In principio c'era il Verbo

Una pagina di catechismo prettamente natalizia

(lo spunto è tratto da "La Madonna del Boschetto di Camogli", bollettino del Santuario, Novembre/Dicembre 2008)


Siamo verso il 70 d.C. e ad Efeso era vescovo l'apostolo Giovanni. Era già anziano, e tra i credenti correva la voce che il Signore avesse detto che non sarebbe mai morto. Gesù non aveva detto a Pietro che non sarebbe morto, ma semplicemente: « Se io voglio che egli rimanga fino a quando io venga, che te ne importa? »

La comunità cristiana certamente continuava a godere nel sentire Giovanni parlare di Gesù. Ma poi venne un periodo di crisi. Ci furono dei fratelli che, forti delle loro idee filosofiche, dicevano che tutto nell'umanità di Gesù era pura apparenza: egli sembrava uomo, parve nascere, vivere, patire, morire, ma il suo corpo esisteva solo come pura apparenza, pura raffigurazione della persona di Cristo. Erano i così detti "doceti", parola che viene dal greco "dokein" che significa "sembrare". Di fatto negavano l'incarnazione.

La reazione dell'anziano vescovo fu dura, ma fatta con parole solenni e incisive.

In esse risuona in continuità un NOI perché Giovanni parla a nome di tutti gli Apostoli, che insieme con lui furono i testimoni oculari della vita di Gesù. La loro testimonianza forma la "Tradizione Apostolica", che secondo Paolo è « il fondamento della fede » (Ef 2,20). Leggiamo quanto dicono i "noi" (1 Gv 1,1-4):

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« Colui che era da principio, Colui che noi abbiamo udito, che noi abbiamo visto con i nostri occhi, Colui che le nostre mani toccarono, Colui che è la Parola di Vita – la vita infatti si manifestò – noi l'abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza, e vi annunciamo la Vita eterna che era presso il Padre e che si manifestò a noi. Colui che abbiamo visto e udito noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo perché la nostra gioia sia piena ».

Sono importanti i verbi del contatto, dell'udire e del vedere che esprimono in concreto la vera umanità di Cristo, non un'apparenza.

Nella sua umanità questa concretezza fa un tutt'uno, e ci presenta una persona reale nella sua trascendenza e nella sua umanità. Si tratta infatti di Colui che è la Parola di Vita, della Vita eterna che era presso il Padre e che si manifestò a noi divenendo "carne".

L'anziano Giovanni sembra che continui a sperimentare questa realtà, e perciò ad annunziarla. E certamente non gli mancano gli uditori con i quali continua a meditare il mistero di Cristo.

Probabilmente nella comunità c'era già un Inno Cristologico, che era un vero atto di fede. Giovani si mise a ritoccarlo e perfezionarlo, e ne uscì quello che oggi chiamiamo "Il prologo del Vangelo di Giovanni".

Logico che noi cristiani, leggendolo, non possiamo non pensare a Gesù, forse partendo da ciò che Gesù ha detto al Padre prima della sua Passione: « Padre, glorificami davanti a te con quella gloria che avevo presso di te prima della creazione del mondo » (17,5).

L'inizio trasporta nell'Eternità che il Figlio aveva prima della creazione del mondo. Seguiamo il testo passo passo:

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« In principio c'era (già) il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. »

Cos'è il "Verbo" che c'era già fin dal principio? Questa parola è latina, traduce l'originale "Logos" e vuol dire "la Parola", tanto che in molte traduzioni moderne si legge proprio: "In principio c'era Colui che è la Parola". Il termine "già", sottinteso nel testo giovanneo, esprime meglio il pensiero, e la prima frase può essere letta nella luce di ciò che la Prima Lettera di Giovanni ha detto parlando della "Vita eterna che era presso il Padre" (1 Gv 1,2). Per questo l'espressione "in principio" trasporta alle soglie della storia, fin nelle profondità di Dio, di colui la cui conoscenza penetra ogni cosa. Il "c'era" è un passato che ci fa guardare oltre l'inizio, e afferma un'esistenza che precede l'inizio, che in se stessa è anteriore a tutto.

È in questa anteriorità che noi contempliamo "la gloria del Verbo" prima della creazione del mondo e contempliamo "il Verbo presso Dio", rivolto verso Dio, in rapporto con Dio, in intima comunione con Dio, una comunione di vita tale da immedesimarsi in "lui" pur rimanendo distinto perché "il Verbo era Dio".

Il testo sembra oscillare dall'uno verso il due, e questo caratterizza il mistero della relazione: Dio - Verbo. Finché "la Parol"a non sarà incarnata e chiamata "Figlio", e finché Dio non sarà chiamato "Padre", è l'unità che prevale sulla dualità. È vera la parola di Gesù: « Io e il Padre siamo una cosa sola » (Gv 10,30).

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« Egli era in principio presso Dio. Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. »

Con il v. 2 si intende il passaggio dall'essere presso Dio, che comunque sarà sempre in atto (v. 12), all'essere verso "il di fuori", verso l'interlocutore che Dio intende darsi, verso ciò che sta per essere chiamato "in principio", verso lo sbocciare della creazione. Il Verbo è con Dio "creatore dell'universo" e fin dall'inizio appare il mediatore tra Dio e il Creato.

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« In tutto ciò che esiste egli era la Vita, e la Vita era la luce degli uomini e la Luce brilla nelle tenebre. ma le tenebre non l'hanno sopraffatta. »

Continuiamo con queste parole a rileggere il primo capitolo della Genesi.

Subito contempliamo il Verbo immerso nella creazione come "fonte di vita" ed è naturale che questa vita sia in relazione con Dio, il solo vivente in senso assoluto e perciò, trattandosi della vita umana, questa per mantenersi deve rimanere in contatto con lui e ciò è possibile con il Padre per l'eternità. "La gloria": nell'Antico Testamento indica Dio stesso in quanto si rende presente: Dio in Epifania.

Ebbene, ora questa gloria è concentrata in Gesù, irradia da lui, è la sua gloria, segno massimo della presenza del Padre. E quindi può anche manifestare tutta la ricchezza di cui è pieno. Si dice infatti che è "colmo di grazia e di fedeltà", una frase che viene da Es 34,6 in cui Dio si rivela a Mosè come « ricco di misericordia e di fedeltà o verità. » Ebbene così è il Figlio che ci rivela con la sua vita l'amore misericordioso e la fedeltà del Padre.

Ora il Figlio, divenuto carne, è visibile nella storia, ma prima di presentarsi ha bisogno di un testimone, come dice la Sacra Scrittura: « Manderò il mio angelo davanti a te, egli ti preparerà la strada » i quali non da sangue né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. È impossibile la spiegazione di Léon Dufour il quale dice che in questi due versetti si continua a parlare del Verbo anteriormente all'Incarnazione. L'Evangelista non la pensa così.

Egli fa del v. 14: "Il Verbo è divenuto carne" il perno di tutto il suo discorso. Riferendoci ora ai vv. 12-13 diciamo che "quanti l'hanno accolto" (passato) sono coloro "che credono nel suo nome" (presente: azione continua). È la fede, dono di Dio, che fa scattare una trasformazione radicale nella loro persona perché "sono stati generati da Dio" e non per una nascita naturale che può venire dalla volontà di qualche uomo; tutto è dono di Dio. Gv 3 svilupperà come avviene questa trasformazione in chi crede.

Il Presepio preparato nella Chiesa Parrocchiale di Lonate Pozzolo in occasione del Natale 2007

Il Presepio preparato nella Chiesa Parrocchiale di Lonate Pozzolo in occasione del Natale 2007

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« E il Verbo è diventato carne e ha messo la sua tenda in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la Sua gloria, gloria come dell'Unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità. »

Queste poche righe danno il fondamento alle affermazioni di tutto il Prologo. Con l'Incarnazione vi è il dono dell'incontro. Non si tratta di un nuovo stato del Logos come tale, ma di precisare che la sua presenza, in questa nuova modalità è "una dimora tra noi", è un "faccia a faccia": l'evento proclamato realizza il "noi abbiamo visto la sua gloria".

Il Logos non ha assunto la carne come si indossa un vestito, ma è "divenuto carne", e questo elimina ogni docetismo. Certo qui non si proclama la dottrina delle due nature divina e umana di Gesù Cristo, ma il pensiero greco saprà scoprirle legittimamente.

"E divenuto carne" significa che ha assunto la condizione misera, debole, precaria del mondo di quaggiù, e certamente qui si suggerisce anche la morte. Dopo questa spiegazione è chiaro che non si può tradurre: "divenne uomo", si toglierebbe tutta la ricchezza del termine "carne"; non si può usare un'altra parola. E non si può tradurre: "e abitò fra noi", ma si deve tradurre: "Mise la sua tenda tra di noi". Questo richiama l'Esodo. È infatti venuto a vivere e a farci vivere come in un Esodo, verso una meta ben precisa: la comunione che "la vita è luce per gli uomini".

Secondo il racconto della Genesi la prima parola che Dio pronuncia è: « Sia la luce. » È una luce che mette in fuga le tenebre; essa fa scomparire il "tohu wabou", espressione ebraica intraducibile. Si potrebbe dire il "nulla", il "caos". Dopo ciò qualcosa esiste, perché la vita donata dal Verbo "è Luce", una luce che manifesta qual è per l'uomo il cammino verso la vera "Vita", una luce che è rivelazione e che mette in comunione con Dio, che fa dell'uomo un essere dialogante con Dio, come suggerisce Gen 3,8: « Dio soleva passeggiare nel giardino dell'Eden, alla brezza del giorno. »

Ed è anche una luce che l'uomo possiede nel suo scontro con "le tenebre", un termine assai ricco di significato, ma che ha il suo culmine nel peccato che mette l'uomo contro Dio. Comunque, rimane la sicurezza che la vittoria sarà della Luce perché le tenebre non riusciranno mai ad arrestarla. Ed eccoci in piena storia e perciò nella necessità di meditare come noi abbiamo accolto il Verbo:

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« Ci fu un uomo mandato da Dio, il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza della Luce perché tutti credessero per mezzo di lui. Egli non era la luce, ma venne per rendere testimonianza alla luce. »

È logico che la Luce nella sua lotta contro le tenebre rimanga offuscata da tante realtà, soprattutto dal peccato.

Per manifestarsi ha bisogno di testimoni, di gente che l'abbia accolta e che vuole darne testimonianza. E sono tanti i testimoni apparsi nella storia, si pensi ai profeti. L'evangelista ne sceglie uno, probabilmente guidato dalla parola di Gesù: « Tra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni Battista » (Mt 11,11). Perciò Giovanni era colui che si prestava meglio come "tipo" e "rappresentante" dei testimoni apparsi nei secoli.

Certo, noi qui lo contempliamo fuori del suo tempo, perché "il Verbo ancora non è divenuto carne" (1,14). Ma come rappresentante è stato ben scelto. Certamente "egli non era la luce", Gesù l'ha paragonato a « una lampada che arde e risplende » (Gv 5,35). E se alcuni si sono rallegrati della sua luce, in genere è stato ostacolato e rifiutato.

Non meravigliamoci quindi di quanto capita alla Luce nelle varie tappe della sua storia.

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« Continuava a venire Colui che è la Luce vera, quella che illumina ogni uomo. Egli era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. »

La spiegazione più giusta è quella della Sapienza (13,1): « Davvero stolti per natura tutti gli uomini che vivevano nell'ignoranza di Dio e dai beni visibili non riconobbero l'artefice pur considerando le opere. » Di qui nacque l'idolatria. Lo stesso pensiero lo leggiamo in Rm 1,18-23: "Hanno rifiutato la Luce e scelto di vivere nelle tenebre, nell'ignoranza".

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« Venne tra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto. »

Del tutto bene non è andata al Verbo neppure nel popolo di Dio.

In quel popolo, "la Parola" si è incarnata nel linguaggio umano, ha cercato di parlare con parole umane. Infatti, « non considerò una cosa gelosa la sua uguaglianza con Dio e umiliò se stesso adattandosi al parlare di ogni epoca del popolo che Dio si era scelto e con cui aveva fatto alleanza. »

Comunque la frase "i suoi non l'hanno accolto" non è valida per tutti. L'evangelista infatti precisa e dice:

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« A quanti però l'hanno accolto ha dato di poter diventare figli di Dio, a quelli che credono nel suo nome (Mal 3,1). È quello che avviene secondo il nostro testo: Giovanni gli rende testimonianza e grida: "E di lui che io ho detto. Colui che viene dopo di me è al di sopra di me, perché era prima di me". »

Parla di Gesù al passato, come di una realtà già presente: "ho detto", ma che dev'essere sempre riconosciuta.
E vi ritornerà ancora (1,30).

Ora però è la comunità che confessa la sua fede:

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« Sì, dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto grazia su grazia. La Legge fu data per mezzo di Mosè, ma la grazia della verità fu data per mezzo di Gesù Cristo. »

Se prima c'era per il popolo eletto la possibilità di conoscere l'amore misericordioso e colmo di fedeltà di Dio, questo avviene in modo nuovo e sempre più perfetto in Gesù Cristo.

Gesù è nella sua persona e nella sua opera la rivelazione della grazia di Dio, cioè della sua misericordia, del suo hesed, della bontà infinita del Padre; lui solo è la verità: in ebraico l'amen, il sì del Padre a tutte le sue promesse: lui solo può rivelarci chi è Dio, perché lui solo l'ha visto!

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« Nessuno ha mai visto Dio, ma l'Unigenito che è Dio, e che è sempre rivolto verso il Padre, Lui ce lo racconterà. »

"Nessuno ha mai visto Dio!" Si noti quanto segue: "ma l'Unigenito che è Dio" e ripetendo il v. 1: "che è rivolto verso il Padre", cioè che è presso il Padre, lui ce lo racconterà.

Solo Dio può parlarci di Dio‑Padre, e questo è possibile perché l'Unigenito ha assunto la nostra natura umana e perché usa parole umane: "Ce lo racconterà". È il verbo più adatto, e per questo scegliamo Leon Dufour, tralasciando altre traduzioni.

Ci sono infatti vari modi di raccontare: con le parole, ma anche con l'agire. Un giorno Gesù disse: « Il Figlio non può fare nulla, se non quello che vede fare dal Padre. Quello che il Padre fa, anche il Figlio lo fa » (5,19).
Perciò il suo agire è un raccontare il Padre, anzi è un vedere il Padre.

Come disse a Filippo: « Chi vede me, vede il Padre » (14,9).

Anche il suo parlare è un raccontare il Padre: « Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso, ma il Padre... » (14,10).

Perciò: chi imita Gesù, chi è in contemplazione di Gesù, chi annuncia quello che Gesù ha detto, è con Gesù "rivolto verso il Padre", in intima comunione con il Padre.

Per concludere: leggere, meditare il Vangelo di Giovanni significa essere in continua contemplazione del Padre. E così vero questo, che nel suo Vangelo leggeremo per oltre cento volte la parola "Padre" in riferimento a Dio, e chi lo fa meditando sentirà il bisogno di dire, nella lingua di Gesù: "Abbà, Papà". E l'invocazione più bella per sentire, e sperimentare, la vicinanza di Dio.

(grazie a Pino Rutigliano)


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