POZZI E CISTERNE A LONATE POZZOLO

Quando l'acqua la si attingeva al pozzo - aneddoti e detti - « Cistern e Cistarnit »


Quando l'acqua la si attingeva al pozzo

(da "La Nona Campana", luglio-agosto e novembre 1986)

Parlare di pozzi a Lonate è improprio. Questi esistevano, ma erano privati, anche se a taluni di essi era consentito accedere a chiunque (basti ricordare, per citare uno degli ultimi scomparsi, quello dello "stalasc", cortile adiacente alla tessitura Solbiati). Per la popolazione era d'obbligo servirsi delle cosiddette pompe comunali dislocate qua e la nel paese. I nostri "nonni" più anziani ricordano che ce n'erano:

Praticamente queste pompe erano, per citare un dizionario di quei tempi, "macchine per sollevare e lanciare l'acqua in alto". L'acqua veniva pescata da un pozzo sottostante, nascosto da "un cuarciom da fer" (da un grosso coperchio di lamiera) azionando una manovella saldata a una grossa ruota di legno detta "ruom", e fuoriusciva attraverso un tubo ricurvo di ferro ("buchél"). Sotto quest'ultimo era situata una grossa vasca di sasso ("navel") per la raccolta dell'acqua, con un foro di scarico sul fondo, di solito sempre chiuso da un tappo di legno. Due grosse sbarre di ferro, da una sponda all'altra della vasca, poste proprio sotto "ul buchél" avevano la funzione di reggere la secchia di legno ("segia") appoggiatavi sopra, mentre veniva riempita d'acqua. Qualora si voleva riempire un mastello o "brenta da legn", si faceva ricorso a un pezzo di canale in lamiera che veniva fissato tramite del filo di ferro al "buchél" (una "prolunga", diremmo oggi, che portava l'acqua dal "buchél" al mastello, scavalcando "ul navel"). Curiosa era poi la maniera di recarsi alla pompa per attingere acqua. Se l'acqua doveva servire per dissetarsi e per cucinare si usavano le secchie che venivano portate in spalla appese l'una ad una estremità, l'altra all'altra estremità di una stanga di legno, a mo' di bilancia ("ul bagiar"):

"UI bagiar" (bilancere)

Quando invece l'acqua doveva servire "par fa u la beveraa", ossia per abbeverare il bestiame, o "par fa la bugaa", vale a dire fare il bucato, e pertanto in quantità notevolmente maggiore rispetto al caso precedente, si faceva uso dei grossi mastelli di legno che venivano trasportati tramite stanghe di legno infilate attraverso "i manett" (le maniglie) degli stessi. Nelle ore di punta, soprattutto la sera, quando i contadini erano soliti "parigià l'acqua par ul di a dré" (preparare l'acqua per il giorno dopo) ossia per la mattina successiva (s'intende per abbeverare il bestiame), e si formavano magari delle code davanti alla pompa, la stanga infilata nelle maniglie del mastello fungeva anche da sedile, visto che, dopo una lunga e faticosa giornata di lavoro nei campi, le gambe non reggevano più. Taluni, per accelerare i tempi, facendo uso di "un tulin" (di una lattina) quando ce n'era, e pescavano l'acqua direttamente dal "navel".

Nell'acqua del "navel" i più giovani si divertivano invece ad immergere piedi e gambe per rinfrescarsi un po' durante le ore di calura. Al "navel", nei periodi delle esercitazioni, i soldati della cavalleria portavano, mattina e sera, i loro cavalli ad abbeverarsi, ed avevano precedenza assoluta.

Abbiamo parlato delle "pompe comunali"; ora ne citeremo qui alcune, frutto del ricordo dei più anziani. Taluni di questi pozzi sono tuttora esistenti come quelli siti in Piazza Sant'Ambrogio 1 (cortile che sta dietro la "Via Crucis"); in Via Cavour, 18 (ex Binaghi); nel chiostro del Parco Bosisio; in Piazza Santa Maria 5 (ex Filanda); in via Roma 5 (Villa Porro). Altri sono stati demoliti come quelli siti in via Roma 4 (ruga di Ferari); nel cortile dell'attuale Oratorio femminile (ex Albergo Ticino), nel giardino parrocchiale, tra la sacrestia e la casa, dove attualmente passa via San Fortunato. Di altri infine si hanno notizie pur ignorando se esistano ancora o meno: come quelli siti in Via Roma 3 e 7; in via Santa Caterina 30; e nei due altri opifici allora esistenti (oltre la filanda): ex Tessitura Varzi e l'attuale "Solbiati".

Pozzi privati si trovavano anche nelle varie Cascine di Lonate, in particolare citiamo quello della Cascina Belvedere (all'inizio della discesa dei "Molinelli"), meta di molti contadini, nelle afose giornate d'estate, dopo la lunga e faticosa salita dalla valle del Ticino prima d'intraprendere la strada del ritorno in paese.

Il modo di cavar acqua da questi pozzi era quello classico: un grosso cilindro di legno ruotante con avvolta una lunga fune ed alle cui estremità c'erano da una parte una manovella di ferro per la rotazione, dall'altra una grossa ruota di legno che fungeva da volano: la burbera.

Un antico pozzo lonatese fotografato negli anni settanta, quando era ancora in piediLa lunga fune di canapa terminava con una catena (la parte che si immergeva nell'acqua e pertanto più soggetta ad usura) alla quale, tramite un moschettone, veniva agganciata la secchia da riempire. Prima di tuffarsi nel pozzo, la fune passava attraverso una carrucola posta sopra l'imboccatura dello stesso tramite un arco in ferro.

Allorquando una secchia, sganciatasi, fosse finita sul fondo del pozzo, si faceva ricorso alla cosiddetta "rampinera" (da "rampin", ovvero uncino), una sorta di ancora a più uncini che aumentavano la possibilità di agganciare e ripescare la secchia.

Soltanto con l'avvento del nuovo acquedotto (il grosso bacino sito in via Dante ed attualmente proprietà del "Bragonzi") ed a partire dal 1915, i pozzi vennero man mano chiusi e le "pompe" sostituite con "i pumpett" ("pompe piccole") costituite da una colonnina in ghisa (si può ancor oggi osservarne un fac-simile nel parco del Palazzo Comunale) con un bocchello, in un primo tempo pure di ghisa, con bottone (rubinetto) di apertura e chiusura dell'acqua posto sul fianco della colonnina stessa, poi in ottone, con bottone incorporato sul davanti.

A proposito "di pumpett", i più anziani ricordano che, dovendo riempire un mastello, per non restare più minuti col pollice premuto sul bottone (rubinetto), ci si sfilava la cintura dei pantaloni e la si avvolgeva alla colonnina in modo tale che la cintura facesse pressione sul bottone stesso. Per agevolare l'operazione si era soliti frapporre tra la cintura ed il bottone un pezzo di legno o uno degli zoccoli che si portavano ai piedi.

Taluni, quelli che possedevano molto bestiame, facevano uso delta "strusa", una sorta di slitta trainata da una bestia, con affrancato sopra "ul vasél" (una vecchia botte aperta in alto), così da poter portare a casa più acqua possibile per abbeverare il bestiame. L'imboccatura del "vasel", una volta pieno d'acqua, veniva chiusa con una grossa coperta.

Ed ecco un aneddoto raccontatomi da un anziano lonatese:

Due contadini, in attesa del proprio turno per poter cavar acqua da un pozzo, discorrevano del "cum'al fea a fa la roba" (come faceva ad accumulare ricchezze) un altro contadino del paese. Alla fine uno di essi disse all'altro: "dumandigal a quel ca ghe dent in dal puz" (chiediglielo a quel tale che sta nel pozzo). "Segund ti - urla l'altro all'imboccatura del pozzo - cum'al fa ul tol a fà la roba?" (secondo te, come fa il tale ad accumulare ricchezze?)... e l' eco, dal pozzo: "Roba, roba, roba..." (ruba, ruba, ruba...) :-)

Infine, ecco alcuni detti milanesi relativi a questo argomento, tratti dal "Dizionario Milanese-Italiano", Manuali Hoepli:

"Va minga a la tromba, va al pozz a cavà l'acqua" ("Non andare alla tromba a cavar acqua, va al pozzo")

"Pozz de san Patrizzi" ("Pozzo di San Patrizio"; si dice di cosa tanto abbondai che non finisce mai)

"Buttass in del pozz per fà on bell salton" (darsi la zappa sui piedi)

"Voré inversà i pozz de sott in sù" (volere cose impossibili)

"Fà vedè la lunna in del pozz" (mostrare la luna nel pozzo)

"La veritaa la stà in del pozz" (per dirla con Tennessee Williams, "la verità sta sul fondo di un pozzo senza fondo")

"Imbriagass a l'ostaria del pozz" ("ubriacarsi solo di acqua")

"El g'à minga òn pozz in casa!" ("non ha un pozzo in casa da affogarcisi?", sottinteso: piuttosto che pigliar moglie)


« Cistern e cistarnit »

(da "La Nona Campana", giugno 1987)

Quando i tetti delle case erano sprovvisti di grondaie, quando in paese non esisteva ancora una rete fognaria, le acque piovane si raccoglievano e scorrevano lungo un apposito avvallamento (la riàna) nel mezzo delle strade selciate (la rizàa). Andavano poi a defluire tutte nella parte più bassa del paese stesso, « da valèta » (l'attuale piazza Santa Croce), da cui il detto popolare: « quand c'al piö, la valéta la va in barchèta » (quando piove, gli abitanti residenti « da valéta » devono usare la barca); naturalmente si faceva per dire, e nessuna zattera era effettoivamente usata, contrariamente a quanto credevo io quand'ero bambino. Se non si usava la barca, era però certo che ci si doveva togliere i calzettoni (scalfaròt) rimboccare i pantaloni fin sopra le ginocchia e sollevare le lunghe sottane per attraversare la piazza e recarsi nelle proprie abitazioni.

Parte delle acque piovane si raccoglieva anche nei cortili, creando spesso seri problemi di transito dall'abitazione alle stalle o al portone d'ingresso, specialmente in seguito ad un acquazzone temporalesco.

Si doveva allora far ricorso a improvvisate e traballanti passerelle di legno, appoggiate su dei mattoni, in numero tanto più grande, quanto maggiore era lo spessore dell'acqua o l'avvallamento del cortile, proprio come capita di vedere ancor oggi a Venezia, in Piazza S. Marco, quando c'à l'acqua alta.

È per ovviare a tale inconveniente, che alcuni proprietari avevano fatto scavare nel mezzo dei cortili, solitamente nella parte più avvallata, una cisterna atta a raccogliere e disperdere nel sottosuolo tali acque: oggi la chiameremmo un « pozzo perdente ».

Esistevano poi anche le cosiddette « cisterne vive », che a differenza delle prime erano predisposte a raccogliere e conservare le acque piovane che venivano successivamente cavate ed usate o per abbeverare il bestiame, o per fare il bucato.

L'imboccatura della cisterna era solitamente chiusa con una griglia di ferro sulla quale veniva posta una grossa pietra, per evitare che i bambini potessero sollevarla ed aprirla. L'acqua entrava nella cisterna attraverso un foro laterale appena sotto l'imboccatura. Per evitare che l'acqua trascinasse con sé nella cisterna materiale inquinante, veniva filtrata attraverso una tela di iuta (un sacco), posto davanti al foro stesso. Si dice che i primi proprietari a possedere anche delle cisterne esigessero dai loro fittaiuoli, oltre all'affitto pattuito, qualcosa in più come un tacchino o un cappone.

 

 

« La Bùta da la pisa » (ricostruzione ad opera del pittore A. Tacchi)

 

Simile ad una « cisterna viva », ma di tutt'altra natura, era il cosiddetto « cistarnìn », detto oggi pozzo nero, atto a raccogliere e conservare il liquame delle stalle e delle latrine, liquame che veniva poi prelevato per concimare campi ed orti, in particolare grano e segale sul finire dell'inverno.

Tale liquame veniva prelevato dai « cistarnìt » (plurale di « cistarnìn ») con una secchia di scarto agganciata per il manico ad una lunga pertica tramite un ferro a spirale (« ul rampìn ») e trasportato con apposito carro-botte, detto « la bùta da la pisa », trainato da un cavallo (vedi la figura soprastante).

Una volta arrivati sul campo da concimare, il suddetto liquame veniva cavato dal carro-botte, attraverso l'imboccatura, con la stessa secchia e sparso sul terreno. Oppure, similmente a quanto si fa ancora oggi con carri più sofisticati e trainati da trattori, oppure con veree proprie autobotti di proprietà di società specializzate, lo si lasciava defluire attraverso un foro praticato nella parte bassa del retro del carro-botte, togliendo l'apposito tappo in legno (« ul bundòn ») che lo chiudeva.

Dato che non tutti i contadini potevano disporre della « bùta da la pisa », c'erano in Lonate taluni che prestavano tale servizio dietro pagamento della « viciùra », ossia del trasporto (da "vettura"). Da qui il soprannome di « menapisa », rimasto purtroppo appiccicato ad alcuni lonatesi fino a tempi recenti (poveretti).


I « Lavandee »

(da "La Nona Campana", settembre 1985)

« Lavandee » o « lavandara » (lavandaio o lavandaia) erano coloro che per mestiere lavavano i panni degli altri. Solitamente era la biancheria di istituti, alberghi, ospedali, ma anche di ricchi proprietari (i « padruni »). Passavano per le contrade del nostro paese, col loro grosso carro ricoperto da un telone, il lunedi a ritirare la biancheria ed il giovedi successivo a consegnarla.

La biancheria, divisa per sacchi a seconda dei proprietari, veniva dapprima passata nell'acqua corrente della «Rungia » (che scorreva a due passi dalla abitazione dei lavandai), e qui subiva una prima grossolana lavatura. Era poi messa per qualche ora in ammollo in un enorme mastello di rame contenente acqua bollente e lisciva, ed infine passata in grosse macchine elettriche (i « torc ») per il risciacquo e la centrifuge.

Quest'ultima operazione veniva iniziata nelle primissime ore del mattino (anche alle due o tre di notte), così da sfruttare poi L'intera giornata, sin dal primo levar del sole, per poter stendere la biancheria e lasciarla asciugare (« slargà foeura a sugà »).

Per «bugaa» (bucato) s'intendeva invece l'imbiancatura dei panni fatta con cenere ed acqua bollente. Quando in luogo dei panni si trattava di lavare coperte (cuert), lenzuola (lanzoeu) e federe (fudret o foeudar) si parlava di « bugaa gross ». Questa la si faceva non più di tre o quattro volte l'anno ed era un'operazione che coinvolgeva L'intera famiglia, uomini compresi. La biancheria veniva dapprima grossolanamente insaponata e lavata, poi messa in un grosso mastello di legno (sigiòm). Vi si versava sopra dell'acqua bollente con della cenere (scendra), fatta bollire precedentemente sul camino in una grossa caldaia di rame (culdera) e filtrata (culaa) attraverso un lenzuolo vecchio (bigù). La si lasciava poi in ammollo qualche ora, finché l'acqua non si fosse raffreddata.

L'acqua veniva poi fatta defluire dal mastello attraverso un foro (bundom) esistente nella parete del mastello stesso ad una decina di centimetri dal fondo, e chiuso con un tappo di legno.

La biancheria poteva ora essere messa in una grossa cesta (sgorba), caricata sul carro e trasportata al Ticino per essere sciacquata (rasentaa).

Si sceglieva un'insenatura del fiume dove l'acqua fosse poco scorrevole ed il fondale basso, vi si piazzava l'apposito asse per lavare (scagn), un asse sorretto da quattro gambe di legno, due più lunghe delle altre, e si dava inizio all'operazione.

Una volta sciacquata, la biancheria veniva stesa sul greto del fiume stesso ad asciugare, mentre ci si poteva rifocillare con « Pan giold, bulogna o strachin e acqua fresca da la funtanèla ».

Per i bambini era grande festa perché potevano, tra l'altro, «una tantum» mangiare « di asciutto » (da suc)!

 

Se volete maggiori informazioni, rivolgetevi alla Pro Loco di Lonate Pozzolo, indirizzo via Cavour 21, telefono 0331/301155.

 

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