non decorativa, di un effetto non scenografico, ma di rapporti. È la riprova della comprensione del linguaggio di Michelangelo, anche se nei limiti di una personalità che non poteva avere il genio del grande maestro.

Il Pellegrini aveva previsto l'impiego della pietra di Angera, materiale da lui usato frequentemente, di colore ora rosso, ora roseo, ora giallo, ora grigio, per fornire basi e capitelli nobili alle lesene. La trabeazione, il timpano, i due obelischi, le erme e tutte le mensole dovevano essere in serizzo.  Il materiale greggio fu approntato in un cantiere di tre pertiche, posto a nord del tempio, sulla proprietà della Chiesa di S.Stefano.

Se all'interno del Santuario furono fatti restauri e ritocchi a più riprese la facciata, purtroppo, fu brutalmente restaurata nel XIX secolo: uno strato di calce che, nelle intenzioni, voleva ringiovanire l'aspetto esteriore, ricoprì anche le parti ornamentali di pietra lavorata, rendendo sciatta e senza vita un facciata che, nella semplicità delle sue linee espressive, trovava risalto nel contrasto della pietra di Angera sull'intonaco.

Un accurato lavoro, eseguito nel 1960 con spruzzi di sabbia quarzifera ed aria compressa, ha permesso di scrostare la trabeazione, i mensoloni, le erme e le cornici sottolineando decisamente le linee ispiratrici di tutto il tessuto della facciata. Sopra il portale centrale è stato composto un mosaico (eseguito nel 1960 dalla Scuola da Spilimbergo, presso Udine) che rappresenta l'Annunciazione alla Vergine, soggetto ispirato ad una tela di Guido Reni. Purtroppo la composizione disturba la forte plasticità della facciata e, la esuberanza cromatica, rompe il sereno e raccolto sfumato della pietra di Angera.

Il santuario della Madonna della Ghianda (da www.sommalive.net)

Il santuario della Madonna della Ghianda (da www.sommalive.net)

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L'interno

La prima impressione circa l'interno del santuario è di semplicità, quasi una sensazione di povertà, ma un esame analitico delle componenti architettoniche ne rivela l'interiore ricchezza e la dinamicità.

Ad una sola navata, secondo il canone gesuitico, il tempio misura 30 m in lunghezza e 9,60 in larghezza. Ai fianchi si aprono sei cappelle: le prime due di ogni lato ospitano gruppi statuari raffiguranti i misteri della passione di Gesù Cristo, mentre le ultime due (rispettivamente patronato dei Castelbarco e dei Visconti) sono arricchite da due pale del XVI secolo.

Le lesene, che si sono già esaminate nella facciata, concorrono, anche all'interno, a tradurre il moto di tutto l'insieme. E' un susseguirsi armonioso di spigoli e di piani, plasticamente lievitanti dalla massiccia compattezza dei muri. I tre archi semicircolari, che da entrambi i lati campiscono i fianchi della navata, si inseguono ritmicamente, in un fluire modulato e sereno, linee scattanti che prendono risalto dal contrasto con la penombra delle cappelle.

Sopra i capitelli delle lesene corre l'alto cornicione, con ricche modanature che imprigionano gorghi di ombre; dalle finestre sopra il cornicione filtra una luce diffusa, quasi a dare un senso di distesa serenità spirituale. Le segmentazioni ad angolo retto sul pavimento, la linea ricorrente degli archi ed il dritto profilo del cornicione incontrano, al termine della navata, l'arco che scandisce la divisione del presbiterio. Sembra lanciato secondo il Dossi da uno sforzo titanico attraverso quel volume luminoso di spazio che è l'elemento formale dell'architettura.

La navata appare un intersecarsi dinamico, ma compositamente classico, di linee e di archi, di lesene e di vani. L'interno del tempio è un logico sviluppo dialettico: da determinanti premesse (i pochi motivi ornamentali ricorrenti) prende avvio un discorso serrato, incalzante, interpretato linearmente, volumetricamente, ma con inesorabile sviluppo logico.

Giudizio critico

Nella facciata del Santuario della Madonna della Ghianda mancano lo slancio e la distribuzione di forze, presenti, per esempio, in San Fedele, tuttavia è evidente la presenza della suggestione verticalistica, ottenuta, oltre che dalle lesene e dal finestrone centrale (che prevale sui laterali), dal restringimento del secondo ordine rispetto all’inferiore e dall’arco di collegamento.

Sicuramente il Pellegrini fu in grado di elaborare soluzioni nettamente migliori, come in San Fedele, dove, disegnando due ordini della stessa lunghezza, si stacca dal modello in voga a quei tempi e sostituisce ad un verticalismo d’effetto quel verticalismo di volumi e di distribuzione di forze. Nel Pellegrini, penso, si debba ammirare, soprattutto, lo sforzo costante di un’individualità che serenamente si esprime, nella continua ricerca di una forma migliore e, talvolta la raggiunge. Così, in questa fabbrica riesce ad ottenere un esito ugualmente piacevole a vedersi per la semplicità delle proporzioni: nella facciata poche linee ispiratrici intervengono a ravvivare i pochissimi elementi decorativi che riescono così ad assolvere la loro funzione architettonica.

L’esterno del santuario preannuncia, in un certo senso, la distribuzione dell’interno: si può prevedere che al cornicione, che divide i due ordini della facciata, farà riscontro un cornicione interno, che si snoderà per tutta la navata ed il presbiterio, si può prevedere che gli spazi interni saranno scanditi da lesene, sormontate da capitelli corinzi.

Osservando l’interno del santuario di Mezzana, si constata la logicità, la linearità e l’equilibrio secondo i quali l’architetto ha operato: la parte esterna corrisponde perfettamente a quella interna. E’ lontana dalla sua mentalità l’idea di concepire degli interni “a sorpresa” con linee e motivi né anticipati né intuibili dalla facciata. In pianta, la scansione ritmica dei piani, nella sua classica ripetizione, non è monotona, ma graduale sviluppo: tutte le linee della chiesa si incontrano ad angolo retto, costruendo un prezioso ed equilibratissimo motivo.

Lungo le pareti laterali si aprono rispettivamente tre cappelle: le prime due per lato, non hanno altare ed ospitano gruppi statuari con scene tratte dai misteri dolorosi, mentre le ultime sono più profonde e provviste di un altare. In queste ultime è accentuato il richiamo alla Passione di Gesù: nella cappella di destra (rispetto all'entrata) sovrasta l'altare una pala che rappresenta Cristo crocifisso; nell'altra campeggia un tela raffigurante la Coronazione di spine.

Questo è un fatto insolito ed una spiegazione plausibile pare quella addotta da Mons. Orsenigo che scrive: « San Carlo, per combattere il protestantesimo che accusava la Chiesa cattolica di dimenticare Iddio per il culto dei Santi, vide che si doveva rispondere all'eresia richiamando il Divino culto attorno alla persona di Gesù Cristo Redentore, concentrandolo soprattutto in quelle grandi manifestazioni di amore che riepilogano la sua opera redentrice: Incarnazione, Passione ed Eucarestia. »

Il culto dell'Eucaristia viene presentato con una soluzione architettonica di notevole interesse: introdotto da una solenne arcata semicircolare, il presbiterio si stende largo e spazioso. Questo spazio viene fissato, in maniera inequivocabile, come il vero centro della devozione e fulcro della pietà eucaristica.

A quanto già detto, si aggiunge che tutta la navata è coperta da una volta a botte, che si arresta sopra l’arco trionfale del presbiterio, il quale si restringe, rispetto alla planimetria generale, ed è coperto da una crociera. Nella zona del presbiterio, infine, convergono tutte le linee architettoniche, si concentra tutta l’attenzione degli spettatori, graduando sapientemente la luce ad ulteriore prova che questo è il luogo deputato allo svolgimento delle sacre funzioni e per tanto deve essere esaltato ed enfatizzato. Come già rilevato, il presbiterio non termina con un'abside, l'altare non ha tempietto, né la pala con dipinto di misteri o di santi protettori, invece, appoggiato alla parete di fondo, sta un altare di legno dorato, che porta bene in vista, fra il timpano spezzato, un ramo di quercia con ghiande e l’anno di esecuzione MDCLX: nel mezzo, una cornice ad arabeschi inquadra un'apertura praticata nel muro, come una finestra, al di là della quale si vede l'affresco, dipinto nella concavità della volta dell'antica abside venerata.

Oltre che costituire un'interessante soluzione architettonica, la visione della Madonna della Ghianda, posta proprio sopra l'altare, ha un'importanza notevole dal punto di vista liturgico. Infatti, il visitatore del santuario, per contemplare l’affresco, deve alzare gli occhi sopra l'altare, ovvero sopra il simbolo del Cristo Eucaristico.

Pellegrino Pellegrini seppe così unire le prerogative puramente architettoniche (il mantenimento dell'antica cappellata) con le esigenze liturgiche, caldeggiate dall'arcivescovo. Se avesse costruito il tempio nuovo con l'asse normale a quello del vecchio edificio e se avesse fatto aderire l'abside ad una cappella laterale, avrebbe avuto, forse, più libertà d'azione nel presbiterio, ma avrebbe definitivamente compromesso la sostanziale unità del binomio Madre-Figlio, creando in una stessa Chiesa, due centri d'interesse.

La conferma palese di queste argomentazioni si può fondare nella frase che corre scritta lungo la navata, nel fregio del cornicione: « JAM PASSIONI AEMULA AB ORTU AD ARAM GOLGOTHAE, AGNO SALUTIS ASSIDE REDEMPTIONIS ARBITRA. »

Non va dimenticato che all’interno del santuario di Mezzana vi è un altro elemento cruciale: la cappelletta absidale affrescata. Il Pellegrini la inglobò magistralmente nella nuova costruzione, e fece in modo che potesse essere vista attraverso una vetrata posta sopra l’altare maggiore.

A mio parere, se da una parte, focalizzare l’attenzione sul presbiterio doveva essere un richiamo forte al fedele affinché meditasse sul mistero religioso che lì veniva celebrato, d’altra parte, porre la visione (seppure parziale) dell’affresco absidale, significava anche spostare il pensiero sulla tradizione, sulla storia del luogo e, rivolgendosi a persone semplici, ricordare la leggenda della Madonna della Ghianda.

Pellegrini unì nella sua creazione la storia alla leggenda: nell’edificio che progettò, mise tutti gli elementi architettonici e formali a lui contemporanei, ma si premurò di aprire una finestra sul passato, quasi un monito, in tempi tanto travagliati, a riguardare alla semplicità di un’epoca imprecisata quando, anche a Mezzana accadevano miracoli mirabili.

In conclusione mi sembra molto pertinente ed acuta l’osservazione di Colombo che scrive: “Nel 1582 iniziò la costruzione del santuario della Madonna della Ghianda a Mezzana (Somma Lombardo), su progetto del Pellegrini, autore, si crede, nel medesimo anno del tipo della Chiesa della Croce di Riva san Vitale (Canton Ticino, Svizzera), compiuta anch'essa a distanza di anni dalla fondazione. In fabbriche di grande impegno (Saronno, Mezzana) non di rado si mettono in opera progetti ormai morti. Attraverso questo tramite, la tradizione viene tenuta costantemente legata al presente: i maestri di muro e le loro compagnie, usi a costruire architetture contraddistinte da chiarezza ancora rinascimentale, una volta alle prese con modesti edifici delle rispettive terre, ricreano, quasi inavvertitamente, per pratica, un tono ormai spento e prolungano il contatto col passato.”

Gli interventi successivi

Incominciata nel 1582, la fabbrica del nuovo santuario procedette celermente, non ostacolata nemmeno dalla morte di S. Carlo Borromeo, avvenuta nel 1584.
Significativa però è la relazione datata 26 agosto 1596 di Mons. Luigi Bossi, che testimonia di lavori quasi fermi: infatti non si riscontra un progresso dei lavori rispetto alla prima descrizione, datata 11 ottobre 1586. Resta il fatto che la popolazione del luogo, in gran parte contadina, in anni così difficili, contribuì con sacrifici alla costruzione del tempio in cui vedeva appagato il suo desiderio di rendere omaggio alla Vergine. L'amministrazione delle offerte del Santuario era affidata ad una commissione di laici che, sebbene soggetti al prevosto per rispetto gerarchico, erano dotati di tutte le facoltà per quanto riguardava la fabbrica. Probabilmente si verificarono delle irregolarità, tanto da obbligare l'arcivescovo Federico Borromeo ad un provvedimento molto drastico.

Il 25 settembre 1621 il Card. Federico Borromeo, trovandosi in visita pastorale a Mezzana, emanò un "decreto ex praepositurali S.ti Stephani" in cui si dice che « durante nostra personale visita abbiamo trovato la chiesa di S. Maria della Ghianda, in territorio della prepositurale di Mezzana, come abbandonata ed aperta, si può dire, a tutti; l’amministrazione e la cura stanno in mano a uomini laici inesperti di disciplina ecclesiastica; volendo provvedere al governo di quella chiesa, secondo le disposizioni dei sacri Canoni e dei Concilii, la togliamo dal governo e dalla custodia di uomini laici, e colla nostra autorità la uniamo ed incorporiamo in perpetuo alla Chiesa prepositurale di Santo Stefano in Mezzana, in modo che, d’ora innanzi, la cura e l’amministrazione sia affidata al Reverendo Prevosto, o ad altra persona ecclesiastica che il medesimo vorrà scegliere, e proibiamo in modo assoluto che si possa aggiungere a quella Chiesa qualsiasi casa o qualunque costruzione di fabbrica, senza il permesso del medesimo Prevosto ».

La conseguenza immediata fu la soppressione del regimen laico e l'incorporazione del Santuario alla chiesa prepositurale di Mezzana : la fabbrica da quel momento venne amministrata dal prevosto o da una persona ecclesiastica di sua fiducia.

Dopo la grave epidemia di peste del 1630 si registrano numerosi lasciti a beneficio del santuario, al fine di portare a termine la costruzione che ormai era a buon punto. Un esempio è il testamento fatto da un ammalato di peste e redatto in data 5 dicembre 1630. Da questo documento veniamo a sapere che il santuario era adibito a Lazzaretto, ed infatti l’estensore precisa il luogo dove si trovava l’ammalato, poiché lì venne redatto l’atto notarile.

A questo proposito è interessante segnalare il legato per le Nubende dal momento che, oggi, il Santuario è scelto da molti giovani per celebrare matrimoni in virtù di questo antico precedente. Il Selva ricorda così il fatto: « Mons. Scipione Visconti, nell'anno 1630, dispose nel suo testamento che si destinasse una somma di danaro, in parte, in soccorso agli indigenti e, in parte, in dote per le giovani nubende povere e volle dettare le norme per la distribuzione. Ogni cinque anni sia fatta la lista delle giovani povere e fra esse si scelgano le più povere, che siano legittime, frequentino la Dottrina Cristiana, non servano ai nobili, siano vergini, modeste di buon esempio. Per ogni paese si presenti una lista di quindici giovani; ogni anno si estraggano a sorte tre giovani per ogni paese e si assegni loro la dote. »

In una relazione, redatta dopo la visita di Monsignor Filippo Maria Visconti, avvenuta nel 1642 si trovano alcune ordinazioni per la costruenda chiesa della Madonna della Ghianda. Al 1648 risale invece una nota di spesa per le vetrate: « Si fanno le vetrate del Santuario della Beata Vergine della Ghianda spendendo si la somma di £. 394. » Nello stesso anno, il cardinal Federico Visconti visitò la pieve di Mezzana e, a proposito del Santuario, fornì una descrizione precisa ed accurata, che dice tra l'altro: « La chiesa della Madonna della Gianda pocho distante dalla chiesa prepositurale et è di devotione dedicata sotto la protecione della Annunciacione della Beata vergine Maria alli 25 marzo [...] A dietro a detta chiesa sotto l’ancona maggiore vi si trova una capeletta antichissima dipinta con pitture antiche, et vi è l’effige della Madonna sopra il muro dipinto alla mosaicha nella quale cappelletta vi è il suo altare per celebrare Messe... »

Per alcuni anni la situazione migliorò, ma nel 1698 entrò in Mezzana quale prevosto il sacerdote Pietro Bottero che procedette alla distruzione di vecchi altari e li sostituì con nuovi, facendo spese giudicate smisurate dalla gente del luogo. Inoltre, fece stuccare le pareti interne, distribuendo sagome e cornici che potessero contenere, in seguito, degli affreschi. I fedeli, gelosi del Santuario che i loro padri avevano eretto con tanti sacrifici, inoltrarono un reclamo all'arcivescovo, dove fra l'altro si legge che: « Nella cappelletta della Chiesa della Madonna della Ghianda vi si trovano due altari antichissimi, li ha fatti di sua potenza demolire, come parimenti rompere il pavimento di detta Cappelletta, farla cavare e condurre detta terra nelle strade comuni; essendo tal Cappelletta fatta a pittura mosaica, come anche l’altare sotterraneo, fece rompere le mura di detta cappelletta, come nella Chiesa grande, aprire e turare usci, fare anche una balaustra nel coro. Nel recinto della Chiesa di S. Maria della Ghianda vi è il Lazzaretto, dove furono sepolti gli appestati dell'anno 1629-30; vi ha fatto cavare e condurre via la terra che ora non pare più Lazzaretto, ma pascolo. Ha fatto restaurare la Chiesa della Madonna della Ghianda con gran dispendio e mai ha dato conto di quella spesa, che procede dalla elemosina di detta Chiesa, avendo in più anche alienati li capitali ed avendo fatto fare molte spese superflue. » Tuttavia don Bottero non si scompose, anzi fu proprio imputabile a lui lo sconsiderato tentativo di restaurare l’affresco dell’abside: con una tinta uniforme e giallastra fece ricoprire tutta la decorazione, cancellando le legende che caratterizzavano i dodici re della genealogia di Maria.

Dagli atti di una visita vicariale del 25 luglio 1748 emerge che il santuario si trovasse in uno stato indecoroso: « Li Fabbriceri non spendono né in pompa, né in cose necessarie e pulsati dal [...] che attende alla cura delle anime di Mezzana, di tenere con polizia quel sagro santuario, e di far serrare alcune aperture che danno l’adito al vento e d’estinguere i lumi che servono alla Messa, né lo fanno ed il peggio né meno danno il commodo al [...] che volentieri senza spesa di detta chiesa lo farebbe, dicendo uno delli medesimi che hanno detto Messa così altri preti, e così lo può dire anch’esso. »

Nel 1750 il Cardinal Giuseppe Pozzobonelli lodò il santuario, definendolo « templum pulcherrimum juxta delinationem Pelegrini celberrimi Architecti ad nomen, et memoriam deiparae Virginis extructum parum distans ab ecclesia Prepositurali. »

Nel 1755 Francesco Antonio Peruzzotti, nipote del Prevosto, dipinse la “Beata Vergine col Bambino” sulla facciata del Santuario. Nel 1760 venne rifatto il suolo in panelle, che venne rinnovato nell’agosto del 1879 dalla ditta Mentasti di Malnate, come si legge nel Liber Chronicon. Sempre nel Liber Chronicon, vi è una notizia risalente al 1892 che informa in merito allo stato di conservazione ed ai nuovi lavori di abbellimento del tempio:

« La chiesa della Beata Vergine della Ghianda ... aveva nell’esterno un aspetto indecente, le mura restaurate in parte e bugnate, uno stillicidio continuo che minacciarono le gronde del tetto tutto rovinato, le nicchie esistenti, ma piene di sassi, reclamano più che un restauro, con rinnovamento dal giorno 14 ottobre 1892, data principio all’impalcatura se ne continua fino alla metà novembre il nuovo intonaco di tutta la facciata, compresa la struttura di tutta la gronda. 
La popolazione si prodiga per la condotta gratuita di tutta la sabbia e calce. Nel successivo mese di marzo 1893 si continuò l’interrotta operazione e, per la festa della Madonna, tutto era finito, tanto la tinteggiatura di pochi ornati esistenti, quanto la posizione in opera nelle loro nicchie delle 8 statue dei santi, le quali nicchie prima erano vuote. Le statue opera del signor Farina, in cemento costano £150 cadauna e la spesa totale ammonta a £ 2800 circa. vennero sostenute dal sig. Prevosto.
Nel marzo 1907 nell’abside fu sostituito l’altare, giudicato vecchio ed indecoroso, con un altro in cemento, venne dipinto lo zoccolo e riparate le pareti dipinte a fresco, oltre al rifacimento della decorazione del corridoio che immette nella cappelletta.
Di grande rilievo furono i lavori per affrescare in maniera confacente il Santuario. Promotore e grande sostenitore dei lavori fu il prevosto Don Selva. Nell’archivio della Preposituarale sono conservati tutti gli atti della gara d’appalto che venne fatta per assegnare l’incarico: molti pittori concorsero, ma fu un professore di Meda, Primo Busnelli, a vincere in virtù di altre esperienze di decorazione di ambienti sacri. »

Il 30 marzo 1935 il prof. Primo Busnelli di Meda presentò un progetto di decorazione dell'abside del Santuario del Santuario; il 12 maggio dichiarò di avere ultimato il progetto di decorazione dell'abside. Il 3 giugno 1935, l'ing. Luigi Binaghi e don Selva ricevettero i progetti per la decorazione dell'abside del Santuario che furono approvati dalla commissione per l'arte sacra della curia il 23 giugno; già il 12 luglio vennero preparati in Santuario i fondi necessari; il pittore Busnelli pattuì un compenso di £ 14000. Il 7 settembre venne terminato il lavoro di decorazione alle 4 vele della volta, sopra l’altare maggiore ed il 12 ottobre si diede inizio all'affresco dello Sposalizio della Vergine, soprastante l'altare maggiore del santuario, opera che fu terminata il 24 ottobre. I lavori vennero sospesi il 23 novembre, dopo che il pittore ebbe finito il quadro dell'Apparizionea.

Il 2 marzo 1936 ebbe inizio la seconda fase dei lavori: fu pattuito di continuare la decorazione del santuario, sulla volta maggiore e per tutte le pareti della navata centrale, incluse le cappelle per un costo di lire 18500; il 3 aprile venne terminato il quadro centrale della volta rappresentante la Vergine che offre la vittima al Divino Padre; 15 aprile era compiuto il terzo quadro, vicino all'altare maggiore.

Per la decorazione della cappella dei misteri, il prevosto suggerì di ripristinare sulle pareti laterali le teste degli Apostoli; 10 giugno ebbero termine i lavori per la decorazione della cappella del crocifisso e si levano i ponteggi 13 luglio 1936 il prof. Busnelli iniziò il grande affresco, alla destra del presbiterio, intitolato San Carlo che benedice il progetto del nuovo santuario, presentato da Pellegrino Pellegrini. 

Venne posta una nuova pavimentazione e mentre si compivano i lavori per levare il pavimento vecchio di mattone, molto consumato, nel sottosuolo vennero alla luce le fondazioni del primitivo santuario della Santuario della Beata Vergine della Ghianda che si estendeva dall'abside (conservata) fino ad un metro dallo scalino più basso della balaustra; vennero pure trovate diverse tombe di epoca medioevale, poste sia davanti l'altare maggiore sia lungo la chiesa. Il 7 agosto fu terminato l'affresco con San Carlo, così pure la posa del pavimento nuovo, di tipo “basilicale”; il 23 settembre il pittore dipinse il Crocifisso della cappelletta retrostante il Santuario. Il 2 ottobre 1936 il Santuario venne consacrato da parte del cardinale arcivescovo Alfredo Ildefonso Schuster, oggi beato.

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L’affresco dell’Abside: L’Albero di Jesse

Non vi sono documenti che testimoniano la costruzione di quest’abside che, in origine, era l’unico ambiente del Santuario, né vi sono notizie storiche circa l’affresco ed il suo autore. Tuttavia, la cappelletta e l’affresco risalgono a circa la metà del XV secolo, e con ciò si intende che l’affresco fu eseguito immediatamente dopo l’erezione della struttura muraria. La mancanza di altri simulacri da venerare indusse i costruttori ad abbellire in tempi brevi la cappella con una immagine sacra che racchiudesse i due elementi principali: la Vergine e l’albero di quercia.

L’iconografia: l’albero di Jesse

L’albero di Jesse è un soggetto non molto frequente nella pittura italiana, ma più diffuso nella scultura; al contrario, vi sono molti ed illustri casi per quanto riguarda l’arte franco-gemanica: le ragioni si possono comprendere esaminando a fondo gli aspetti di questa iconografia. L’albero di Jesse è l’albero genealogico di Cristo: la rappresentazione delle successive generazioni così come le ricordano i Vangeli.

Jesse, ai piedi dell'albero

Il personaggio da cui prende nome, Jesse, non è un protagonista: di lui si sa che apparteneva alla tribù di Giuda, figlio di Ruth e di Booz , ebbe otto figli, di cui l’ultimo, Davide, divenne re d'Israele. La figura del patriarca Jesse venne collegata a Cristo: leggendo la profezia “Un virgulto sorgerà dal tronco di Jesse ed un fiore nascerà dalle sue radici. Sopra di lui si poserà lo spirito del Signore; spirito di sapienza ed intelligenza, spirito di consiglio e di forza, spirito di conoscenza e di timor di Dio” (Isaia 11, 1-2), gli esegeti medioevali non riconobbero Davide ma Gesù nella "virga Jesse". Nei Vangeli Luca cita 42 generazioni, mentre Matteo ne elenca solo 26, tuttavia il patriarca Jesse. è ricordato da entrambi.

Quando questo tema entrò a fare parte dell’iconografia cristiana, gli artisti presero le mosse dal passo di Isaia, ma pare più probabile che si ispirassero alle genealogie evangeliche: da Isaia trassero la figura di Jesse (trasfigurazione della radice), il fusto dell’albero ed il fiore, cui fecero corrispondere Gesù, seguendo i Vangeli, aggiunsero gli antenati e li posero fra i rami dell’albero. In generale, la genealogia di Matteo è la più seguita: i personaggi, ordinati cronologicamente, non all’inverso come in Luca, risultano più semplici da rappresentare.

Un esempio altomedioevale si trova a Poitiers presso la chiesa di Nôtre Dame le Grande (è una statua posta sulla facciata): Jesse è ritratto con uno stelo in mano ed accompagnato dalle parole della profezia di Isaia. Altri esempi si trovano su vetrate: uno dei più significativi è quello presso la chiesa di S. Denis; secondo lo storico Emile Male, dal momento che l’abate Suger commissionò nel 1135 questa vetrata, è da attribuire proprio a lui l’elaborazione del motivo iconografico. Questa teoria viene oggi messa in discussione in base all’esame di testi liturgici dell’area germanica: si sono riscontrati degli esempi di albero di Jesse precedenti a quello di S.Denis.

Così, se non si può affermare che Suger sia l’inventore di questo tema iconografico, bisogna rendere a lui il merito di averlo codificato in termini definitivi, tanto da permetterne la diffusione. Da S.Denis in poi, Jesse viene raffigurato alla base dell’albero, steso o dormiente o in meditazione, porta una lunga barba bianca ed il cappello a punta, caratteristica degli Ebrei. L’albero affonda le radici nel cuore o nelle viscere di Jesse, mentre in qualche altro esempio sorge dalla bocca o dalla testa. Nella parte superiore vengono rappresentati gli antenati di Cristo (menzionati solo nei Vangeli e non nel passo di Isaia): nella raffigurazione il loro numero è vario, ma per mancanza di spazio compaiono poche figure rispetto alle generazioni ricordate dagli Evangelisti. In genere ne vengono rappresentati 12: sono identificati dal nome, che compare nella bandella a lato di ciascuno, sono posti fra i rami dell’albero rivolti a Cristo e la loro collocazione rispetta l’ordine cronologico.

La loro condizione regale è esemplificata dallo scettro e dalla corona: è importante sottolineare che questi attributi sono presenti nelle opere posteriori alla vetrata di S.Denis. Davide e Salomone sono sempre presenti e facilmente riconoscibili per l’arpa che contraddistingue il primo (salmista) e per il turbante, caratteristica del secondo. Un discorso a parte meritano le figure di Gesù e della Vergine: inizialmente Gesù era preminente, ma la diffusione del culto mariano portò a modificare la scena. Si preferì effigiare la Vergine col Bambino, cosicché dal XVI secolo non si parlò più di albero di Jesse, ma di albero della Vergine. In Italia gli esempi più celebri sono opere scultoree: Benedetto Antelami scolpì un albero di Jesse nel 1196 circa sullo stipite destro della porta settentrionale del Battistero di Parma, in contrapposizione con la genealogia di Mosè che compare su quello opposto. Un altro caso rilevante è il secondo pilastro della facciata del Duomo di Orvieto che risale al XIV secolo circa. In pittura si annovera l’opera di Piero Cavallini che affrescò nel duomo di Napoli un albero di Jesse nella Cappella Minutolo (1308 circa). Un altro ambito è quello dei codici miniati: nel Salterio della Regina Ingerburga (XIII secolo), conservato al Museo di Chantilly, è effigiato un albero di Jesse, a significare che il tema dovette essere particolarmente suggestivo e stimolante per gli artisti medioevali.

L'Albero di Jesse: rami di sinistra___L'Albero di Jesse: rami di destra

L'Albero di Jesse: rami di sinistra e rami di destra

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Descrizione

L’affresco nell’abside del santuario misura alla base 550 cm; raffigura la Vergine assisa fra i rami di una quercia, con in grembo il Bambino, al quale offre una rosa. Una grande quercia stende da ogni lato i suoi rami ricchi di foglie e ghiande, ai suoi piedi è dipinto Jesse, disteso, sepolto nella terra, dal suo petto sorge il tronco della quercia. Tiene le mani giunte sul petto ed è interessante osservare la cura con la quale sono stati dipinte la barba ed i capelli.

All'interno delle volute create dai rami, compaiono dodici figure di re con scettro e corona, mentre nella parte inferiore sono raffigurati altri dodici uomini, a gruppi di tre visti frontalmente, che, secondo la tradizione, sarebbero i dodici profeti che predissero la nascita del Salvatore. E' assai ricorrente il simbolismo legato al numero 3: i re e le figure sottostanti sono divisi in tre gruppi, così come tre sono i personaggi che li compongono. I gruppi sono otto ed il nono è rappresentato dalla Vergine col Bambino e dal patriarca Jesse. Le bandelle che recano i nomi dei re sono quasi illeggibili, ma un’attenta osservazione delle poche tracce rimaste dell’affresco e le fotografie conservate alla Soprintendenza dei Beni Culturali di Milano mi hanno permesso questa interpretazione (dal basso e da sinistra a destra):

1° livello: Jesse 
2° livello: Roboamo, Salomone, Davide, Ezechia, Manasse, Acaz
3° livello: Giosafat, Abia, [Madonna col Bambino], Oria, Ioram
4° livello: Asaf, Ioatam

La leggibilità del dipinto fu compromessa in maniera significativa dallo sconsiderato intervento promosso dal prevosto don Pietro Bottero, di cui si è detto sopra: venne aperta una finestra ovale, a destra di chi guarda il dipinto, che distrusse due delle figure maschili di profeti e, sempre per ordine del Prevosto, si operarono delle cancellature e dei ritocchi di colore giallastro su tutta la parete dipinta.

Le teste e le mani delle figure conservano l'autenticità dell'opera originale, purtroppo le parti restanti furono malamente ritoccate e ricoperte da una tinta giallastra uniforme. Il restauro del 1970 fu curato dal prof. Fiume della Soprintendenza ai Monumenti di Milano: il lavoro consistette nell’eliminazione di inutili e deturpanti sovrastrutture e nella scrostatura dell’affresco al fine di ridimensionare il tronco della quercia per ridare la linea snella originale.

Dall’esame delle fotografie conservate presso la Soprintendenza ai beni artistici di Milano, emergono alcuni particolari degni di nota. Innanzitutto la superficie prima dell’intervento di restauro appariva solcata da profonde crepe, che interessavano le figure della parte superiore. L’area della finestra era rovinata dal cedimento dell’intonaco, dovuto ad infiltrazioni d’acqua. I primi due personaggi del registro inferiore (sulla sinistra) erano solcati da una crepa e dall’annullamento del panneggio dell’abito; anche il volto di Jesse era rovinato da una crepa che saliva fino alla Vergine, seguendo il fusto dell’albero.

Purtroppo l’opera di consolidamento ha comportato la perdita di parte del paesaggio collinare alle spalle del patriarca.

L'Albero di Jesse: Maria con il Bambino (particolare)

L'Albero di Jesse: Maria con il Bambino (particolare)

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Proposte per l’attribuzione

Alcuni critici si sono occupati di questo affresco e, benché non si sia ancora giunti ad una attribuzione soddisfacente, mi sembra interessante presentare l’evoluzione dei diversi pareri e delle differenti attribuzioni. L'opera tradizionalmente viene assegnata a Michelino da Besozzo, e tale affermazione era presente nell'opuscolo di don G. Selva che scrisse: « Quando la decorazione venne eseguita, la tradizione del fatto miracoloso era ancora viva e sentita; fortunatamente trovò l'artista che la tramandò ai posteri in maniera eloquente. Fu costui il pittore Michelino da Besozzo, vissuto nella seconda metà del XIV secolo. ( ..) E' vanto del Santuario della Madonna in Mezzana possedere il bel lavoro allegorico ».

Lo storico Ludovico Melzi non attribuì l'opera, e si limitò a riferire: « Il pittore chiamato a decorare le pareti interne vi dipinse la genealogia di Cristo, distribuendo con fine accorgimento sui rami d'una gran quercia, i personaggi delle quattordici generazioni, testimoniate dall'evangelista Matteo. Le teste e le mani conservano l'originalità del pennello, ma il resto del disegno è evidentemente rifatto con una tinta uniforme e giallastra e le gotiche leggende che ciascun personaggio presentava scritte in bianche stole, sparvero sotto un denso velo di calce e non si possono più decifrare. »

Il. Bellini, con maggior precisione, scrisse: « Il dipinto è attribuito a Michelino de Mulinaro da Besozzo, pittore di gran fama della seconda metà del sec. XIV; è certo che egli non ebbe cognizione della leggenda né intenzione di rappresentare l'apparizione della Vergine, perché in tal caso, invece di Abramo, ai piedi dell'albero avrebbe disegnato la pastorella. Ciò farebbe supporre che il dipinto sia anteriore alla leggenda e che essa abbia avuto origine dall'erronea interpretazione datagli dal popolino, tanto è vero che, solo nel '400 appare il nome di Giesa di Santa Maria della Gianda. »

Per primo, il Ragghianti (1949) confutò tale attribuzione, constatando in un suo articolo per la rivista Critica d'arte « la peculiare forma grafica del Maestro Gracile può essere riscontrata non solo facendo ricorso ai disegni, ma anche ad un ciclo di affreschi soltanto "lineati" al tratto e sommariamente chiaroscurati, in modi assai simili alla tecnica disegnativa per le vetrerie: quello della chiesa della Madonna della Ghianda. »

Questo parere venne ripreso dal Mazzini che, trattando di quest'opera, scrisse: « L’affresco a monocromato occupa tutto il catino absidale dell’antica chiesa con la singolare figurazione della Madonna del latte che porge la ghianda a Gesù, circondata da profeti a mezzo busto iscritti nei girali formati dalle ramificazioni della quercia. »

Il Ragghianti ha riscontrato « in questa non comune delineazione al tratto una singolare affinità con la forma grafica del cosiddetto “Maestro Gracile”, il collaboratore di Cristoforo de Mottis nella vetrata di San Giovanni Evangelista nel Duomo di Milano. Si tratta, per altro, di una versione rustica, non priva di sincero gusto dell’ornato, di moduli tardo-gotici tradizionali nei quali affiorano ricordi bembeschi e qualche reminiscenza del pittore che decorò la volta e l’arco d’ingresso della Cappella di Teodolinda a Monza. Assai vicini come gusto e come modi sono gli affreschi pure monocromati della cripta di San Donato a Sesto Calende con le Storie della Vergine. »

A mio parere, questa interpretazione risulta piuttosto riduttiva, giacché l’autore considera solo la scena centrale e non si cura del contesto: da una parte, sottovaluta la presenza della figura di Jesse, posta ai piedi della quercia, dall’altra, non interpreta le figure poste nelle volute dei rami come re (tutti presentano una corona), ma come profeti; non vede che la Vergine porge al bambino una rosa, ma la considera una ghianda (particolare che si vede chiaramente anche nella tavola pubblicata nello stesso testo); infine non menziona neppure i personaggi posti nella parte inferiore.

Viceversa, ritengo siano molto rilevanti gli spunti di riflessione che riguardano la vetrata con Le storie di San Giovanni Evangelista del Duomo di Milano, eseguite da Cristoforo de Mottis e dal cosiddetto Maestro Gracile: le figure di giovani (uno a capo scoperto con la tunica di colore azzurro scuro ed il vicino con la cuffia e la veste rossa) presentano i tratti e l’espressione del viso molto somiglianti a quelli del primo personaggio a destra.

Con questa attribuzione concorda anche Mira Bonomi che ha fornito anche una spiegazione piuttosto convincente: « Perché la quercia? Non solo per un significato agreste e bucolico, ma trae origine nel mondo pagano: gli scavi della Soprintendenza hanno portato alla luce dei reperti in cui la quercia era considerata un simbolo sacro per le popolazioni locali, fino dall’età del ferro. »

Per un'attribuzione meno certa è anche il nostro grande storico lonatese Gian Domenico Oltrona Visconti, che concorda con Maria Rosa Pandolfi nel sostenere che « tutti coloro che si sono interessati dell'affresco sono concordi nell'attribuirlo a Michelino de Mulinari da Besozzo (1388-1442), pittore e miniatore lombardo. Una più profonda conoscenza della vita e dell'opera dell'autore fa sorgere molti dubbi a proposito di tale affermazione. La ricostruzione della personalità artistica di Michelino riesce alquanto difficile, visto che rimase piuttosto nell'ombra insieme con altri artisti lombardi dell'epoca e fu trascurato da molti grandi critici. D'altra parte negli Annali della Fabbrica del Duomo si parla di lui come “pictorem supremum” ed un cronista suo contemporaneo lo definisce “pictor excellentissimus inter omnes pictores mundi”.

È comunque bene essere molto cauti prima di fare il nome di Michelino per il dipinto di Mezzana: tanto più che nessuno dei critici che hanno condotto studi particolari sui pittori lombardi del '400 inserisce questo affresco nel catalogo di Michelino, neppure fra le opere dubbie. Il colore è ridotto ad una patina uniforme e non ha niente di più del colore raffinato e prezioso di Michelino. La scomparsa del colore è una perdita assai grave per un preciso giudizio: l'artista distendeva i colori tutti a sfumature ottenendo effetti delicatissimi sui volti dai contorni non ben definiti.

D'altra parte non si può negare che vi siano somiglianze stilistiche tra il dipinto di Mezzana e quelli comunemente attribuiti a Michelino: la veste della Madonna a fitte pieghe verticali, la sua figura eccessivamente allungata, i panneggi dei dodici re denotano un orientamento verso il gotico internazionale. Le volute dei rami che racchiudono i re, le foglie di quercia finemente disegnate, i lineamenti dei volti così incisi e la precisione dei particolari testimoniano il gusto miniaturistico dell'artista, così come il viso tondeggiante della Madonna è caratteristico di tutte le Sante di Michelino.

Ma tutte queste affinità potrebbero spiegare un altro fatto: Michelino ebbe una personalità artistica tanto spiccata che riuscì ad improntare del suo spirito quasi tutta la pittura lombarda della prima metà del secolo e furono moltissimi coloro i quali ne ripeterono la maniera stilistica. In questo modo il dipinto di Mezzana si potrebbe ricondurre nella sfera di Michelino, ma senza farne necessariamente il nome. »

D’altra parte, per rafforzare l'ipotesi di un'attribuzione a Michelino alcuni studiosi riferirono con certezza che l'artista fosse a conoscenza dell'albero genealogico della Vergine nella sua forma originale e rudimentale, così come appare nell'Evangeliario di Praga (secolo. XI). In merito al significato allegorico del dipinto, don Selva riportò una relazione ufficiale del 20 maggio 1581: « Sotto la concavità della volta è dipinta una quercia nel cui mezzo sta una immagine della Beata Vergine, che tiene sulle braccia il Suo Divin Figlio lattante, e sui rami della medesima quercia sono, tutte d'attorno, le figure dei dodici re della genealogia donde la Vergine trasse origine, e sotto di queste altre immagini di dodici profeti. »

Il Bellini fece notare altresì che « il popolino non seppe discernere il significato della pianta ed i nomi inscritti, quali Ezechias, Aram, Azor Eliud e, vedendovi campeggiare, assisa come su di un trono, la Vergine col Bambino, ne trasse il significato di una miracolosa apparizione. » Ciò sarebbe conforme alla leggenda della guarigione della pastorella sordomuta.

Per G. Colombo « non si tratta né di Adamo né di Abramo, ma del patriarca Jesse, padre di re Davide, uno degli anziani di Betlemme della terza generazione dopo Booz. »

Dal punto di vista della composizione, restano da chiarire alcuni punti e intendo avanzare delle ipotesi; innanzi tutto l'autore del dipinto ha rappresentato una quercia e non un altro albero. Credo che così facendo il pittore abbia intenzionalmente voluto unire il ricordo della leggenda della pastorella sordomuta, risanata dalla Vergine apparsa fra i rami di una quercia, con la tradizione iconografica dell'albero di Jesse. D'altro canto le figure della Vergine e del Bambino non sono sulla sommità dell'albero, ma al centro della quercia, in posizione rilevante.

L'Albero di Jesse, particolare

L'Albero di Jesse, particolare

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Questo risultato potrebbe essere la sintesi operata dall'artista fra i due tipi di alberi genealogici presenti nella tradizione iconografica medioevale: un primo tipo con Cristo alla sommità ed un secondo modello in cui è presente anche la Vergine. 
Per quanto riguarda l’attribuzione, non mi sembra condivisibile quella tradizionale a Michelino da Besozzo: in primo luogo l’affresco non è stato inserito in alcun catalogo dell’artista (nemmeno fra le opere di dubbia attribuzione); in secondo luogo, lo stile con il quale è raffigurata la Vergine col Bambino è molto lontano da quello usuale del Maestro, caratterizzato dall’influsso del gotico internazionale. Inoltre l’uso del monocromo (anche se l’opera è stata rimaneggiata) non è tipico di Michelino che , anzi, predilesse un cromatismo leggero e vivace.

A rafforzare tali dubbi vi è il dato cronologico: datando l’affresco al 1470, risulta incompatibile con l’attività di Michelino che operò fra il 1388 ed il 1450; si può forse dare credito a quanti intendono assegnare l’affresco ad un suo anonimo collaboratore o discepolo. Tuttavia la teoria proposta dal Ragghianti e ripresa dal Mazzini è la più vicina ad un’attribuzione che, mancando documenti ed ulteriori prove, mi sento parimenti di condividere. Un altro indizio che riporta l’opera alla cerchia di Michelino da Besozzo viene fornito dall’esame della particolare tecnica usata: la pittura a monocromo. Nel panorama artistico lombardo si evidenziano almeno due esempi interessanti di pittura monocroma. Il primo caso è un San Cristoforo con il Bambino Gesù sulle spalle alla presenza di un donatore in veste di guerriero (Brescia, Santa Maria del Carmine). In merito uno studio compiuto dalla Frisoni puntualizza alcuni aspetti inerenti la tecnica esecutiva che risulta « più affine al disegno o a certe miniature lombarde della fine del Trecento che all’affresco. (...) Due potrebbero essere le motivazioni di questa scelta: i tempi ristretti dell’esecuzione o l’intento di completare successivamente l’accurato disegno con una stesura a tempera o con materiali preziosi da applicare con collanti. » La studiosa propone di attribuire la pittura ad un esponente della cerchia di Michelino per « le forti tangenze manifestate dall’affresco con la cultura del sottile pittore e miniatore tardo gotico (...) se non a lui, l’affresco andrà riferito ad un suo stretto seguace, per ora ignoto, ma non lontano per stile da altri anonimi allievi dediti per lo più ad attività miniatoria. »

Il secondo esempio è costituito dai Profeti dipinti a monocromo nella facciata interna della Cappella di Teodolinda (Duomo di Monza) ed attribuiti, in un primo tempo, ad un maestro ignoto attivo verso il 1410. A mio modo di vedere, il pregio ed il fascino di questo affresco stanno nella collocazione e nel tema affrontato. La piccola cappella è spoglia di ogni altro ornamento e, entrando, si viene a contatto diretto con i personaggi ritratti a grandezza naturale nel registro inferiore. Alzando lo sguardo, sia a causa delle dimensioni ridotte del locale, sia per la concavità del soffitto, si accentua nello spettatore il coinvolgimento emotivo rispetto alla scena rappresentata, enfatizzato anche dalla particolare acustica che si sviluppa proprio all’altezza della figura di Jesse.

La scena, a mio parere, presenta una connotazione onirica: il vecchio Jesse, benché appaia come sepolto (e dunque morto), sembra immerso in un profondo sonno animato da un sogno che si concretizza nel registro superiore dell’affresco. Questa atmosfera irreale e fantastica viene messa in grande rilievo dalla tinta giallo-ocra e dalle espressioni soavi dei 12 re che, pur mantenendo un atteggiamento grave, esprimono la tranquillità di chi è partecipe della visione divina. L’accenno alla dimensione storica è presente, allo stesso tempo, nei personaggi ritratti nel registro inferiore.

La suddivisione rigorosa a gruppi di tre, numero tradizionalmente perfetto, ci riporta al piano della razionalità, così come l’abbigliamento che qualifica ciascuno come appartenente ad un determinato ceto sociale (il prelato con la mitria, il giovane universitario che indossa il berretto goliardico, i due uomini con la borsa alla cintola forse segno di commercio). Il secondo motivo di interasse sembra sia proprio il tema dell’albero di Jesse: sono poco frequenti altre opere pittoriche con lo stesso soggetto e tale peculiarità mi induce a pensare che l’autore dovesse avere contatti con artisti d’oltralpe.

Tale tema infatti è frequente fra i sec. XII e XVI nell’arte francese, mentre in Italia si trova in bassorilievi di età romanico-gotica .Concludendo, volendo dare un’identità a questo artista si possono ipotizzare due soluzioni: lo si può immaginare come apprendista nel cantiere di una cattedrale, a contatto, da una parte con maestri vetrai (da cui impara la leggerezza e la delicatezza nel delineare le figure) e dall’altra con scultori e lapicidi conoscitori di modelli nuovi già affermati nel nord Europa (come l’albero di Jesse).

D’altro canto, si può pensare che la sua arte derivi dall’ambiente dei miniatori di libri di preghiere: la raffinatezza e la precisione nell’esecuzione di alcuni particolari, unita alla maggiore diffusione dell’iconografia dell’albero di Jesse nei testi miniati, può supportare tale ipotesi.

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Le Pale di Bramantino

A questo punto non possiamo fare a meno di esaminare la Pietà e la Pentecoste di Bartolomeo Suardi detto il Bramantino; le due opere per molti anni furono collocate nel Santuario della Madonna della Ghianda e, attualmente, sono conservate presso la prepositurale di Mezzana, da quando furono traslate nell’aprile 1930, in seguito un primo intervento di restauro.

Per quanto riguarda l’autore, un’analisi dell’attività artistica del Bramantino è stata resa possibile soprattutto grazie agli studi pionieristici di William Suida che ebbe il merito di dirimere alcune controversie, soprattutto di natura cronologica, ed eliminare molteplici elementi di disturbo, introdotti dalla precedente letteratura critica. Infatti, le notizie biografiche riguardanti il Bramantino sono di recente acquisizione: fino a qualche anno fa erano scarne, caratterizzate da una grande approssimazione; solo le recenti scoperte documentarie hanno permesso di ricostruire anche nei particolari numerose vicende fra cui quelle inerenti la nascita dell’artista.

È certo, comunque, che la formazione dell’artista ebbe luogo a Milano nell’ultimo ventennio del XV secolo, a stretto contatto con i grandi artisti fra cui Donato Bramante, che soggiornarono e lavorarono a lungo in città.

Nel capoluogo lombardo, Bramantino divenne il pittore più richiesto dopo la conquista della città da parte dei francesi, nel primo decennio del XVI secolo. Nei decenni successivi, continuò ad ottenere commissioni importanti, ma applicandosi sempre più frequentemente nell’architettura che, da ultimo, lo assorbì quasi completamente.

Cenni biografici sul Bramantino

Sia Piero Bianconi sia G. Dall’Acqua concordarono con Suida nel luogo e nella data di nascita di Bramantino, avvenuta a Milano nel 1465. Tuttavia, solo in questi anni, in base ad alcuni documenti di recente scoperta, si è potuto dimostrare che Bramantino nacque in territorio bergamasco da Alberto Suardi e da Pierina da Subiate.

Nel 1480 circa , dopo che si era trasferito a Milano, fu messo a bottega presso l’orafo Francesco de Camperiis (o Caseri), dove lavorò senza salario per ben sei anni, ma dell’attività orafa dell’artista, svolta in quest’epoca, non sono rimaste tracce. Altri documenti attestano che risiedette per quasi tutta la sua vita a Milano; a partire dal 1494 abitò nel sestiere di Porta Nuova, nella Parrocchia di S. Bartolomeo, dove rimase fino al 1506.

Quanto all’attività pittorica, lo stesso soprannome Bramantino, deriva dalla sua frequentazione di Donato Bramante (a Milano dal 1478 al 1499), ed è chiaramente testimoniata dai marcati influssi nella produzione artistica. Nei dipinti più antichi appare un’evidente eco stilistica della pittura ferrarese, mediata da Bernardo Butinone, del quale forse fu allievo, o direttamente conosciuta, probabilmente, grazie al soggiorno milanese di Ercole de Roberti ed una tangenza coeva della scultura lombarda dell’Amadeo o del Fonduli.

Un punto fermo per la ricostruzione della fase giovanile di Bramantino è costituito dal cosiddetto Argo (1490-3), ma più verosimilmente Mercurio, affrescato entro il 1493 per volontà di Ludovico il Moro (Milano, castello Sforzesco, Sala del Tesoro); il pittore dimostrò di prediligere le ardite impaginazioni prospettiche di matrice urbinate-mantegnesca apprese da Bramante (cui l’opera è anche assegnata ) per accentuare un effetto di eroica monumentalità. Il rilievo plastico è definito da netti contrasti chiaroscurali: i corpi ed i panneggi assumono un aspetto duro e metallico.

Quasi contemporanei all’Argo sono L’uomo dei dolori (1490), già alla Certosa di Pavia (Lugano, Coll. Thyssen-Bornemisza), versione patetica ed umbratile del Cristo alla colonna di Bramante (1480-1); la Natività e Santi (Milano, Pinacoteca Ambrosiana), la cui complessa iconografia simbolica, che certo dipende da specifiche richieste della committenza, è vivificata dall’enfasi prospettica che, nell’arcone a destra, visto dal basso all’alto, manifesta un omaggio agli affreschi padovani di Mantegna.

Mancano notizie più precise ed attendibili dal 1495 al 1503 e sia il Longhi sia il Bianconi suppongono, basandosi sui progressi dello stile, che si sia recato nell’Italia Centrale.

Nel 1503 partecipò con altri artisti (Caradosso, Cristoforo Solari, Amadeo) alle riunioni finalizzate alla progettazione e costruzione della porta "versus compendum", cioè la porta della crociera settentrionale del Duomo di Milano (fu chiusa al tempo di Carlo Borromeo). È accertato che nello stesso anno lavorò al servizio di Luigi di Lussemburgo o di Ligny; nel giugno, ricevette l’incarico di copiare su tela, per conto di Antonio Turpino, capo tesoriere del ducato, l’Ultima Cena di Leonardo da Vinci: forse l’opera era destinata a Luigi XII, re di Francia.

Bramantino, L'Adorazione dei Magi (Londra, National Gallery)

Bramantino, L'Adorazione dei Magi (Londra, National Gallery)

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Fra le opere di questi anni vi è l’Adorazione dei Magi, datata fra 1501-3 (Londra, National Gallery), a prova del conseguimento di uno stile protoclassico, solenne e geometrico, saldato al gusto prospettico ed all’amore per la simmetria: ciò porta a conferire una forte predominanza figurativa all’asse centrale del quadro. La lunetta della Pietà del 1504, già sulla facciata della chiesa di San Sepolcro (Milano, Pinacoteca Ambrosiana) presenta dati culturali non dissimili, che rimandano all’ambiente artistico dell’Italia centrale.

Nel 1504 sposò Elisabetta Della Chiesa, dal matrimonio nacque la figlia Giulia. Nel 1507 si trasferì in una dimora a porta Orientale, dove abitò sino al 1525. Dopo la partenza di Bramante e Leonardo da Milano, il Bramantino divenne il pittore più moderno attivo nella capitale lombarda, conquistata dai francesi: su di lui si diressero le commissioni dei nuovi dominatori e dei loro alleati locali. Fra le opere di questo periodo vi è il Noli me tangere (Milano, Castello Sforzesco), staccato da Santa Maria del Giardino, che, per il permanere di residue durezze grafiche, non è databile oltre il 1507.

L’opera più importante di questo periodo è costituita dai cartoni (andati perduti) per i dodici arazzi dei Mesi (Milano, Castello Sforzesco): Bramantino lavorò ai cartoni fra il 1501 ed il 1503, gli arazzi vennero tessuti per Gian Giacomo Trivulzio a Vigevano, si crede, entro il 1509. Si tratta di 12 arazzi, ciascuno dei quali raffigura un mese dell’anno, che, secondo un’usanza non milanese, inizia col mese di marzo. Al centro di ogni composizione compare un personaggio, personificazione del mese, posto su di un piedistallo, recante l’iscrizione di alcuni versi che ricordano le occupazioni tipiche e gli aspetti climatici.

L’unica sua opera sopravvissuta nel settore architettonico è il Mausoleo Trivulzio addossato alla facciata della basilica di san Nazaro a Milano, commissionata dopo il 1507 da Gian Giacomo Trivulzio, in concomitanza col monumento funerario (non eseguito) ordinato a Leonardo da Vinci; fu iniziato nel 1511, ma non concluso. L’austera forma squadrata dell’edificio e la voluta povertà degli ornati hanno evidenti paralleli nei fondali architettonici di molti suoi quadri.

Risulta anche che negli anni fra il 1508-9 abbia compiuto brevi viaggi fuori Milano: risale a quest’epoca un suo soggiorno a Roma. Nella vita di Piero della Francesca, Giorgio Vasari scrisse che:

« [Piero] essendo condotto a Roma, per papa Nicola Quinto lavorò in palazzo due storie, nelle camere di sopra, a concorrenza con Bramante da Milano, le quali forono similmente gettate per terra da papa Giulio Secondo, perché Raffaello da Urbino vi dipingesse la prigionia di S. Pietro et il miracolo del corporale di Bolsena, insieme con alcune altre che aveva dipinto Bramantino, pittore eccellente de’ tempi suoi; e perché di costui non posso scrivere la vita né le opere particulari per essere andate male, non mi parrà fatica, poi che viene a proposito, far memoria di costui, il quale nelle dette opere che furono gettate per terra, aveva fatto, secondo che ho sentito ragionare, alcune teste di naturale sì belle e sì ben condotte, che la sola parola mancava a dar loro la vita.
Delle quali teste ne sono assai venute in luce, perché Raffaello da Urbino le fece ritrarre, per avere l’effigie di coloro che tutti furono gran personaggi, perché fra essi era Niccolò Fortebraccio, Carlo Settimo re di Francia, Antonio Colonna principe di Salerno, Francesco Carmignuola, Giovanni Vitellesco, Bessarione Cardinale, Francesco Spinola, Battista da Canneto; i quali tutti ritratti furono dati al Giovio da Giulio Romano discepolo et erede di Raffaello da Urbino, e dal Giovio posti nel suo museo a Como. In Milano, sopra la porta di San Sepolcro, ho veduto un Cristo morto di mano del medesimo, fatto in iscorto; nel quale, ancora che tutta la pittura non sia più che un braccio d’altezza, si dimostra tutta la lunghezza dell’impossibile, fatta con facilità e con giudizio. Sono ancora di sua mano in detta città, in casa del marchesino Ostanesia, camere e logge con molte cose lavorate da lui con pratica e grandissima forza negli scorti delle figure. E fuori da porta Versellina, vicino al castello, dipinse a certe stalle oggi rovinate e guaste, alcuni servidori che streggiavano cavalli, fra i quali ve n’era uno tanto vivo e tanto ben fatto, che un altro cavallo, tenendolo per vero, gli tirò molte coppie di calci. »

Questa confusa testimonianza di Vasari ha dato luogo ad un equivoco che soltanto gli studi moderni hanno potuto chiarire: si era ipotizzata l’esistenza di due Bramantini o Bramanti da Milano. Tuttavia le informazioni del Vasari sono state confermante, almeno nella sostanza, da un documento (datato 1508) che attesta un pagamento anticipato per alcune pitture da fare in cameris S.D.N.. Attualmente gli viene negata la paternità dell’ottagono centrale della volta della Stanza della Segnatura (attribuitagli dal Venturi).

Sembra certo che il soggiorno romano di Bramantino durò poco più di un anno, poiché alcuni documenti confermano la sua presenza a Milano nel dicembre del 1507. Inoltre è importante ricordare che durante il soggiorno romano rivolse la sua attenzione verso le opere di Pinturicchio, Perugino, Peruzzi e Sodoma. Tra le opere più tarde si annoverano la Lucrezia (Milano, coll. Sola Cabiati) o il San Giovanni a Patmos (Isola Bella, coll. Borromeo), la Madonna col Bambino fra Sant’Ambrogio e San Michele (Milano, Pinacoteca Ambrosiana), una Pietà (Milano, Castello Sforzesco), dipinti databili entro il primo decennio del XVI secolo, che mostrano ancora evidenti punti di contatto con gli arazzi dei Mesi.

Si fissano, in questi dipinti, le caratteristiche proprie dell’opera matura del Bramantino: figure grandiose, statiche, geometricamente disposte, inserite in fondali con architetture prospettiche: elementi che determinano un effetto di sospensione e di mistero che, anche recentemente, la critica ha voluto impropriamente qualificare come un impulso manieristico o come una sorta di preveggenza delle istanze metafisiche dell’arte del XX secolo.

La Crocifissione (Milano, Brera), è oggi considerato il capolavoro dell’artista, che lo dipinse fra il dicembre 150 ed il maggio 1511: la complessa iconografia, ricca di simbologie arcaiche, sarebbe legata alle tesi teologiche agitate a Milano dai cardinali di parte francese che preparavano il Concilio di Pisa in opposizione alla chiesa romana. Dello stesso momento sono la Sacra famiglia (Milano, Brera) ed il San Sebastiano (Milano coll. privata) entrambi comunque soggetti, nelle opinioni, degli storici a notevoli oscillazioni cronologiche.

Tra il 1519 ed il 1524 Bramantino ricevette pagamenti, testimoniati dai libri mastri del Luogo Pio della Misericordia, per gli affreschi (perduti) della Cappella dei Re Magi in Sant’Eufemia, commissionatagli in esecuzione del testamento di un certo G. Jacopo Lambrugo; ciò a dimostrazione che sino agli anni ‘30 Bramantino continuò a praticare la pittura. Vengono generalmente indicate come opere tarde la Fuga in Egitto (Locarno, Santuario della Madonna del Sasso), la Madonna con Bambino e due Angeli ad affresco (Milano, Brera) staccata dalla facciata del Palazzo della ragione; la monumentale Madonna con Bambino ed otto santi (Firenze, Pitti), basata su di un raffinato gioco luministico che rimanda ancora agli arazzi dei Mesi.

Il 1 maggio 1525 il Bramantino venne nominato da Francesco II Sforza architetto e pittore ducale; nello stesso anno, il 22 gennaio, con altri partigiani dello Sforza, venne esiliato in Val di Susa: poté rientrare a Milano in virtù della sconfitta francese nella battaglia di Pavia (24 febbraio). La data della sua morte è posta fra il 2 gennaio e 11 settembre 1530: questa conclusione emerse esaminando i pagamenti del già citato fitto livellario per il podere dell’Opio: infatti nei pagamenti relativi al 1530, nel mese di settembre, compare la frase per il quondam messer Bartolomeo di Suardi dicto Bramantino.

Le pale di Mezzana: trasferimenti, datazione, colore

Le vicende che riguardano le due tavole sono oscure: i documenti inerenti il loro arrivo a Mezzana , che potrebbero spiegare le ragioni della loro presenza, sono andati perduti. Nonostante ciò, una ricostruzione molto puntuale degli eventi occorsi ai dipinti venne operata dallo storico sommese Angelo Bellini in “Uomini e cose d’Insubria ”. L’unico difetto di tale contributo è la mancanza di precisi riferimenti bibliografici e documentari; tuttavia, mi è parso opportuno esaminare la ricostruzione dei fatti e verificare le affermazioni, là dove ciò è stato possibile.

Rinvenendo un documento redatto da Mons. G. Caimo, giunto a Mezzana il 22 giugno 1636, per constatare le devastazioni ed i saccheggi compiuti dai soldati francesi accampati a Tornavento, il Bellini suppose trattarsi della prima testimonianza della presenza delle pale presenti a Mezzana, collocate, nella chiesa prepositurale di Santo Stefano. Nella sua relazione, Mons. Caimo riferiva i danni provocati dai soldati, ma precisava che in questa chiesa vi sono due ancone fatte per mano d’artista eccellente che non hanno patito alcun danno.

Nel giugno 1684, il cardinale Federico Visconti, arcivescovo di Milano, in visita a Mezzana, osservò che « la tela a molte figure della Pentecoste è appesa nella cappella di S. Spirito, mentre quella della Pietà, pure a molte figure, è collocata nella cappella di Sant’Antonio, dall’altro lato della chiesa ».

Fra il 1698 ed il 1704, periodo nel quale fu prevosto don Pietro Bottero, le due tavole furono trasportate nel Santuario: questa notizia si trova in un carteggio, che reca la data 1704. In seguito alla denuncia all’arcivescovo della comunità di Mezzana contro il comportamento riprovevole del sacerdote, le tavole vennero riportate nella prepositurale, dove le vide il card. Pozzobonelli, durante la visita pastorale compiuta il 4 giugno 1750. Negli Atti della visita è testimoniata la presenza, nella cappella di Sant’Antonio, di una sacra icona « quae auctorem sibi vindicat celeberrimum Bramantem, quamvis vetustate pene consumpta sit ». L’affermazione sembra molto importante poiché testimonia lo stato già compromesso della Pietà; quanto alla Pentecoste, in una successiva nota del Pozzobonelli si legge un’osservazione « icona non illaudabile », in riferimento al quadro situato nella cappella di S. Spirito. Dunque il card. Pozzobonelli, da esperto e collezionista d’arte, colse il valore delle due tavole, nonostante il cattivo stato di conservazione, ma tentò un’attribuzione che si rivelò non troppo lontana dalla verità: confuse il maestro con l’allievo.

Non si sa in quale epoca e per quale motivo le pale tornarono ad essere collocate nel santuario. Nelle note redatte per la visita pastorale del card. Ferrari (19-20 novembre 1899) non se ne trova alcun cenno, ma nelle note della visita dello stesso cardinale (20 ottobre 1907) si legge « due quadri ad olio di buon pennello, ma rovinati »; le opere vengono citate con maggiore precisione negli atti del 1913: « due quadri ad olio attribuiti al Bramantino ».

Lo storico Bellini terminò la sua ricostruzione con questa annotazione « Io ebbi modo di vederli colà, fino a questi ultimi anni, senza averne tuttavia afferrato l’alto valore o la supposta nobilissima paternità, a causa del cattivo stato di conservazione in cui si trovano ».

Dopo un restauro (1930) ad opera del prof. Pelliccioli, le due tavole non vennero ricollocate nel Santuario della Madonna della Ghianda, ove erano prima, ma, per volontà del soprintendente comm. Modigliani, al fine di togliere ogni possibilità di furto, furono definitivamente poste nella prepositurale. Fino al 1990 la Pietà era situata sopra l’altare di S. Antonio Abate, da dove venne spostato ed appeso sul lato destro dell’unica navata; la Pentecoste, invece era appesa sopra l'altare della Vergine del Rosario, mentre ora si trova accanto all’altra.

Le pale vennero realizzate su tavole di legno di pioppo; la tecnica pittorica è inconsueta: su di uno strato di resina il pittore disegnò la gabbia prospettica e in questa vennero incluse le figure. Al di sopra pose la stesura pittorica a tempera, con colori cangianti e velature. Purtroppo questo materiale resinoso non ha consentito una buona adesione del colore ed ha causato, in più punti, la totale perdita, per cui emergono sia il disegno preparatorio sia la quadrettatura.

Data l’esiguità dello strato di preparazione, non è stato possibile ricostruire il preciso andamento e la reale estensione di questa quadrettatura. La presenza di tali linee, in un primo tempo, è stata intesa come la quadrettatura per un riporto della composizione da un più piccolo studio o bozzetto sulla grande tela: questa tesi ha trovato una plausibile giustificazione nei risultati degli esami riflettografici di cui si tratterà più avanti.

Secondo il Marani « un altro punto di contatto fra Bramantino e Leonardo potrebbe essere rintracciato a proposito della tecnica esecutiva delle due tavole. Come hanno stabilitole le restauratrici N. Comolli e A.Gallone, la pittura a tempera di queste due composizioni è stata resa su una preparazione resinosa sua volta applicata su un primo strato di imprimitura composto da gesso e colla. Il paragone più immediato è la tecnica adottata da Leonardo per il Cenacolo ( 1495-97) e copiato da Bramantino nel 1503 ».

Le tavole sembrano essere state dipinte contemporaneamente, ma agli studiosi sfugge un loro possibile collegamento a livello iconografico.

Per quanto riguarda la datazione, essendo basata su elementi stilistici, ha subito alcuni spostamenti, talvolta molto significativi. Il primo parere in merito lo si deve allo Suida, che datò le pale fra il 1522 e il 1525.

Secondo il critico G. A. Dall’Acqua le precarie condizione dei due dipinti impongono giudizi di estrema cautela, è verosimile che delle considerazioni di tipo letterario abbiano indotto a collocarli alla fine della carriera del Bramantino, che, in tal modo, terminerebbe la sua carriera nell'isolamento della provincia, contrassegnata dalla puntuale solitudine. E' improbabile, invece, che l'artista, nominato pittore e architetto ducale nel 1525, sia stato in qualche modo costretto ad accettare una commissione apparentemente poco prestigiosa.

A parere del Mulazzani « un indizio per spostare seriamente molto più indietro la datazione è offerto da un dato finora mai notato: nella figura di S.Sebastiano, nella Pietà, si può leggere una citazione puntuale da un riquadro delle Storie di Cristo Inchiodamento alla croce che Gaudenzio Ferrari aveva dipinto in Santa Maria delle Grazie a Varallo nel 1513. »

Di parere differente è il dott. Marani che, basandosi su considerazioni inerenti il contesto della pittura milanese di quegli anni, ha scritto « le figure laterali della Pietà inducono a spostare la datazione al 1510-15 ».

Dopo aver preso in considerazione questi pareri critici, ritengo che la datazione più probabile sia quest’ultima, fornita dal dott. Marani. Questa opinione viene avvalorata dal fatto che, alla base, vi è un approfondito esame scientifico e non solo stilistico; tale studio è stato operato secondo metodi e con mezzi che non poterono essere adoperati precedentemente, ma che indubbiamente danno maggiori garanzie.

Bramantino, La Pietà___Bramantino, La Pentecoste

A sinistra: Bramantino, Pietà. A destra: Bramantino, Pentecoste.

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La Pietà

La pala della Pietà (207,5 x 147,5 cm) presenta sette figure di santi in atteggiamento accorato, disposti a semicerchio attorno al corpo del Cristo, che si trova adagiato sulle ginocchia della Vergine, immagine che richiama fra l’altro, la Pietà di Michelangelo, capolavoro ammirato a Roma dal Bramantino. Per lo storico W. Suida « il Bramantino scelse una nuova forma di rappresentazione: il corpo del Signore, sostenuto alle spalle da Giovanni, riposa assiso sul grembo di Maria. (...) qui il pittore tende a concentrare i personaggi principali, cosa che viene favorita anche dalla presenza di un edificio a forma centrale, collocato nel mezzo del quadro. Le zone laterali sono lasciate a figure che non appartengono alla scena storica, ma che servono ad arricchire il contenuto spirituale. »

Nella figura del Cristo si nota l'estrema geometrizzazione raggiunta dal pittore: il corpo, infatti, forma quasi un angolo retto fra il Cristo e le gambe, il braccio destro pende rigido verso il basso, mentre il sinistro (con la mano rovesciata posata sulla coscia) è piegato in una posa di abbandono molto controllata. Il volto, purtroppo poco leggibile, ha un'espressione dolente con gli occhi chiusi, segno dell’avvenuto decesso.

La Vergine è seduta su di trono marmoreo non lavorato, ma rialzato da terra; il braccio destro fa da sostengo al figlio, mentre il sinistro è piegato e la mano è aperta e rivolta verso lo spettatore. L'espressione del volto (anche qui difficile da decifrare) richiama sentimenti di pietà e di stupore. Ai suoi piedi è posto un cagnolino, simbolo di fedeltà, non frequente nelle rappresentazioni del tema della Pietà.

Gli altri personaggi che accompagnano il gruppo sono abbastanza deteriorati e rendono problematica l’interpretazione. Tuttavia a sinistra si riconosce San Sebastiano, posto di spalle, rivolto allo spettatore, quasi per coinvolgerlo nella scena. L’iconografia tipica del santo viene rispettata: ha i fianchi cinti da un velo impalpabile, è trafitto dai dardi e presenta la consueta espressione soave.

La figura del santo compare anche in un disegno, dello stesso Bramantino, datato 1503, dove è raffigurato il martirio ed il protagonista appare solo un po' più giovane nei lineamenti del volto. Bramantino mantenne però la stessa postura delle gambe, le braccia dietro la schiena ed anche il viso rivolto verso lo spettatore. Sulla destra invece si riconosce San Giobbe che fa da contrappunto alla figura di Gesù, richiamandone la postura rigida “a squadra”. Anche San Giobbe è ricoperto da un drappo bianco, la mano destra è aperta e posata sul ginocchio della gamba flessa, il braccio sinistro è steso lungo il busto.

Suida descrisse il santo con parole accorate « San Rocco, appestato, trascina in una miseranda esistenza il corpo infermo, mentre, ai suoi piedi, un cagnolino ne mitiga il tormento, lambendogli gli le piaghe; il santo sembra dimentico del proprio dolore contemplando le sofferenze di Cristo. »

Questo personaggio è stato a lungo identificato con San Rocco, che non viene mai rappresentato nudo né vecchio. Forse la presenza del cane (che spetta anche a San Giobbe) ha provocato il travisamento. Sciolto questo dubbio, il Mulazzani è stato indotto ha concludere che proprio la presenza di San Giobbe e San Sebastiano riconducessero l’opera ad un dipinto votivo, probabilmente commissionato dopo la grave epidemia di peste del 1524.

Fra gli altri personaggi che assistono alla scena, quello che si asciuga le lacrime col lembo di un mantello viene ripreso dall’artista nella Crocifissione di Brera, con l’unica differenza che la mano sinistra non è aperta, ma appoggiata al petto. Il quadro ha come fondo un paesaggio urbano (palazzi prospettici sia a destra che a sinistra) e su tutta la scena domina il tempietto ottagonale a pianta centrale: nella parte inferiore presenta grandi aperture allungate, culmina con una balconata ingentilita da statue (a destra). Da qui si eleva un secondo elemento cilindrico, forse una loggia che presenta, come quello sottostante, grandi aperture.

Lo scenario dell'edificio centrale ripropone non solo i numerosi battisteri lombardi, ma anche la stessa cappella funeraria Trivulzio, appena terminata dal Bramantino.

Il restauro del 1990 ha permesso di sottoporre ad analisi di laboratorio le due tavole. Mediante gli esami riflettografici si sono potuti individuare i ripensamenti e le idee diverse da quelle che l'artista ha poi effettivamente posto in essere. Al posto del tempio maestoso a pianta poligonale, di struttura a cannocchiale, Bramantino aveva disegnato un edificio più alto, che lambiva l’attuale margine superiore della tavola, edificio merlato nella parte mediana e, nella parte superiore a terminazione binata, come una costruzione a ferro di cavallo, le cui due ali sono ben visibili in prospettiva, fosse stata impostata su una sorta di fortilizio (se ne vedono tracce ad occhio nudo). Ai lati di questo fortilizio, l’artista aveva previsto due prospettive di edifici, come strade o vie cittadine, sopra una della quali (quella di destra) campeggiava una snella ed altissima torre a tre piani, sorretta da mensole sporgenti, che richiama le torri del Filarete nel Castello di Porta Giovia a Milano.

Sempre grazie a questi esami si è potuto individuare la posizione dei due punti di vista nelle tavole: veniva sottolineato il ricorso al modulo quadrato ed enfatizzata l’organizzazione delle scene dipinte come moltiplicazione del quadrato. Il punto di fuga qui è collocato al centro della pala, che misura 147,5 cm; la sua distanza dalla base corrisponde alla metà della larghezza della attuale, cioè 73,75 cm. Ciò significa che il punto di fuga viene a coincidere con il punto in cui si incontrano gli angoli superiori dei due quadrati che stanno alla base della tavola.

In merito alla datazione di questo quadro, ha assunto una certa rilevanza l'attenta annotazione del Mulazzani: « nella Pietà lo spirito lirico e geometrico del Suardi si esprime, permeando la stessa rarefatta atmosfera, in esatti e pur arcani ritmi e triangolazioni, come nella similitudine di posa tra Cristo ed il personaggio piegato a squadra in primo piano. È poi attribuibile solo ad un caso il fatto che questa Pietà si rivela come l'unica che corrisponda alla descrizione del dipinto che, proprio nel 1513, Bramantino offrì in vendita ai monaci di Chiaravalle? »

Il documento a cui Mulazzani fece riferimento fu citato da De Pagave e pubblicato dal Caffi (Dell'Abbazia di Chiaravalle, 1842), da cui risulta che il 28 settembre 1513, il capitolo dei monaci dell’Abbazia di Chiaravalle decise l’acquisto di un dipinto offerto dal Bramantino e raffigurante una Pietà « anchonete unius picte cum corpore Domini Nostri Jesu Christi in gremio matris deffuncto et nonnullis aliis sanctis et figuris. »

Una valutazione complessiva di questa tela deve tenere conto, a mio parere, anche di un confronto con le altre tavole dello stesso tema. Prima di procedere al confronto, credo sia rilevante annotare una particolarità che reputo interessante: nell’articolo del dott. Marani, si fa riferimento a quest’opera menzionandola sempre col titolo di Deposizione, mentre gli autori che se ne erano occupati in precedenza usano il termine Pietà. Non condivido il titolo che il dott. Marani vuole assegnare alla tela: una motivazione è la definizione del tema iconografico della Pietà.

« La Pietà, pur non trovando riscontro nelle narrazioni evangeliche, rappresenta nelle storie della Passione un momento immediatamente successivo alla deposizione dalla Croce, quando cioè la Vergine, le pie donne, i discepoli, prima di rinchiudere il corpo del Redentore nella tomba, lo piangono. Frequentemente, la Pietà è rappresentata con molte figure adunate attorno al Cristo morto, ora sorretto dalla madre ora adagiato a terra. »

La Pietà di Mezzana, dunque, riassume molti aspetti presenti nelle altre pale dello stesso soggetto che Bramantino dipinse nella sua carriera. Il primo caso è la Pietà del 1513 in cui si trova uno schema compositivo simile a quello adottato a Mezzana. Gesù adagiato su di una sorta di catafalco viene avvolto nel sudario, il viso è imberbe e giovanile. Un altro elemento affine è l’edificio a pianta centrale, che in questo caso si presenta meno articolato.

Il secondo confronto è con la Pietà datata 1514, di proprietà di A.S. Dray : è differente perché la scena è presentata di 3/4; l’architettura di fondo è più complessa per la presenza di palazzi, torri merlate, vi sono rappresentati anche cinque angioletti (elemento che Bramantino adottò solo in questa tela). Tuttavia il personaggio giovane che si asciuga le lacrime col lembo del sudario viene ripreso nel quadro di Mezzana e nella Crocifissione di Brera.

Il terzo ed ultimo paragone è con la Pietà di Bucarest, datata fra il 1518-1520 : qui si riscontrano due punti di contatto, ovvero il palazzo al di sopra dei bastioni merlati (citazione del mausoleo Trivulzio) ed il santo che regge i piedi ripreso fedelmente nella tela di Mezzana.

La Pentecoste

La tela della Pentecoste è, come l’altra, dipinta a tempera su di legno di pioppo, misura 209,5 x 147,5 cm. Questa è più deteriorata della precedente, sicché sia la lettura sia l’interpretazione risultano difficoltose.

La rappresentazione della scena risponde ai modelli tramandati dalla tradizione iconografica: al di sotto di un arco, gli Apostoli sono allineati in doppia fila ai lati della Vergine. In questo dipinto l'architettura svolge un ruolo di primo piano: tutta la scena, infatti, è dominata dalle due grandiose colonne dorico-romane scanalate che sorreggono la poderosa architrave.

I personaggi sono disposti circolarmente: su tutti si eleva, più in alto, la Vergine, seduta al culmine di una scalinata marmorea, porta le braccia incrociate sul petto e lo sguardo è rivolto alla palla di fuoco, simbolo dello Spirito Santo, che incombe in alto sul centro della scena, che è significativamente vuoto.

Gli Apostoli sono caratterizzati da un’espressione stupita ed assorta, bloccata nell’attimo i cui la divinità si rivela sotto forma di nube incandescente. Questa palla di fuoco trova il suo corrispettivo nel rosso vivo dei mantelli dei due apostoli seduti in primo piano; il colore rosso nella liturgia della festa di Pentecoste, simboleggia l’ardore dello Spirito Santo ed in generale, il sangue versato dai martiri.

Commentando questo dipinto W. Suida scrisse: « In contrapposizione alla meditazione dei dolori e della morte [Pietà][la Pentecoste] è l’inno all’illuminazione divina nella discesa dello Spirito Santo. »

Di particolare bellezza sono i due blocchi marmorei in primo piano, impreziositi da una ricca decorazione a rilievo a foglie; dipingendo questo fregio Bramantino sembra avere ancora ben presente i capitelli delle lesene dipinto alle spalle degli Uomini d’arme di Bramante (Milano, Brera), oppure finti bassorilievi dell’Argo (Milano, Castello Sforzesco). Si può riscontrare ancora un’analogia di questo fregio con le foglie che decorano lo stemma dei Trivulzio nell’Arazzo del mese di Marzo e nell’architrave di Febbraio.

Anche per la tela della Pentecoste, gli esami riflettografici hanno messo in luce molti ripensamenti dell’artista: l’ampiezza dell’intercolumnio era stata pensata, inizialmente, più stretta di come non è poi stata realizzata, così come provano le tracce del disegno delle colonne di destra (visibile ad occhio nudo per la caduta del colore). Emergono e risultano molto interessanti le tracce della quadrettatura, che è stata ricostruita con l’ausilio di riprese speciali all’infrarosso; questi esami hanno inoltre permesso di scoprire la costruzione prospettica originale, così come di individuare il punto di fuga, che viene a cadere al centro della composizione, in prossimità del braccio sinistro dell’apostolo seduto a destra.

Confrontando la Pentecoste con un’altra opera di Bramantino si nota che l'impostazione di tutto il dipinto richiama molto da vicino la Madonna in trono ed otto santi (Firenze, Galleria Pitti): in particolare si notano l'analoga collocazione delle figure a cerchio, l'esistenza della loggia aperta, il medesimo taglio scenico, la presenza dei due personaggi in primo piano di cui uno rivolto allo spettatore ed entrambi con mantelli di colore rosso vivo e l’identica posizione degli arti inferiori nella Vergine.
In molti punti di questa trattazione si è accennato alle operazioni di restauro compiuti nel 1990 da N. Comolli Chierici: questo è stato l’ultimo intervento a cui le pale sono state sottoposte. Tuttavia la storia dei restauri ha già inizio nel 1930, quando le tele furono sottoposte dal prof. Pelliccioli ad un intervento che comportò l’applicazione di una patina alla superficie pittorica, al fine di fermare il deperimento, ma non tale da intaccare la superficie dipinta.

Un secondo intervento venne eseguito nel 1959, dopo che le opere erano state portate a Milano per il restauro. Il delicato lavoro è stato compiuto dal prof. Marchiossi, che già aveva curato i precedenti restauri in loco, e dai funzionari della Sovrintendenza alle gallerie di Milano.

Il Dell’Acqua dichiarò in quell’occasione: « Il restauro è consistito in una cauta pulitura e quindi in un paziente, lungo e graduale lavoro di registrazione più che integrazione delle parti abrase e lacunose che, purtroppo, entrambi i dipinti, presentano da epoca remota, sì che essi risultano privati di quello smalto brillante originario della materia che appare ora soltanto in alcune zone: lavoro estremamente delicato e controllato, in quanto, di fronte a due preziosi e qualitativamente alte reliquie del genere non si poteva, naturalmente, aggiungere ed integrare, tanto meno si poteva, là dove la materia pittorica abrasa lascia trasparire, come sotto pelle, la traccia del primitivo disegno e, talora, dei pentimenti del Maestro. »

Testimonianza del restauro del 1926

Testimonianza del restauro del 1926

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Elementi di critica

Dopo avere esaminato le due opere nei loro aspetti specifici, ritengo opportuno proporre un’ipotesi in merito al rapporto che esse potrebbero avere intrattenuto con il santuario che le ha ospitate in più occasioni. Penso siano interessanti due tipi di considerazioni: una si riferisce ai risultati che emergono dallo studio del dott. Marani, un’altra attinente alla presenza della Vergine in entrambe le opere.

In merito alla prima questione, si può premettere che il dott. Marani presenta un’accurata ricostruzione degli studi prospettici che Bramantino avrebbe compiuto accingendosi a lavorare sulle due tavole. In seguito la dissertazione procede ponendo l’accento sulla quadrettatura che traspare dallo strato di colore e che si rileva anche ad occhio nudo. Infine l’autore propone una serie di calcoli matematici volti ad individuare il punto di fuga e la distanza ottimale da cui le tavolo dovrebbero essere vedute.

Così il dott. Marani conclude il suo studio: « L’individuazione del punto di fuga a circa 73 cm dal bordo inferiore consente poi di ipotizzare che le due tavole siano state realizzate per essere collocate su altari di circa un metro di altezza e per essere viste frontalmente da circa 4 metri. di distanza” ed in seguito specifica “non è da escludere che le due tavole siano state create, dato il punto di vista piuttosto ravvicinato che esse presuppongono, proprio per due altari laterali del santuario della Madonna della Ghianda, per essere viste da chi passasse nella navata centrale. »

Come si è detto, l’aspetto del santuario della Madonna della Ghianda si rileva con grande precisione nel rilievo contenuto negli atti di una visita pastorale. Da questo disegno, risalente al 1570 (forse di Pellegrino Pellegrini) e successivo anche all’esecuzione dei quadri, non emerge la presenza di altari nel santuario.

Tuttavia meditando sulle misure che sono riportate sul documento si può condividere l’ipotesi secondo cui l’artista dipinse le due pale tenendo conto delle misure del santuario. La larghezza dell’unica navata della chiesa era di 14 braccia, pari a 8.3 m; se, come ha affermato il dott. Marani, la migliore visione si aveva a 4 m, ecco che proprio nel mezzo del santuario, con le tavole appese sulle pareti destra e sinistra, una di fronte all’altra, se ne godeva la visione ottimale.

Vi è un secondo aspetto su cui mi sembra opportuno soffermarmi: l’iconografia delle pale ed un suo eventuale legame col santuario. A prescindere dai temi che le due opere propongono, in entrambe la figura della Vergine ha una posizione predominante.

Se si considera il santuario come si presentava nei primi decenni del XVI secolo (periodo in cui le tavole sono state dipinte), sulla base di quanto si apprende dai documenti, si può dedurre che non vi era altra decorazione che l’affresco dell’abside con la raffigurazione dell’albero di Jesse. Ci si potrebbe dunque trovare di fronte ad un percorso iconografico incentrato sulla figura della Madonna. L’itinerario ideale prenderebbe le mosse dai dodici re dell’albero di Jesse, continuerebbe con la Vergine ed il Bambino al centro del medesimo affresco, si prolungherebbe nell’immagine della Madre dolente nella della Pietà per concludersi con la discesa dello Spirito Santo, nella Pentecoste. La figura della Madonna è sempre protagonista della scena, posta in alto ed al centro della composizione.

A quanto già detto, si può aggiungere che, almeno nei testi che ho potuto consultare, gli studiosi, che si sono occupati di queste opere, non hanno indicato nelle loro dissertazioni il nesso che legava i due dipinti, che sono simili per dimensioni e tecnica esecutiva. Purtroppo l’assoluta mancanza di documenti impedisce di fatto di verificare ogni ipotesi che si viene a formulare.

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Le opere conservate nel Santuario

Le tele conservate all’interno del Santuario non sono state catalogate se non di recente: solo nel 1994 la Curia milanese ha provveduto a stilare un dettagliato inventario organizzato per schede. Il lavoro di catalogazione del Santuario è stato curato dall’architetto Tagliabue, che ha firmato le schede ed ha tentato di attribuire e datare il materiale. Purtroppo la scarsità di documenti ha indotto a trarre conclusioni errate e scarsamente attendibili.

Come si è ricordato, di molte opere non si sa nulla e non vi sono neppure informazioni d’archivio da cui partire per intraprendere ulteriori ricerche. Nonostante ciò, altre suppellettili (paramenti sacri, pissidi, tovaglie) vengono annoverate nelle relazioni allegate alle visite pastorali o dei vicari foranei. In alcuni casi la menzione di opere d’arte è legata all’interesse specifico dei visitatori. Infatti nei documenti d’archivio che ho personalmente consultato, si trovano inventari minuziosi delle suppellettili usate per celebrare la Messa o i riti religiosi (processioni, rogazioni ...) e tale prassi è continuata anche in tempi recenti.

Si può concludere che questi inventari erano finalizzati ad un uso funzionale: stabilire se l’apparato a disposizione della chiesa fosse idoneo e di qualità apprezzabile; per tanto quadri, statue e affreschi, che non avevano un legame stretto con il culto, non venivano inseriti in questi elenchi. Anche la sensibilità artistica dei visitatori ha un ruolo preminente: il card. Pozzobonelli, conoscitore e collezionista d’arte, prestò grande attenzione ed interesse alle tele presenti all’interno del Santuario e nel resoconto della visita pastorale del 1750 fece stilare una dettagliata descrizione dei quadri, precisando la collocazione e, dove si poté, anche l’autore.

Anonimo lombardo: Coronazione di spine (copia da Tiziano)

La terza cappella della navata di destra ospita, sopra l’altare, una tela dipinta ad olio su tela, di autore ignoto, raffigurante la Coronazione di spine (180 x 145 cm). L’opera risale alla metà del XVII secolo. È una copia da Tiziano, non è né firmata né datata; l’inventario parrocchiale l’attribuisce ad una imprecisata Scuola tizianesca, ma questa pare un’attribuzione molto vaga e comunque non è supportata da documenti. Negli inventari che ho potuto consultare nell’archivio della prepositurale si fa cenno poche volte a questa tela. Il quadro è posto sopra dell’altare di patronato Castelbarco, che con i Visconti ebbero le cappellanie nel Santuario. La provenienza della tela è sconosciuta e purtroppo non ci sono documenti che testimoniano atti di committenza o di compravendita; si può ipotizzare che sia un dono fatto dalla famiglia Castelbarco, titolare, come si è già ricordato, della cappellania.

Un’altra ipotesi, altrettanto attendibile, mi è stata segnalata dal Professor Giulio Bora che ha esaminato una fotografia della pala. A suo parere, la Coronazione di spine potrebbe rientrare fra quelle opere, considerate di particolare rilievo, che il cardinal Federigo Borromeo ordinò di copiare. Lo scopo di tale iniziativa era la divulgazione delle immagini sacre, in particolare quelle conformi ai dettami artistici sanciti dal Concilio di Trento. Le copie di questo quadro sono numerose e, solo a titolo di esempio, si possono ricordare le due riproduzioni conservate presso la chiesa di Santo Stefano a Milano (oggi sconsacrata ed adibita ad archivio). L’originale, uno fra i capolavori di Tiziano (1490 circa - 1576) risale a 1542-1544 e misura 180 x 103 cm, è conservato a Parigi al museo del Louvre. Originariamente era conservato nella chiesa milanese di Santa Maria delle Grazie, collocato, a partire dal 1642, sopra l’altare della cappella di Santa Corona. Nel 1797, Napoleone Bonaparte lo confiscò e lo fece trasportare a Parigi.

L’opera di Tiziano, a parere di G. Bora, rispecchia un certo clima “imperiale”. Solo pochi anni prima (1537-8) il grande pittore aveva compiuto la serie dei ritratti dei Cesari per il Palazzo ducale di Mantova, non rimanendo indifferente alle manieristiche complessità di Giulio Romano ed al gusto per il recupero del mondo classico. L’architettura di fondo della pala vede infatti inserito un busto di Tiberio (basato tuttavia su di un ritratto classico di Nerone) ed è a bugnato rustico secondo gli esempi di Giulio Romano ed ancora quest’ultimo si richiama all’idea delle complesse torsioni, contrapposizioni, violenti primi piani delle figure, mentre, come è stato notato, la maschera sofferente del Cristo è dedotta dal rilievo del Laocoonte. Tale monumentalità dei corpi evidenzia muscolature e concitazione compositiva, appare nuova in Tiziano, ma mostra forse i segni di una certa forzatura; tuttavia il risultato che egli si era prefisso, cioè una drammaticità teatrale esaltata attraverso l’impiego di una fonte di luce artificiale laterale, che genera forti contrasti sui corpi plasticamente rilevati, sembra pienamente raggiunto.

Il quadro conservato nel Santuario è di buona fattura e si caratterizza per l’intensa luminosità: una luce più fredda investe tutta a scena. Lo stile è sicuramente riferibile ad un artista di scuola lombarda, che ebbe modo di studiare accuratamente l’originale, ma, come già ricordato, non si hanno altre indicazioni in merito alla sua identità. A questo punto mi sembra opportuno operare un confronto fra questa copia e l’originale. La scena si svolge nella penombra: degli uomini armati di aste fissano sulla testa di Cristo la corona di spine. Il corpo di Gesù è livido, il colore è reso ancora più drammaticamente dalla luce che illumina la scena da sinistra. Le figure sono possenti, con i muscoli in forte rilievo, grande enfasi è data alla muscolatura dalla posa bloccata nello sforzo della lotta. Esaminando la figura dell’aguzzino a sinistra, si nota che nell’originale è più corpulento ed il viso è perfettamente visibile, mentre nella copia risulta con un tronco più muscoloso ed il volto viene nascosto dal bicipite destro. Tiziano dipinse un Cristo dal corpo possente, di grande espressività drammatica, ricoperto dal mantello, che ricade a destra. La copia presenta una figura più esile, dalle spalle strette; il viso è idealizzato, senza alcuna espressione di dolore, quasi mosso ad invocare pietà. Non vi è grande attenzione per il mantello, che ricade regolarmente.

L’uomo che regge con le due mani un’asta, in Tiziano, è illuminato frontalmente e la fonte luminosa è ravvisabile nella corazza; nell’altra tela le braccia denotano lo sforzo: i muscolo sono molto marcati ed enfatizzati dalla luce che non colpisce la corazza, ma solo la manica che risalta per il candore, in netto contrasto con l’oscurità dello sfondo. L’uomo semicalvo, in secondo piano, di profilo si protende verso Gesù: è una figura identica in entrambe le tele, tranne che per il particolare, presente nella copia di una diversa illuminazione e qualche particolare nella capigliatura. Il soldato romano con la lorica alza lo sguardo verso l’alto; il suo corpo, distendendosi, bilancia idealmente l’arretrare di quello di Cristo. Nella tela di Mezzana manca questo effetto: la figura risulta tagliata nella parte posteriore, all’altezza della vita, perdendo così il movimento dato dalle liste di cuoio. Il terzo soldato, nell’originale, è di profilo, porta la cotta e cinge col braccio destro il compagno; è chinato ed il ginocchio destro poggia sul secondo gradino. La maglia metallica riflette la luce che rischiara gli anelli posti sulle scapole e la cintura di cuoio che cinge i fianchi; a questa è appesa un’asta che segna una diagonale nella parte inferiore della scena. Nella copia si trovano gran parte degli aspetti considerati per l’originale, tuttavia, la testa presenta qualche disuguaglianza: è orientata diversamente e si intravede una parte del viso, i lineamenti sono più regolari e l’espressione è composta; la capigliatura è dipinta analiticamente. Risulta, invece, molto smorzato l’effetto di nervosismo dei muscoli del collo. Infine, manca il busto di Tiberio (nella parte superiore a destra) ed il palazzo pretorio (con visione parziale del portone e del bugnato rustico) è poco leggibile per il cattivo stato di conservazione in cui versa questa parte della tavola. Viene comunque rispettato il gioco delle aste, che tendono a comporre una raggiera, enfatizzando le linee ideali della scena.

È interessante rilevare che, partendo dalle misure del quadro e confrontandole con l’originale e con altre copie , la tela risulta tagliata in altezza ed ai lati: è priva di un elemento rilevante come il busto imperiale (nella parte superiore), manca il piede e parte del braccio sinistro dell’aguzzino a sinistra, non compare una parte della gamba all’uomo inchinato a destra, il soldato calvo a destra manca di parte del dorso ed il soldato con la lorica pare tagliato all’altezza della vita.

Anonimo lombardo: Coronazione di spine___Anonimo lombardo: Crocifissione

A sinistra: Coronazione di spine. A destra: Crocifissione.

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Anonimo lombardo: Crocifissione

Nella terza cappella a destra, sopra l’altare è collocata una tavola raffigurante la Crocifissione. È un dipinto ad olio su tela, misura 280 x 145 cm e non presenta né firma né data, tuttavia l’opera è da datarsi fra la fine del XVI secolo e gli anni ‘20 del XVII. I documenti attestano che la cappella fu di patronato della famiglia Visconti, fin dall’erezione del santuario nelle forme attuali. Il primo documento che segnala la presenza di un altare dedicato alla Santa Croce è databile entro il 1609: dal momento che il riferimento alla S. Croce è legato anche alla presenza della pala, si può dedurre che questa fosse già presente nel santuario. Sulla base di questa informazione si può fondare una datazione, anche se molto approssimativa. Per quanto concerne l’attribuzione, quella fatta nell’inventario della Curia milanese, secondo cui sarebbe opera del Cerano, sembra del tutto arbitraria, soprattutto per mancanza di affinità stilistiche con altre opere del pittore novarese. L’assenza di qualsiasi riferimento, anche minimo, in merito all’autore, mi permette di fare solo delle semplici considerazioni e di analizzare i particolari per trarre un giudizio circa la personalità e la caratura dell’artista. La luce fredda che investe la scena ed i colori smorzati mi inducono ad attribuire il lavoro ad un autore di scuola lombarda. Tuttavia, senza volere proporre un’identità di mano, l’opera dichiara, a mio parere, debiti rispetto all’affresco di Simone Peterzano raffigurante la Crocifissione, dipinta nei tre spicchi dell’abside della Certosa di Garegnano (Milano). In primo luogo vi sono alcune affinità nella resa del corpo di Cristo: anche il Peterzano sottolinea il dolore e la sofferenza fisica conseguente al supplizio enfatizzando l’anatomia del busto e delle braccia. Anche la realizzazione delle nuvole, tumultuose e sottolineate da drammatici lampi di luce, e la presenza di un paesaggio urbano risultano analoghi alla pala di Mezzana.

Il tema della Crocifissione venne affrontato frequentemente in epoca controriformista: voleva essere un richiamo forte per il fedele a meditare il mistero della morte e della sofferenza.

D’altra parte, analizzando nei particolari il quadro si colgono alcuni elementi, per certi versi sorprendenti, che inducono a meditare sulla personalità dell’autore. La croce, in legno bruno, solcata da venature, sormontata dall’abituale scritta INRI, si staglia sul cielo scuro, interrotto dalla luce dei lampi che squarciano le nubi. A destra e sinistra, nella parte alta, circoscritti da dischi, sono raffigurati la luna ed il sole che presentano i volti umani: spesso la loro presenza nel contesto della Crocifissione sta a simboleggiare l’Antico ed il Nuovo Testamento. La figura di Cristo è proporzionata nelle sue parti; i fasci di muscoli sono sottolineati da linee più scure che, da una parte enfatizzano la tensione ed il dolore, e dall’altra evidenziano l’anatomia del corpo, che risulta molto accurata. Il viso appare inespressivo, privo della dolorosa sofferenza che, a mio parere, caratterizza il resto della figura. In vero, si può obiettare che si sia voluto ritrarre un Cristo già morto e che quindi la soavità dei lineamenti sia la conseguenza del recente decesso. Sembra logico concludere che il pittore abbia voluto immortalare l’attimo del trapasso: il viso testimonia la pace già raggiunta e la serenità che ne consegue, mentre, il corpo soffre l’ultimo istantei dolori del supplizio.

In generale, la porzione più interessante dell’opera sembra quella inferiore, ricca di spunti e richiami: qui viene rappresentato un paesaggio urbano, intenzionalmente la città di Gerusalemme. In realtà si tratta di una invenzione di architetture, tale da rivelare un interesse spiccato dell’artista per la progettazione di edifici, oltre che una discreta capacità di riprodurre i medesimi elementi. Il paesaggio urbano è introdotto da due edifici: quello di sinistra, a pianta centrale, poggia su di un basamento a mattoni, mentre il corpo marmoreo soprastante è scandito da coppie di semicolonne corinzie a fusto liscio, negli intercolumni si aprono nicchie vuote.

L’edificio termina con una calotta di colore azzurro-verde, posta in penombra, poggiante su di un tamburo senza fregi. La costruzione di destra è parzialmente visibile, forse a causa di un ridimensionamento del quadro, tagliato sui lati e nella parte inferiore (tutti gli elementi mancano del piano d’appoggio). L’avancorpo o pronao (se si trattasse di un edificio sacro) è retto da colonnine sottili con capitelli ionici, che sostengono l’architrave ed il timpano. Il resto della costruzione è costituita da un corpo diviso da coppie di colonne corinzie che, oltre l’architrave, culminano con sottili pinnacoli. La parete liscia è interrotta solo da una lunetta. Di stile diverso è il paesaggio posto in secondo piano: si allunga verso l’orizzonte, investito da una luce bruna (nella parte anteriore) e azzurro-verde verso l’orizzonte.

Si tratta di una città cinta da mura merlate interrotte da possenti torrioni. L’abitato è diviso da un fiume, attraversato da un ponte ad archi. Sono ritratte casette di fogge diverse, ma tutte concentrate alla sinistra della composizione, mentre alla destra sorge una basilica, la cui facciata è dominata da due campanili posti ai lati. Nelle vicinanze dell’edificio si trovano un obelisco ed una statua equestre, di cui si scorge chiaramente l’alto basamento. In merito alla basilica, dopo aver confrontato questa immagine con quelle di altri templi sia di Roma sia di Milano, posso affermare che si tratta di un edificio di fantasia; probabilmente l’artista era a conoscenza dei progetti di realizzazione della facciata del Duomo (il progetto di Pellegrino Pellegrini proponeva due campanili sulla facciata) o di San Pietro a Roma ed ha voluto dare qui la sua visione. Tuttavia, i due edifici in primo piano, citazioni auliche inserite in un contesto architettonico di non alto profilo, lasciano ancora dei quesiti aperti.

Anonimo lombardo: Annunciazione

Il santuario ospita altre due tavole databili approssimativamente al XVII secolo: le pessime condizioni di conservazioni mi hanno impedito un’analisi approfondita ed il tentativo di dare loro un’assegnazione. L’Annunciazione è posta alla sommità dell'altare maggiore, misura 40 x 100 cm ed è dipinta ad olio su tela; la posizione è alquanto infelice poiché, stando l'opera a quasi 3 metri di altezza, è di fatto impossibile vederla da vicino. La presenza della tavola nel santuario non è casuale: la chiesa è stata dedicata all'Annunciazione e per tanto il tema viene rappresentato proprio nel punto più elevato dell'altare maggiore. Non si hanno notizie in merito all'autore, non pare che la tela sia firmata e dalle fonti d'archivio non risulta nulla in merito. La datazione, proposta dall'architetto Tagliabue (nell'inventario delle opere del santuario, svolto per conto della Curia milanese) fissa l’esecuzione del dipinto al XVII secolo. Tuttavia, questa proposta appare molto vaga, giacché proprio l’altare maggiore, al di sopra della medesima tavola, presenta la data MDCLX. Il quadro deve essere stato ultimato in concomitanza con la realizzazione dell’altare stesso. Si instaura un collegamento fra l’altare e la pala anche a livello temporale. Sono raffigurati l'angelo annunciante e la Vergine: si tratta di figurine sproporzionate, dai visi poco espressivi. Il taglio e l'ambientazione della scena testimoniano l'opera di un pittore di estrazione popolare che tuttavia intente rifarsi a modelli elevati. Nonostante ciò, esaminando, per quanto possibile, il quadro più attentamente, si può notare una forte diversità fra la rappresentazione delle figure in primo piano con gli oggetti ritratti sullo sfondo. Infatti, benché la visione sia assai difficoltosa, si possono scorgere alcuni elementi molto particolari. Sulla sinistra è dipinta una porta, inquadrata in una cornice marmorea, sormontata da una lunetta. Al centro della scena, ma verso il fondo, si trova una cassapanca con decorazioni geometriche sia sul fianco sinistro sia sulla fronte. Sulla destra, accanto alla Madonna, vi è una sedia e dalla penombra emerge la sagoma di un letto, coperto da un pesante tendaggio e da un drappo verde, su cui è adagiato un vaso di fiori.

Risulta dunque assai evidente la marcati differenza fra la semplicità esecutiva delle figure principali e la maggiore cura con cui sono stati eseguiti gli oggetti di cui si è appena detto. Si potrebbe anche sostenere che siano opera di due mani differenti. Vi è ancora una constatazione che, a mio parere, è di un certo rilievo: il cattivo stato dell'opera, potrebbe avere indotto qualcuno a ritoccare o anche a ridipingere grossolanamente le figure più significative. Questa ipotesi trova un certo credito soprattutto se si osserva l'ala dell'angelo che copre in modo incoerente parte dello sfondo: manca la trasparenza che, invece, dovrebbe avere l'ala colpita dalla luce.

D'altra parte, lo spessore della superficie dipinta testimonia i numerosi ritocchi, le ridipinture e l'applicazione di strati di vernice trasparente, dati per aumentarne la brillantezza dei colori.
Il quadro necessita di una ripulitura, dato che la vernice a contatto con la polvere ed il fumo delle candele, ha formato una patina bruna ed opaca, che ormai ricopre uniformemente il quadro, cancellando lo sfondo ed omologandolo in una tinta marrone scura.

Anonimo lombardo: Ritratto di Vescovo milanese

La tavola è appesa nella prima cappella a destra, in una posizione molto infelice; nell'inventario della Curia si trova la datazione, approssimativa al XVII secolo; non si sa nulla in merito all'autore. E' effigiato un ecclesiastico: dall'abito, dalla tiara appoggiata alla destra sopra il messale si deduce sia un vescovo. Dalla tavola risulta impossibile risalire all’identità del personaggio che è ritratto inginocchiato su di un cuscino decorato da nappe e bordure dorate. Le mani di tipo molto convenzionale, presentano le palme aperte come nel gesto di accettazione della volontà divina. Lo sguardo, verso l’alto è rivolto alla fonte luminosa che irradia tutta la scena.

Alle spalle fa da sfondo una tenda con frange dorate, drappeggiata longitudinalmente. Più che ad un ritratto ufficiale, la posa del personaggio mi induce a pensare che si tratti di un’opera commissionata a ricordo di un momento particolare: forse l’ordinazione a vescovo. In merito all'identità dell'ecclesiastico ritratto, dal confronto con una tela eseguita da Salomon Adler, emerge una notevole somiglianza nei lineamenti con Gaspare Visconti (1538-1595). La presenza di un vescovo della famiglia Visconti non sembra affatto fuori luogo in questo contesto, dal momento che la nobile famiglia era titolare di una cappella nel santuario e aveva lo iuspatronato su Mezzana. Quanto all'attribuzione ad un autore, risulta impossibile formulare alcuna ipotesi attendibile, perché il quadro ha perso gran parte del colore ed appare solcato da profondi tagli (operati per ridurlo e cambiarne la cornice, se non per asportarlo) che lo hanno irrimediabilmente deturpato.

Le statue dei Misteri Dolorosi

Questi gruppi statuari rappresentano un mistero: di loro si ha notizia solo dagli inventari stilati durante le visite pastorali e, molte volte, sono informazioni lacunose e molto imprecise. Non viene mai menzionata l’occasione in cui furono poste nel santuario, né tantomeno chi ne fu il committente. Ancora più oscure sono le conoscenze sull’autore o il gruppo di artigiani che intagliò e dipinse i quattro gruppi (14 statue in tutto).

Il Selva ne trattò in maniera abbastanza sbrigativa e fornì solo alcuni dati, assai imprecisi e, comunque, non citando la fonte da cui aveva tratto tali indicazioni. Li datò entro 1659 e in un altro passo scrisse: « Le altre sei cappelle [Pellegrino Pellegrini] le destinò ai fasti o misteri dolorosi della Passione, da rappresentarsi ivi a mezzo di quadri e di gruppi di statue. » Il primo documento attendibile, che cita queste opere risale alla visita pastorale compiuta dal cardinal Filippo Visconti nel giugno 1684, in cui le scene dei misteri dolorosi sono efficacemente descritte.

L’orazione nell’orto del Getsemani

Nella prima cappella a sinistra è collocata la scena dell’Orazione nell’orto del Getsemani, che si compone di 4 statue in legno di fico dipinte che misurano 160 cm di altezza.

Una delle statue raffigura Gesù, al centro della scena, in ginocchio con lo sguardo rivolto al cielo, in atto di preghiera. Gli apostoli giacciono distesi (uno a sinistra e due a destra) addormentati. Pietro, a sinistra, è riconoscibile per la barba, mentre sulla sinistra si trovano Giacomo e Giovanni, che è convenzionalmente rappresentato con le fattezze di un giovane.

Cristo deriso

Nella seconda cappella a sinistra è rappresentato il mistero della Coronazione di spine, anche questo è un gruppo composto di 4 statue in legno di fico dipinte. La scena estremamente realistica: un aguzzino, col braccio destro levato è colto nell’atto di percuotere Cristo con dei rami spinosi. Gesù, al centro della scena, è seduto, veste un mantello rosso, simbolo del martirio, porta la corona di spine, ha le mani legate. Alla sua sinistra un altro torturatore infierisce con un’asta; un terzo uomo inginocchiato regge con una mano un ramo spinoso e con il braccio destro indica la scena; è ritratto nell’atto di chiedere a Gesù “Indovina chi ti ha percosso?”

Cristo flagellato

Nella seconda cappella a destra sono collocate le cinque statue della Flagellazione alla colonna. Gesù ferito, al centro della scena, è legato ad una colonna; alla sua sinistra un soldato assiste alla scena, mentre al suo fianco un aguzzino (che porta un berretto frigio) si prepara a portare un nuovo colpo. Alla destra un uomo di colore regge con una mano la corda con cui è legato Cristo e con l’altra alza la frusta ;infine, l’ultimo sgherro indossa solo una tunica chiara e regge la frusta, dopo aver sferrato il colpo.

Cristo con la croce

Nella prima cappella a destra, vi sono le cinque statue raffiguranti la scena della salita al Calvario. Gesù, vestito di una lunga tunica rossa, con la corona di spine, è gravato dal peso di una grande croce, che attraversa tutta la scena. L’aguzzino alla sinistra si caratterizza per il colorito scuro, per gli abiti lacerati e per il grande gozzo che rende l’uomo deforme. Alla destra di Gesù tre donne sono ritratte in atteggiamento dolente.

Proposta di attribuzione

Non è possibile attribuire con precisione queste opere per la mancanza di documenti, tuttavia vi sono due aspetti che meritano di essere esaminati: il valore pedagogico e l’affinità con le statue dei S. Monti. Non è un caso che quoti gruppi statuari siano stati posti all’interno del Santuario: ritengo che questo risponda ad un preciso intento. Carlo Borromeo nelle Istitutiones prescrisse: ”Non si pongano immagini che contengano falso dogma, o che ai semplici possano dare occasione di pericoloso errore, ripugnando alla S.Scrittura o alla tradizione della Chiesa”. Da una parte, l’arcivescovo intese affermare un concetto moralizzatore molto chiaro; d’altra parte, questa precisazione induce a pensare che fosse sotteso un invito a realizzare opere artistiche che avessero un preciso fine pedagogico. Come, fin dal medioevo, le sculture, le grande vetrate e le pitture murali, poste ad ornamento delle chiese, hanno permesso ad un pubblico spesso analfabeta di conoscere i dogmi della fede, gli episodi più significativi dei Vangeli, le gesta dei santi e dei martiri, così tra il XVI ed il XVII secolo la raffigurazione dei misteri, attraverso la statuaria, fu un espediente efficace per raggiungere le popolazioni dei confini, maggiormente esposte ai rischi dell’eresia protestante.

Porre nel santuario queste statue fu un gesto in linea con gli ideali di San Carlo: si poneva come una risposta concreta all’operato dei protestanti, che incitavano anche alla soppressione delle immagini sacre. Dal momento che il Santuario di Mezzana fu meta di numerosi pellegrinaggi, provenienti anche da paesi vicini (attirati dalla notizia dei miracoli avvenuti), si può pensare che la funzione di queste statue dovesse essere quella di illustrare, con grande efficacia, i misteri del Rosario in modo semplice e più coinvolgente rispetto alle omelie, proposte dai predicatori, che animavano tali riunioni religiose.

Come hanno rilevato molti , la fattura di queste statue non è magistrale, tuttavia vale la pena osservare che il realismo, il tratto marcatamente popolaresco e l’ingenuità con cui sono ritratti i personaggi (Gesù, i discepoli e le pie donne hanno lineamenti gentili ed aggraziati, mentre gli aguzzini si caratterizzano per la ferocia espressiva e per la bruttezza) attraggono, incuriosiscono e coinvolgono lo spettatore. Le scene sono di grande immediatezza: è facile l’individuazione dei personaggi raffigurati, così come la teatralità dei gesti offre la possibilità ad ogni visitatore di capire e meditare sul mistero che viene illustrato.

Il negretto, presente nella scena della Flagellazione, può sembrare un’ingenuità, ma il Selva testimoniò che questa statua calamitò l’attenzione tanto che « i visitatori fermano più l’occhio alla scena rappresentata, che non sul profondo significato di essa. » Il secondo aspetto sul quale intendo soffermarmi, è la somiglianza di queste statue con quelle eseguite da Francesco Silva e dai suoi collaboratori per le Cappelle dei Sacri Monti di Varese ed Ossuccio (Como). Non è possibile legare incontrovertibilmente le statue di Mezzana al nome di Silva, in considerazione del fatto che vi sono alcune discordanze: le statue del santuario sono in legno, mentre quelle dei Sacri Monti sono in terra cotta dipinta a freddo.

Le figure del Silva sono più dinamiche, con volti molto espressivi; i personaggi compiono movimenti “teatrali”, esprimendo i sentimenti in modo esasperato. D’altra parte, le statue di Mezzana paiono più fisse, composte, perfino bloccate nei diversi atteggiamenti. Gesù nell’Orazione del Getsemani non lascia trasparire angoscia, così nella Flagellazione la figura è eccessivamente composta ed inespressiva. Lo stesso vale per le donne, quasi apatiche nel loro dolore, ed i corpulenti aguzzini, in cui visi esprimono brutalità, ma in modo convenzionale e perfino ingenuo.

Nonostante ciò, il soldato dal gozzo smisurato è una figura singolare e rimanda proprio ai “gozzuti”, realizzati da Francesco Silva nella Cappella VIII del Sacro Monte di Varese. L’attribuzione a Silva non è provata da alcun documento, ma la somiglianza riscontrata negli abiti e nella tipologia dei personaggi mi porta a proporre questa lettura. Le statue di Mezzana potrebbero essere opera di collaboratori dei Silva, scultori che hanno rifatto fedelmente alcuni connotati presenti nelle opere del maestro, senza tuttavia raggiungere la particolare qualità artistica. Vi è un altro elemento che mette in relazione queste opere con il cantiere del Sacro Monte di Varese: è un testimonianza riportata dal Selva “La comunità di Somma, andata processionalmente a Santa Maria del monte sopra Varese nel 1605, vi condusse 127 bestie cariche di 100 some di grano. Anche Mezzana inviò la sua processione, che poi venne ripetuta annualmente”. Ciò induce a pensare che durante uno di questi pellegrinaggi, divenuto poi abituale negli anni, alcuni scultori impegnati alla Fabbrica del Sacro Monte fossero entrati in contatto con esponenti del clero di Mezzana. Da qui potrebbe essere nata la commissione e la realizzazione delle statue.

Anna Elena Galli

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Ci tengo a ringraziare con calore la mia amica e collega Anna Elena, che mi ha concesso di pubblicare questi stralci della sua tesi di laurea. Già che ci siete, se lo credete, potete dare un'occhiata alla storia antica di Lonate; altrimenti, cliccate qui e tornate indietro.


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