Io, Agenore, re di Micene

di Det0

La cosiddetta "Maschera di Agenore" ritrovata a Micene
La cosiddetta "Maschera di Agenore"

 

Questa è la storia di un grande condottiero, eroe e re; ma voglio che sia lui a raccontarvela. Vi basti sapere che il suo nome ha un che di fatidico, poiché significa "Condottiero d'uomini".

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Guardando quest’alba mi torna alla mente quella mattina, nella quale non sapevamo se saremmo sopravvissuti o morti, se ne saremmo usciti vincitori o vinti.

Io, Agenore, re di Micene, non smetterò mai di ringraziare gli dei per ciò che mi hanno presagito; era la notte tra il 29 e il 30 del mese di metagittione dell'undicesimo anno del mio regno [19-20 settembre 1207 a.C.], durante il sonno sognai la mia patria, Micene, data alle fiamme, la porta dei leoni rasa al suolo, donne urlanti, il palazzo reale caduto e cadaveri dei miei soldati più fidati a terra in un bagno di sangue, e dopo pochi minuti di agonia e paura, un soldato mi scagliò una freccia colpendomi dritto in petto; al mio risveglio cercai di spiegarmi questo strano sogno.

Il giorno seguente mi recai dal sacerdote di Apollo, che mi rivelò che quello che avevo sognato era, in realtà, non un sogno, ma un auspicio, un presagio divino, i grandi dell’ olimpo volevano avvertirmi di una guerra incombente.

La cosa strana era che Micene e i micenei vivevano un periodo di pace, dopo la guerra di Troia le ricchezze si erano diffuse in tutta la Grecia e il commercio era più florido che mai, grazie alle colonie fondate in Esperia e nel nord della Grecia.

Anche se, nel pomeriggio, mi furono riferite alcune confuse notizie: si diceva che Krodos, in Calcidica, era stata distrutta; Lokion, sulla costa occidentale del Mar Egeo, era stata data alle fiamme; e Larissa, in Macedonia, era stata saccheggiata, tutto ciò per opera di una popolazione straniera, molti non sapevano chi loro fossero, ma alcuni li chiamavano Dori…

Allora mi convinsi, e capii che la mia terra era in pericolo, e io avevo il dovere di difenderla, allora convocai gli anziani della gherusia e il lawagetas, e li avvisai di ciò che era successo, ma nessuno mi credette, dopo alcuni minuti di discussioni arrivò nella sala del consiglio un messaggero, diceva che i Dori avevano conquistato Sesklo, e la avevano imposta come loro capitale, e non avevano intenzione di fermarsi.

Allora tutti si convinsero che bisognava intervenire, o la Grecia sarebbe stata invasa, si decise, infine di inviare un diplomatico a Sesklo, per parlare con i Dori e fermare la loro avanzata, la gherusia decise di mandare Cretobo, mio caro amico (pur appartenendo al damoi), io rifiutai, era una missione pericolosa, poiché i Dori erano una popolazione molto bellicosa, ma la gherusia insistette nell’inviare Cretoso, che non tornò da Sesklo, e alcuni messaggeri mi riferirono che era stato ucciso dopo la richiesta di fermare l’offensiva, allora preso dalla rabbia dichiarai guerra ai Dori.

Era il primo giorno del mese di boedromione [21 settembre], e si stavano cominciando i preparativi per la guerra; Anessore, il lawagetas di Micene, riunì tutti gli altri generali della Grecia per organizzare un attacco, ma poche città aderirono all’iniziativa, poiché non vedevano negli invasori un pericolo.

Tulvio, generale ad Atene, organizzò un attacco via mare a Sesklo, mentre Anessore e i lawagetas di Tirinto, Corinto, Megara e Sparta riunirono le truppe per attaccare la capitale dei Dori.

Mi chiesi perché le città di Pilo e Cnosso non fossero intervenute, ma scoprii che erano attaccate dai Popoli del Mare, che stavano per sottometterle; allora una parte dell’esercito radunato per la guerra contro i Dori scese in Messenia e a Creta per difenderle.

Entro pochi giorni, i territori a sud erano stati riappacificati ma c’erano state grandi perdite nell’esercito; intanto, a Micene, le truppe per l’operazione dorica erano pronte: 200 cavalieri, 800 fanti e una flotta di 70 navi; Sesklo sarebbe caduta.

L’esercito era pronto alla partenza, allora, ormai sotto la porta dei leoni, guardai mia moglie e le sussurrai: « Da questa porta rientrerò. »

Non c’era tempo per un bacio, per un abbraccio, gli uomini veri non se lo possono permettere... in mattinata partimmo alla volta di Sesklo.

Dopo alcuni giorni di viaggio arrivammo sul fiume Gla, e ci riposammo nella rocca di Orcomene, nel nord della Beozia.

Era notte fonda e ormai dormivano tutti, tutti tranne io, io pensavo alla battaglia, a cosa sarebbe successo la, nella capitale della Doria, che minacciava la libertà della grande Grecia.

Stavo seduto su una roccia mentre sentii dei rumori provenire dalla foresta dall’altra sponda del fiume, e poi una voce che mi sembrava quella di Tulvio; ed era proprio lui, quello sporco ateniese ci aveva tradito, allora cominciò l’avanzata dei dori, che attaccarono Orcomene, io corsi per tutto la rocca per avvertire i miei uomini, ma non feci in tempo a svegliarli tutti, infatti i dori riuscirono a penetrare nella città dalla porta ovest, ma la difensiva si preparò e iniziò la battaglia.

I mirmidoni micenei combatterono con coraggio e onore gli invasori dorici, e ci furono enormi perdite da entrambe le parti; era ormai l’alba e si combatteva ancora e io e Anessore eravamo fianco a fianco e non sapevamo che cosa ne sarebbe stato di noi.

La sanguinosa battaglia continuava, e io confidavo nell’abilità dei miei uomini, ma guardando all’orizzonte vedevo le fila di Dori, ancora pronti a scendere in battaglia; a un certo punto, dalla porta ovest, entrò un uomo a cavallo che incitava i Dori a combattere, era Tulvio, lo vidi, stava avanzando verso di noi, fin quando prese in mano la lancia e la tirò in pieno petto a Anessore, che cadde a terra privo di vita; a quel punto i miei occhi divennero fuoco e il mio cuore si riempì d’ira, avanzai tra i Dori con un furore pari a quello di Ares, il mio animo chiedeva vendetta, mi avvicinai a Tulvio e gli urlai sopra il fragore della battaglia:

« Tu, traditore, ignobile cane, come hai osato fare questo al tuo popolo? Tu, la tua moglie, la tua madre e i tuoi figli morirete trafitti dalla mia lancia e la tua Atene sarà rasa al suolo! »

Subito lo trafissi con la mia spada; la mia vendetta era compiuta, ma non ancora la mia missione. Quindi, con tutta la forza che avevo in corpo gridai: « Micenei, noi tutti, uniti in un solo popolo, animati da uno stesso spirito, possiamo sconfiggere l’universo; e quando il bronzo nemico vi entrerà nelle viscere e le loro frecce vi trafiggeranno, non preoccupatevi, perché il vostro sacrificio sarà ripagato con il sangue! »

Le truppe esultarono e cominciarono a combattere come non mai, in poche ore la battaglia era finita; era il quarto giorno del mese di boedromione [24 settembre 1207 a.C.], e avevamo fermato i Dori, ma non li avevamo ancora sconfitti…

Le gesta degli uomini di Orcomene echeggiarono in tutta la Grecia e allora tutte le città micenee si unirono in un’alleanza per eliminare una volta per tutte il pericolo dorico.

Pochi giorni dopo Micene pullulava di soldati, l’esercito venuto da tutte le parti della Grecia per assediare Sesklo, 7400 fanti, 1300 cavalieri e una flotta di 400 navi, tutti pronti per distruggere la città che aveva messo a repentaglio la libertà della nostra terra.

Il 15 del mese di poseidone [1 gennaio 1206 a.C.] la guerra dorica era finita, dopo tre mesi di assedio Sesklo era stata espugnata, e le città micenee avevano finalmente deciso di unirsi in un solo popolo, in una sola nazione, con un solo sovrano, io, che avevo salvato con il sacrificio dei miei uomini la libertà della Grecia.
Tornato a Micene incontrai mia moglie e le mormorai:

« Ebbene, come ti ho detto, rientrerò da questa porta, ne sono uscito come sovrano di Micene, in partenza per una guerra; eccomi tornato, come re di tutta la Grecia! »

Questa è la mia storia, ora se non vi dispiace, lasciatemi solo ad ammirare la bellezza della mia Micene.

Det0

La Porta dei Leoni a Micene

La Porta dei Leoni a Micene

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Diamo la parola a Lord Wilmore:

Tra l'Iliade e l'Odissea

Lo scrittore della tarda grecità Quinto Smirneo, vissuto nel quarto secolo, ci ha lasciato un poema in metro e linguaggio epico in 14 libri, per complessivi 8770 esametri, intitolato "Posthomerica", cioè "Gli avvenimenti dopo Omero". Ma se un grande poeta della classicità greca avesse scritto un vero e proprio seguito dell'Iliade, in 24 libri come l'originale, per narrare gli eventi che vanno dal momento in cui l'Iliade si conclude fino ai primi eventi narrati nell'Odissea, saldando così i due poemi omerici tra di loro? Ecco secondo me come potrebbe presentarsi un'opera del genere, se fosse stata scritta e se fosse giunta fino a noi:

Libro I: dopo la conclusione dei giochi in onore di Ettore, mentre gli Achei stanno ancora riposando, sul campo di battaglia fa irruzione Pentesilea, regina delle Amazzoni, che ha saputo della morte dell'eroe e corre in aiuto dei Troiani. Viene affrontata in duello da Achille, che la sconfigge e la uccide; togliendole l'armatura, il Pelide si accorge della sua bellezza, si innamora di lei e la piange disperatamente. Tersite si burla di lui, essendosi egli innamorato di colei che aveva appena ucciso, e Achille lo accoppa senza troppi complimenti.

Libro II: Il corpo di Pentesilea è restituito alle Amazzoni che ripartono verso il loro paese per darle sepoltura. A questo punto sopraggiunge Memnone, figlio di Eos, l'Aurora, con i suoi guerrieri etiopi, e risolleva le sorti dei Troiani, ferendo Aiace Telamonio (è l'unico nemico a riuscirci veramente) e inseguendo il carro di Nestore, il cui auriga è stato ucciso da Paride. Memnone uccide Antiloco, figlio di Nestore, che era accorso in aiuto del padre, e il corpo del giovane è preso dai guerrieri etiopi ma, prima che venga spogliato delle armi, viene recuperato da Achille, particolarmente affezionato ad Antiloco.

Libro III: Memnone giura di uccidere Achille e lo affronta in un lungo duello. Teti ed Eos, madri dei due eroi, si recano da Zeus per perorare la causa dei figli, ed allora il Cronide pone le sorti sulla bilancia del Fato, che pende dalla parte di Achille: Memnone cade colpito a morte. Eos rende gli onori funebri al figlio e, mentre il corpo di quest'ultimo brucia sulla pira funeraria, dalle ceneri nascono due stormi di uccelli immortali detti Memnonidi, che ogni anno combattono fra loro sul cielo di Troia.

Libro IV: Achille infuria contro i Troiani, riducendoli a mal partito. Apollo tenta invano di fermarlo: Achille minaccia persino lui. Mentre però guarda verso gli spalti delle mura di Troia per urlare a Priamo che finalmente conquisterà la città, scorge accanto a lui Polissena, la più giovane e la più bella tra le sue figlie. In quell'istante Afrodite, alleata con i Troiani, ordina al figlio Eros di colpire l'eroe con una delle sue frecce, ed egli si innamora perdutamente della giovane e la chiede in moglie.

Libri V-VI: Paride, intuita la travolgente passione che ha accecato il Pelide, chiede a Polissena di incontrare Achille e di farsi rivelare il segreto della sua invulnerabilità, ed egli ingenuamente accondiscende. Venuto a conoscenza del segreto, Paride attira il Pelide in un'imboscata e lo colpisce con una freccia avvelenata nel tallone, unico punto vulnerabile, uccidendolo. Aiace Telamonio ed Odisseo combattono contro i Troiani per strappare loro il corpo dell'eroe caduto; Aiace, roteando la sua immensa ascia, si occupa di tenere lontani i Troiani, mentre Odisseo carica Achille sul suo carro e lo porta via.

Libri VII-IX: Inconsolabile dolore di Teti, la divina madre di Achille; gli Achei fanno un grande lutto e gli rendono solenni onori funebri, accompagnati da grandiosi giochi in suo onore. In questi giochi si distinguono Aiace e Diomede.

Libro X: Durante i giochi, Teti pone in palio le armi del figlio, fabbricate da Efesto. Sia Aiace che Odisseo reclamano il diritto di tenere per sé le armi di Achille come riconoscimento del loro valore, dato che ne hanno recuperato il corpo: alla fine, dopo accese discussioni, è Odisseo a spuntarla e Aiace, accecato dal dolore, decide di vendicarsi dei responsabili del verdetto la sera stessa. Tuttavia, impazzito a causa di un incantesimo lanciatogli da Atena, si lancia contro un gregge di pecore e le massacra, credendo di uccidere Agamennone e Menelao. Rientrato in sé, si vede coperto di sangue e capisce che cosa in realtà ha fatto: perduto in questo modo l'onore, preferisce suicidarsi piuttosto che continuare a vivere nella vergogna, e si lancia sulla spada che Ettore gli aveva donato alla conclusione del loro duello. Dal terreno intriso del suo sangue spunta un fiore rosso, che porta sulle sue foglie le lettere "Ai", le quali  rappresentano sia le iniziali del suo nome che il dolore del mondo per la sua perdita. Le sue ceneri sono deposte sul promontorio Reteo, all'ingresso dell'Ellesponto.

Libri XI-XIII: Riaccesa la mischia dopo la morte di Achille e di Aiace Telamonio, i più forti tra i guerrieri greci, i Troiani incalzano gli Achei fino alle loro navi, e solo la notte pone fine alla battaglia.

Libro XIV: A questo punto arriva Neottolemo, figlio di Achille, che rinfranca i Greci: nuova mischia, nella quale Neottolemo uccide Euripilo e costringe i Troiani a rifugiarsi dentro le mura. Mentre Paride rientra in città attraverso le porte Scee, è colpito dalle frecce di Eracle scagliate da Filottete. Agonizzante, l'eroe chiede aiuto alla ninfa Enone, madre di Corito ucciso da lui in un impeto di gelosia ed esperta in erbe curative, che però si rifiuta di aiutarlo; quando ella infine si impietosisce e cambia idea, è ormai troppo tardi. Lutto dei Troiani; Elena viene data in sposa a Deifobo, fratello di Paride.

Libri XV-XVI: Riprendono le battaglie, con incerta sorte e molti caduti, ma alla fine ai Greci appare chiara l'impossibilità di prendere Troia con le armi.

Libro XVII: Concilio degli eroi achei superstiti; a questo punto Odisseo suggerisce di ricorrere allo stratagemma del cavallo pieno di uomini armati. Durante la notte Atena appare in sogno ad Epeo e lo esorta a costruire il cavallo.

Libro XVIII: Menelao, Odisseo ed altri guerrieri greci si nascondono all'interno del cavallo di legno, mentre Sinone, cugino di Odisseo, si offre volontario per trarre in inganno i Troiani. I Greci danno fuoco alle tende, raccolgono ogni cosa e salpano, lasciando il cavallo sulla spiaggia, ma è un inganno: la flotta si nasconde dietro l'isoletta di Tenedo, in attesa del segnale convenuto.

Libro XIX: Al mattino i Troiani scoprono la ritirata dei Greci ed escono pieni di giubilo dalle mura, riversandosi sulla spiaggia. Sinone viene catturato e portato davanti a Priamo, al quale racconta che Odisseo, con il quale aveva un conto aperto, ha cercato con l'inganno di farlo sacrificare per propiziare il ritorno in patria, ma egli è riuscito a fuggire. Egli spiega inoltre che il cavallo è un ex voto offerto a Poseidone, del quale il cavallo è l'animale sacro, in segno di espiazione per i dieci anni di guerra. Convince inoltre i Troiani a portare il cavallo dentro le mura, nonostante Cassandra e Laocoonte si oppongano, perchè temono un inganno. Laocoonte è strangolato con i figli da due serpenti usciti dal mare, e ciò convince ancor più i Troiani a cadere nel tranello.

Libro XX: Dopo un giorno e una serata di festa i Troiani si addormentano, e lo stesso Sinone fa uscire dal ventre del cavallo i Greci che vi si sono nascosti; essi sorprendono i Troiani nel sonno e ne fanno strage, aprendo le porte Scee. Sinone accende sulle mura un segnale luminoso, gli altri Achei tornano a sbarcare, si riversano in città e le danno fuoco, compiendo un massacro. Elena apre le porte della sua stanza a Menelao che trucida Deifobo, e poi si riconcilia con la moglie.

Libro XXI: Ettore appare in sogno ad Enea e lo esorta a fuggire; egli si carica in spalla il padre Anchise e lascia la casa con il figlio Ascanio e la moglie Creusa, ma quest'ultima resta indietro ed è uccisa, mentre gli altri riescono a stento a fuggire con la protezione di Afrodite. Priamo è assassinato da Neottolemo, mentre Aiace Oileo penetra nel tempio di Atena e commette un sacrilegio violentando la sacerdotessa Cassandra; la dea se lo lega al dito e provocherà la sua morte in un naufragio.

Libro XXII: Al mattino i capi degli Achei spartiscono il bottino e le prigioniere. Siccome Achille appare in sogno agli amici e pretende anche lui una donna, Polissena è sacrificata sulla tomba del Pelide. Astianatte, giovane figlio di Ettore e Andromaca, è ucciso perchè non vendichi il padre; Andromaca è presa come schiava da Neottolemo. Cassandra tocca invece ad Agamennone, cui predice la morte per mano della moglie Clitemnestra e del suo amante Egisto, ma l'Atride non le crede.

Libro XXIII: Mentre Enea, di nascosto dai Greci, costruisce delle navi per cercare una nuova patria oltremare, gli Achei si organizzano per tornare a casa. Ma Apollo e Afrodite chiedono e ottengono da Zeus la vendetta per i crimini commessi dai Greci durante la presa della città, e così per loro si preparano dei tristi ritorni.

Libro XXIV: La sorte peggiore tocca ad Odisseo, colpevole di aver ordito l'inganno del cavallo che aveva segnato la fine di Ilio: dopo aver saccheggiato la città di Ismara, nella terra dei Ciconi, dove un indovino gli profetizza il difficile viaggio di ritorno, le dodici navi della sua flotta perdono contatto con quelle degli altri re greci a causa di una tempesta che si abbatte su di loro, smarriscono la rotta verso Itaca, ed hanno così inizio le peregrinazioni dell'Odissea.

Che ne pensate?

Lord Wilmore

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Gli risponde Tommaso Mazzoni:

« Cantate, o Muse, i valorosi eroi,
gli scontri, le contese tra gli déi,
le astutissime trame del Laerziade
che, dopo dieci anni di battaglie,
condussero gli Achei a abbatter Ilio,
orfani del Pelide, ma trionfanti... »

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E Bhrihskwobhloukstroy aggiunge:

Che lavoro... Come hai fatto? Complimenti!
«Un grande Poeta della Classicità» sarebbe uno di quelli noti o uno ignoto? Nel primo caso, io proporrei lo stesso Omero.

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Tommaso si informa:

Scusa, ma non è ormai accertato che di Omeri ne esistono almeno due? Nel senso che Iliade ed Odissea hanno padri diversi?
Se è così, l'autore del poema suddetto sarebbe... un terzo Omero, che avrebbe caratteristiche diverse dagli altri due!

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William Riker propone:

Ottima risposta. E se questo Omero fosse Lesche di Mitilene? Altro che "Piccola Iliade"...

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E ora, le proposte del Marziano:

Le Figure Femminili nella Tragedia Classica:
Alcesti, Medea, Didone

Le letterature di tutto il mondo, di frequente, hanno assorbito elementi di miti più antichi e li hanno sistematizzati.

Un tratto comune è lo schema narrativo, dicono gli esperti "l'ARCHETIPO", che si occupa della descrizione della devozione femminile per il proprio amato e, per riflesso, della sua furia vendicatrice quando è respinta.

Alcesti è un ammirevole modello di devozione. Apollo aveva ottenuto dalla personificazione della morte THANATOS che Admeto, lo sposo di Alcesti, poteva proseguire i suoi giorni su questa terra, se qualche parente si fosse offerto per morire al suo posto. Apollo pensava che sarebbe stato uno degli anziani genitori. Al loro rifiuto, la moglie si offre. Apollo cerca in tutti i modi di nuovamente convincere THANATOS a risparmiare la ragazza, ma non è più possibile. Dovrà intervenire Ercole a sottrarla agli inferi.

Medea è, all'opposto, il modello della vendetta della donna respinta. Mentre Alcesti è rappresentata come una nobile principessa, Medea è una barbara, una strega straniera che, per amore dell'eroe Giasone, ha tradito il suo popolo ed ha consegnato ai 50 guerrieri della nave parlante Argo il Vello d'Oro.

Giasone non la aveva mai veramente amata. Al suo ritorno in Grecia, Giasone non esita a convolare a nozze con la promessa sposa, che lo attendeva. Medea si vendica nel modo più orribile. Emula le gesta del mitico re Tantalo, che, avendo ospiti a pranzo gli déi dell'Olimpo, per offrire loro la pietanza più squisita possibile aveva cucinato i propri figli.

Medea uccide i figli che lei e Giasone avevano avuto e fa in modo che gli invitati al banchetto di nozze li mangino, quindi si presenta a porgere i propri auguri agli sposi, rendendoli edotti circa la natura dell'arrosto che stavano mangiando.

Nella sua figura, si vedono dei tratti di propaganda "politica". La Colchide, il paese da cui proviene Medea è posto ad oriente dell'"OEKUMENE", il mondo ellenico. Il dipingere gli Orientali in modo tanto truce, è un elemento che s'inquadra nella strategia dello scontro con l'impero Persiano.

Nella figura di Didone, l'elemento propagandistico, non solo è ancora più spiccato, ma anzi la vicenda è esplicitamente invocata per dare una spiegazione mitica allo scontro tra Romani e Cartaginesi. La regina Didone, vedova del re fenicio Sicheo, spodestato ed ucciso dal fratello, aveva condotto i suoi fedeli dalla città di Tiro, fin sulle coste dell'Africa settentrionale. Gli esuli fenici avevano ottenuto dal locale Re, la concessione del diritto ad occupare tanto terreno quanto ne sarebbe entrato in una pelle di bue conciata. Tale concessione era derisoria, però, la regina Didone, era stata tanto astuta, da far uscire terreno sufficiente a fondare una città. Aveva fatto tagliare la pelle in striscioline sottilissime.

Era vissuta sempre nel devoto ricordo del marito ucciso. Aveva sempre respinto le offerte di matrimonio che le erano giunte da nobili di tutto il mondo. Il fascino di Enea (non dimentichiamo che era sempre figlio della déa Venere), la narrazione delle gesta che lo avevano visto protagonista prima, durante e dopo la Guerra di Troia, etc., le fanno cambiare idea. Si offre all'ospite. Gli fa presente che, se cerca una casa per sé e per il proprio popolo, Cartagine è a disposizione. Enea sta valutando positivamente la proposta, quando gli déi lo avvisano che la sua destinazione non è quella, bensì è il Lazio.

Allora Enea parte di nascosto. Didone, che, proprio poiché temeva ciò, aveva rubato l'armatura di Enea e la stava distruggendo, quando vede le navi partire, si uccide con la spada dell'eroe, non prima di averlo maledetto ed aver sentenziato che tra i loro popoli ci dovrà essere sempre rivalità ed inimicizia.

Ecco dunque ciò che ho pensato riguardo ad Alcesti.

1) L'ucronia di Luciano De Crescenzo: Alcesti NON si offre.
L'Ingegnere giornalista/scrittore umorista (ma anche attore e regista) partenopeo Luciano De Crescenzo, nell'esposizione del mito che fa nel breve sceneggiato relativo che girò negli anni '90, da questa versione: né la moglie, né alcuno dei genitori, né perfino dei feriti in battaglia, già agonizzanti di loro, accettano di offrirsi al posto di Admeto. THANATOS ha facile gioco nel dimostrare che ben di rado perde, quando accetta di queste scommesse:

1a) Admeto lascia questa valle di lacrime, semplicemente così. la sua è l'ennesima dimostrazione di quanto siamo vili noi uomini;
1b) Ercole riesce a liberarlo dagli inferi. Odierà moglie e genitori? Comprenderà che non tutti si sentono chiamati a fare gli eroi? Lascerà la moglie (o addirittura la ucciderà) e, magari si unirà con un'altra eroina celebre, magari con la stessa Medea che troviamo più avanti? Oppure, e qui facciamo un cross-over con il punto seguente lascerà il mondo mediterraneo e raggiungerà quello celtico-vichingo, dove si unirà con la gigantessa Thokk, protagonista di una vicenda simile, con Balder?

2) Si compiono gli auguri e le speranze di Apollo: si offre il padre.
Ercole andrà comunque a salvarlo? O, pensando che si tratta di un anziano, non se ne interesserà? Ciò incrinerà l'amicizia con Admeto? Il nostro figliolo devoto, in ogni caso si farà promotore di un culto semi-divino per il padre?

3) Alcesti si offre, ma Ercole non può (o non vuole) salvarla.
Admeto per la disperazione se la prende con il padre e si ribella. Si rinnovano gesta del tipo dei Sette contro Tebe, con Admeto schierato contro la città natale. Come si conclude?

4) Ercole non può (o non vuole) salvarla.
Allora Admeto emula le gesta di Orfeo, o meglio ancora, lo accompagna nel viaggio nell'altro mondo. E se l'impresa riesce a Admeto e non ad Orfeo? O viceversa? Scoppiano scontri tra i due eroi?

5) Ultima Thule.
Ci sono tracce che fanno pensare all'arrivo di navigatori Fenici e, prima ancora, Cretesi nelle isole Faorer. E se questi contatti non sono solo così episodici? Alcesti non va sposa ad Admeto, ma a Balder.. La giovane vedova convince la gigantessa Thokk a piangere la morte di Balder, ottenendone, così, il ritorno in vita. Oppure, poveretta, la sua offerta basta a convincere Hela (equivalente germanico di T
HANATOS), e così il Ragnarok è rimandato...

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Ecco invece le ucronie mitologiche pensate da MattoMatteo:

Medea:
Medea non uccide i figli avuti da Giasone, ma li porta via con se quando  fugge dalla città; si rifugia ad Atene e sposa Teseo, che ha dato il benservito a Fedra oppure proprio non l'ha sposata (così Ippolito non ci rimetterà le penne). I figli di Medea verranno allevati nell'odio verso il proprio padre e i figli che lui ha avuto dall'altra donna; questo farà scoppiare un rivalità feroce tra Corinto, la città di cui Giasone è divenuto re, ed Atene, di cui Medea è diventata regina. Una rivalità simile a quella tra Sparta e Atene ai tempi di Pericle: avremo una Guerra del Peloponneso anticipata di 700 anni, e Omero canterà questa, e non la guerra di Troia!

Didone:
Gli dei dicono ad Enea di partire da Cartagine, perchè non è quella la destinazione a cui è diretto... ma non gli hanno mai detto di abbandonare lì Didone! Enea riesce a convincere la donna a venire con sé, e lei accetta; parte dei Troiani resta a Cartagine, mentre alcuni dei servi di Didone prendono il loro posto; una volta arrivati nel Lazio, Enea e Didone fondano Nuova Ilio, che manterrà costanti rapporti commerciali e di amicizia con la sorella Cartagine.

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C'è spazio pure per la battutina di Andrea Villa:

Odisseo sbarca nella terra dei lotofagi, li vede tutti ebeti e chiede:
"Ma perchè avete cominciato a mangiare quella droga?"
Un lotofago: "Per dimenticare, no?"
Odisseo: "Per dimenticare cosa?"
Altro lotofago: "BOH... CHI SE LO RICORDA??"

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Chiudiamo per ora con un racconto di Ainelif:

Il tramonto

Nell'isolotto della Grande Capitale dell'Impero si ergeva sempre imponente quel grande palazzo, quel castello antichissimo appartenuto alla Grande Dinastia Regnante di quel loro Impero di epoche d'oro passate, e di quell'epoca tetra che il Principe Eduard legittimo successore ed erede al trono imperiale guardava dai giardini del palazzo, alle sue spalle le luci della Capitale, luci spente e sparute rispetto al passato glorioso quando la città si riempiva di feste, balli e canti con le sue taverne e i suoi bar di intellettuali sempre molto animati. Cosa rimaneva della festa di quella sconfinata città distrutta dalle bombe e dalle violenze? I nemici erano penetrati nelle città più importanti dell'Impero, la gente era fuggita, i sudditi che avevano giurato fedeltà alla guerra e all'Imperatore che l'aveva appoggiata e voluta col beneplacito di ministri e consiglieri erano anch'essi emigrati e fuggiti sulle montagne o in Stati vicini, forse non ci avevano mai creduto nella guerra, l'invio alla morte di centinaia di migliaia di sudditi per sacrificare la patria era costato caro all'Impero che ora stava crollando inevitabilmente, il Sacro Imperatore non sarebbe mai riuscito a ricongiungere i pezzi che si perdevano, i popoli che convivevano all'interno del suo immenso regno ora non riconoscevano più il suo potere e avevano deciso di ribellarsi a Sua Maestà, alla guerra e ai nemici invasori.

Il Principe Eduard si avvicinò alle rive del lago nel quale al centro sorgeva l'isola del Palazzo dove da secoli risiedeva la famiglia imperiale, forse ora il lago sembrava un ulteriore distacco dell'Imperatore dai suoi sudditi sofferenti nella città morente e sofferente, Sua Maestà era stanco e anziano, l'Imperatrice si recava spesso a visitare gli ospedali, mense dei poveri, dava il suo contributo e il suo sostegno, nemmeno ella amava la guerra e si dice si fosse opposta alle decisioni politiche del marito, sapeva che il loro regno non avrebbe retto ad un conflitto di proporzioni globali e così fu. Eduard fu colpito da un esplosione che coinvolse un intero quartiere aldilà del lago, un'antica torre crollò come un castello di carte sulla strada, gli sembrò quasi di sentire le urla disperate di chi non aveva più niente, niente più genitori, amici, niente più una casa, il Principe si sentiva inutile, impotente, responsabile di quel disastro, gli venne rabbia, volle urlare al cielo il suo dispiacere per tutto quello, nei giorni precedenti lesse sul giornale cittadino che gruppi fanatici avevano bruciato vessilli imperiali, abbattuto statue e demolito simboli della Grande Dinastia, la famiglia di Eduard, ritenuta codarda per la miseria che dilagava in tutto il loro Impero mentre continuava a vivere nell'isola dorata al centro di una Capitale inesistente.

Improvvisamente scese la neve, il cielo grigio ed oscuro trasportò una bufera che sferzò il loro regno, quasi come se il ghiaccio volesse seppellire quella tristezza, quelle decisioni insensate e quella famiglia imperiale che non era riuscita ad opporsi al corso degli eventi. Il nemico disponeva di tecnologie superiori alle loro, gigantesche macchine volanti sorvolavano i cieli dell'Impero e vi sganciavano ordigni letali, erano quelli che sembravano gli ultimi giorni del conflitto perduto, Eduard avrebbe voluto decollare col suo aereo da combattimento e dirigersi verso le flotte aeronavali a sparare in onore di suo padre e della patria.

Una bomba-missile colpì una torre del Palazzo disintegrandola, l'esplosione scaraventò il Principe nell'acqua gelida del lago. Neri vascelli del cielo sorvolarono il castello e lo circondarono, i teschi con vessilli neri vennero lanciati come volantini sull'isola, la Corte composta da maggiordomi, cameriere, badanti, fedeli consiglieri, ministri e tutti i componenti della schiera dell'Imperatore uscì dal castello a raccogliere i vessilli, a guardarsi intorno, Eduard ferito fu subito soccorso dai medici di Corte e trasportato dentro.

Il Principe Eduard si risvegliò poche ore dopo, la stanza era buia, notte fonda, dalla finestra una luce illuminava di poco l'infermeria quasi nelle tenebre, aveva un'emicrania doloroso, cercò di non badarci, si guardò intorno, non riconobbe il luogo. Ripensò all'attacco dal cielo poco prima, scese dal letto e si affacciò alla finestra, video la Sala da Ballo, quella che fino a pochi mesi prima era sede di ricevimenti dei potenti del regno dei suoi genitori con grandi feste ed orchestre, tutto quello sfarzo era sparito, la sala era vuota, buia e al centro un grande tavolo di mogano con cartine, documenti, e riconobbe suo padre, l'Imperatore in divisa militare che indossava per occasioni particolari oltre che importanti, la sua corona d'oro, platino ed argento illuminava la sala con il suo scintillio luccicante e sfarzoso, di fronte a lui figure vestite di nero, con baffi spioventi, uno di questi con una croce nera su uno sfondo bianco e contornata da un cerchio rosso si sedette di fronte a Sua Maestà, la finestra era socchiusa e Eduard riuscì a sentire tutto il dialogo. "L'Impero, il vostro Impero è caduto Vostra Maestà, è in totale sfacelo, non esiste più. Vi chiedo gentilmente di accettare la resa unica ed incondizionata delle forze del vostro esercito al fronte e porre fine alla guerra per il vostro popolo. Noi, Generali della Coalizione Anti-Imperiale in conflitto col vostro popolo da circa sei anni abbiamo ottenuto finalmente dopo drammatiche battaglie sanguinose la vittoria finale sul vostro regno decaduto, i popoli che convivono nella vostra grande nazione non vi riconoscono più come loro Sovrano né come legittimo governante, la Capitale è occupata e in nostro possesso, ciò che rimane del vostro grande ed esteso Impero ora è ridotto a questo sontuoso castello e a questa grande sala dove noi chiediamo la vostra formale firma per l'abdicazione e la rinuncia al trono e a qualsiasi pretesa sulla Corona di questa nazione. Vi chiediamo inoltre ed infine di non opporre una qualsiasi resistenza delle ultime forze rimaste in vostro sostegno ed aiuto, sarebbe inutile e controproducente. Noi dichiariamo solennemente con questa ultima pronuncia che l'Impero finisce questa notte buia e tempestosa e con esso finisce la guerra."

L'Imperatore guardò per pochi secondi i Generali e poi guardò i fogli e documenti da firmare con una stilografica, lo sguardo si incupì, Eduard vide una lacrima scendere da una guancia del grande padre, era finita, era davvero finita. Il padre firmò tutti i fogli, si alzò in piedi e il Generale si avvicinò e gli levò lentamente la Corona imperiale, l'ex Imperatore si inginocchiò e disse: "Da questa notte buia e tempestosa dichiaro di non essere più Sovrano di questa terra, di non pretendere più il trono di questa terra. Dichiaro che l'Impero non esiste più".

I Generali sorrisero e gridarono solennemente "L'Impero è caduto, abbiamo vinto!" dai grandi portoni entrarono due piccoli carri armati e numerosi soldati che spararono sui vessilli imperiali, finestre ed affreschi raffiguranti la famiglia dell'Imperatore. Era il tramonto...

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