De Terra Incognita Sed Nunc Reperta

di William Riker


Anno del Signore 1333. Riccardo di Bury, vescovo di Durham e cancelliere di Edoardo III, si reca ad Avignone, per un'ambasceria presso Giovanni XXII. Durante il soggiorno francese conosce il grande poeta Francesco Petrarca. Tra le tante cose di cui parlano, come ricorda il poeta nelle sue Familiares, vi è la leggendaria Ultima Thule, la misteriosa terra al di là dell'Oceano di cui favoleggiavano i geografi antichi. Una volta tornato in patria, il vescovo ne parla con re Edoardo III di Inghilterra.

"Già San Brendano, otto secoli fa, ha varcato l'oceano", gli spiega, "e a bordo di un guscio di noce. Le nostre navi potrebbero facilmente ripetere l'impresa, e voi potreste aggiungere un nuovo dominio alla vostra corona."

Il re scuote la testa: "Veramente io ho altri progetti. Cinque anni fa, con Carlo IV, si è estinta la dinastia dei Capetingi di Francia, come aveva predetto il Gran Maestro dei Templari, Jacques de Molay, fatto ardere vivo da quel demonio di Filippo il Bello. Ora la corona è passata a Filippo VI di Valois, ma io intenderei far valere i miei diritti e..."

"E aspirare al trono di Francia, maestà?"

"Perchè no? Dopotutto Guglielmo il Conquistatore veniva lui pure dalla Francia. Siamo della stessa razza, noi e loro. Perchè un re solo non potrebbe governare sia le Gallie che la Britannia?"

"Dubito che i Francesi accetterebbero di buon grado un sovrano straniero, maestà. La guerra che scatenerebbero contro di voi potrebbe essere lunga e sanguinosa."

"Non vedo perchè noi Plantageneti dovremmo aver paura di attaccare battaglia con i Valois. Sono disposto a guerreggiare anche per cento anni, se necessario!"

La visione di una guerra secolare sconvolge Riccardo di Bury, che fruga nel suo ingegnoso cervello ed alfine tira fuori dal cilindro l'idea giusta:

"Che ne direste se vi proponessi di conquistare un regno, anzi un impero, senza bisogno di versare neppure una goccia di sangue inglese?"

"Che siete più visionario di quel poeta italiano, Dante Alighieri mi pare si chiamasse. Oppure che ad Avignone quel vostro amico, Francesco Tetrarca, vi ha riempito la testa di corbellerie romantiche."

"Si chiama Petrarca, maestà. E lui è il massimo conoscitore vivente dei classici latini. Se lui mi ha narrato di una grande terra dalle ricchezze immense, di cui hanno parlato sia Strabone che Plinio il Vecchio, ebbene, sa quello che dice. A quale dei vostri sudditi voi dareste retta, se vi assicurasse che può conquistare il regno di Francia in una settimana, pur non essendo mai sceso di persona su un campo di battaglia? O a quale predicatore voi prestereste ascolto, se cercasse di dimostrarvi la falsità della Santissima Trinità dopo aver studiato teologia solo per tre giorni? Invece Petrarca studia i classici antichi praticamente fin da quando succhiava ancora il latte materno. Mi ha assicurato che al di là del mare c'è una terra immensa, visitata anche dagli Argonauti greci e da Pitea il marsigliese, al cui confronto le terre d'Europa appaiono piccole e povere come le isolette rocciose al largo della Cornovaglia."

Edoardo III comincia a mostrarsi interessato. "Un regno immenso e ricchissimo di là dall'oceano? Ma di là dall'oceano non c'è solo l'Inferno, alla porta del quale sta acquattato lo spirito di Caino, pronto a ghermire gli incauti naviganti spintisi sin laggiù?"

"Baie, mio sire. Leggende messe in giro dai marinai ubriachi negli angiporti di Bristol e di Portsmouth, per stupire le prostitute alle quali si accompagnano. Inferno e Paradiso sono altre dimensioni che nulla hanno a che vedere con la nostra, e non esiste alcuna porta degli Inferi in alcun angolo del globo terracqueo. Di là dal mare ci sono altre terre, e possono essere tutte vostre, se impiegate le vostre energie per raggiungerle, anziché per far guerra ai Valois!"

Il re congeda Riccardo, ma per un'intera notte non riesce a dormire, assillato dalle parole del vescovo. Il mattino dopo lo fa riconvocare d'urgenza.

"Ho deciso di darvi retta, monsignore. Dopotutto il mio esercito non è ancora pronto per la guerra in terra di Francia, e mentre lo rafforzo può valere la pena verificare se questo Petrarca ha ragione a consumarsi la vista sulle sue scartoffie polverose. Armerò tre navi nel porto di Southampton: quella città mi deve delle corvée, e me le pagherà fornendomi gratuitamente uomini e mezzi."

"Ed esse partiranno alla ricerca dell'Ultima Thule?" esulta Riccardo, che non sta più nella pelle.

"Non è esatto", lo gela il sovrano. "VOI partirete verso l'Ultima Thule. L'idea è vostra, mi sembra; non credo che lascereste partire le navi senza voler essere della partita."

Riccardo di Bury impallidisce di colpo, ed il sangue gli abbandona i piedi. "I... io? Ma sire, non sono un capitano di vascello... ne sutor ultra crepidam..."

"Suvvia, mettere in soffitta il latinorum, monsignore. Siete un ecclesiastico, no? Ebbene, quei bravi uomini di mare avranno bisogno di qualcuno che rammenti loro di essere dei cristiani, quando saranno in mezzo all'oceano. Il ruolo di legato ecclesiastico e guida spirituale della spedizione vi si attaglia come una seconda pelle. Siete già stato a Parigi, ad Avignone ed anche alla corte dell'imperatore Ludovico di Baviera; se tra gli uomini della mia corte penso ad un viaggiatore, mi venite in mente voi."

"Sì, ma Avignone non è di là dall'oceano. E a Durham..."

"Il vostro ausiliare farà benissimo le vostre veci, mentre voi sarete in giro per il mondo in cerca di avventure. Commendo a voi l'organizzazione della spedizione. Per allestirla avete un anno di tempo a partire da questo momento. Ah, dimenticavo: buona fortuna."

"Sono morto", pensa il vescovo mentre lascia la sala del trono con il passo di chi sale i gradini della forca. "Nessuno è mai tornato da un viaggio al di là dell'oceano. E per di più, se fallisco, il re muoverà guerra alla Francia e scatenerà una guerra che falcidierà il fior fiore della gioventù d'Inghilterra. Il destino non di una, ma di due nazioni è nelle mie mani: san Tommaso Beckett, salvami tu! Ma forse c'è anche un uomo mortale che può aiutarmi in maniera decisiva."

* * *

E così, con il permesso del re Riccardo di Bury riparte per il continente, alla volta di Avignone, dove Petrarca vive e lavora in qualità di cappellano e bibliotecario al servizio del cardinale Giovanni Colonna. Il poeta lo accoglie con gioia e lo sta a sentire mentre, con voce quasi piagnucolosa, l'amico gli descrive la trappola in cui il re d'Inghilterra lo ha rinchiuso. Ad un tratto però salta in piedi con aria quasi di tripudio:

"E' fantastico, Riccardo! Il Plantageneto ti ha dato retta, ti rendi conto? Per una volta non ha voluto solo usare i suoi maledetti scudi solo per gozzovigliare o per muover guerra a qualche barone riottoso, ma per finanziare una spedizione scientifica!"

"Ne parli come se si trattasse di andare in pellegrinaggio a Santiago di Compostella, Francesco."

"E tu ne parli come se si trattasse davvero di finire diritti nella bocca dell'Inferno. Il vero sapiente non ha paura di nulla, perchè la sua saggezza gli indica come districarsi in ogni occasione, anche la più disperata."

"Vuol dire che io non sono sapiente come te. Senti, vuoi essere della partita? Tu sei il più grande intellettuale europeo vivente, e la tua conoscenza degli antichi geografi mi sarà fondamentale."

"E me lo domandi? Se tu non volessi, mi chiuderei in un barile pur di venirci. Certo, non sarà facile convincere il cardinal Colonna a lasciarmi partire, ma se il Santo Padre ci mette una buona parola, potrei anche riuscirci. Dopotutto mi deve un favore, dopo che l'ho rappacificato con il duca di Guascogna." Con un sospiro, aggiunge: "Sarà ancora più duro non rivedere Laura de Noves per molto tempo. Ma noi uomini di lettere e di scienza dobbiamo essere disposti a qualunque sacrificio, in nome del progresso."

"Se non sapessi che il tuo amore per la marchesa de Sade è solo platonico, mi preoccuperei seriamente, Francesco. E non solo per il fatto che sei obbligato al celibato dopo aver preso gli ordini minori: il marito della tua diletta Laura è infatti noto come un uomo che prima passa da parte a parte con il suo fioretto, e poi accetta le scuse altrui. Non mi stupirebbe se un giorno coniassero un nuovo aggettivo: « sadico »."

"Stai tranquillo, Riccardo, non ho intenzione di farmi infilzare come un tordo da quel buzzurro che, se gli fosse data in mano una penna d'oca, la impugnerebbe come un pugnale. Beh, vorrà dire che approfitterò della lontananza da Avignone per proseguire il mio canzoniere in volgare italiano in onore di donna Laura, ispirato dalla nostalgia d'amore. I poemi latini che spero mi renderanno famoso come Virgilio, il De Viris Illustribus e il De Africa, possono aspettare; tanto più che, se le cose andranno come dico io, presto si potrà scrivere un nuovo poema, intitolato De Terra Incognita Sed Nunc Reperta!"

* * *

Due mesi dopo, due uomini in vesti europee si aggirano tra i suk e i palazzi turriti in tipico stile arabo di Granada, l'ultimo ridotto della dominazione musulmana in Spagna dopo l'efficace Reconquista operata dai re di Castiglia, Aragona e Portogallo nel corso dei secoli XI, XII e XIII della nostra era. Uno dei due è vestito in borghese come l'altro, ma a differenza sua si porta in continuazione la mano al petto per toccare la croce vescovile che porta sotto l'abito di lino tinto di scarlatto. Il suo compagno se ne accorge e gli dà di gomito:

"Andiamo, Riccardo, rilassati. Siamo ancora in Europa, non nella mitica terra di Thule, abitata da giganti con un piede solo o con la testa nel petto!"

"Sì, ma se questi infedeli si accorgono che sono un vescovo, come minimo mi martirizzano! Mi domando come mai non ci abbiano ancora chiesto di bruciare incenso ad Apollo, per poter entrare nella loro capitale!"

"Ti ho già spiegato che i musulmani adorano un solo Dio come noi, e non una immaginaria trinità formata da Apollo, Macometto e Trivigante, come asseriscono i poemi cortesi", insiste Francesco Petrarca, soffermandosi un attimo ad osservare incuriosito le spezie orientali in vendita in una bancarella del suk. "Inoltre gli arabi di Granada sono molto tolleranti, e vivono in pace con i cristiani e gli ebrei del sud della Spagna. Il mito del maomettano sanguinario che segna una tacca sull'impugnatura della scimitarra ogni dieci cristiani uccisi, e non ha più spazio per le tacche, qui viene sicuramente smentito dai fatti."

"Se una folata di vento del sud mi porta via il cappello, e costoro vedono la mia tonsura, mi sa che dovrai rivedere questo tuo benevolo giudizio, Francesco. Se mi tagliano la testa, ricordati che dovrai recarti pellegrino a Gerusalemme a piedi per scontare il peccato di avermi condotto quaggiù, in mezzo a questi senza Dio."

"Tu non sei il mio confessore, e non puoi infliggermi penitenze", sorride il poeta fiorentino, acquistando da una bancarella alcuni strani semi verdi, che noi oggi chiameremmo chicchi di caffé dell'Etiopia, e senza neppure accorgersi della delusione del rivenditore, che si era visto dare più del prezzo richiesto senza nemmeno un accenno di quella contrattazione che per gli Arabi è l'anima del commercio. "Comunque l'università è qui dietro, e lì incontreremo finalmente colui per incontrare il quale siamo venuti fin quaggiù."

"Purché tra le materie di studio non ci sia come dare la caccia al cristiano", soggiunge Riccardo di Bury, guardandosi attorno come se si aspettasse che in tutta Granada dovessero tenere d'occhio solo lui.

La promessa del Petrarca comunque si realizza di lì a poco, quando i due viaggiatori occidentali varcano i cancelli del grande centro di studi, e vengono introdotti da uno studente in una vasta stanza traboccante di incunaboli, carte geografiche, sfere armillari, astrolabi e molti altri strumenti di origine orientale, coperti di alfabeti incomprensibili ed il cui scopo è assolutamente difficile da decifrare. In mezzo a tutto quel caos sta seduto un uomo dalla folta barba nera, inguainato dentro un abito bianco e con un elaborato turbante anch'esso bianco sulla testa. Egli è intento ad eseguire complicati calcoli con un abaco d'avorio, ed il suo sguardo oscilla tra il foglio che ha sottomano ed un grande volume di pergamena, tutto coperto di simboli che a Riccardo ricordano serpentelli neri tutti avvolti su se stessi.

"Sei tu Ibn Battuta?" gli domanda Petrarca, poiché egli non ha fatto cenno di alzare lo sguardo dai suoi calcoli.

"Io sono Abu Abdallah Muhammad Ibn Abdallah l-Lawati t-Tangi Ibn Battuta", risponde l'arabo in perfetto latino, senza cessare la propria occupazione. "Servo del Profeta, astronomo di corte dell'emiro di Granada e professore di geografia presso questa università. In che posso servirvi, nobili stranieri?"

"Il mio nome è Francesco Petrarca di Firenze, e questi è Riccardo di Bury...", comincia il poeta, ma subito l'altro lo interrompe:

"...Gran Cancelliere del Re d'Inghilterra, lo so. Non vi ho chiesto chi siete, ma per che motivo siete giunti fin qui per interrogarmi."

I due cristiani si guardano negli occhi. "Tu ci conosci?"

Per la prima volta Ibn Battuta stacca lo sguardo dal suo abaco e li fissa in viso. "Siete proprio forestieri qui a Granada. Non sapete che neppure un pellicano può entrare in volo in una città araba, senza che tutti in men che non si dica conoscano le sue generalità?"

Riccardo sente una mano di ferro che gli blocca il gargarozzo. "Vuoi dire che si sa che un vescovo cristiano è entrato impunemente a Granada..."

"...Vestito da civile e con la tonsura nascosta sotto un cappello a larga tesa che apparirebbe fuori moda persino in Scandinavia?" continua l'arabo, scrutandolo attraverso le punte di fioretto che sembra avere al posto degli occhi, ma con un sorriso seminascosto dal folto barbone. "Si capisce. Ma non aver paura, monsignore: nessuno ti torcerà un capello, qui. Non siamo turchi né tartari, noi."

"Vuoi dire che almeno interrogate i cristiani, prima di farli sbranare dai coccodrilli?" borbotta pallido Riccardo, deglutendo asciutto. Petrarca tuttavia gli assesta un calcio sulla caviglia, quindi si rivolge con sguardo umile al proprio interlocutore:

"Perdonalo, o sapiente. E perdona anche me, ma è la prima volta in vita mia che mi reco in un paese musulmano, anche se per conto del Papa ho già girato l'Europa in lungo e in largo, da Roma fino alla Germania settentrionale."

Le labbra dell'arabo si increspano in un sorriso. "In lungo e in largo. Se tu sapessi quant'è vasto il mondo, probabilmente non useresti quest'espressione per descrivere i tuoi viaggi."

"E' proprio per questo che siamo venuti da te", coglie la palla al balzo colui che darà il suo nome ad Arquà, sui colli Euganei. "Siamo stati incaricati da Edoardo III, re d'Inghilterra e d'Irlanda, signore del Galles e dell'isola di Man, principe di Cornovaglia e di Normandia, eccetera eccetera, di un lungo e periglioso viaggio, per il quale stiamo allestendo la spedizione, ma abbiamo bisogno di un abile geografo e cartografo, uno che abbia esperienza di mare aperto e della lettura delle stelle..."

"E voi, che agite dietro mandato di un re cristiano, venite a proporre a me, seguace del Profeta, di ricoprire quell'incarico?"

"Sì, o nobile Ibn Battuta. Nessuno vi è in occidente pari a te nell'arte dell'astronomia, e nessuno ha viaggiato quanto te fra gli uomini viventi. Il Profeta che tu veneri non ci interessa, ci interessa solo la tua scienza. Sei disposto a prendere parte alla spedizione?"

Il saggio islamico si tormenta la barba con le dita cariche di anelli d'oro. "E dove sarebbe diretta, questa vostra spedizione?"

"Al di là dell'Oceano occidentale."

A questo punto Ibn Battuta si alza in piedi, mostrando di sopravanzare i due cristiani di tutta la testa, tanto che Riccardo si sente nei panni di Davide contro Golia. "Non so se essere più stupito perchè non offrite il ruolo di guida a un vostro correligionario", commenta, "o per la meta che vi siete prefissi. Lo sapete, o incauti, che anche il greco Ulisse tentò il folle volo attraverso di esso, alla ricerca della Terra degli Antipodi, e non fece più ritorno?"

"Ma la nostra meta è chiara: Thule, la terra abitata dagli Iperborei della qui ricchezza favoleggiavano gli antichi. C'è chi dice di averla già raggiunta; perchè non potremmo farcela anche noi, con il tuo aiuto?"

Abu Abdallah Ibn Battuta volta loro le spalle, intreccia le mani dietro la schiena e guarda fuori da una finestra a bifora dagli stipiti finemente intarsiati di arabeschi, come se da essa potesse scrutare al di là del misterioso occidente, e mormora:

"Io ne ho viste, di terre favolose e così ricche da far crollare il prezzo dell'oro alla borsa di Firenze. Ho attraversato il deserto meridionale ed ho visitato il grande impero del Mali, con la sua leggendaria capitale dalle mille moschee e dai duemila minareti. Sono stato al Cairo ed ho visto le meravigliose piramidi, tombe di re pagani ormai dimenticati, che da quattromila anni si ergono a dominare il deserto. Ho girato sette volte intorno alla Qa'aba della Mecca, sono entrato nella Moschea di Al-Aqsa e nella vostra basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme, ho visto gli splendori di Damasco nella cui moschea è sepolto Giovanni il Battezzatore. Ho veduto il profilo dell'Arca di Noè stagliarsi al tramonto sopra le montagne dell'Armenia. In Mesopotamia ho veduto sgorgare dalla pietra un olio che brucia come le fiamme dell'inferno. Ho attraversato le montagne della Persia ed ho varcato i confini dell'India misteriosa, là dove anche Alessandro il Grande dovette volgere indietro l'invitto piede. Ho attraversato la giungla e traghettato le acque del Gange, il Padre dei Fiumi. Ho visto l'unicorno a Sumatra e la Fenice a Giava. Ho studiato costellazioni ignote a qualunque navigatore dei mari boreali. In Cina ho veduto palazzi dalle tegole d'oro e statue di Buddha alte quanto una montagna. Sono entrato nella fortezza di Samarcanda dove si odono parlare tutte le lingue del mondo. Ho visitato Trebisonda e Costantinopoli, Astrakhan e Zanzibar, Cipro e la Somalia; ma mai, mai ho pensato che un essere umano potesse posare i suoi occhi sulla terra che è al di là dell'Oceano."

"Ma proprio l'esperienza acquisita nei tuoi viaggi ti rende in grado di posare i tuoi occhi sull'Ultima Thule", si intromette a questo punto Riccardo de Bury, ormai dimentico del timore del martirio grazie all'atteggiamento pacifico del suo interlocutore, ed ora timoroso soltanto di sentirsi opporre un rifiuto. "Nonostante il viaggio appaia impossibile da portarsi a termine, vuoi venire con noi ed aiutarci a scongiurare la guerra che il re d'Inghilterra scatenerà contro la Francia, se noi non gli indicheremo altre terre da conquistare?"

Ibn Battuta rimane immobile ancora un momento, poi si volta di scatto. "Verrò. E sapete perchè lo farò? Perchè si possa dire che, se i cristiani hanno conquistato un nuovo mondo, lo hanno fatto grazie all'aiuto di un musulmano."

"Non solo potrai vantarti di questo, ma montagne, golfi e sorgenti porteranno il tuo nome, se ci traccerai la via giusta attraverso l'ondoso oceano verso la mitica terra del nord", giubila Francesco Petrarca, tendendo la mano verso di lui per stringergli la sua; ma l'astronomo berbero si batte invece il pugno sul petto, gesto che i due europei, dopo l'iniziale smarrimento, ripetono immediatamente.

"In nome della scienza, dell'umanità e di Dio, sia sempre benedetto il Suo nome", proclama Ibn Battuta, senza sapere che queste sue parole, in seguito riportate cento volte da cronisti e biografi, mettono fine al Medioevo ed iniziano una nuova era nella storia dell'umanità.

* * *

"Addì 3 agosto, anno del Signore 1334. In questo giorno sereno, non troppo caldo visto che qui siamo nel Nord Europa e non nel Mediterraneo che mi è tanto caro, io, Francesco Petrarca, figlio di ser Petracco e di madonna Eletta Canigiani, inizio questo mio diario con il quale intendo descrivere, a vantaggio di Sua Maestà Edoardo III d'Inghilterra, le tappe del nostro viaggio verso l'ignoto, nel quale il nemico più potente da sconfiggere non saranno i marosi o i presunti mostri marini che abitano le immensità dell'oceano, bensì i pregiudizi inveterati degli uomini del nostro tempo.

Infatti fino all'ultimo momento notabili e (presunti) sapienti hanno cercato di boicottare il nostro viaggio, bollandolo come folle e addirittura blasfemo, perchè a sentir loro Dio stesso ha posto dei paletti all'uomo, indicandogli fin dove può procedere e dove no. Secondo me questo concetto di Dio è completamente sbagliato, perchè Egli stesso ordinò ai Progenitori nella Valle dell'Eden: « Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra. » Ma sia sa che la principale arroganza dell'uomo consiste nel ritenere che il volere di Dio coincida sicuramente con il proprio pensiero; e le alte gerarchie, sia dello Stato che della Chiesa, sono sempre state particolarmente inclini a questo genere di peccato. Siccome anch'io sono canonico e lavoro per la Curia di Avignone, tuttavia, mi asterrò da giudizi di questo genere, che un giorno potrebbero essere pronunziati contro di me, e mi limiterò a ricordare quanti sforzi ha fatto il buon Riccardo di Bury, per far approvare la proposta di armare questa spedizione, anche perchè pochi erano disposti ad accettare un astronomo musulmano a bordo della nave ammiraglia. Io stesso ho dovuto intervenire alla Camera dei Lords di Londra, impegnata a litigare in tono furibondo circa quest'approvazione, ed urlare a squarciagola: "I' vo gridando: pace! pace! pace!" (Bella come esclamazione; forse un giorno la inserirò in una delle mie poesie) Non è stato facile convincere quei quarti di nobiltà che Ibn Battuta ne sa più di molti dei nostri geografi messi assieme, perchè essi sono stati al massimo a Costantinopoli, mentre egli ha veduto l'oceano che sta ad oriente delle terre emerse, di là dal Cipango di cui favoleggiava Marco Polo, e le foreste impenetrabili che stanno a sud dei monti della Luna, là dove il Nilo scaturisce dalla sua sorgente; per convincerli, ho dovuto ricordare loro quali ricchezze ci attendono di là dall'oceano, al cui confronto tutti i tesori di Francia appaiono ridicoli come un pezzo di pirite in confronto ad una pepita d'oro. E così, eccoci giunti al tanto sospirato momento della partenza dal porto di Southampton, sul canale della Manica, con tre veloci Saette, grossi bastimenti da 64 remi ciascuno, spesso usati per la guerra e solo raramente per il trasporto passeggeri. Quando le ha vedute, il nostro geografo arabo ha commentato, con quel suo atteggiamento si superiorità che i seguaci del Profeta tengono sempre nei confronti di noi cristiani:

"Beh, non saranno come le nostre Shakhtur arabe, con le quali ho viaggiato attraverso le isole della Sonda, ma mi sembrano abbastanza affidabili. Perlomeno non rischieremo di fare naufragio appena usciti dal porto."

Fortunatamente il capitano Roald Engelbregt Gravning Amundsen, un norvegese che da lungo tempo è al servizio della marina britannica, e al quale Riccardo ha dato il comando della nostra piccola flotta, non comprende il latino, altrimenti probabilmente lo avrebbe fatto impiccare al pennone più alto della Saint Mary, l'ammiraglia della spedizione. Lui è così fiero delle sue tre navi... la Saint Mary, la Painted e la Saint Claire. La prima è lunga 100 piedi ed ha quattro alberi: quello di trinchetto a vela quadra. l'albero maestro con due vele quadre, l'albero di mezzana con vela latina, cioè triangolare, e l'albero di bompresso con vela quadra di civada. L'equipaggio è di 54 membri, e a capitanarla sarà lo stesso Roald Amundsen. Questi mi sembra un comandante davvero in gamba, capace di navigare con disinvoltura negli impervi mari scandinavi, e non mi stupirebbe se qualche suo intrepido discendente riuscisse in imprese oggi completamente al di fuori della nostra portata, come la conquista del Polo Sud terrestre. Invece la Painted misura 92 piedi, ha un albero di trinchetto con una vela quadra, l'albero maestro con un'altra vela quadra e l'albero di mezzana con vela triangolare; l'equipaggio conta 47 uomini. La Saint Claire viene chiamata anche My Gyrl, "la mia ragazza", dai marinai inglesi, misura 85 piedi, ha a bordo 42 uomini ed ha una velatura latina pura, cioè ha tutte vele triangolari appese a lunghe antenne, a loro volta connesse all'albero nel loro punto mediano, mentre le scotte delle vele sono agganciate alle fiancate. A spiegarmi tutti questi particolari è stato Martin Arblaster (1), che capitanerà la Painted, mentre suo fratello Vincent comanderà la Saint Claire. Sono due armatori di Southampton, i quali sono stati costretti dalla municipalità a prestare gratuitamente le loro navi e l'armamento per pagare una multa inflitta da re Edoardo III alla città per commercio di frodo con la Francia. Qual è il loro stato d'animo è facile immaginarlo: la loro invettiva più gentile alla volta del re Plantageneto che io ho sentito sulle loro bocche è stato "Lo possano divorare gli squali!" Questo, naturalmente, me ne guarderò bene dall'inserirlo nel rapporto in latino che redigerò per il re al ritorno, se mai ci sarà un ritorno. Ma lo stesso Martin Arblaster mi ha riferito, sogghignando, anche un altro particolare curioso che non inserirò certo nella relazione finale. Infatti lui e suo fratello sono sì stati costretti a cedere gratuitamente al re le loro navi, ma hanno scelto i nomi per esse in chiaro spregio alla solennità della missione che stiamo per compiere.

Infatti la Saint Mary, mi ha riferito Martin in un francese più che accettabile, viene chiamata popolarmente dai marinai di Southampton "The Britton", "La Bretone", per i molti viaggi che ha compiuto tra questo porto e la penisola francese di Bretagna. Ma "La Bretone" è anche l'appellativo di una nota prostituta di Southampton, a quanto pare molto frequentata dai marinai della ciurma. Anche "My Girl", il nomignolo dato alla Saint Claire, è una chiara allusione alle donne di piacere, che naturalmente Riccardo ha rifiutato decisamente di far salire a bordo della nostra flottiglia. E persino "Painted", che forse a me può ricordare la Cappella degli Scrovegni di Padova affrescata dal sommo Giotto, a questi marinai fa venire in mente immancabilmente il trucco pesante delle locali donne di piacere. E così, anche se nella messa introduttiva della spedizione il mio amico Riccardo ha parlato di porre il salto verso l'ignoto sotto la protezione di Santa Maria Vergine, di Santa Chiara d'Assisi "e di tutti i santi che dipingono il Paradiso con le loro aureole", purtroppo i marinai certamente pensavano a ben altro, meditando i nomi delle tre Saette!

Comunque, indipendentemente dalle allusioni triviali dei due permalosi fratelli Arblaster, ormai la spedizione è cominciata, e non possiamo più tirarci indietro: come scrisse il grande Dante Alighieri, "ogni viltà convien che qui sia morta". A mezzogiorno in punto, infatti, i tre bastimenti si sono staccati dalle banchine del porto, ed il pilota della Saint Mary, il castigliano Juan de la Cosa, lui pure al servizio di Sua Maestà Britannica, ha diretto abilmente la prua dell'ammiraglia verso occidente, per girare intorno alla Cornovaglia. Come i pulcini dell'anatra seguono la loro madre nuotando in uno stagno, così la Painted e la My Girl... perdono, la Saint Claire, hanno seguito l'ammiraglia in un viaggio destinato a condurle al di là dei confini del mondo conosciuto.

"Cosa ci attenderà mai laggiù in fondo, dietro l'orizzonte?" mi sono lasciato sfuggire sul ponte della Saint Mary. Ibn Battuta mi deve aver sentito, perchè ha subito risposto:

"Lo stesso cielo che ora sta sulle nostre teste, e nulla di cui avere paura, ma solo ciò di cui dobbiamo avere orgoglio di poter vedere."

Subito mi sono voltato verso di lui e gli ho domandato: "Ma quanto, quanto durerà la nostra avventura?"

Forse il nostro astronomo citava qualche proverbio arabo quando mi ha risposto:

"Un tempo comunque troppo breve per poter conoscere tutto ciò che c'è da conoscere."

Proprio perchè so che il più saggio tra tutti noi ha dato una dura sferzata al mio orgoglio di cristiano, ho appena finito un vecchio sonetto iniziato molto tempo fa, che forse un giorno sarà famoso quanto il resoconto di questa esplorazione:

« Ma ben veggio sì come al popol tutto
favola fui gran tempo, onde sovente
di me medesmo meco mi vergogno;

e del mio vaneggiar vergogna è il frutto,
e 'l pentersi, e 'l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno. »"

* * *

Addì 6 settembre 1334

Riccardo di Bury, Gran Cancelliere del Regno, a Sua Maestà Edoardo III, per grazia di Dio Re d'Inghilterra e d'Irlanda.

Vi scrivo questa lettera pur non sapendo quando potrete leggerla, anzi non sapendo neppure se mai potrete leggerla. Da buon Cancelliere, tuttavia, intendo redigere regolari rapporti per voi come se mi trovassi in una delle contee del vostro Regno, anche se sono al corrente del fatto che messer Francesco Petrarca sta a sua volta prendendo appunti per scrivere una cronaca, o addirittura un poema, che celebrerà la nostra impresa. So di non poter assolutamente competere con lui, il più grande poeta vivente in tutto il mondo cristiano; ma, mentre lui - com'è probabile, conoscendolo - paragonerà il nostro viaggio a quello di Enea da Troia fino al Lazio, ed userà colorite similitudini ed evocative metafore per abbellire il suo racconto, io invece intendo semplicemente presentarvi la verità nuda e scarna, come la potreste leggere dalla penna di un buon cronista degli annali del vostro Regno, certo che, seppure privo di orpelli e di riferimenti mitologici e letterari, il mio resoconto potrà perlomeno rivendicare il primato di descrivere i fatti così come essi avvengono giorno per giorno. Un re infatti ha bisogno di un cantastorie per allietare i suoi banchetti, ma di un annalista se vuole lasciare testimonianza della propria politica e delle proprie imprese in pace e in guerra.

Partiti dunque da Southampton il giorno 3 agosto scorso, doppiammo capo Land's End il giorno 6 agosto e quindi circumnavigammo la Cornovaglia. Dopo una tranquilla traversata del Mare d'Irlanda, ci siamo fermati in quest'ultima isola nel porto di Clonakilty, contea di Corcaigh, per alcune riparazioni alle navi che, a detta del nostro astronomo, richiedevano alcune modifiche per la navigazione transoceanica. A voi posso dirlo, maestà: sebbene messer Petrarca e il capitano Amundsen tengano in grande considerazione quell'arabo, per andare ad arruolare il quale nelle nostre file ho rischiato seriamente di venire cotto vivo in un calderone di olio bollente dai Mori di Granada, a me egli sta decisamente antipatico. Anzitutto, quando io dico messa e i marinai tutti stanno compunti a seguire la funzione, colui se ne va sottocoperta a svolgere non so che calcoli e, quando gli ho chiesto perchè non mi fa la cortesia di rimanere, lui ha avuto l'impudenza di rispondermi che la "vera fede predicata dal Profeta Macometto" (sto facendomi il segno di croce mentre riporto queste bestemmie) afferma che non Gesù il Cristo è morto sulla croce, ma il Cireneo vi è salito al suo posto, e dunque trova disdicevole ripetere il memoriale della morte di uno che (altro segno di croce) "in realtà non è morto". Ma su questo potrei lasciar correre perchè dopotutto lui è un infedele ignorante dei dettami della nostra vera Fede, l'unica che possa fregiarsi di questo aggettivo. Così come potrei lasciar correre altri fatti dello stesso tenore. Appena salpati io e Francesco lo abbiamo visto compiere complesse misurazioni, traguardando la posizione del sole con una diavoleria di sestante arabo che si è portato dietro, ed io ho detto al poeta nativo di Arezzo:

"Per San Patrizio! Non siamo quasi usciti dal porto, e già calcola la rotta verso l'Ultima Thule."

Subito dopo tuttavia mi sono ricreduto, perchè l'ho visto stendere sul ponte della nave un tappeto intessuto alla moda turcomanna, che probabilmente viene da chissà quale remota contrada dell'Asia, ed inginocchiarcisi sopra, pregando con fervore in direzione di un punto che lui solo vedeva. Al mio stupore ha risposto Petrarca con quella sua disarmante sapienza che mi lascia tutte le volte basito:

"Sai, Riccardo, questi infedeli osservano i precetti della loro religione con scrupolo assai maggiore di quanto noi mettiamo nell'osservare la nostra, ed uno di questi precetti consiste nel pregare rivolti verso la Mecca, la loro città santa, per tre volte al giorno. L'ho visto fare una volta ad un marinaio arabo che aveva attraccato con la sua curva galea alle banchine di Venezia. Per questo gli arabi sono diventati così abili nello studio del cielo: è necessario per loro orizzontarsi anche in mezzo all'oceano tempestoso o tra le dune del deserto di sabbia, senza neppure una palma come riferimento, per sapere da che parte si trovi il loro santuario."

Solo su una cosa il mio dotto amico si era sbagliato: questi musulmani pregano il loro Dio non tre ma cinque volte al giorno, come ho avuto modo di contare io stesso in questo mese che è trascorso dalla nostra partenza dalla cara Albione. Tuttavia, quando io ho mostrato con chiara evidenza sul volto il mio stupore, il coltissimo Petrarca mi ha spiazzato con la sua solita citazione virgiliana:

"Andiamo, lo diceva anche il sommo Poeta Mantovano: « Orabunt causas melius caelique meatus / describent radio et surgentia sidera dicent: / tu regere imperio populos, Romane, memento... » (2) Noi ci siamo consumati nelle guerre intestine tra Guelfi e Ghibellini e ci siamo istruiti solo nell'uso delle armi; era logico che altri popoli ci passassero davanti nello studio delle costellazioni."

Trovo incredibile come un canonico di Santa Romana Chiesa qual è Petrarca giustifichi tutte queste azioni del nostro astronomo di bordo, che se compiute nella City di Londra gli costerebbero quantomeno il rogo, ed anzi sembri giustificarle, come se ammettesse che sì, lui ne sa comunque più di noi. Ma se un genio come lui ci passa sopra, sono disposto a farlo anch'io, che al suo confronto sono come uno studente al primo anno di teologia di fronte a San Tommaso d'Aquino. Ciò che invece non lascio correre è la spocchia con cui quell'arabo, avvolto nel suo turbante come se ci trovassimo in gennaio anziché a fine estate, tratta sempre noialtri, e me in particolare, dall'alto in basso. L'altro giorno stavo chiacchierando con Vincent Arblaster sul molo di Clonakilty e gli stavo dicendo: "Grazie al Cielo il raccolto è stato buono, nelle mie terre di Bury, in quest'anno 1334..." Quando quel satanasso d'un arabo, passandoci accanto diretto alla Saint Claire, ci ha apostrofato con queste parole:

"Anche per noi di Granada il raccolto delle olive è stato buono, quest'anno. Solo, questo per noi islamici è l'anno 735."

"Và a quel paese tu e la tua dannata cronologia", mi è venuto sulla bocca di gridargli contro, ma mi sono trattenuto per la presenza di messer Arblaster, non volendo dargli una cattiva immagine dell'alto clero britannico; ma so bene che dentro di sé quel marinaio aduso ad ogni sconcezza di linguaggio, nelle bettole dei porti di mezza Europa, gli avrebbe scagliato contro ben altri improperi, se solo non avesse voluto dare ai miei occhi una cattiva immagine della marina di Sua Maestà Britannica. Ad ogni modo, ieri i lavori di rinforzo al gabone, alla chiglia ed agli alberi di trinchetto delle navi sono finiti, e quest'oggi, 6 settembre 1334 (non 735!) il nostro viaggio verso l'ignoto è ripreso. Ora si stende davanti a noi solo l'oceano: nessuna terra, fatta eccezione per le Shetland e per le Isole delle Capre sempre percosse da venti fortissimi, si para più tra noi e l'ignoto settentrione. Eppure, proprio a questo punto si è verificato un nuovo colpo di scena, che ha contribuito ad aumentare in me i sospetti verso quell'Ibn Battuta del quale mi sono già ampiamente lagnato con voi, Maestà. Infatti il pilota Juan de la Cosa, anziché volgere la prora verso nordovest e circumnavigare l'Irlanda, ha puntato decisamente verso ovest, là dove nessuna terra nota emerge dai flutti dell'oceano, fatta eccezione per la mitica Isola di San Brendano, che però nessuno ha mai visto, e per l'ancor più mitologica Atlantide di Platone, le cui cime più alte forse, secondo Francesco, ancora emergono dalla piatta vastità del mare.

Quando ho chiesto ragione di questo fatto al timoniere, lui mi ha detto di aver ricevuto ordini dal capitano; quando l'ho chiesto a Roald Amundsen, lui mi ha detto che gli era stato consigliato da Petrarca; e, quando infine mi sono rivolto a quest'ultimo, mi sono sentito rispondere ciò che già da lungo tempo temevo in cuor mio, cioè che l'idea era dell'astronomo di Granada.

"Lui afferma che l'Ultima Thule non è persa tra i ghiacci del nord, come asseriva Tolomeo di Alessandria, ma che si trova più o meno alle latitudini europee, solo molto più ad ovest. Mi ha citato alcuni navigatori marocchini che sono stati trascinati verso ovest dai venti alisei mentre cercavano di raggiungere l'Africa meridionale, e sono giunti in vista di un mare in cui galleggiavano tronchi ancor verdi e semi di palma da cocco, segno certo questo del fatto che una terra ignota era vicina."

"Ma il marsigliese Pitea, il cui resoconto di viaggio tu mi hai consigliato di leggere, parlava di una terra avvolta dai ghiacci e dalle nebbie", ho provato a persuaderlo, però egli mi ha facilmente smontato:

"Forse si è confuso con l'Islanda. E del resto, se davvero il paese di Thule fosse così freddo e inospitale, al tuo sovrano converrebbe veramente di più muover guerra alla Francia che cercare di conquistare un impero fatto di nude rocce, di nebbie impenetrabili e di chiassosi uccelli marini."

E così, eccomi qui a viaggiare verso l'incognito occidente, lottando contro il mal di mare quando le onde si fanno alte, diretto verso una terra misteriosa che forse c'è e quasi sicuramente non c'è, sulla base della sola parola di alcuni pirati saraceni, mentre ser Petrarca è impegnato a scrivere madrigali d'amore alla sua lontana Laura, mentre i fratelli Arblaster sono già impegnati a dividersi la nuova terra prima ancora di scoprirla, e mentre quell'arabo vestito come uno degli uomini del Saladino divide il tempo fra la lettura del suo Corano e l'osservazione degli astri sulle nostre teste... Un confratello mi ha detto, prima di partire, che sarei diventato pazzo quando avrei visto solo acqua attorno a me nel mezzo dell'oceano, ma devo dire che egli aveva torto: dovevo essere pazzo fin dal principio, per imbarcarmi in quest'avventura. E non posso neanche confidare questo mio timore all'amico Francesco, perchè altrimenti lui ne trarrebbe subito spunto per scrivere un verso d'amore del tipo:

« O caduche speranze, o pensier folli! »...

Vostro sconsolato

Riccardo di Bury

* * *

Dal diario di bordo del capitano Roald Amundsen, addì 28 settembre A.D. 1334

Ventitreesimo giorno da quando abbiamo rivolto le prue delle navi verso l'Occidente, cioè verso l'Ignoto. Più passa il tempo e più mi sembra di incarnare lo spirito dei miei antenati Vichinghi, quei feroci lupi di mare che lasciavano le brumose coste della Scandinavia per mettere a sacco il mondo intero. Tutto essi videro ed ogni stretto forzarono, dalla Galizia piovosa alla scaltra Costantinopoli dove si tramano intrighi senza fine, dai porti baltici della Russia fino alla ricchissima Baghdad dove regnava il Califfo. Mi sembra quasi di essere un predestinato: solo un discendente di sì arditi navigatori, che misero piede in Groenlandia e attaccarono anche i porti dell'Africa, poteva comandare questa spedizione diretta verso i confini del Nulla.

Oh, non sono tanto sciocco da credere che la Terra sia piatta, e che presto o tardi udiremo il rumore della colossale cascata nella quale le acque dell'oceano precipitano negli Inferi: sono fole per spaventare i bambini troppo vivaci, né più né meno della leggenda del Martello di Thor, la poderosa arma del dio vichingo delle tempeste che lui solo poteva alzare, e che, sbattuta contro le nubi, scatenava i lampi e i tuoni. Ma io sono un capitano, ed ho alle mie dipendenze 143 uomini, cui vanno aggiunti quel piagnucoloso vescovo che non ho ancora buttato a mare solo perchè è il Cancelliere del Re, quel poeta italiano che sembra vivere nelle nuvole e compone esametri latini per celebrare una scoperta che non abbiamo ancora compiuto, e quel satanasso d'un arabo che secondo me altera volutamente i calcoli per far finire le nostre navi cristiane diritte sugli scogli. Fatta eccezione per l'italiano e l'arabo, mano a mano che le tre Saette s'inoltrano nell'Oceano inesplorato, gli animi di tutti gli altri sembrano sempre più agitati e dubbiosi, come se la nebbia della sera penetrasse anche dentro le loro menti. Al tramonto, monsignor Riccardo raduna l'equipaggio sul ponte per cantare la Salve Regina, e tutti obbediscono compunti, proseguendo poi mentre cenano a cantare le loro gaie canzoni di mare, ma io non sono uno stupido: ho attraversato troppi mari e comandato troppe navi, per farmi ingannare dalla loro apparente tranquillità. I loro sguardi corrono sul mare come se si aspettassero di vedere emergere da esso, da un momento all'altro, una piovra gigante venuta per ghermirli e trascinarli con sé negli abissi dell'Oceano. So che, colti dallo sconforto, vorrebbero gettarsi in ginocchio sulla tolda, levare le mani al cielo e invocare Dio affinché faccia apparire una terra all'orizzonte, foss'anche abitata dagli antropofagi, ma pur sempre un pezzo di roccia su cui posare finalmente il piede e convincersi che il mondo non è ancora finito; se si trattengono, è solo per non passare come codardi agli occhi dei loro compagni. So anche, perchè li ho visti io stesso, che alcuni di essi confabulano tra loro, puntano il dito verso l'orizzonte e salgono sulle sartie per vedere meglio, probabilmente perchè, in preda a un miraggio, hanno creduto di scorgere la terra ad un tempo tanto bramata e tanto temuta. Ma, evidentemente, subito dopo la visione svanisce, ed essi piombano in un cupo sgomento, come l'uomo che crede di vedere luccicare una moneta d'argento in terra, si avvicina, e si accorge che era solo il brillare della rugiada nell'erba. L'inquietudine serpeggia, e comincia ad entrare anche nel mio animo, perchè è più facile mettere briglie e sella a un leone, che comandare un equipaggio attanagliato dall'angoscia e dalla paura.

A tutto questo, oggi, si è aggiunto un fatto nuovo. All'alba sono stato destato dal mio secondo, che mi ha gridato di lasciare la mia cabina. Sono corso ed ho visto, a poca distanza dalle navi, ciò che non avrei mai creduto di scorgere a questa latitudine: una montagna di ghiaccio, bianca come l'avorio, che errava nell'infinito mare dirigendosi verso sud, spinta da una corrente che pareva discendere direttamente dal Polo Artico. Subito sono corsi anche Riccardo di Bury, ser Petrarca e Ibn Battuta. Il primo si è fatto il segno di croce e ha cominciato a recitare una giaculatoria, come se sapesse che quella montagna era infestata da diavoli, pronti a ghermire la sua anima immortale. Il secondo, invece, senza staccare gli occhi da quella visione degna dell'Apocalisse, ha chiesto al terzo:

"Hai mai visto una cosa del genere, Abdallah?"

"Mai", ha risposto lui, e questa è stata la prima volta in vita mia, in cui ho visto il suo volto barbuto deformato dallo stupore. "Ho sentito parlare di montagne di ghiaccio, formatesi là dove il mare diventa pietra per il gran freddo, ma, il Profeta mi è testimone, non ne avevo mai vista una dal vivo."

"Per fortuna, cominciavamo a credere che tu fossi onnisapiente come i Libri della Sibilla, in cui vi è una risposta per ogni domanda", ironizzò subito il vescovo di Durham, cui non pareva vero di prendersi questa rivincita sull'astronomo infedele. Io però non potevo permettere che i due si mettessero a litigare proprio in quel momento, e così mi sono inserito nella loro discussione per far dimenticare quest'ultima ironia:

"Io invece avevo già veduto le montagne di ghiaccio. Sei anni fa guidai una spedizione commerciale verso l'Islanda, e ben tre di questi scherzi della natura circondarono la mia nave, tanto da farci temere che non saremmo riusciti a portare a casa la pelle. Ma ero a latitudini enormemente più alte, ed era d'inverno."

"Evidentemente, in questo punto dell'oceano, cominciano a sentirsi gli effetti di una corrente che viene dall'estremo Nord", commentò il musulmano mentre l'iceberg superava la Saint Mary con la flemma con cui un elefante supererebbe al passo un somaro. "Invece le coste occidentali dell'Africa e dell'Europa sono lambite da una corrente calda che viene dai mari equatoriali, e che apporta a noi un clima mite e fresche piogge."

"Vuoi dire che siamo arrivati al punto di non ritorno?" domandò Petrarca sbarrando gli occhi.

"Sì", annuì gravemente l'arabo, seguendo con gli occhi nerissimi la misteriosa montagna che continuava il suo viaggio verso sud. "Siamo entrati in un mare agitato da venti e correnti sconosciute ai nostri naviganti. Credo che ormai ci avviciniamo alla nostra meta: la leggendaria Ultima Thule non può più essere lontana."

E se ne andò sottocoperta, a riprendere i suoi calcoli, mentre Riccardo di Bury si faceva altri sei o sette segni di croce, e radunava subito gli uomini per celebrare una Messa a San Brendano, perchè ci proteggesse durante la navigazione in quei mari ignoti.

Quello però era solo l'inizio dei guai di questa concitata giornata. Verso mezzogiorno, infatti, appena sceso dal castello di poppa, mi si è fatta intorno una ventina di marinai, tutta gente dai muscoli di ferro e dal volto bruciato dal sole; ma dentro i loro occhi ho letto la paura.

"Sentite, capitano, noi intendiamo tornare indietro", mi ha detto Joe il Guercio, che evidentemente fungeva da portavoce di tutti loro. "Qui non si va da nessuna parte. Solo mare, mare e mostri come quello che abbiamo avvistato questa mattina. Abbiamo delle famiglie, in Inghilterra, e non ci va di non rivederle più solo per inseguire i sogni di tre visionari."

"Perdete il vostro tempo", gli ho risposto con voce tranquilla ma ferma. "Io obbedisco a degli ordini, e Sua Maestà mi ha ordinato di navigare verso occidente seguendo i consigli dei sapienti imbarcatisi con noi, finché non avremo raggiunto l'Ultima Thule, ed io non ho mai disobbedito a un ordine neppure quando ero ancora un mozzo."

"Speravamo che lei fosse più ragionevole", riprese l'oratore. "Il Re non è qui, è nel suo palazzo di Westminster a ricevere ambasciatori e a sollazzarsi con la sua favorita, la duchessa di Salisbury, quella per cui ha istituito l'Ordine della Giarrettiera. Saremo noi, non lui, a morire contro gli scogli che delimitano il bordo del mondo, o nel ventre di qualche orrenda creatura marina. Invertite la rotta, testimonieremo tutti che lo avete fatto perchè avete incontrato correnti contrarie e draghi dalle sette teste che vi sbarravano la via."

"Edoardo III non è tipo da credere ai draghi, ed io ho una sola testa sulle spalle, per permettermi di farmela tagliare via per disubbidienza", insistetti io. Allora un altro marinaio, Slim Hawkins, appoggiò la mano rugosa sul manico del pugnale che gli pendeva minacciosamente dalla cintura e ragliò:

"Poche ciance, capitano: noi siamo uomini semplici, e conosciamo un modo solo per convincere la gente recalcitrante. O cambia rotta immediatamente con le buone, oppure..."

"Oppure che fate? Vi ammutinate?" rombai io, facendo la voce grossa, perchè ben sapevo che un prepotente può essere messo a tacere solo con la prepotenza. "Ma se non sareste capaci di condurre in porto neppure una tinozza, da soli! Tornate ai vostri posti, e farò finta di non aver sentito ciò che Slim ha detto, evidentemente sotto l'effetto di un colpo di sole."

Non saprò mai cosa mi avrebbe risposto quell'esagitato d'un Hawkins, perchè proprio in quel momento messer Petrarca ed Ibn Battuta uscirono da sottocoperta, evidentemente discutendo sulle nuove, sconosciute correnti fredde che avevamo testé scoperto, affatto ignari della drammatica discussione che stavo avendo con i miei uomini. Subito un altro marinaio, Morgan il Gallese, urlò come in preda a parossismo:

"Eccoli! E' tutta colpa loro se stiamo navigando in queste acque ignote, anziché nel tranquillo Canale della Manica! Buttiamoli a mare e, non avendo più chi ci trascina ad occidente, dovremo ritornare per forza! Uomini, a me!"

Subito partì come un matto, brandendo il pugnale, in direzione dei due studiosi, e lo seguirono da presso un paio di compagni resi folli dal timore dell'ignoto. "Fermatevi immediatamente!" urlai io, rincorrendoli, ma Morgan era già addosso all'arabo e all'italiano. Quest'ultimo si trasformò nell'immagine stessa del terrore, forse incredulo che uno dei marinai potesse cercare di assassinare un uomo mite quale lui si era sempre dimostrato; ma non dimenticherò mai la freddezza dimostrata dal geografo di Granada in quell'occasione. Resosi conto infatti di ciò che stava accadendo, saltò davanti a Petrarca, facendogli scudo con il proprio corpo avvolto nel largo mantello, quindi evitò abilmente con una finta il coltello omicida del suo avversario. Approfittando quindi del fatto che questi si era sbilanciato in avanti per cercare di colpirlo, mosse il braccio destro davanti a sé con il gesto con cui il contadino falcia il grano e l'orzo, ma con la rapidità di un serpente velenoso che morde la sua preda. Subito Morgan si arrestò dove si trovava, indugiò un attimo come se per lui il tempo si fosse fermato, ed infine stramazzò al suolo battendo sul pontile con la schiena. Solo allora vedemmo che aveva la gola squarciata, e che Ibn Battuta aveva in mano un coltello ricurvo, simile ad una scimitarra saracena in versione ridotta, lordo del sangue del Gallese.

"« Se non si mantengono neutrali, se non vi offrono la pace e non abbassano le armi, afferrateli e uccideteli ovunque li incontriate. Vi abbiamo dato su di loro evidente potere »", commentò l'arabo con freddezza, ripulendo l'arma di acciaio brunito, ed aggiungendo poi con la pignoleria di un astronomo: "Così recita la Sura Quarta del Sacro Corano, la Sura delle Donne. Scusa se ti ho insozzato il ponte, capitano Amundsen, ma io mi vanto di essere sempre ligio ai precetti del mio Libro Sacro."

Subito i compagni del defunto Morgan che si erano slanciati su di lui batterono in ritirata, inciampando l'uno nell'altro nella foga di scappare da quello che ora appariva loro come un diavolo emerso dall'Inferno, più pericoloso dei draghi marini evocati dalla loro codarda immaginazione. Visto che Petrarca, io e gli altri marinai in odore di ammutinamento lo guardavamo come si osserva a Monte Sant'Angelo, nelle Puglie, la secolare statua di San Michele con la spada in mano, aggiunse quasi per giustificarsi:

"Nei miei lunghi viaggi dovevo pur imparare a difendermi, no? Credete fosse facile, mettersi in salvo dai Tuaregh che attaccavano le carovane in transito attraverso il Sahara, o dai Turchi che ti spogliavano di ogni avere nel Khovaresm? Sappiate solo, capitano, che se la cosa dovesse ripetersi, e qualche altro balordo tendesse altre insidie a me o al mio amico Francesco, allora sì potrei arrabbiarmi sul serio!"

La determinazione dimostrata dall'arabo bastò per il momento a calmare gli animi, e tutti gli autori della protesta contro di me se ne tornarono al loro posto come cani randagi che si leccano le ferite inferte loro da molossi più forti. Ma io sapevo che il fuoco covava sotto la cenere. E non è tutto. Evidentemente i marinai della Saint Mary hanno segnalato l'accaduto a quelli della Painted e della Saint Claire, usando l'alfabeto marinaro delle bandiere, perchè questi ultimi hanno visto il funerale dello sconsiderato Morgan, celebrato da Riccardo di Bury, e ne hanno chiesto ragione. Infatti poco fa, al calare del sole, è arrivata sull'ammiraglia una scialuppa proveniente dalla Painted, con a bordo il secondo di Martin Arblaster, latore di un suo messaggio stringato ma quanto mai apodittico:

"Il capitano Arblaster ha saputo quanto è accaduto oggi sulla vostra nave, capitano, e ti invita ad impiccare i ribelli al pennone più alto della Saint Mary. L'atmosfera sulle tre Saette è già abbastanza pesante, e non possiamo permetterci un ammutinamento. Se non lo fate voi, viene di persona e lo fa lui."

Personalmente sono contrario a questi metodi per mantenere la disciplina sulle navi, ma, se è vero che non possiamo permetterci un ammutinamento, non posso nemmeno permettermi di entrare in contrasto con i comandanti delle altre due navi della flotta. Ho esposto la situazione a ser Petrarca, che è un abile diplomatico, come ha dimostrato più volte alla corte papale di Avignone, e mi ha assicurato che domattina si recherà lui stesso sulla Painted per conferire con Martin Arblaster e mediare tra di noi. Ma, dopo quanto è accaduto, sa bene di essere visto dai più come uno dei responsabili della nostra corsa verso l'ignoto, e dunque lo farò accompagnare da una buona scorta, come se dovesse salire su una nave di pirati barbareschi, e non su un vascello cristiano. Del resto, oggi è già stato difeso da un musulmano contro i suoi stessi correligionari. Evidentemente, al di fuori dei confini del mondo conosciuto, persino tutte le certezze in cui ci siamo sempre cullati vengono meno. Quanto a me, dormirò con un occhio solo e con la spada sotto il cuscino, nel caso in cui i miei marinai decidano di passare dalle minacce ai fatti. Ha ragione ser Petrarca: non nelle oscurità del mare, ma dentro l'animo umano si celano i mostri più pericolosi...

* * *

"Capitano! Capitano!" urla l'addetto alle comunicazioni mediante il linguaggio delle bandierine, con tale fiato da far credere a tutti di aver avvistato davvero il biancheggiare della mitica cascata che segnerebbe la fine dell'oceano. Subito Amundsen si precipita:

"Che c'è, Jack? Altri segni di ammutinamento?"

"Tutt'altro, capitano", recita la voce concitata del marinaio, vinta dall'emozione. "L'equipaggio della Painted ha pescato una canna, un bastone intagliato, una tavoletta di legno e un ciuffo d'erba. Capitano, forse l'approdo è imminente!"

"Dopo tutti questi giorni! Quasi non ci credo più", risponde il comandante della spedizione, incapace di credere alle proprie orecchie. Dietro lui Riccardo di Bury, che ha sentito tutto, alza le braccia al cielo:

"Oh, Signore, ti ringrazio! Faccio subito intonare ai marinai un Te Deum di ringraziamento."

Senza profondersi in troppe parole, Abu Abdallah Ibn Battuta stende sul ponte il suo tappeto ed inizia a ringraziare Allah, mentre Francesco Petrarca, pratico come sempre, si limita a commentare:

"Sia lodato Gesù Cristo! Non credo ce l'avrei fatta, a convincere la ciurma della Saint Claire ad aspettare altre ventiquattr'ore prima di voltare la prua sulla strada del ritorno. Tre giorni, mi hanno detto l'8 ottobre: ti concediamo altri tre giorni, dopo i quali faremo dietrofront, naturalmente dopo averti gettato in mare con un peso legato ai piedi."

"E invece potrai raccontare in eleganti versi latini il successo della nostra spedizione, poeta", lo canzona il capitano, assestandogli sull'omero una pacca sufficiente a spezzare in due una tavola di faggio. "Oggi, 11 ottobre 1334, sarà un giorno da ricordare, non solo negli Annali del Regno d'Inghilterra e d'Irlanda, ma anche nella storia di tutta quanta l'umanità!"

È quasi il tramonto, ma l'attesa dei marinai si fa spasmodica, e nessuno cessa di scrutare l'orizzonte davanti a sé, anche perchè Riccardo di Bury, a nome del Re, ha promesso un premio di cento scudi d'argento a chi scorgerà per primo l'Ultima Thule. Si invidia la vedetta notturna, perchè dalla sua coffa potrebbe scorgere prima degli altri l'ultima regione del mondo, tanto vituperata nei 36 giorni della traversata, ed ora tanto bramata come una sposa che non si rivede da anni. Petrarca ed Ibn Battuta, incapaci di dormire, restano sul ponte a passeggiare e a discutere dei reciproci viaggi: l'arabo si fa descrivere nei minimi dettagli le rovine imperiali della città di Roma, dove non ha mai avuto la ventura di viaggiare, e il fiorentino esige una descrizione particolareggiata della pietra nera e della Città Santa della Mecca, che a lui è proibita in quanto cristiano. Verso le quattro del mattino, l'astronomo sta raccontando la cerimonia in cui i fedeli musulmani "lapidano" ritualmente la stele alla Mecca che rappresenta Yblis, il diavolo, quando all'improvviso, nel silenzio della notte, giunge fino a loro un grido proveniente dalla vicina nave Painted:

"Terra! Terra! Terraaaaaaaa!"

È, come sapranno poi, un certo Robert di Thunstall, vedetta notturna della Painted, che ha avvistato una linea di costa all'orizzonte. Subito tutti si riversano sul ponte, cercando inutilmente di scorgere la sospirata Thule nel buio della notte, ma le comunicazioni tra le tre navi, effettuate mediante torce accese, confermano l'avvistamento. Appena sorge l'alba, la costa appare chiaramente visibile a tutti come una linea marrone e verde adagiata pigramente sopra l'orizzonte, e monsignor Riccardo celebra subito una Messa di Ringraziamento.

"Beh, messer Petrarca, la tua ultima Thule non sembra poi tanto congelata", si compiace l'astronomo arabo, contemplando la terra mai veduta prima di loro da alcun europeo, neppure dai Vichinghi.

"Me ne rallegro, Abdallah", risponde il poeta, quasi piangendo di felicità. "Dobbiamo a te se siamo giunti fin quaggiù: seguendo gli antichi geografi greci e latini, io e Riccardo avremmo finito per perderci tra le brume del settentrione, incontrando una morte orribile quanto inutile."

"Noi giungiamo dove ci guida Allah, il Grande e Misericordioso", risponde Ibn Battuta. "Ma già da molti anni a noi arabi era chiaro che i confini di Abila e Calpe erano troppo angusti per trattenere la sete di conoscenza dell'uomo. Bisognava soltanto trovare qualcuno che avesse il coraggio di violare le leggendarie Colonne d'Ercole, e questo qualcuno sei stato tu assieme al tuo amico vescovo."

"Grazie, amico, ma fin dall'epoca dei Romani il divieto di navigare nell'Oceano periglioso era apparso assurdo e contrario allo spirito di avventura dell'umanità, se è vero che il grande Seneca scrisse nella sua fosca Medea: « Nunc iam cessit pontus et omnes / patitur leges… / venient annis saecula seris, / quibus Oceanus vincula rerum / laxet et ingens pateat tellus / Tethysque novos detegat orbes / nec sit terris ultima Thule. » (3)"

Inutile rendere conto della discussione storico-filosofica tra i due sapienti, campioni rispettivamente dell'Europa cristiana e del mondo arabo-musulmano; meglio narrare come avviene il primo sbarco degli europei sul Nuovo Mondo. Davanti alle tre Saette si apre una grande baia, ricinta da isole e colline boscose e lussureggianti, orlate di una lunga spiaggia bianca su cui si protendono i rami delle grandi conifere. Anziché prendere terra su queste ultime, tuttavia, il capitano Amundsen giudica miglior idea quella di esplorare l'interno della baia, la quale, dopo essersi stretta al punto che due grandi isole paiono toccarsi, quasi vogliano essere un corrispondente d'oltreoceano delle Colonne d'Ercole, si allarga in una specie di vasto lago, nel quale confluisce l'estuario di un grande fiume. Sul lato destro dell'estuario i nostri estasiati esploratori scorgono la punta di quella che sembra un'isola stretta e lunga, occupata da una densa vegetazione.

A questo punto Amundsen dà ordine di gettare le ancore e di  calare in acqua una lancia, sulla quale salgono lui. Petrarca, Riccardo, Ibn Battuta, Martin Arblaster e il notaio reale, che deve attestare in carta bollata l'avvenuta scoperta. Pochi colpi di voga, e i traversatori dell'Oceano raggiungono la costa, con il cuore in tumulto. Il primo a sbarcare è Amundsen, in qualità di comandante della missione, che nella destra impugna lo stendardo reale con i tre leoni rossi in campo oro, la croce di San Giorgio, la pianta di ginestra che campeggia sul blasone dei Plantageneti e l'arpa irlandese. Subito dopo di lui sbarcano Riccardo di Bury e messer Petrarca, poi tutti gli altri. Petrarca però è l'unico che si china a baciare la terra tanto desiderata.

"Oggi, 12 ottobre 1334, in nome di Dio, di San Giorgio e del Re d'Inghilterra, io prendo possesso di quest'isola", proclama con enfasi studiata il capitano norvegese. Ma gli bada solo il notaio reale, intento a certificare quella presa di possesso. Infatti Riccardo sta intonando un Salmo di Ringraziamento; l'arabo, con le mosse esperte di un vero cartografo, sta già tracciando sulla sua pergamena la forma della linea di costa, traguardandola con una specie di sestante; e il poeta fiorentino ha raggiunto gli alberi, studiando a quale specie essi possono appartenere.

"Non ho mai visto abeti come questi, in Europa", commenta Petrarca, staccando dei pezzi di corteccia dall'albero più vicino. "Neppure il Palazzo de Papi ad Avignone, ne ha di così imponenti. Pensavo di battezzare quest'isola Dulichio, « la Lunga », prendendo a prestito dall'Odissea il nome di un'isola greca, ma devo ammettere che questo posto non somiglia ad alcuno dei luoghi del nostro mondo."

"Sarà difficile vedere sbucare dei greci da questa selva", commenta quasi distrattamente l'astronomo arabo, quando ad un tratto accade ciò a cui nessuno fino a quel momento aveva pensato. Dalla foresta escono degli uomini con la pelle brunita dal sole e tinta di ocra rossa, vestiti solo con perizomi e con collane e bracciali di osso. Alcuni portano frammenti d'osso infilati sotto il naso, e le loro chiome sono trasformate in creste diritte sopra le loro teste. Tutti impugnano asce e mazze di pietra scheggiata, ma le tengono abbassate, e nel complesso non denotano un atteggiamento ostile a priori.

"E questi pellirosse da dove sbucano?" domanda Martin Arblaster, portando istintivamente la mano all'elsa della spada. Petrarca si limita invece ad indietreggiare verso i compagni e a sussurrare: "Incredibile! L'Ultima Thule è abitata!"

"Giù le armi!" ordina Amundsen, rivolgendosi quindi agli indigeni con le palme delle mani sollevate, quasi a dimostrare che è disarmato. "Siamo amici. Amici, lo capite? Riuscite a comprendermi?"

I nuovi venuti, che sono circa una decina, si guardano negli occhi con aria interrogativa, dimostrando di non aver capito una parola. Allora Petrarca guarda Ibn Battuta, che si fa avanti e ripete le stesse parole in arabo, poi in turco ed infine in malese. In tutti e tre i casi, però, non sortisce alcun risultato.

"Ho paura", commenta, "che se anche mi rivolgessi loro in cinese, lingua che peraltro non ho mai imparato, non otterrei più vantaggi di quanti ne avrei salendo su un albero di notte e cercando di catturare le stelle con un retino da pesca."

"Proviamo se funziona con un altro tipo di linguaggio", ribatte il capitano, che apre una borsa da lui portata con sé e ne tira fuori perle di vetro, sonagli di lucido metallo e specchietti, offrendoli ai locali. Questi li osservano incuriositi, e paiono gradire il dono. Anzi, evidentemente hanno preso i nuovi venuti per dei commercianti, perchè uno di essi, un poderoso guerriero, prende dalle mani del capitano una collana di perle di vetro, della quale forse intende far dono alla sua sposa, e ricambia con il proprio coltello di selce dal manico di legno squisitamente intarsiato.

"Ho visto nel Borneo gli indigeni locali usare coltelli simili a questo, ma più grossi", sentenzia Ibn Battuta, osservando l'arma micidiale che il capitano tiene in mano come se fosse una reliquia di San Giorgio. "Se però qui siamo nel Borneo, io sono un infedele politeista dell'India."

In ogni caso il ghiaccio ormai è rotto, e gli indigeni si dimostrano amichevoli, riconoscenti per aver ricevuto quelle cianfrusaglie che essi non avevano mai visto, e che quindi per loro sono preziose come diamanti. Petrarca allora tenta di farsi capire, rivolgendosi a quello che sembra il più eminente tra i guerrieri.

"Io, Francesco", sillaba, indicando se stesso. "E tu?" aggiunge, puntando un dito verso di lui.

"Uncas", risponde il suo interlocutore, battendosi un pugno sul petto muscoloso. Poi, protendendo la palma della mano aperta verso di lui, tenta di ripetere il suo nome: "Tra... nse... scoh"

"Che isola è questa?" domanda ancora il poeta, indicando il suolo e tutti gli alberi. L'altro sembra non capire, poi afferra il concetto e proclama: "Man Àttan".

"Manàttan?" ripete Petrarca, senza sapere che quel nome nella lingua locale significa "terra fra le colline". L'indigeno annuisce compiaciuto, ed allora il poeta si volta verso Roald Amundsen, ancora intento a regalare paccottiglia agli abitanti di Thule:

"Credo che non ci sia bisogno di battezzare quest'isola, capitano, perchè un nome ce l'ha già."

"Manhattan", scrive sul suo prezioso documento il notaio del re, senza sapere di avere coniato quello che diventerà uno dei toponimi più famosi dell'intero pianeta.

* * *

Quella sera, quasi tutti i marinai delle tre Saette (tranne le sentinelle rimaste a bordo a sorvegliare le navi) si trovano riuniti sulle rive di un laghetto proprio al centro dell'isola scoperta quel giorno stesso, dove sorge un villaggio di capanne fatte di corteccia, chiamate "Wigwam" dai loro inquilini. Un allegro fuoco scoppietta al centro del villaggio, e molti uomini sono intenti a ballare assieme alle ragazze del villaggio, imitando le loro movenze sinuose, al suono di tamburi di pelle, mentre gli altri siedono attorno al focolare assieme ai guerrieri indigeni, mangiano carne offerta da questi ultimi e bevono birra portata dalle navi. Anche gli abitatori dell'isola mostrano di gradire molto il liquore denso che, evidentemente, non hanno mai assaggiato prima in vita loro, e soprattutto denotano una grande curiosità per i loro abiti e le luccicanti spade che portano ai fianchi.

"Non bevono alcolici, non usano i metalli, vestono pelli, non conoscono strumenti a fiato..." elenca il capitano Amundsen, seduto tra Petrarca e Riccardo di Bury. "Dei selvaggi in piena regola, direi."

"Mi permetto di dissentire", interviene il poeta fiorentino. "Hanno un rudimentale strumento di filatura a mano, usano il telaio e sono abilissimi nell'intrecciare canestri. Intagliano il legno con grande abilità, e conoscono i poteri medicamentosi delle piante. Prima che facesse buio ho visto, dentro una delle loro capanne, uno stregone con una maschera rituale somministrare corteccia di salice a un malato affetto da febbre molto alta, e questo sentirsi subito un po' meglio!"

"Io invece do ragione al capitano, Francesco", replica Riccardo, che bada a tenersi a distanza di sicurezza dai nativi. "Si tingono il corpo di ocra rossa e il viso con pitture rituali, si ungono i capelli con una specie di sego, e certamente sono politeisti come i selvaggi del cuore dell'Africa..."

"Mi dispiace, Monsignore, ma neanche in questo sono d'accordo", riprende Petrarca, intento a mangiare carne da una scodella intagliata nel legno. "Non ho viaggiato in Africa Nera come il nostro Abu Abdallah, però ci vedo ancora abbastanza bene, e qui non sono riuscito a riconoscere quell'infinità di statuette votive che caratterizzavano l'antica Grecia e l'antica Roma, dove c'erano divinità protettrici persino degli uomini che sbadigliano o che fanno i loro bisogni corporali. Ho visto solo quello." Ciò detto, indica l'alto palo di legno squisitamente intagliato che campeggia al centro del villaggio. "I locali lo chiamano Totem, e credo che sia l'equivalente dei nostri crocifissi che fanno bella mostra di sé sopra gli altari delle nostre chiese."

"Non essere blasfemo, Francesco! Paragoni un idolo all'icona del Vero Dio?"

"No, Riccardo. Ma io credo che anche costoro siano monoteisti. Per me adorano qualche Essere Supremo, e se questo è vero sono molto più vicini a noi degli abitanti dell'India e del Catai. Anzi, non è escluso che adoriamo lo stesso Dio con nomi diversi."

"Dovevo immaginare che, a furia di frequentare quel musulmano, avresti cominciato a ragionare come lui", si lamenta il vescovo di Durham. "Ne è prova il fatto che ti periti di assaggiare la carne offerta da quelle donne pagane. Chissà a quale immondo animale essa appartiene."

"È carne di cane", si intromette a sorpresa il capitano Amundsen. "Pare che i locali ne vadano matti. Assaggiarla faceva un po' senso anche a me, ma poi ho fatto forza su me stesso per non scontentare i padroni di casa, e l'ho trovata mangiabile."

"Io la trovo squisita", rincara la dose il poeta, sempre spasmodicamente in cerca di nuove esperienze. Allungando la ciotola verso Riccardo, lo invita: "Coraggio, provala anche tu!"

L'interessato assume all'improvviso un colorito verdastro, si copre la bocca con una mano e batte in ritirata, cercando un luogo appartato. Il capitano ne approfitta per pugnalarlo alle spalle con una battuta sardonica:

"Non avete certamente la stessa reazione, monsignore, quando alla vigilia di Natale i vostri servi vi portano maialini, oche, pesce di fiume, patè, frutta secca e miele per festeggiare la nascita del Salvatore!"

"Suvvia, non canzonatelo", lo riprende bonariamente Petrarca. "Dopotutto lui non avrebbe voluto essere coinvolto in questa disavventura; è colpa mia, se ce l'ho trascinato per soddisfare una mia curiosità filologica."

"Voi però vi adattate molto meglio", osservò Amundsen osservandolo in tralice.

"Io sono latino, e noi latini amiamo fare nuovi incontri e mescolarci con popolazioni nuove, come dimostra la millenaria storia dell'impero di Roma. Gli inglesi sono sempre stati schizzinosi, non hanno mai amato incontrare nuove genti, hanno sempre preferito rimanere soli sulla loro isola, ed hanno sempre ributtato a mare tutti coloro che hanno cercato di invaderla, fin dai tempi di re Artù. Non a caso con i loro vicini scozzesi non fanno altro che litigare."

"È vero, so che fine hanno fatto fare a quel William Wallace detto « Cuore Impavido », che aveva avuto l'audacia di sconfiggerli a Stirling", mormora il capitano con una punta di amarezza nella voce. "Sapete, ser Petrarca, se una maga mi predicesse che un giorno questi inglesi diventeranno i padroni di tutti i mari, mi metterei a ridere di gusto!"

"Mah!" commenta pensosamente Petrarca, inarcando in giù gli angoli della bocca. "« Credette Cimabue ne la pittura / aver lo campo, ed ora ha Giotto il grido, / sì che la fama di colui è oscura... »"

"Come dite?"

"Niente, niente, ser capitano: citavo alcuni versi della Commedia di Dante, a proposito della caducità delle mode e delle istituzioni umane."

Amundsen non ci fa caso, poiché sa bene che Petrarca è il massimo letterato vivente dell'Europa cristiana, e, come da un asino non possono venire che ragli, così da un dotto non possono venire che dotte citazioni. Osservando però i suoi uomini intenti a ballare attorno al fuoco con le fanciulle del posto al suono dei tamburi, indica due uomini seduti uno davanti all'altro dalla parte opposta della radura rispetto a loro e riprende:

"A quanto pare non siete i soli, voi italiani, a fraternizzare facilmente con gli sconosciuti. Il nostro geografo arabo è intento ormai da ore a discutere con quell'Uncas, anche se non capisco in che lingua lo stia facendo."

"Anche gli arabi hanno fondato un immenso impero, fondendosi con le popolazioni sottomesse", riconosce il fiorentino, osservando Ibn Battuta e il guerriero indigeno gesticolare teatralmente uno davanti all'altro. "Forse ho capito come fanno a comunicare. Comunque il nostro giramondo marocchino si è alzato e sta venendo verso di noi, dunque ce lo potrà dire di persona."

Il viaggiatore musulmano viene infatti a sedersi accanto al capitano e al poeta e annuncia ex abrupto:

"Cari amici, se questa è l'Ultima Thule, allora Roma è la quarta città santa dell'Islam."

Petrarca si sporge verso di lui, come se lo avesse sentito dire che San Francesco d'Assisi era in realtà un imam musulmano. "E con questo che cosa vorresti dire?"

"Ciò che ho detto. Ho parlato a lungo con il loro sakem..."

Amundsen lo interrompe: "Avete parlato a lungo con chi?"

"Con il loro sakem. Così si è presentato Uncas. Vuol dire capotribù, o gran sacerdote, o forse entrambe le cose."

"E come avete fatto a parlare con lui, se oggi non ha capito neppure una parola dei vostri esotici idiomi?"

"Con il linguaggio gestuale. Credo di aver capito che in questa terra vivono moltissime tribù, tutte indipendenti l'una dall'altra com'erano quelle dell'Arabia prima dell'avvento del Profeta. Ognuna parla la sua lingua o dialetto, e così, per intendersi, hanno sviluppato il linguaggio dei segni."

"Non dirmi che tu lo conosci!" esclama uno stupefatto Petrarca.

"Diciamo che nei miei viaggi ho conosciuto varie tribù che si esprimevano a gesti, come i Gao della valle del Niger o i Dayaki di Giava. Dopotutto questi tipi di linguaggio sono tutti variazioni di una stessa base; non è stato difficile intenderci."

"Va bene, ammettiamo che ce l'abbiate fatta", borbotta il capitano, spazientito come Riccardo che un infedele maomettano si fosse dimostrato più in gamba di lui. "Che cosa vi ha detto, il sakem di questo posto?"

"Anzitutto, che appartengono alla tribù dei Mohawk, a sua volta facente parte della nazione Irochese."

"Irochesi? Mai sentiti nominare", ammette Petrarca, scartabellando nella memoria. "Non mi risulta che né Strabone né Plinio il Vecchio né Diogene Laerzio parlino mai di un tale popolo abitante nel settentrione."

"Appunto, Francesco. Neppure gli autori arabi a me noti ne parlano mai. Inoltre, il cavallo è assolutamente sconosciuto loro. Ho provato a disegnargliene uno su una pelle, ma Uncas mi ha chiesto a segni dove avessi sognato un mostro del genere."

"Impossibile", commenta Petrarca, sempre più sbalordito. "Non ci sono popoli dell'Eurasia o dell'Africa a cui il cavallo è ignoto."

"Infine", riprende Ibn Battuta, "egli sostiene che nessun navigatore, prima di noi, è venuto mai da oriente attraversando la Grande Acqua."

"Ma se Plinio parla di Thule, deve pur esserci venuto qualcuno prima di noi", interloquisce Roald Amundsen.

"Tiriamo le somme, allora. Evidentemente questa non è l'Ultima Thule, che deve essere situata più a nord."

"Volete dire che avete avuto torto a farci navigare verso occidente?"

"Evidentemente sì, anche se questo non ci ha impedito di scoprire una nuova terra occidentale, mai prima d'ora raggiunta da alcun esploratore."

Il fiorentino ha un'improvvisa illuminazione. "E se, attraversando l'Oceano, avessimo circumnavigato la Terra e raggiunto la costa dell'Asia?"

"Non può essere, Francesco. Eratostene di Cirene misurò la circonferenza terrestre, e vari astronomi arabi hanno ripetuto il calcolo, ottenendo sempre lo stesso risultato. La costa più orientale della Cina dovrebbe distare dall'Inghilterra almeno 15.000 miglia, mentre noi, secondo i miei calcoli, ne abbiamo percorse solo 3.500. No, questa è una terra nuova, e nessuno l'aveva raggiunta prima di noi."

"Se è così, ho fatto bene a prenderne possesso a nome di re Edoardo", si frega le mani il capitano. Francesco Petrarca tuttavia lo disillude:

"E gli Irochesi? Fino a prova contraria, sono loro i padroni dell'isola di Manàttane, e non il re Plantageneto che vive a migliaia di miglia di distanza, e nulla ancora sa della sua esistenza."

"Questo problema è di facile soluzione", ribatte Amundsen, alzandosi in piedi e muovendosi verso il capotribù; naturalmente l'italiano e l'arabo lo seguono immediatamente. Appena arriva davanti a lui, che è seduto sull'erba a gambe incrociate e porta in testa un cimiero fatto di penne di uccello, il norvegese ordina all'arabo:

"Ditegli che intendo comprare quest'isola e tutto il suo contenuto."

Ibn Battuta lo guarda meravigliato, ma poi traduce la richiesta nel linguaggio gestuale.

"Ecco, ora ci ammazzeranno tutti", suda freddo Petrarca, muovendo nervosamente i piedi come se già vedesse gli Irochesi con le frecce incoccate sugli archi, pronti a trasformarlo in un novello San Sebastiano. Ma per fortuna i suoi timori sono infondati, perchè Uncas non batte ciglio e risponde a segni. La risposta viene subito tradotta da Abdallah:

"Chiede cosa potete dargli in cambio."

Amundsen ci pensa su, poi tira fuori di tasca altre perle di vetro e un fazzoletto di stoffa rossa.

"Digli che pagheremo con un intero forziere pieno di queste stoffe e di questi gingilli."

L'offerta viene inoltrata, e la risposta risulta essere:

"Vuole anche un barile di Acqua di Fuoco."

"Di birra, vuol dire? Digli che ne lasceremo due. Allora, affare fatto?"

Ciò detto, lo scandinavo tende la mano verso Uncas, ma l'irochese la ignora e gli offre di sedere accanto a lui, cosa che il capitano fa immediatamente, imitato dall'interprete e dal poeta. Subito un altro indigeno porta una strana canna lunga un braccio, che termina con una scodellina da cui escono delle spire di fumo bianco.

"Calumet", spiega il sakem, vedendo i visi stupiti dei suoi ospiti; cacciatasi un'estremità della canna tra le labbra, aspira alcune boccate e poi esala spire di fumo dalla bocca.

"Incredibile! Dei mangiatori di fumo!" esclama il poeta, figurandosi nella mente degli esametri latini per descrivere quell'inaudita situazione. Ma il più stupito è Amundsen, che si vede porgere lo strano ordigno da parte del capotribù.

"Credo che egli voglia che lo imitiate, per stringere il vostro patto", spiega Ibn el-Rahman, inviando con gli occhi penetranti un altro chiaro messaggio al suo capitano: eseguite, o il capo si offenderà. Amundsen probabilmente afferra quest'ultimo concetto, perchè prende la cannuccia intagliata nell'osso, si porta il bocchino alle labbra, aspira, e diviene di tutti i colori dell'arcobaleno, strabuzzando gli occhi come se quel fumo gli fosse penetrato fin nel cervello.

"Per... me... ba... sta... co... sì... gra... zie..." farfuglia, con gli occhi che gli piangono come se vi avesse strofinato sopra due libbre di cipolle, e passa il "calumet" a Petrarca. Quest'ultimo esita, se lo porta alla bocca, aspira, ed a sorpresa esala volute di fumo bianco con aria compiaciuta.

"Però! Mica male, questo calumetto!" esclama, senza neanche un colpo di tosse. "Abdallah, vuoi provare?

"Perchè no?" annuisce l'arabo, prendendo la pipa e fumando a sua volta. "Hai ragione, davvero piacevole, anche se non quanto una bella donna", commenta compiaciuto, restituendo lo strumento al sakem, che si mostra molto soddisfatto. Amundsen invece deve essere quasi portato via a braccia da Petrarca e da Ibn Battuta, perchè la gola gli brucia come se avesse inghiottito dei carboni ardenti, e il volto gli è divenuto paonazzo come se avesse scolato due pinte di acquavite.

"Un po' d'acqua fresca vi rimetterà in sesto", sorride il poeta, ma il capitano gorgoglia:

"Glab... di tutto mi ero preparato ad affrontare di là dall'oceano, ma non... ma non quel dannato fumo giù per il gargarozzo!" Subito dopo tuttavia riesce ad atteggiare il volto a un sorriso mefistofelico: "Ma ne è valsa la pena; oh, se ne è valsa la pena! Cough, cough! Lo sapete qual è il valore del baule di cianfrusaglie e delle due botti di birra con cui ho comprato l'intera isola? 24 sterline! I miei antenati vichinghi, dei veri corsari del mare, sarebbero fieri di me!"

A quel punto i tre incrociano Riccardo di Bury, appena riavutosi dalla sua crisi di vomito, che osserva Amundsen, si mette le mani ai lati della testa ed esclama: "Oh, mio Dio! Questi diavoli dell'Inferno hanno cercato di avvelenare il capitano!"

"Forse avrebbero fatto bene a farlo, vista la scaltrezza con cui egli li ha raggirati!" commenta amaramente l'arabo, mentre Petrarca, scuro in volto, non può fare a meno di autocitarsi com'è suo continuo vezzo:

"Speriamo solo che il buon Uncas non debba un giorno ripetere i versi da me stesso composti:

« Misero me, che tardo il mio mal seppi;
et con quanta fatica oggi mi spetro
de l'errore, ov'io stesso m'era involto! »"

* * *

Giovedì 16 febbraio 1335

Seconda parte della relazione finale scritta da Roald Amundsen, capitano della Marina Reale Britannica, per Sua Maestà Edoardo III Plantageneto, per grazia di Dio re d'Inghilterra e d'Irlanda. Questa relazione avrebbe dovuto essere consegnata direttamente nelle vostre mani, Maestà; ma, viste le condizioni di estrema difficoltà nelle quali si trova la mia nave, non sapendo se potrò mai tornare a baciare il suolo inglese, sigillo una copia di questo documento in una botticella e lo affido alle onde, nella speranza che, se noi non riusciremo a sopravvivere, qualche pescatore la trovi in mare e ve la consegni, portandovi a conoscenza delle terre di là dal mare che io ho annesso alla vostra corona.

Nella prima parte della mia relazione, contenuta anch'essa in questa botticella, ho già descritto il viaggio di andata e la scoperta dell'isola lussureggiante che rappresenterà il vostro primo possedimento d'oltreoceano; ora descriverò le scoperte successive ed il viaggio di ritorno. Il nostro geografo aveva subito affermato con sicurezza che l'isola di Manhattan non poteva far parte della leggendaria Ultima Thule. "Se questa non è Thule, non resta che cercarla più a nord", dissi io, e così sabato 15 ottobre 1334 salpammo dall'isola, dopo aver portato con noi alcuni Irochesi che Monsignor Riccardo di Bury si preoccupò immediatamente di battezzare. Costeggiammo l'isola lunghissima e stretta che sta ad oriente di Manhattan, e che io, trovandola lunga quasi 100 miglia, ho battezzato Long Island, mantenendoci nel canale chiuso tra essa e la costa della terra sconosciuta, le cui dimensioni apparivano infatti di giorno in giorno più straordinarie; e ciò escludeva che potesse trattarsi di un'isola come l'Islanda o addirittura come le Shetland. Ogni tanto prendevamo terra sull'isola e incontravamo nuovi selvaggi, con i quali Ibn Battuta comunicava grazie all'alfabeto dei segni. Io dico che l'Inghilterra potrà fare buoni affari con questi popoli, che si sono dimostrati abili cacciatori ed artigiani, ma che non danno alcun valore all'oro e al denaro. Intanto messer Francesco Petrarca s'era messo in testa di imparare dagli uomini e dalle donne indigene che avevamo imbarcato la lingua irochese, e di insegnar loro il latino, ma questi obiettivi non sono stati compiutamente raggiunti neppure ora, che siamo giunti a un passo dalle coste europee.

Giunti all'estrema punta orientale di Long Island, Riccardo di Bury vi fece rizzare  una grande croce, che fosse visibile a molte miglia di distanza. Io approvai l'idea, perchè poteva essere un buon mezzo per poter ritrovare quel punto preciso, anche se il nostro cartografo musulmano obiettò che i dati di latitudine e longitudine erano più che sufficienti per rintracciarlo; ma nessuno diede retta a quell'infedele. Ripreso il mare, raggiungemmo un arcipelago disabitato, lo attraversammo seguendo la linea di costa del continente, quindi doppiamo un capo e scoprimmo una baia chiusa tra la terraferma ad est, a sud e ad ovest. Pensammo di scendere a terra ma, appena sulla spiaggia, il mozzo della Painted, Samuel Cod, di soli diciannove anni, fu raggiunto da una freccia indigena e morì senza avere il tempo di dire Gesù e Maria. Anche altri uomini furono feriti dalle frecce dei tiratori nascosti nella fitta foresta di conifere, prima che riuscissimo a recuperare il corpo dello sfortunato giovane e a riportarci al largo. Samuel Cod fu sepolto all'estremità del capo appena doppiato, che decidemmo di chiamare in suo onore Capo Cod. Così, pur perdendo la vita, egli divenne immortale almeno sulle carte nautiche.

Il giorno dopo sbarcammo sulla costa occidentale della baia, in un'insenatura molto favorevole all'approdo, dove vedemmo venirci incontro un'intera tribù di Irochesi, guidati dal loro capo con un grande cimiero di penne d'uccello. Vista la cattiva esperienza del giorno precedente, ci predisponemmo alla battaglia, ma il capo ci venne incontro con l'ascia abbassata, gridando una parola che ser Petrarca credette di tradurre con "Pace!" Lui pure allora si mosse verso gli indigeni gridando, con il suo fare teatrale tutto italiano:

"I' vo gridando: « Pace, pace, pace! »"

In quel momento pensai che il poeta che ci eravamo portati dietro fosse spacciato, ma a sorpresa nessun selvaggio lo sfrecciò, lui e il capo fraternizzarono ed Ibn Battuta lo raggiunse per fungere da interprete con il solito linguaggio gestuale. Venimmo così a sapere dal gran capo, il cui nome era Massassoit, che le varie tribù degli Irochesi erano in guerra tra loro, e quella che aveva ucciso Samuel Cod era appunto la sua rivale per il controllo di quel territorio. Io ordinai al notaio reale di prendere nota che anche il "territorio di Massassoit" era incluso nelle terre rivendicate dalla corona d'Inghilterra, ma il buon uomo continuava a storpiare i nomi irochesi, perchè scrisse Massachussets. Il vescovo di Durham intonò l'Ave Maria, come sempre faceva quando prendevamo possesso di un nuovo territorio, e a sorpresa anche gli indigeni, evidentemente amanti del canto, si unirono a lui, storpiando terribilmente l'inno e suscitando così l'ilarità dei miei uomini. Ma Petrarca li redarguì in modo brusco:

"Somari! Apparireste ancor più ridicoli agli occhi degli Irochesi, se tentaste di seguirli intonando le loro superbe canzoni di guerra!"

Durante la nostra permanenza presso quella tribù riuscii ad evitare di dover fumare di nuovo quel loro orrendo calumet, che il Gran Cancelliere definiva "strumento diabolico" e che invece l'italiano e l'arabo parevano apprezzare tantissimo; scoprimmo tuttavia una nuova pianta, un tubero commestibile che gli Irochesi chiamano "patata", normalmente coltivato nei loro orti. Tutti noi apprezzammo moltissimo quei tuberi arrostiti sul fuoco, e così ne acquistammo un bel po' in cambio delle solite perline e specchietti, riempiendone le stive delle navi. Vedemmo anche strani gallinacei grossi il quadruplo di una gallina, con i bargigli rosso fuoco e le penne bianche e nere, la cui carne pure apprezzammo moltissimo. Tutte queste scoperte confermarono i dotti al seguito della nostra spedizione che quella terra tutto poteva essere, fuorché l'Ultima Thule vagheggiata da Seneca. Ma le loro disquisizioni davanti al fuoco dell'accampamento furono bruscamente interrotte da un imprevisto: il villaggio di Massassoit venne attaccato da una tribù rivale, che noi mettemmo facilmente in fuga grazie alle nostre corazze e alle nostre spade di metallo, senza subire nemmeno una perdita. Il capo Massassoit ce ne fu molto grato e ci regalò pelli di orso e schiavi, che imbarcammo sulle nostre navi. Dopo aver "comprato" anche vaste porzioni di quelle terre in cambio di un tozzo di pane, salutammo il capo e continuammo la nostra esplorazione della nuova terra, che sempre di più ci appariva vasta perlomeno quanto la Groenlandia.

Venerdì 28 ottobre sbarcammo in una terra che gli indigeni locali chiamavano Main, subito storpiato in Maine dal notaio reale. Si trattava di un territorio fortemente boscoso, ricoperto da pini di dimensioni colossali, che probabilmente già svettavano in cielo mentre l'imperatore Claudio conquistava la Britannia. La costa era profondamente incisa da baie, fiordi ed insenature, tanto da ricordarmi la natia Norvegia. Il latinista Petrarca si mise in allarme, perchè il nome di quella terra gli ricordava il latino "Magnus", "grande".

"Forse potrebbe trattarsi della mitica Hyperboraea di cui parlano certe leggende", propose, tanto per non perdere la fama di colui che la sapeva più lunga di tutti. "Una terra molto vasta, posta a nord della Scandinavia e visitata da alcuni arditi navigatori romani e norreni."

"Mi spiace deluderti", gli ribatté Ibn Battuta, che faceva quasi a gara di erudizione con lui, "ma ci troviamo appena alla latitudine di Marsiglia."

Petrarca non si perse d'animo. "Forse la costa dell'Hyperboraea verso occidente piega decisamente a sud, e noi ne stiamo visitando le propaggini meridionali."

"Ma allora non è più l'Hyperboraea", feci notare io. "Taglierò la testa al toro, battezzando più semplicemente questa terra New England, cioè Nuova Inghilterra."

"Non potevo certo sperare che la chiamaste Nuova Spagna", ammise l'arabo di Granada. Subito dopo però non volle rinunciare ad avere l'ultima parola: "In ogni caso, Hyperboraea o Nova Anglaterra che sia, possiamo ormai affermare di aver scoperto un nuovo continente."

La notizia fu accolta con grande entusiasmo da me e da Petrarca, ma con un certo gelo dai nostri marinai, i quali erano venuti con noi a cercare l'Ultima Thule per un solo scopo: individuare l'oro e altri metalli preziosi. Intendiamoci, neanche a me l'oro dispiace, ma io so bene che tutte le ricchezze trovate nelle terre che ora vi appartengono, sire, spettano solo a voi, e solo voi potete concedermene l'usufrutto. Credo che sia stato questo a intorbidare i miei rapporti con Martin Arblaster. Il comandante della Painted non cercava la fama o la vostra riconoscenza, ma soprattutto il suo tornaconto personale, ed era insoddisfatto dalla scarsità di metalli preziosi da noi fino ad allora individuati. Secondo lui Riccardo di Bury era un fanatico religioso, Petrarca un intellettuale con la testa tra le nuvole, Ibn Battuta uno stregone che intendeva tenerci lontani dall'oro per non guastare la sua ricerca della pietra filosofale, ed io un idealista troppo fedele a Vostra Maestà e troppo poco al mio portafoglio. E così, meditò di andare per la sua strada a correre dietro al suo miraggio.

Martedì 8 novembre sbarcammo su una terra che battezzammo Nuova Scozia, perchè l'uomo di vedetta che la aveva avvistata per primo era di nazionalità scozzese. Il mattino dopo però avemmo una brutta sorpresa: Martin Arblaster e la Painted erano sparite. Quel codardo aveva tagliato la corda e, abbandonata la Saint Claire e la Saint Mary, era andato a cercare oro nella grande baia che si apriva tra la Nuova Scozia e la Nuova Inghilterra, fiordi dell'isola. Andai su tutte le furie, ma poi decisi di proseguire per la mia strada. Che Arblaster andasse al diavolo; dissi a Vincent che poteva seguire suo fratello, se voleva, perchè a me bastavano una nave e i sapienti che avevo a bordo, per ritornare a casa. Vincent tuttavia mi restò fedele, non perchè disdegnasse l'oro, ma perchè evidentemente aveva paura di non riuscire a ritrovare da solo la rotta per rientrare a Southampton. Comunque le nostre due navi circumnavigarono la Nuova Scozia e, attraversato uno stretto istmo, entrarono in un vasto golfo le cui rive verdeggiavano di conifere, ed i cui paesaggi erano uno più pittoresco dell'altro. Scoprimmo una nuova, grande isola che chiamammo Isola del Principe Edoardo, in onore del vostro figlio primogenito, Edoardo di Woodstock Principe di Galles, che ormai avrà quasi sei anni. Approdammo di nuovo sulle coste del continente, che ebbero il nome di Nuova Francia in onore alla nazionalità del nostro Papa, Jacques Duése alias Giovanni XXII.

"Chiare, fresche, dolci acque..." cominciò a poetare il solito Petrarca, osservando i mille ruscelletti che rigano quelle terre selvagge. Non abbastanza selvagge però da scoraggiare la vita umana, visto che ivi incontrammo altri indigeni. Ma essi non erano più Irochesi, perchè parlavano una lingua differente e si abbigliavano in maniera decisamente diversa. Esprimendosi a gesti, il viaggiatore musulmano riuscì a capire che essi definivano sé stessi Uroni. Quando indicò il loro villaggio di capanne, essi pronunciarono la parola "kànata". E così, il notaio reale scrisse subito "Canada" sui suoi preziosi atti notarili.

"Guarda, leguleio, che probabilmente « kànata » significa semplicemente villaggio o accampamento", provò a spiegargli Ibn Battuta, ma quegli non gli rispose neppure una parola, sdegnando di conversare con un infedele. L'arabo alzò le spalle, e così penso che il nome "Canada" resterà appiccicato a quelle terre per sempre.

Seguendo i consigli di Ibn Battuta navigammo poi verso occidente, e ai primi di dicembre ritrovammo la Painted, all'altezza di un promontorio che avevo battezzato Capo Bretone. Quello sfacciato di Martin Arblaster ebbe l'impudenza di venire sulla Saint Mary come se nulla fosse stato, ad annunciarmi che aveva finalmente scoperto l'oro in alcune miniere poste tra i monti di quella che aveva battezzato Arblasterland, e che aveva subito ridotto in schiavitù intere tribù indigene pacifiche per sfruttarle. Se non mi avessero tenuto Riccardo di Bury e il mio secondo, probabilmente gli sarei saltato addosso e lo avrei disfato. Ma mi trattenni, preferendo consegnarlo direttamente alla vostra giustizia per appropriazione indebita di tesoro dello stato, l'ingenuo.

Petrarca ebbe purtroppo delle parole profetiche: "« O mondo, o pensier vani! / O mia forte ventura a che m'adduce! » A Dio Onnipotente probabilmente non piacerà il fatto che alcuni di noi hanno ridotto in schiavitù alcuni dei suoi figli per impossessarsi di quel biondo metallo che, con il suo alto peso specifico, sempre ha trascinato l'anima umana giù giù verso l'inferno!"

Ed aveva ragione. Dopo aver scoperto una nuova isola da me battezzata Newfoundland, in latino Terranova, la più orientale fra tutte quelle da noi fino ad allora raggiunte, ne costeggiammo verso ovest tutta la scoscesa costa meridionale, mentre dal cielo cadeva una fitta neve. E, quando meno ce lo aspettavamo, la punizione giunse. Nella notte di Natale del 1334, infatti, il nocchiero della Saint Mary, Juan de la Cosa, fu colto da un colpo di sonno che io sospetto di origine non umana, e affidò il timone dell'ammiraglia ad un giovane inesperto, il quale non si accorse dei fondali bassi. Così l'orgoglio della nostra flottiglia s'incagliò e nel gabone di prua si produsse un profondo squarcio non riparabile. Grazie al Cielo eravamo a poca distanza da terra, ed inoltre la Saint Claire si lanciò subito al soccorso. La nave purtroppo non era recuperabile; allora, dietro consiglio di ser Petrarca, feci recuperare tutto il carico possibile e lo trasferii sulla Saint Claire, mentre con il legname feci costruire un forte sulla vicina costa, che si rivelò essere l'estremità occidentale di Terranova, protesa verso l'immenso Oceano Atlantico. Siccome il 27 dicembre ricorre la festività di San Giovanni Evangelista, battezzai quel forte, il primo in assoluto costruito nel Nuovo Mondo, con il nome di Saint John's, e vi lasciai una guarnigione di uomini, tutti volontari, promettendo di tornare a prenderli il più presto possibile. Sulle due navi rimaste, del resto, non c'era posto per tutti.

Il primo viaggio al di là dell'Oceano, 1334-1335 (nel riquadro Francesco Petrarca, 1304-1374)

Trascorremmo là alcune settimane, bloccati dal gelo e dalla neve che cadeva copiosamente dal cielo, nonostante ci trovassimo a latitudini piuttosto basse. Ibn Battuta, che non aveva mai sopportato un inverno simile, neppure nel cuore dell'Asia, disse che probabilmente era colpa delle correnti gelide che scendevano dal Polo Artico, e rendevano quelle terre molto più fredde dell'Europa. In quel momento ringraziai il Cielo per avermi fatto nascere sulla sponda orientale dell'Oceano! Non appena la tormenta di neve finì, il 16 gennaio diedi ordine alla Painted e alla Saint Claire di salpare alla volta dell'Europa, temendo che altre tempeste di neve ci bloccassero fino a primavera. Ma, ancora una volta, la Nemesi ci perseguitava.

Infatti la traversata di rientro fu tribolata da violente procelle, evidentemente comuni nell'Oceano in questa stagione. Quando eravamo già alla latitudine delle Azzorre, Martin Arblaster si separò di nuovo da noi: evidentemente voleva arrivare in Inghilterra prima di me, sperando che un'altra tempesta mi spazzasse via per prendersi lui tutto il merito. E forse sarà proprio così perchè, quando Ibn Battuta già giudicava che le coste britanniche fossero ormai ad un passo, una nuova furiosa tempesta ha investito la mia nave: un vero e proprio uragano che rischia seriamente di colarla a picco. Ecco perchè affido all'oceano tempestoso una parte dei miei documenti, nella speranza che qualcuno li rinvenga. Riccardo di Bury sta celebrando una messa sottocoperta per impetrare da Dio la nostra salvezza, ed anche l'arabo si è messo fervorosamente a pregare Allah sul suo tappetino, mentre credo che ser Petrarca abbia avuto la mia stessa idea, e stia mettendo frettolosamente ordine nei suoi appunti per affidare anch'essi alle acque. Chiudo qui il mio resoconto, e spero di potervelo proseguire di persona. Se non sarà così, fate dire messe per le nostre anime.

Io, Roald Amundsen, ho scritto questo in piena lucidità mentale, e giuro di non aver omesso nulla al mio dettagliato resoconto.

* * *

Tutta Londra è in festa oggi. Da ogni finestra pendono drappi colorati, e i gonfaloni con i tre leoni d'Inghilterra e con la ginestra dei Plantageneti garriscono su tutte le torri; le vie sono invase da una folla osannante, ad ogni angolo musici e menestrelli fanno udire la propria voce modulata sul suono dei loro liuti, e i funzionari statali distribuiscono a piene mani grano, orzo e monete di bronzo ai cittadini festanti che si accalcano attorno a loro. In alcune piazze sono allestiti teatri all'aperto dove si esibiscono compagnie di attori girovaghi, ignari del fatto che i loro discendenti, su quelle stesse piazze, metteranno in scena i capolavori immortali di Shakespeare. Persino il cielo per una volta è sgombro sia di pioggia che di nebbia, come se volesse farsi partecipe all'euforia collettiva. Ma non si festeggia il compleanno del principe Edoardo, né qualche gloriosa vittoria sui francesi o sugli scozzesi: si festeggiano invece i nostri eroi, felicemente tornati dalla traversata dell'Oceano, nonostante le tempeste che avevano minacciato di conservare il segreto delle terre ricche e sconosciute da essi scoperte.

Ed eccoli, gli intrepidi navigatori dell'ignoto, attraversare la City of Westminster, la città regale, tutta palazzi e ville con la sua popolazione di cortigiani e feudatari, che stride sensibilmente con l'intrico dedaleo di vicoli e approdi sul Tamigi del resto della città, abitata dal popolo minuto. Eccoli salire i gradini del Palazzo Reale, in riva al Tamigi, oggi non più visibile perchè verrà disintegrato dal furioso incendio del 1666, ma sulle cui fondazioni sorge ai giorni nostri il Palazzo del Parlamento con la caratteristica Torre dell'Orologio. Ecco il capitano Amundsen con l'uniforme di Gran Gala della Marina Britannica; ecco Francesco Petrarca in abiti di broccato trapunti d'oro e con le immancabili scartoffie sotto il braccio; ecco il vescovo di Durham, ora vestito di rosso e con il cappello cardinalizio, perchè il nuovo Papa Benedetto XII (l'anziano Giovanni XXII è morto il 4 dicembre 1334, mentre i nostri eroi erano di là dal mare) lo ha subito creato cardinale come premio per la sua intuizione; ecco anche Abu Abdallah Muhammad Ibn Abdallah l-Lawati t-Tangi Ibn Battuta, con l'abito e il turbante delle grandi occasioni, che porta sul braccio un aquilotto dalla testa bianca, di una razza sconosciuta in Europa, da lui stesso catturato nel lontano Canada; ecco i fratelli Arblaster, Martin e Vincent, il primo dei quali ha l'aria particolarmente scornata perchè, pur essendo sbarcato per primo nel porto di Bristol, Edoardo III con regale correttezza si è rifiutato di riceverlo prima di Roald Amundsen, relegandolo così nel posto che gli spetta, quello di comprimario; ecco tutti i marinai che hanno preso parte all'ardita spedizione, ecco gli indigeni portati da oltremare con le cassette d'oro, gli animali e le piante esotiche, avanzare verso il loro re, Edoardo III, bello come un dio sull'Olimpo, che li attende sul suo trono d'oro posto in cima alla scalinata.

"Sono così emozionato che non mi viene da comporre neppure un esametro latino!" mormora Petrarca in direzione di Riccardo, che a sua volta gli sussurra senza distogliere gli occhi dal proprio sovrano:

"Piantala, Francesco! È ora finalmente che li scrivano gli altri in tuo onore, i versi encomiastici!"

Ed eccoli, il capitano, il poeta, il cardinale e il geografo, inginocchiati davanti al trono del Plantageneto, che ordina loro:

"Alzatevi! Per una volta dovrebbe essere il Re ad inchinarsi davanti a voi, che avete sfidato i peggiori tra i nemici: l'ignoranza, la superstizione e il terrore dell'ignoto!"

Amundsen obbedisce, bacia il mantello di ermellino del sovrano e poi mormora con il cuore in gola: "Altezza Serenissima, vi racconterò la storia dei nostri 224 giorni di viaggio, necessari per scoprire il continente della Nuova Inghilterra!"

"Ci vorrebbe troppo tempo", sorride Edoardo, "ed io ho già ricevuto il rapporto che mi hai spedito appena sei sbarcato a Southampton, una copia di quello che hai affidato alle acque dell'oceano durante la tempesta. Dimmi piuttosto che accadde dopo."

"Semplice, maestà. Il mare ebbe pietà di noi, ci graziò, ed io feci voto di recarmi in pellegrinaggio in Terrasanta per essere sfuggito alla furia delle onde."

"Non è così semplice come lui lo racconta, maestà", interloquisce Riccardo di Bury. "Egli infatti ha omesso di dirvi che, mentre noi tutti eravamo sottocoperta a pregare, egli è rimasto tre giorni e due notti appiccicato al timone come una remora allo squalo, incurante delle ondate che spazzavano il ponte come colpi di frusta, ed io stesso lo ho udito gridare, come se si rivolgesse direttamente a Poseidone: « Io ti domerò, o mare, perchè io sono il più forte! »"

"Monsignore sta esagerando a bella posta per far sembrare più eroico l'esito della nostra spedizione", commenta imbarazzato il capitano di natali norvegesi. "Invece tutto si è svolto in maniera molto più prosastica. Chetatasi la tempesta per autoesaurimento, come un pugilatore che non ne può più di continuare il combattimento, ci accorgemmo che essa ci aveva trascinato di fronte ai lidi francesi. Poiché le vele della Saetta erano ridotte a un colabrodo e il canale della Manica era lontano ancora centinaia di miglia, il 4 marzo decisi di approdare a Bordeaux, dove riparammo i danni. Un messo del Re di Francia venne apposta a Bordeaux per chiedermi se davvero avevamo valicato l'oceano misterioso e trovato l'Ultima Thule, poiché Filippo VI della Casa di Valois aveva saputo dai suoi informatori della nostra partenza. Io restai sul vago ma ammisi il nostro successo, e mandai alcuni frutti e tuberi d'Oltremare a Parigi come vostro dono personale (così lo presentai) per la sua ospitalità. A questo punto, ultimate le riparazioni, levammo gli ormeggi e il giorno 15 marzo, finalmente, la Saint Claire gettò l'ancora nell'amato porto di Southampton, da dove vi ho spedito il mio rapporto in attesa di potervi incontrare di persona."

"Ed ora ci siete, ammiraglio", si limita a commentare il sovrano. Roald corruga la fronte, come se lo avesse sentito parlare una lingua sconosciuta, quindi sbarra gli occhi ed esclama:

"Ammiraglio? Io... io non mi merito tanto..."

"Caro Amundsen, il re di Francia sarà inetto alle armi ma non è certo uno stupido, e scommetto il Tesoro della Corona che già sta allestendo una spedizione per cercare lui pure di prendere possesso di nuove terre di là dal mare. Appena la notizia arriverà a Genova e a Venezia, sono certo che anche le due Repubbliche Marinare vorranno essere della partita, perchè il Mediterraneo perderà inevitabilmente importanza a vantaggio dell'Oceano. Io non posso permettermi di farmi scavalcare dai miei rivali di sempre, o addirittura di vedermi soffiare le terre delle quali il notaio reale ha preso formalmente possesso a mio nome, da Manhattan fino all'isola di Terranova. Temo perciò che il vostro pellegrinaggio in Terrasanta dovrà essere rimandato o commutato con un altro voto, perchè io ho bisogno di un ammiraglio capace, in grado di pilotare la flotta di diciassette navi e 1.200 uomini che sto allestendo per andare a prendere formale possesso della Nuova Inghilterra. Ho bisogno insomma di un Ammiraglio dell'Oceano; e chi meglio di voi può ricoprire quest'incarico? Naturalmente spero che anche Ibn Battuta voglia continuare a servirmi, perchè ho bisogno di un cartografo che mappi con la maggiore accuratezza possibile tutte le nuove terre appena scoperte."

"Mi piacerebbe tornare ad occupare la mia cattedra all'Università di Granada", risponde l'arabo profondendosi in un cerimonioso inchino, "ma la sete di vivere nuove avventure è più forte di ogni altro sentimento, e quindi non posso fare a meno di accettare."

"Ne ero certo", annuisce il re, "ed infatti ho scritto una lettera all'Emiro di Granada perchè mi mandi altri geografi e matematici che vi coadiuvino durante le nuove missioni: nei secoli che ci separano da re Artù, noi inglesi abbiamo maneggiato più le armi che non le matematiche, ed invece ora queste ci saranno necessarie, se vogliamo ottenere il predominio sull'Oceano."

"Mi avevano parlato di voi come di un sovrano illuminato", interviene a questo punto Francesco Petrarca, che sembra aver vinto l'iniziale ritrosia, "ma devo dire che avevano sbagliato per difetto, perchè in un'era in cui tutti pensano solo alla forza bruta delle armi, voi avete capito la forza sublime del pensiero."

"Fino a prima che il mio Cancelliere mi proponesse quest'impresa, anch'io pensavo che potessi coprirmi di gloria solo aspirando al trono di Francia", ammette sospirando il Plantageneto, "ma ora, grazie a tutti voi, ho cambiato idea. Non ci sarà alcuna guerra in Europa, ora che abbiamo davanti a noi un continente intero da esplorare e conquistare."

"Spero allora che avrete bisogno anche di intellettuali per realizzare questo obiettivo, vostra maestà."

"Oh sì, lord Petrarca. Avevo giusto bisogno di uno storico che descrivesse in ottimo latino la nostra conquista delle terre d'oltreoceano..."

"Lord Petrarca?" lo interrompe sorpreso il poeta, senza neppure accorgersi dell'etichetta che impedisce ad alcuno di togliere bruscamente la parola al re. "Mio sire, io sono fiorentino, non inglese, e non penso di poter sedere nella Camera dei Lord alla pari dei discendenti dei valorosi che accompagnarono Riccardo Cuor di Leone alla Crociata..."

"Adesso capisco perchè avete potuto riuscire in tanto inaudita impresa", riprende Edoardo ripagandolo con la stessa moneta, cioè interrompendogli a mezzo il discorso: "solo gente ad un tempo intrepida e modesta come voi ce la poteva fare. Il Santo Padre ed il cardinal Colonna hanno già dato il loro beneplacito affinché voi passiate al mio diretto servizio, milord. Beh? Che fate lì con la bocca spalancata? Non mi mettete al tappeto con una delle vostre dotte citazioni latine, nelle quali siete un maestro?"

"Farò di meglio", coglie la palla al balzo l'erudito toscano. "Al posto del De Africa ho iniziato a scrivere un poema dedicato a voi, altezza, intitolato « De Terra Incognita Sed Nunc Reperta », che comincia con questi versi..." Tratta da sotto il braccio una delle sue pergamene, declama:

« Et mihi conspicuum meritis belloque tremendum,
Musa, virum referes, Anglis cui fracta sub armis
Reperta aeternum Thule attulit Ultima nomen.
Hunc precor exhausto liceat mihi sugere fontem
Ex Helicone sacrum, dulcis mea cura, Sorores,
Si vobis miranda cano... »
(4)

"Vi consiglio, maestà, di nominarlo Duca di Groenlandia, così potrà trascorrere tutto il tempo che vuole a proclamare i suoi versi alle foche e ai leoni marini", ironizza l'ammiraglio Amundsen, turandosi le orecchie con le mani guantate. Tutti ridono di quella battuta, compreso il potente sovrano, e persino l'esotico aquilotto tenuto sul braccio da Ibn Battuta lancia verso il cielo il suo richiamo, senza sapere che un giorno finirà sullo stemma della nazione più potente del mondo.

* * *

Arquà, 13 maggio 1372

Caro Giovanni,

torno a scriverti dopo un certo tempo perchè, nonostante i libri mi tengano sempre compagnia, ogni tanto sento il bisogno di comunicare i miei pensieri anche a qualche essere umano in carne ed ossa. Fortunatamente la sincope che mi ha colto due anni fa, mentre ero in viaggio per Roma dove Urbano IV mi ha chiamato dopo avervi riportato la sede pontificia, non mi ha reso impossibile scrivere, altrimenti penso che la vita non avrebbe più avuto senso, per un intellettuale come me. Che ne è del pittore, quando diventa cieco, o del suonatore di flauto, quando diventa sordo? Sono come il sale ha perso il sapore, e lo si butta via, e tutti lo calpestano per la strada. Ma evidentemente qualche merito devo averlo acquisito, agli occhi dell'Onnipotente, se mi ha lasciato la capacità di intendere e di volere, nonostante la mia età ormai avanzata e la vista che mi si è fortemente indebolita. Anche in questo caso quell'ottico olandese, che ho incontrato a Milano ormai dieci anni or sono, è venuto in mio soccorso e mi ha fabbricato questo paio di lenti che porto appoggiate sul naso, e che mi consentono di leggere e di scrivere in maniera decente. Osservando il mondo attraverso queste due lenti di vetro, mi sembra di tornare ai giorni felici della mia gioventù, quando attraversavo l'oceano con Roald Amundsen, con Riccardo di Bury, con Abu Abdallah Ibn Battuta, e con tutti gli amici di un tempo che oggi non sono più. In questo mio placido rifugio sui colli Euganei mi sembra ancora di sentire il vento dell'oceano sulla faccia, il sapore di salsedine sulle labbra, le grida degli uccelli marini e i tamburi degli indigeni pellirosse nelle orecchie... È proprio vero, Giovanni: quando i ricordi superano di gran lunga le speranze, vuol dire che un uomo è davvero vecchio.

Ne ho fatta, di strada, da quando varcai per la prima volta l'Oceano a bordo della Saint Mary. Sono diventato Pari d'Inghilterra, Conte Palatino del Sacro Romano Impero e sono stato eletto tra i 25 membri dell'Ordine della Giarrettiera. Ormai il mio poema "De Terra Incognita Sed Nunc Reperta" è diventato un classico della letteratura, è stato tradotto in italiano, francese, inglese, tedesco, polacco, greco ed arabo, e mi ha dato quella fama come poeta a cui fin da giovane ho aspirato. Io ho avuto l'onore di scoprire molte epistole di Cicerone che si credevano perdute, tra cui "Ad Atticum", "Ad Brutum" e "Ad Quintum"... Ma ho conosciuto anche molti momenti tristi: la morte di Riccardo di Bury, della mia amata Laura, di mio figlio Giovanni... E, soprattutto, ho visto gli uomini cadere, anche nel Nuovo Mondo, in quegli errori che il mio amico Riccardo sperava di evitare "dirottando" l'interesse di re Edoardo III, che regna ancora dopo quasi mezzo secolo, dalla Francia alle Terre al di là del Mare.

Sì, Giovanni mio, tu non hai idea di quante volte io mi sono rigirato nel letto, incapace di dormire, pensando che delle stragi degli indigeni neoinglesi in parte ero responsabile anch'io... Proprio stanotte ho tirato le somme della mia movimentata esistenza, e non sono ancora riuscito ad assolvermi da quelle che ritengo essere le mie colpe. che solo Nostro Signore può perdonarmi. Eppure, con quanta gioia ripartimmo per quel secondo viaggio verso la Nuova Inghilterra, il 25 settembre 1335, un giorno così lontano dal presente eppure così vivo nella mia memoria, come se fosse ieri l'altro... il convoglio di diciassette navi salpò dal porto di Bristol e dopo neppure quaranta giorni di navigazione approdò alle coste di Terranova, dove avevamo lasciato il piccolo presidio di marinai inglesi. Ne ritrovammo però uno solo: tutti gli altri erano morti. Alcuni erano stati uccisi dagli indigeni, ai quali avevano rapito le donne, altri si erano scannati tra di loro. La conquista del Nuovo Mondo non poteva cominciare sotto i peggiori auspici.

Parlando in questi termini, io ti sembrerò l'antico romano superstizioso, che si rifiutava di uscire di casa se inciampava sulla soglia; ma, se ripensi a quanto è accaduto con il senno di poi, comprenderai che le mie preoccupazioni erano più che giustificate. Sulle nostre navi erano infatti imbarcate decine di signorotti anglosassoni, figli cadetti di nobili famiglie, di Pari del Regno, i quali non avevano speranze di ereditare un patrimonio in casa loro, e così venivano nella Nuova Inghilterra con l'intento di procurarsene uno nel modo più spiccio possibile: la rapina. Io mi resi subito conto che quella gente non era lì per esplorare, ma per conquistare, e con gli indigeni non voleva fraternizzare, ma intendeva dominarli. Fondammo diversi presidi sulle coste neoinglesi: Sydney, New Glasgow, Halifax, Portland, New Haven... Dovunque, però, i signorotti decisero di fare il loro mestiere, appunto signoreggiando i locali, e talvolta riducendoli letteralmente in schiavitù per sfruttare il legname e le miniere del posto. Naturalmente gli indigeni si ribellarono e ne nacquero sanguinose guerre, represse nel sangue per via della nostra evidente superiorità tecnologica. Io e l'ammiraglio Amundsen cercammo di temperare gli eccessi di quei giovinastri che avevano deciso di esportare il feudalesimo nel Nuovo Mondo, ed intendevano arricchire se stessi, non il re d'Inghilterra, ma poco potemmo fare di fronte alla forza del numero. Intanto, come re Edoardo aveva supposto, si mossero anche i Francesi, la cui flotta superò Terranova e scoprì una nuova terra battezzata Labrador, iniziando a colonizzarla con gli stessi metodi brutali adoperati dagli inglesi. Mentre però noi ci eravamo limitati a colonizzare le coste, i Francesi si spinsero fin da subito verso l'interno, risalendo il corso dei fiumi e scoprendo una regione occupata da immensi laghi, così grandi che, se si stendessero in Europa, la metterebbero tutta sott'acqua. Re Edoardo rispose inviando altre spedizioni che esplorarono ed occuparono la costa della Nuova Inghilterra fino a 30° di latitudine, e così le vessazioni ai danni degli indigeni si moltiplicarono, come pure gli assalti di questi ultimi contro i nostri coloni e le relative rappresaglie. Ibn Battuta, disgustato da tanta carneficina, prese la prima nave di ritorno in Inghilterra e si fece riportare a Granada, dove andò insegnando fino alla fine dei suoi giorni, e a ragione io credo, le nequizie messe in atto da quei cristiani il cui primo comandamento doveva essere: "Ama il Prossimo tuo come te stesso".

Anch'io a quel punto, dopo due anni e mezzo passati nel Nuovo Mondo, nel marzo del 1338 ripresi una Saetta e mi feci riportare a Londra, dove denunciai al re gli abusi che i suoi uomini mettevano in atto. Ma il sovrano ormai era accecato dall'oro e dai prodotti esotici che fluivano con gran copia dal Nuovo Mondo, e che lo stavano rendendo il monarca più ricco del Mondo Vecchio: promise una commissione d'inchiesta, ma mi ingiunse di non denigrare il fior fiore della nobiltà d'Inghilterra che andava a conquistare terre nuove per diffondervi la civiltà e la Parola di Dio. Fino al 1340 mi fermai nella capitale del Regno d'Inghilterra, lavorando alacremente al mio « De Terra Incognita Sed Nunc Reperta » in ventun canti, nel quale avevo deciso di narrare solo l'epopea gloriosa del nostro primo viaggio al di là dell'Oceano, e non quella ingloriosissima venuta subito dopo. In quegli anni anche Genova e Venezia si erano mosse, inviando i loro vascelli più a sud delle terre esplorate da inglesi e francesi, per verificare l'esistenza di terre anche in quelle plaghe del mondo, e le avevano trovate. La flotta genovese guidata da Amedeo VI di Savoia, detto "il Conte Verde" perchè durante un torneo gli era stato assegnato questo colore, e da allora aveva voluto indossare solo abiti verdi come portafortuna, scoprì un grande arcipelago all'altezza del Tropico del Cancro, e lo battezzò Antille, dal nome di Antilia, la mitologica isola posta di fronte alle Colonne d'Ercole in mezzo all'Oceano. I Veneziani, guidati personalmente dal doge Andrea Dandolo, scoprirono invece un vasto continente posto a sud delle Antille, ed iniziarono a colonizzarlo con i loro vascelli; il doge volle dedicare quella terra al suo antenato Enrico Dandolo, doge dal 1192 al 1205, e famoso per aver scatenato la disastrosa Quarta Crociata con il relativo sacco di Costantinopoli. La chiamò "Terra di Enrico", in latino "Terra America", e così America divenne il nome del continente meridionale; in anni recenti questo nome si è esteso anche al continente settentrionale. Poiché è stato colonizzato principalmente da Italiani e in minor misura da Ispanici, l'America Meridionale e le Antille hanno preso anche il nome di America Latina.

Intanto, siccome i conflitti tra le potenze europee per il possesso delle nuove terre si moltiplicavano vieppiù, Papa Benedetto XII convocò la conferenza di Tor della Monaca, presso Roma, dove si decise di dividere il Nuovo Mondo in zone di influenza: la costa della Nuova Inghilterra e l'immediato entroterra agli Inglesi, il Labrador e il vasto interno ai Francesi, le Antille e il mare retrostante ai genovesi, il continente meridionale ai veneziani. Inutile dire che altre nazioni, come Castiglia, Aragona, Portogallo, Sacro Romano Impero e i paesi scandinavi, erano rimaste escluse dalla divisione, e cominciarono a mugugnare. Il Portogallo rispose iniziando ad esplorare le coste dell'Africa Occidentale per tentarne la circumnavigazione ed arrivare così alle Indie, la Castiglia e l'Aragona inviarono a loro volta le loro navi verso il continente meridionale, dando vita a furiosi combattimenti con i veneziani, mentre la Norvegia prese formale possesso della Groenlandia. Quanto al Sacro Romano Impero, era troppo diviso tra duchi, conti, marchesi e feudatari per poter portare avanti una politica coloniale, e gli altri stati italiani erano troppo deboli anche solo per tentarla.

Io vivevo tutto questo con distacco, nel mio studio di lavoro a Londra con vista sul Tamigi, pubblicando i canti del mio poema via via che li componevo, e nel 1341 mi arrivò da Roma, graditissima, l'offerta di essere incoronato Poeta in Campidoglio: era il sogno di una vita che si realizzava. Io accettai di buon grado, anche per cogliere l'occasione e rientrare in Italia. La cerimonia si svolse l'8 aprile 1341, ed il senatore Orso dell'Anguillara mi cinse finalmente le tempie con quella corona d'alloro che tanto a lungo avevo desiderato. Ora però mi suonava quasi falso, riceverla per un poema celebrante un'impresa dalla quale erano poi scaturiti tanti lutti. Probabilmente è per attenuare questo mio dolore, che riempii il poema di elementi favolosi e magici, i quali tanto piacquero ai lettori di allora come a quelli di oggi. Scomodai la mitologia greca e gli Angeli e i Santi del Paradiso, ma solo per coprire le nefandezze commesse dagli uomini mortali. Intanto proseguivo per puro diletto personale il mio "Canzoniere", raccolta delle poesie dedicate a Madonna Laura de Noves, che non avevo più rivisto.

A quel punto, la nostalgia del Nuovo Mondo era in me diventata così forte, che decisi di tornarvi. Ma non più con gli inglesi, bensì con i genovesi che, a quanto avevo sentito, si comportavano con gli indigeni in maniera più umana: mentre galli e britanni gli indigeni si limitavano a ridurli in schiavitù, gli italiani cominciavano a mescolarsi con essi, tanto che oggigiorno quelle contrade sono abitate da una razza creola, di sangue misto e parlante una varietà dell'italiano mista ad alcune parole delle lingue locali. Mi sono sempre chiesto il perché della differenza tra i due tipi di colonizzazione, ma credo che si tratti dell'eterna differenza tra Romani e Germani, già stigmatizzata da Tacito, che perdura fino ai giorni nostri. In ogni caso, venni a sapere che il doge di Genova Simon Boccanegra intendeva organizzare una spedizione per esplorare eventuali terre poste ad occidente delle Antille, e così, sempre con la qualifica di storico ufficiale, mi aggregai alla spedizione capitanata da un certo Luchino Visconti, un avventuriero milanese figlio quartogenito del signore di Milano Matteo I Visconti e, come tutti i figli cadetti, in cerca di gloria grazie a sanguinose avventure militari.

Partita nel marzo 1342, questa spedizione raggiunse Cuba, l'isola maggiore delle Antille, dopo cinquanta giorni di tranquilla navigazione, e da lì fece vela verso occidente. Dopo breve tempo sbarcammo su una costa sconosciuta, non lungi da dove oggi sorge la città italiana di Veracroce (dalla croce che campeggia sullo stemma della città di Genova). Molti uomini si ribellarono e pretesero di tornare a Cuba, ma l'energico Luchino Visconti fece bruciare due navi e minacciò di bruciarle tutte, e la rivolta rientrò. Ci procurammo degli interpreti, nella persona di Girolamo de Aguilar, un castigliano naufragato su quelle coste che parlava la lingua locale, chiamata "nahuatl", e una certa Malintzin, una donna del posto che parlava la lingua Maya. Con essi, ci inoltrammo verso l'interno, dove gli interpreti ci dissero che esisteva un vasto regno in formazione, l'impero azteco, nella regione chiamata Messico perchè, secondo la leggenda, un sacerdote di nome Mexi aveva profetizzato al capo degli Aztechi che avrebbe dovuto fondare la sua capitale là dove avesse visto un'aquila divorare un serpente sopra un cactus, situazione che fu avvistata sulle sponde del lago Texcoco, in alta montagna, dove essi avevano fondato la loro capitale, dal nome impronunciabile. Noi la chiamavamo Città del Messico, poiché dal nome del sacerdote Mexi era derivato quello della regione. Quando vi giungemmo, l'8 novembre di quell'anno, ci venne incontro l'imperatore azteco, che a sorpresa si gettò ai piedi di Luchino Visconti: pare che, secondo un'antica leggenda del posto, un giorno sarebbe venuto dall'oriente un dio con la barba, cui essi davano un nome altrettanto impronunciabile, ed essi avrebbero dovuto obbedirgli. il Visconti ebbe perciò vita facile: depose il sovrano, prese possesso della capitale, sostituì nei templi gli déi pagani con i santi cristiani, ed i suoi uomini, che erano solo cinquecento, presero il controllo di una città di cinquantamila abitanti. Io imparai la lingua del posto, non senza difficoltà, e cominciai a discutere con i sacerdoti, i depositari di tutto il sapere di quel popolo, venendo a conoscenza di un'immensa tradizione culturale, che poi ho sintetizzato nella mia opera latina "De Viris Illustribus Americanis", non meno famosa oggi del "De Terra Incognita".

Ma l'idillio non poteva durare. Giovanni da Murta, governatore genovese di Cuba, venne a sapere del successo della nostra impresa e nella primavera del 1343 mandò altre navi verso la terra del Messico, cercando di arrogarsi il merito della scoperta. Luchino Visconti non accettò certamente di essere scavalcato, e gli mosse contro in armi. Mentre era assente dalla capitale, in essa divampò la ribellione, istigata da un pretendente al trono di cui non trascrivo il nome, perchè ti suonerebbe illeggibile. Il luogotenente di Visconti, lasciato a presidiare Città del Messico, permise che la sua soldataglia saccheggiasse i templi e violentasse le donne del posto; io mi opposi, e come tutta risposta fui incarcerato. L'8 luglio 1343 il Visconti, che aveva sconfitto le truppe inviate da Giovanni da Murta, rientrò nella capitale e mi fece liberare, ma si trovò subito coinvolto in combattimenti di inaudita violenza, e capì che le cose si mettevano male. Chiese allora all'ex sovrano azteco di affacciarsi da una terrazza del suo palazzo per esortare i sudditi ad una tregua; questi, ormai ridotto ad un fantoccio senza volontà, ubbidì prontamente, ma aveva appena iniziato a parlare dalla terrazza del suo palazzo, quando una sassata scagliata da un facinoroso lo colpì alla testa, ed egli spirò tra le mie braccia. A noi tutti non restò che la fuga. Nella notte tra il 9 e il 10 luglio, passata alla storia della conquista del Nuovo Mondo come la "Notte Triste", sotto una pioggia sferzante, il Visconti, io e i nostri guerrieri tentammo di abbandonare la capitale in tutta fretta attraverso le paludi del lago Texcoco, sulle cui isole la città sorgeva, ma i feroci guerrieri aztechi ci furono addosso e menarono strage degli europei senza fare alcun prigioniero. Non so come riuscii a cavarmela in quella che ricordo come la notte peggiore della mia vita; anch'io feci voto di recarmi in Terrasanta e a Santiago de Compostella. In ogni caso, riuscimmo miracolosamente a porci in salvo presso Tula, dove ancor oggi un albero di cedro indica il luogo dove Visconti si fermò a piangere i caduti. Riparato a Tlaxcala, una città rivale degli Aztechi, l'avventuriero milanese preparò la rivincita, che si sarebbe concretizzata il 13 agosto successivo con la riconquista di Città del Messico, grazie ai rinforzi giuntigli da Cuba. Ma io non ne volli sapere di prendere di nuovo parte a quel massacro, tornai a Cuba e da lì a Genova. Subito sciolsi il mio voto recandomi pellegrino prima a Santiago, poi a Gerusalemme, dove pregai Iddio di perdonarmi per aver avuto una qualunque parte nei terribili eccidi che avevo visto compiere nel Nuovo Mondo. E non esageravo, giacché Visconti ed i suoi uomini fecero distruggere ogni vestigia dell'impero azteco e dell'antica Città del Messico, sostituendola con una città in puro stile italiano. Il mio "De Viris Illustribus Americanis" resta perciò l'unica testimonianza dell'immensa sapienza dei sacerdoti d'oltreoceano, ed anche l'unico strumento in mano a chi sostiene che i popoli centroamericani non erano solo barbari spietati, ma anche raffinati cultori di matematica ed astronomia, e che se compirono delle stragi, fu solo perchè gli europei ne avevano compiuto prima delle altre peggiori.

Mi giunse notizia che un altro conquistatore, stavolta aragonese, aveva attraversato il Messico e scoperto al di là un vasto oceano, e poco dopo il re di Aragona mi offrì di partecipare ad una spedizione che stava allestendo per circumnavigare la Terra da est ad ovest, dopo che i Portoghesi erano riusciti a circumnavigare l'Africa e a raggiungere l'India; ma io rifiutai, stufo di stragi e di angherie, e mi stabilii a Roma, dove feci amicizia con Cola di Rienzo. Intanto, una nave veneziana aveva trasportato per errore da Trebisonda, sul Mar Nero, il contagio della peste nera, che dilagò in tutta Europa e finì per ucciderne un terzo della popolazione, compresi Riccardo di Bury e la mia amatissima Laura, che mi è rimasta sempre nel cuore. Fu questa l'occasione, ser Boccaccio, che tu cogliesti per scrivere il tuo celebrato "Decamerone". Moltissimi coloni lasciarono l'Europa ed emigrarono nelle due Americhe proprio per sfuggire alla peste, e così iniziò la colonizzazione del Canada, della Nuova Inghilterra, del Messico e dell'America meridionale. Ma io non ritornai mai più al di là dell'Oceano, e questa fu una fortuna, perchè a Roma ti conobbi ed iniziò la nostra lunga amicizia.

Il resto della mia vita lo conosci, perchè abbiamo percorso un bel pezzo di strada assieme, io e te... Sei stato tu a presentarmi l'erudito calabrese Leonzio Pilato, che mi ha introdotto allo studio della lingua greca, e sei stato sempre tu a spedirmi la prima traduzione in latino dell'Iliade, eseguita dallo stesso Leonzio Pilato dietro tua commissione. Proprio perchè sono legato a te da sì profonda gratitudine, perdonami se in questa epistola mi sono tanto dilungato a tediarti con i viaggi della mia giovinezza, ma avevo voglia di sfogarmi con qualcuno, rievocando le grandi scoperte che ho compiuto quando l'America era ancora un continente vergine, incontaminato ed abitato solo da indigeni fermi all'età della pietra. Oggi milioni di coloni italiani, ispanici, inglesi, francesi e scandinavi abitano nelle grandi città sorte sull'altra sponda dell'oceano, in regioni nelle quali non si vede più neppure l'ombra di un indigeno. Fiumi d'oro raggiungono le madrepatrie rendendole ricche ed opulente, in barba ai legittimi proprietari che ignoravano di abitare sopra tanto ricche miniere. La boscosa isola di Manàttane, da noi avvistata in quel lontano mattino di ottobre, ospita oggi la popolosa città di New York, così chiamata in onore del duca di York che ne è stato il primo governatore, e gli Irochesi sono stati rinchiusi in un ghetto tra i boschi nel quale si stanno lentamente estinguendo. Il messicano lago Texcoco è stato prosciugato, e Città del Messico è diventata una capitale di stampo europeo con tanto di cattedrale gotica e di piazza del mercato, ma i nuovi palazzi sorgono sulle tombe di migliaia di aztechi. Tu mi dirai: è vero, tutte queste tragedie sono partite da quella tua malaugurata idea di cercare l'Ultima Thule di là dall'Oceano, ma in cambio, proprio grazie a quella prima crociera transoceanica, non sono state combattute guerre secolari tra Francia e Inghilterra; ma la violenza innata in tutti noi, membri di una stirpe barbara e corrotta che non conserva più nemmeno una goccia del sangue della grecità e della romanità, non ha fatto altro che trasferirsi nel nuovo mondo, e scaricarsi contro quei popoli selvaggi, ma in realtà talora più saggi di noi, rei solo di voler difendere ciò che era loro fin da tempi immemorabili. Il duca Edoardo Plantageneto, figlio primogenito di Edoardo III, che io ho conosciuto bambino ed in onore del quale ho battezzato un'isola, ha commesso tante e tali atrocità contro gli Irochesi, gli Uroni e gli altri nativi americani, da meritarsi da essi il titolo di Principe Nero; e la leggenda dice che uno sciamano Irochese gli ha profetizzato che, per i suoi efferati crimini, egli non salirà mai al trono, perchè morirà prima del padre. Questo è stato il bell'esito delle mie speranze giovanili, caro Boccaccio. Avevo proprio ragione, una ragione profetica, quando scrissi al principio del mio Canzoniere, che tanta fama sta avendo tra i miei affezionati lettori:

« Voi che ascoltate in rime sparse il suono
di que' sospiri ond'io nutriva 'l core
in su'l mio primo giovenile errore,
quand'era in parte altr'uom da quel che sono... »

Sì, Giovanni, allora ero un altro uomo rispetto a quello che sono ora, pieno di sogni e di ideali, che si sono disciolti come palle di neve al solleone. E solo un errore di gioventù poteva convincermi a seguire un condottiero come Ferdinando Cortese, che, pur grandissimo in battaglia, si è poi dimostrato un pessimo governatore, iracondo, crudele e vendicativo, detestato dai suoi stessi uomini, ed infine eliminato da una congiura non appena se ne è presentata l'occasione. Ma alla mia età, e dopo aver visto tante cose ottime e pessime, è inutile piangere sul latte versato, ed è meglio prepararsi all'Ultimo Viaggio, il più impervio. Il mio "De Sui Ipsius et Multorum Ignorantia" è stato già pubblicato, e presto spero di concludere anche l'ultima mia opera, i "Trionfi", della quale conto di inviarti la prima copia. Conclusa anche questa fatica, non aspetterò altro che il giorno in cui mi dovrò presentare davanti al Giudice Incorruttibile che decreterà in modo definitivo quanto ho fatto di meritevole e quanto di deprecabile. Allora l'Eternità trionferà sull'Amore, sulla Pudicizia, sulla Morte, sulla Fama e sul Tempo, e, come ho scritto proprio nei miei "Trionfi"...

« ...il Tempo, a disfar tutto così presto,
e Morte in sua ragion cotanto avara,
morti insieme saranno e quella e questo. »

So che il Comune di Firenze ti ha incaricato di tenere letture dantesche nella Chiesa di Santo Stefano in Badia; ti auguro di poter portare a compimento questa tua fatica, e mi dispiace sinceramente di non poter essere lì ad udirla. Chissà se un giorno organizzeranno anche "letture petrarchesche" del mio « De Terra Incognita Sed Nunc Reperta »... ma non è questo il mio ultimo desiderio, lo sai. Se l'Onnipotente mi facesse la grazia di potermi scegliere la mia morte, io sceglierei di chiudere gli occhi con la testa reclinata su un libro, mentre sto studiando presso questo mio scrittoio. Chi lo sa? Se ti giungerà un giorno notizia che proprio così è stato, caro Giovanni, tieni per certo che Nostro Signore mi ha perdonato, considerando solo le buone intenzioni con le quali ho spronato Edoardo III a darci tre Saette per valicare l'Oceano, e non le pessime conseguenze che ne sono scaturite. Salute e fama a te, ser Boccaccio

Tuo Francesco Petrarca, poeta.

FINE

William Riker

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Note:

(1)  Il capitano Arblaster è uno dei personaggi de "La Freccia Nera" di Robert Louis Stevenson

(2) « Altri sapran meglio di noi le cause, / col sestante le vie del ciel diranno / e il sorgere degli astri: tu ricorda, / o Romano, di governar le genti... » (cfr. Eneide VI, 849-851)

(3) « Ormai s'è arreso il mare, ormai subisce / le leggi di ciascuno... / Un dì verrà, alla fin dei tempi, quando / l’Océan sciorrà del mondo le catene, / la terra si aprirà, mondi novelli / svelerà Teti, e Thule non sarà / più del pianeta l'ultima contrada. » (cfr. Medea, Atto II, 375-379)

(4) « Narrami, o Musa, l'uomo fatto grande / dai suoi meriti, e pur tremendo in guerra, / cui, sconfitta dall'armi degli Inglesi, / l'Ultima Thule, alfin scoperta, un nome / eterno meritò. O sorelle Muse, / vi prego affinché a me, per tanto dolce / fatica esausto, voi mi concediate / di attingere da questa sacra fonte / dell'Elicona vostro, se io canto / cose ch'a voi meravigliose appaian... »  Si tratta del proemio del "De Africa" leggermente modificato (l'originale suona « Et mihi conspicuum meritis belloque tremendum, / Musa, virum referes, Italis cui fracta sub armis / Nobilis aeternum prius attulit Africa nomen... »)


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