Vuoi vedere che... Il curvo veglio La Guida L'ultimo rifugio Garibaldi e il suo piccione Frate Camillo Fuga dal morbo I Grandi Signori Quarantena Lo scatolone

da un'idea di William Riker

Dedicato a tutto il personale sanitario che si spende per curare i malati di Coronavirus

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8 marzo 2020

Cari amici, mi è venuta un'idea. Durante l'epidemia di Peste Nera del 1348, come racconta Boccaccio, dieci giovani si riunirono in campagna e per ammazzare il tempo (e la paura del contagio) si misero a raccontare una novella a testa per dieci giorni. Nacque così il "Decameron". Allora ho pensato: io e molti di voi siamo bloccati fino a data da destinarsi a causa delle dure disposizioni del governo, necessarie per limitare questa vera e propria pandemia da Coronavirus; anche se non sono affatto in vacanza ma ogni mattina tengo tre o quattro videolezioni in hangouts ai miei studenti, siccome noi siamo un club di scrittori, perchè non fare la stessa cosa? Ovviamente tutti abbiamo i nostri impegni e pochi hanno voglia di mettersi a scrivere una novella, figuriamoci dieci, però... almeno una... Comunque io mi sono divertito a scriverne una, riprendendo un testo scritto su vecchi fogli di quaderno risalenti a quando frequentavo il Liceo (lo stesso in cui ora insegno). Se qualcuno vuole unirsi a me in questo nuovo Decameron nell'era del Coronavirus, è il benvenuto. Se leggete la mia novella, naturalmente, fatemi sapere cosa ne pensate. Saluti, vostro William T. Riker.

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Vuoi vedere che...

di Wlliam Riker

"Papà, che cosa mi regali per Natale?"

Pareva una domanda ingenua, fatta nel periodo natalizio in una casa qualsiasi del mondo, se non fosse stata posta da Pierino. Il papà rispose imbronciato:

"Cosa ti regalo? Pierino, hai mai sentito dire che Babbo Natale porta regali solo ai bambini buoni?"

La smorfia di Pierino fu eloquente. "Dai, papà, non crederai ancora nel ventunesimo secolo che sia quel vecchio barbogio a portare i regali! Non nell'epoca degli smartphone e dei robottini su Marte! Allora, che cosa mi regali?"

Il volto del papà annunciava solo burrasca.

"E tu, che cosa mi hai regalato durante l'anno? Parli come uno scaricatore di porto, marini la scuola, non studi, solo a giocare sei sempre bravissimo!"

Pierino non perse affatto la sua gaiezza:

"Pa', che ci posso fare se mi piace solo giocare? Tu stesso hai sempre detto che uno nella vita deve fare ciò che gli piace!"

Se doveva essere una battuta, non fu per niente divertente. A rincarare la dose ci pensò la mamma:

"Se vai avanti così a disubbidire e a fare capricci per questo e per quello, altro che Babbo Natale! Verrà il diavolo a prenderti!"

Pierino uscì in una grassa risata:

"Il diavolo? Ah, Ah! Favole che vi raccontavano ai vostri tempi per farvi stare buoni! Allora, me la regalate la consolle per i videogiochi?"

Stavolta il papà scoppiò:

"A parte il fatto che la prova dell'esistenza del diavolo sei tu, non solo non avrai nessuna consolle, ma non saprai nemmeno come è fatto un pacco dono per i prossimi cinque o sei secoli! Vai immediatamente in camera tua, chiuditi dentro e portami la chiave!"

Pierino se ne andò come un cane bastonato, convinto di avere ancora ragione lui, che i genitori non lo capivano e non capivano che il Natale senza regali è un giorno qualunque. I suoi genitori invece rimasero in soggiorno a rimasticare la propria bile e a chiedersi l'uno quale difetto dell'altro Pierino avesse ereditato. Alla fine parlò la mamma:

"Guarda un po', caro, questi ragazzi d'oggi: niente li spaventa più. Sono spavaldi come se fossimo noi i loro figli, come se a loro tutto fosse sempre dovuto. In che cosa hai.... abbiamo sbagliato nella sua educazione?"

Il papà si lasciò andare sulla sua poltrona.

"Non so. Io, alla sua età, avevo una paura terribile del diavolo. Che cosa può spaventarlo più dell'idea del diavolo? Solo vedere il diavolo in carne, ossa e forcone!"

All'improvviso gli venne un'idea, tanto che lo avreste visto accendersi come se avesse avuto una lampadina al posto della testa.

"Di', amore, ti ricordi di quella festa in maschera di quando eravamo fidanzati? Tu ti eri vestita da passeggiatrice con tanto di fischi incorporati ed io da diavolo con la lampadina sul forcone. Li hai conservati i costumi?"

La mamma prima fece l'indiana, poi parve ricordarsene:

"Ah, sì, quella ridicola pagliacciata....ma non sono più fatta per quella mascherata."

"Ma no; mi serve il mio costume....vallo a prendere, per favore." La mamma sparì in solaio e ricomparve poco dopo con uno scatolone in mano. Per prima cosa gettò il suo vecchio costume sul caminetto; quindi consegnò l'altro al marito.

"Bene, bene. È un po' tarlato e le lampadine sul forcone sono bruciate, ma farà lo stesso una grande impressione."

Rideva, e rideva anche la mamma che finalmente aveva capito. "Farò prendere a Pierino il più grosso spavento della sua carriera di discolo scavezzacollo. Presto sarà mansueto come un agnellino e ci risponderà solo: Sì, papà, sì, mamma, avete sempre ragione voi!"

Pierino intanto era chiuso a chiave in camera sua, disteso sul letto a recriminare sulla mentalità fossile dei suoi avi, meschino nel proprio egoismo e nella propria stizza, e non avrebbe mai potuto immaginare che il proprio padre si stava preparando a dare la scalata alla grondaia per fare la sua comparsa satanica alla finestra del figlio. Si sputò sulle mani guantate, le fregò, si aggiustò le corna e afferrò la grondaia con un balzo. Gli sembrò di tornare ai tempi della scuola quando saliva sulla pertica come un gatto, e per un po' si sentì un leone.

Presto però ricominciò a sentire il peso degli anni e, in un movimento brusco, perse il forcone che cadde sull'erba del prato. Il babbo imprecò e poi tentò di continuare a salire. Con uno sforzo allungò la mano per afferrarsi al davanzale della camera di Pierino, la cui finestra era socchiusa, ma sentì un sinistro scricchiolio. Impallidì di colpo e tentò per due volte di aggrapparsi al non lontano davanzale, ma ghermì solo aria. In men che non si dica, il papà si rese conto che stava cadendo insieme all'intera grondaia. Chiuse gli occhi e credette di essere morto; si ritrovò invece abbracciato a un cipresso del giardino. Era una notte senza luna: era molto buio, ma riconobbe sotto di lui il suo giardino dove la grondaia era caduta senza fare troppo fracasso.

"Maledizione, - si disse – sono salvo, ma non posso muovermi di qui! Non dovevo dire a mia moglie di precedermi a letto. Inoltre, se mi metto a gridare, tutti in questa città verranno a sapere della mia burla finita male, ed anche i criceti rideranno di me. Al diavolo Pierino e al diavolo il diavolo!"

Naturalmente la mamma e Pierino non avevano udito nulla, anche se quest'ultimo era ben sveglio e continuava a brontolare a mezza voce: "Questi adulti le inventano tutte per privare dei meritati regali un bravo ragazzo come me! Io faccio di tutto per segnalarmi nel gioco e in mille imprese, per dimostrare agli altri chi sono, e loro sanno solo rimproverarmi! Non è giusto. Ma perché esistono i genitori? Per togliere i videogiochi ai figli! Tutti i miei amici ce li hanno, io non potrò più vivere senza! Pur di averli darei, darei....darei l'anima!"

Improvvisamente ci fu come una esplosione nella stanza: si diffuse un fumo giallastro ed un acre odore di zolfo, e Pierino tossì molto, pur essendo ben lungi dallo spaventarsi per così poco. Quando il fumo si diradò, Pierino vide ritto in mezzo alla stanza un uomo grande e grosso, avvolto in un mantello rosso come il fuoco e con una barbetta a punta, che lo salutò con voce cavernosa: "Salve!"

Pierino si rizzò sul letto e gli chiese:

"E tu da dove sbuchi? Da una fabbrica di fiammiferi?"

L'uomo aveva un ghigno sadico dipinto sul volto e gli rispose:

"Da dove vengo non ti interessa poiché sai benissimo chi sono."

Pierino si imbronciò:

"Sei mongolo? Come faccio a sapere chi sei se non ti ho mai visto prima di stasera?"

L'altro, che continuava a sorridere, replicò: "Non mi hai mai visto, è vero, ma io ti sono sempre stato vicino come ad un figlio prediletto, anche se oggi stesso tu hai affermato di non credere alla mia esistenza."

Questa volta Pierino si rimise a ridere sguaiatamente:

"E così tu saresti il diavolo? Dove hai lasciato la coda e le corna, le hai cedute al monte dei pegni? E il forcone, l'hai dimenticato all'inferno? O lo usa tua moglie per arrostire le braciole?" e si dovette tenere la pancia dal gran ridere. Il nuovo venuto però non si scompose:

"Non ho bisogno di corna e forcone, per esercitare le mie arti. Quelle me le hanno appioppate i preti per darmi un aspetto terribile. Io invece rendo all'uomo più piacevole la vita!"

Pierino era proprio in vena di scherzare:

"Cosa fai, convogli nei loro scaldabagni le fiamme infernali per fargli risparmiare metano? Ihihih!"

Non si voleva rendere conto che il suo interlocutore non era lì per ridere. Ma quest'ultimo glielo ricordò subito:

"Tu puoi divertirti quanto vuoi, ed essere villano quanto vuoi con me, tanto per me ogni sgarbo è una gentilezza. Tuttavia sappi che io posso darti tutto ciò che vuoi."

Subito schioccò le dita, e sulla scrivania comparve una magnifica consolle ultimo modello corredato di joystick e di decine di videogiochi di ultima generazione. A quel punto Pierino smise di ridere, si fregò gli occhi come se temesse che stessero funzionando male, si avvicinò al dono e balbettò:

"È ....è ....è proprio per me? Tu saresti più buono dei miei genitori? Non posso crederci!"

E l'altro, sempre con lo stesso tono di voce:

"Invece io sono molto più buono dei tuoi genitori. Essi ti hanno battezzato, mandato a catechismo e a scuola, rimproverato e castigato tante volte; io invece ti ho sempre insegnato nuovi giochi, nuove prodezze, nuovi dispetti, ti ho insegnato insomma a goderti la vita e i suoi piaceri, perché si vive una volta sola."

Pierino sembrava incantato dal regalo inatteso, ma si volse al visitatore con sospetto:

"Un momento! Se tu hai fatto tutto questo per me, ci dev'essere sotto una fregatura! E poi, se sei sempre rimasto invisibile, perchè mi compari davanti solo adesso per materializzarmi davanti questo bellissimo regalo? Ovviamente l'hai fatto perché vuoi qualcosa in cambio, non è così?"

Il misterioso ospite spianò la fronte ed atteggiò per la prima volta il viso ad un'espressione stupita:

"Perché IO voglio qualcosa in cambio? Se dici questo di me, che dirai allora dell'uomo, che fa il bravo tutta la vita solo perché poi pretende di ascendere al Paradiso? Ma, se non ti fidi di me, posso darti molto di più. Ti piacerebbe un bel paio di sci nuovi?"

A Pierino brillarono immediatamente gli occhi.

"E un abbonamento a Sky a vita?"

A Pierino la gioia sgorgava fuori dalle orecchie, tanto era incontenibile dentro il suo animo.

"E la bicicletta da cross a quattro marce che i tuoi genitori hanno sempre rifiutato di regalarti, con la scusa che non pigliavi voti abbastanza alti in quella tua scuola dove dei somari pretendono di insegnare ad altri somari?"

A questo punto Pierino, cui pareva di toccare il cielo con un dito, non ce la fece più a contenersi:

"Posso davvero avere tutto questo? Proprio tutto? Anche di più?"

L'omone scoprì i denti in quello che sarebbe potuto apparire un sorriso solo sul ceffo di una pantera nera, e gnaulò:

"Certamente. Tra qualche avrai un motorino ultimo modello. Poi una 125 da cross. Poi una 990 a quattro cilindri. Poi un'automobile tale da far crepare d'invidia anche Donald Trump. Fumerai sigari Avana e li accenderai con bigliettoni da cento dollari, emettendo poi con la bocca delle nuvolette a forma di $. Farai colazione a base di champagne francese e caviale del Volga e, quando arriverai in una città, ti riserveranno in albergo una suite da mille metri quadri con vista panoramica e cameriere personale al tuo servizio. Le belle ragazze ti si appiccicheranno addosso così come le remore si appiccicano allo squalo, e tu non dovrai far altro che scegliere con quale divertirti, gettandola poi via come un fazzoletto usato. Ti sposerai e divorzierai due volte al mese. Avrai tanti di quei soldi da sfondare il pavimento di questa tua povera stanzetta, e potrai farci le sabbiature come Paperon de' Paperoni. Avrai un aereo personale, un elicottero, uno yacht, una barca a vela con la quale vincerai l'America's Cup, otto ville in Sardegna ed altrettante ai Caraibi; tutte avranno i bagni con i rubinetti d'oro e i doccioni di platino, e le camere avranno tutte i letti a tre piazze per sciroppartene due alla volta. Quando sarai stanco di sciroppartele, un proiettore proietterà un film sul baldacchino del letto. Come fermacravatta userai un topazio, ed un diamante grezzo come fermacarte sulla tua scrivania. Sarai più osannato di del Piero e più ammirato di Costantino. Potrai anche affermare in pubblico che il sole ogni mattina sorge ad ovest, e la gente ti crederà. Allorché andrai in udienza dal Papa, sarà lui a baciare l'anello a te, ed un emirato arabo ti offrirà la corona di sceicco. Se vorrai potrai candidarti alla poltrona di primo ministro, cambiare la Costituzione a tuo piacimento, farti eleggere imperatore, farti ritrarre in pose marziali da un novello David, farti elevare statue equestri nelle piazze, farti intitolare città a tuo nome mentre ancora sarai vivo. Potrai lasciare un'impronta indelebile nella polvere di questo stupido, insignificante pianeta, se..."

Qui l'omaccio s'interruppe, e improvvisamente anche le visioni fantastiche che stavano sciabolando davanti agli occhi di Pierino scomparvero di botto, come i raggi di sole quando una nube offusca il cielo, non appena quel « se », piantato lì come un piolo in mezzo alla strada, lo riportò di schianto alla realtà. Subito mise le braccia conserte ed assunse un'espressione estremamente imbronciata:

"Ecco, lo sapevo io: c'era il trucco. In fondo ad ogni bel sogno c'è sempre un « se » che viene a spezzare l'incantesimo. Tu mi darai tutto questo se farò qualcosa in cambio per te."

"Oh sì", gongolò l'uomo lisciandosi la barbetta a punta con le unghie aguzze della mano sinistra, "ma è qualcosa di estremamente facile. Non ti chiedo di compiere i salti mortali né di andare bene a scuola come fanno i tuoi pallosi genitori o la tua molesta maestra: non sono quel genere di patrono, io. Per trasformare i tuoi sogni in realtà non devi far altro che adorarmi!"

Pierino restò di stucco. Adorarlo? Che significava, adorarlo? Doveva accendergli un cero dinanzi, o recitargli delle preghiere come lo obbligava a fare quell'arpia della sua catechista davanti all'altare della chiesetta dell'oratorio? Stava per aprir bocca e chiederglielo, quando il sinistro sconosciuto lo bruciò sul tempo:

"Adorarmi, ragazzo mio, significa eseguire la mia volontà in tutto e per tutto, come mio servo fedele. Significa essere disposto a tutto, ma proprio tutto, persino a rinnegare i propri genitori, se io glielo chiedo. Significa essere pronto a calpestare sotto i piedi il moribondo che invoca un tozzo di pane, l'orfano che piange, il gattino che ha perso la mamma, il bimbo africano per salvare la vita del quale basterebbero quegli stessi spiccioli che ora tu tieni in tasca, Significa saper far ricorso anche alla violenza più bestiale, se serve per conseguire i miei scopi e per realizzare i miei piani sulla Storia. Solo così facendo, otterrai successo e fortuna. Solo così sarai grande in mezzo ai tuoi simili, perché essi non hanno bisogno di un amico, bensì di un despota; non di un sodale, bensì di un padrone; non di un mansueto predicatore di pace che invoca la concordia e l'amore finché ha un briciolo di fiato, come ha fatto quel Wojtyla che è stato il mio più grande avversario nell'ultimo secolo, bensì un novello Adolf Hitler che predica la violenza, la sopraffazione, il tradimento e l'ineluttabilità del fatto che siano i più forti a dominare sui più deboli. Se non sari cinico, insensibile, spregiudicato, disposto ad usare ogni arma lecita ed illecita, resterai sempre quella nullità che sei e che vorrebbero farti rimanere il tuo parroco, la tua catechista, la tua maestra, i tuoi tediosi genitori e tutti coloro che ti sono sempre stati presentati come modelli positivi da imitare. Gandhi? Luther King? Madre Teresa? Fratel Ettore? Puah! Deboli pusillanimi che hanno tentato di sovvertire l'ordine naturale e di convincere il forte a sottomettersi al debole, agitando presunti ideali di fratellanza e di amicizia universale. Sciocchi! Il mondo è mio, e tutti i regni della terra sono stati dati in mio potere! Io sono la feroce forza che il mondo possiede, e fa nomarsi dritto! Io sono l'ansia di vendetta che prende i perseguitati, la rabbia che invasa chi va alla guerra con un fucile in mano ed un pugnale tra i denti, la ferocia che porta i miei figli prediletti a farsi saltare per aria assieme ai propri nemici. Macchè Paradiso nei Cieli: la terra è l'unico paradiso che l'uomo può godere, se segue i miei dettami ed accetta di obbedire ai miei precetti. Guardati attorno, figliolo: c'è tutto ciò che che ti ho promesso e che potrebbe trasformare quest'inferno e questa valle di lacrime nel tuo paradiso privato. Tanto per parafrasare Colui che mi chiama Nemico e Tentatore: chiedi, e ti sarà dato! Dicevi poco fa che eri disposto a vendermi la tua anima; io ti ho udito dal deserto tra i mondi dove Lui mi ha confinato, e sono accorso; vendimela, dunque! Fai in modo che, d'ora in poi la tua volontà sia la mia volontà! Mangia il frutto proibito, scoperchia il vaso di Pandora, deridi Noè ubriaco, ridi delle Tavole della Legge e dei Catechismi; d'ora in poi segui la MIA, di legge, e sarai ricco, grande, famoso, osannato, ricercato, adorato, idolatrato! Sii tutto in me, ed io farò in modo che tutto venga a te! Diventa un altro me stesso, diventa tu stesso un demonio, e tutto questo sarà tuo!"

Pierino si guardò attorno, disorientato, e di colpo non vide più la sua stanzetta; ora, schierate tutt'attorno a lui, c'erano tutte quante le promesse del demonio: lusso, ricchezze a non finire, regge, cariche pubbliche, onorificenze, trofei, premi, attestati di stima, alcool, sesso, droghe... Vide sé stesso che calpestava il prossimo, che esercitava una concorrenza sleale, che passava mazzette, che operava brogli elettorali, che appaltava delitti, che guidava cosche mafiose, che rideva e godeva della rovina altrui. Per un po', bisogna dirlo, si lasciò tentare da quelle visioni fantasmatiche, ma ben presto si accorse che vedeva sì molte novità, ma non tutte quelle da lui sperate. Per esempio, non vedeva più i propri genitori: le loro continue lamentele e i loro rimproveri gli risultavano molesti quanto una mosca su una fetta di torta, è vero, ma ora si accorgeva che senza di essi non avrebbe potuto crescere e diventare uomo. Non vedeva più la scuola: certamente non poteva soffrirla, ma senza di essa dopotutto ogni minuto era una noia, perché se l'uomo non ha dei problemi da risolvere, non ha neppure una vita che sia degna di essere vissuta. Non vedeva più la sua anziana catechista, che tanto odiava quando gli insegnava ad essere buono con tutti se voleva crescere timorato di Dio, ma che sotto sotto si accorgeva di ammirare, poiché non è facile insegnare per quarant'anni i comandamenti di Dio a chi ormai riconosce come dio solo il motorino, il bar, i soldi o i giovanotti che affollano le trasmissioni della de Filippi così come i mosconi affollano una pattumiera.

In specie, però, si accorgeva che una cosa mancava in quella vita, ed era qualcosa cui non aveva mai fatto attenzione, ma che ora lo colpiva se non altro per la sua assenza. Egli appariva sì grande, sì ricco, sì celebrato, ma... non appariva felice. Per la prima volta in vita sua, e proprio grazie all'opera di colui che avrebbe voluto convincerlo esattamente del contrario, Pierino si rendeva conto che gli stravizi, i pacchi di banconote da cinquecento euro e i titolo onorifici non coincidono affatto con la felicità. Anzi, sono una mostruosa caricatura della felicità: qualcosa che dovrebbe rimpiazzarla e far scordare all'uomo di poter essere allegro e appagato nella sua vita, ma che appare più passeggero ancora dei riflessi arcobalenati su di una bolla di sapone che vaga nell'aria sopra la bottiglia di bagnoschiuma. Guardando il più avanti possibile in quelle visioni degne del profeta Daniele per la loro crudezza, egli si vedeva al tramonto della sua vita, un'epoca che fino ad allora non aveva neppure pensato che un giorno potesse trasformarsi nel presente... e si scopriva povero e solo come tutti i mortali squattrinati. Anzi, si scopriva prigioniero di una gabbia d'oro da lui stesso costruita, ed incatenato con una catena di diamanti che lui stesso aveva contribuito ogni giorno a fabbricare, anello dopo anello, ogni volta che aveva commesso una nequizia, scambiandola per opera giusta, necessaria e sacrosanta.

No, non era quello il destino da lui desiderato, tutte le volte che sognava di diventare ricco e famoso a poco prezzo. Quella via, apparentemente comoda ed agevole, lo conduceva nel cavo di una tomba la cui profondità eguagliava quella stessa dell'abisso infernale. Chiuse gli occhi e vi premette sopra i pugni, ma quella visione non cessava, anzi tutti i suoi deliranti sogni a lungo cullati nelle insonni notti rancorose si trasformavano in un sabba satanico, che gli ridava attorno come mille streghe deformi dal ghigno ferale stampato sul mostruoso ceffo animalesco. Si tappò le orecchie infilando in esse le dita fin quasi a toccare il timpano, eppure gli sghignazzi di quelle creature dell'Averno non cessavano, ed anzi sopra tutti loro continuava a riecheggiare, come uno sparo in una cattedrale gotica, l'urlo dello spaventevole essere materializzatosi nella sua stanza come un incubo ad occhi aperti: "Basta una tua parola! Una sola! Vendimi l'anima, e tu sarai tutto questo! Sarai tutto questo! Sarai tutto questooooo!"

"No!" strillò Pierino, sopraffatto da quelle lamie infernali come il gigante Tifeo sepolto da Zeus sotto una montagna, e subito afferrò con la mano sinistra la catenella del battesimo che portava appesa al collo, facendosi rapidamente con la destra il segno della croce. Subito udì un urlo, così terribile che pareva poter essere emesso solo da una persona che venga segata in due con una sega d'acciaio, cui seguirono un tuono, un terremoto, un'altra esplosione giallastra, un'acre puzza di zolfo, ed urla inumane che sembravano precipitare fuori dallo spazio e dal tempo. Ed infine fu il silenzio.

Non c'erano più le visioni, gli spettri, le creature teratomorfe partorite dall'Erebo, gli incubi che ci tormentano la faccia e ci pizzicano da ogni parte mentre, dormendo, le difese della ragione si abbassano e dalle porte dell'inconscio erompono con violenza tutti i nostri peggiori istinti, retaggio degli antenati animaleschi, e la nostra sete di violenza e di dominio. Non c'era più neppure l'oscuro visitatore partorito dalla notte e da essa inghiottito, né il computer sulla scrivania: era solo. E questa solitudine, per la prima volta, gli parve spaventosa come la compagnia di cento serpenti velenosi.

Subito egli reagì, con la stessa violenza di un cristallo di sodio sul quale venga versata dell'acqua. Spalancata la porta come se avesse un tirannosauro alle calcagna, si precipitò nella camera da letto dei suoi genitori, si tuffò letteralmente sul letto matrimoniale facendo svegliare di soprassalto sua madre che si era assopita in attesa del ritorno del babbo, nuotò fino a lei sulle coperte e la abbracciò stretta, mettendosi a piangere a dirotto come una bambina dell'asilo:

"Oh, mamma, sapessi che pericolo ho corso, stanotte! Sapessi chi è venuto a promettermi metà del mondo in cambio della mia anima!"

La mamma, mezza soffocata da quell'abbraccio veemente, si divincolò con foga e poi gli domandò con un mezzo sorriso sulle labbra:

"Lasciami indovinare... è venuto per caso il diavolo?"

"Sì, sì, sì, sì", singhiozzò Pierino, in preda ad una vera e propria crisi parossistica. "Voleva che non ti volessi più bene e che non andassi più a scuola e a catechismo! Voleva convincermi che è meglio fare i capricci, comportarmi male con i miei compagni e addirittura vivere di bugie e di tradimenti! Ma io non gli darò mai retta! Oh, mamma, ti prometto che d'ora in poi farò il bravo, che non ti disubbidirò più neanche una volta, che farò i compiti e che non dirò mai a nessuno che il diavolo non esiste, campassi anche mill'anni!"

La mamma arrivò a stupirsi, perché non aveva mai visto il figlio piangere in quel modo come la fontana di Trevi, né credeva possibile che qualcosa potesse scatenare in lui una simile reazione a dir poco terrorizzata. Mentre consolava e blandiva il suo Pierino, pensò: "Diavolo d'un marito, avrebbe dovuto fare l'attore drammatico, se è riuscito a calarsi tanto bene nei panni del diavolo dell'inferno e atterrire a quel modo quella specie di Barabba che era nostro figlio!"

Alla fine, come Dio volle, Pierino si calmò, grazie alle parole e alle carezze della mamma, ed alla fine si addormentò nel lettone, poiché non voleva saperne di tornare nella solitudine della sua cameretta; ma la mamma avvertì che si trattava di un sonno agitato dagli incubi, poiché i muscoli del bambino continuavano a scattare come molle, e dalla sua bocca uscivano gemiti come se stesse sognando di scappare da un nemico vicino ad afferrarlo con artigli incandescenti. La mamma trovò la cosa sempre più strana, perché non credeva possibile che il babbo potesse arrivare a spaventare tanto qualcuno; ed allora, insospettita anche dal suo ritardo, lasciò Pierino addormentato nel lettone, si infilò la vestaglia e scese al piano di sotto.

Vi lascio immaginare come ci rimase quando, giunta in fondo alle scale, vide il marito che rientrava in casa con il costume da demonio tutto strappato, il viso e le mani rese blu dal gelo notturno, le corna che gli pendevano sotto il mento anziché sulla fronte, ed un cumulonembo temporalesco sulla faccia.

"Ma che è successo?" gli domandò lei con un misto di preoccupazione e di curiosità. "Pierino mi ha appena raccontato della tua interpretazione da manuale, che lo ha letteralmente terrorizzato, e..."

"Interpretazione? Quale interpretazione d'Egitto?" ringhiò l'uomo, passandola da parte a parte con uno sguardo che avrebbe potuto benissimo portare il ferro al punto di fusione. "Alla camera di quel discolo non sono mai arrivato. Sono rimasto due ore appollaiato su quel dannato cipresso, e solo pochi minuti fa ce l'ho fatta a scendere senza rompermi l'osso del collo! Il primo in questa casa che mi nominerà ancora il diavolo, lo vedrà davanti a lui in persona, il diavolo, interpretato da me stesso, senza costume ma con un nodoso bastone in mano!"

Ciò detto, il marito la piantò in asso, arrancando verso il bagno per farsi una doccia bollente, ed ancora tremando per il freddo e per l'ira. A quel punto, come potete immaginare, la mamma non ci capiva più niente. Era così disorientata che si mise a parlare da sola:

"Vediamo di ricapitolare... Mio marito non ha terrorizzato Pierino... però Pierino era terrorizzato davvero, al punto da tremare come una foglia... Ma cosa può averlo terrorizzato? Per esclusione, rimane solo..."

Ad un tratto impallidì come un cadavere, buttò gli occhi fuori dalla testa, si mise le mani tra i capelli e gettò un urlo:

"Vuoi vedere che..."

William Riker

Il Corona-virus (l'ennesima prova che il denaro è la radice di tutti i mali?)

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Il curvo veglio

di feder

Volevo scrivere una novella, invece mi è uscita una poesia. Mi è piaciuta talmente tanto che ho voluto condividerla con voi, spero che ne coglierete tutte le allusioni nascoste.

Solo s'ergeva il curvo veglio
piangente d'erma noia.
"Così a chi è nodoso è meglio
una fine sradicata d'ogni gioia?
Fuggì lancia come lanciere;
restò il mio sangue qui da bere.

Mi guardò il randagio sole, le stelle,
m'ispezionò le nuvole, la lapidea luna,
il Re antico promise di attaccare quelle
bestie tremende, orribili e mortali, l'una
volta che mi avrebbero innaffiato.
Dov'è ora che sono potato?"

Sgusciò via un'ombra velenosa;
ghignava, mirando all'appassita sorte.
Eccola, sghignazzava senza posa!

"Fermo, satrapo, io t'invoco!
Pensa chi è il mio ingrato signore,
il popolo tutto, suo è questo loco!

Padre e figli, Principe e sudditi,
basileo Cesare e madre di miti,
non accetterà sì triste fine
del suo augusto servitore,
colui sotto il cui peso s'incrine
Cieli, e Terra, e Mare di terrore!"

Ombroso, ondeggiante, ordinata stazza
non però fatte perché riverite da quella razza.
In ultimo si rassegnò, e pregò
Dio, il curvo veglio;
eppure il taglialegna ritornò
senza paura da tal sorveglio.

feder

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La Guida

di MorteBianca

Anche io mi unisco alla bella iniziativa.

In un mondo più che moderno, dove la tecnologia ha risolto quasi tutti i problemi dell'umanità, sembra impossibile provare una effettiva sensazione di mancanza: il cibo viene prodotto da fattorie multilivello, l'energia viene convogliata da pannelli solari orbitanti, l'acqua viene riciclata e purificata. Il tasso di criminalità è prossimo allo zero assoluto perché ovunque in città sono sparse mitragliette di sonniferi con telecamere intelligenti pronte a sparare al primo segno di crimine. Tutti i doveri casalinghi, tutti gli impegni noiosi e quasi tutti i lavori vengono ora svolti dalle macchine, l'umanità vive mantenuta dai suoi ferrei servitori ed anche nelle poche attività (solitamente di svago) che questa svolge si fa assistere dalle macchine: le macchine ricordano chi andare a trovare e a che frequenza per mantenere il massimo livello di socialità, le macchine raccomandano quali serie TV seguire, le macchine dettano quali sport fare. Ogni cosa viene letteralmente imboccata agli esseri umani, sempre più pasciuti in questo ozio totale. Gli umani nascono, gli vengono insegnate pochissime nozioni (tutto viene caricato su dispositivi cerebrali) e passano il tempo lavorando poco e svagandosi nel lusso più estremo. I loro corpi sono quasi interamente cibernetici sin dalla vita fetale e tutti i loro gesti a parte i più significativi sono automatizzati: mangiare, lavarsi, allacciarsi le scarpe. Ogni singola cosa il corpo la fa in automatico. La Routine è il fulcro di questa civiltà.

Essendo i corpi cibernetici la morte è rara, l'invecchiamento troppo lento. L'unico problema nasce proprio da questo enorme vizio: la sovrappopolazione. Gli umani non fanno che riprodursi, spinti da questo totale ottimismo, e ognuno vuole fondare la propria dinastia servita dalle macchine. Il problema della popolazione sta peggiorando, non ci sono risorse per colonizzare altri pianeti (nessuno vuole correre il rischio di diventare astronauta, i finanziamenti sono ormai dirottati verso l'intrattenimento), ed è previsto che presto si arriverà ad un collasso per mancanza di risorse, l'umanità vive in un Eden molto precario ed è un miracolo che non sia già crollata secondo alcune previsioni. L'umanità sembra essersi rinchiusa da sola in una gabbia terrestre. Tra le attività mondane che sono state automatizzate c'è il cammino. Per risparmiare tempo e massimizzare l'efficenza ogni essere umano non deve badare a dove cammina, le sue gambe robotiche lo fanno in automatico per lui seguendo il percorso satellitare più rapido, coordinandosi con le altre ed evitando il traffico (o meglio, redistribuendolo). In effetti ormai sono ben poche le volte in cui un essere umano si è mai ritrovato a fare una scelta concreta, lasciando sempre alle macchine il ruolo di decisore.

La Guida (così è chiamato il programma che gestisce le gambe) li può portare dovunque la loro agenda richieda in tempo, all'occorrenza (in caso di richieste del proprietario del corpo o di cambiamenti improvvisi da ostacoli) possono spostarsi e deviare il percorso autonomamente, per poi ritornare sul tragitto prefissato. La Guida inoltre è capace di predire (usando le telecamere distribuite in tutta la città) incidenti e problemi e quindi far deviare i percorsi con largo anticipo. Nessuno quindi, quando svolta a destra o a sinistra, si chiede perché lo sta facendo, tutti si fidano del fatto che la Guida conosce il percorso migliore. La Guida è instillata in ogni singolo neonato sin dalla nascita, misura le sue capacità e comprende il suo percorso di vita ideale per l'interesse comune. La Guida si assicura che il suo protetto completi l'istruzione, si mantenga in salute, lavori ed abbia una vita sociale completa, ed in ogni singolo giorno lo fa progredire in questo processo con singoli obiettivi, quasi totalmente automatizzati. Ogni umano ha una Guida che, come un Angelo Custode, lo deve guidare nell'unico possibile binario verso il successo, e gli infiniti binari si combinano e si incrociano così come le Guide decidono.

Ogni singola volta che le gambe vengono usate per camminare la Guida è al comando dei possibili percorsi, e dunque anche in caso di eventi assurdi o improbabili il percorso è fisso. Se il soggetto dice "Voglio fare una passeggiata" la Guida sceglie un percorso specifico. Se arriva una Minaccia la Guida fa spostare le gambe verso un'altra direzione, se necessario verso la salvezza, per poi riprendere il cammino. E' ovvio che in certe zone della città siano necessarie alcune deviazioni a causa di un ostacolo, di un monumento, di un evento ricorrente o randomico. Nessuno ormai ha percorsi imprevedibili, tutti camminano su Binari previsti. E' per questo che alcuni rimasero sorpresi quando, in certe fotografie di luoghi desolati e sperduti, erano visibili nella periferia dell'obiettivo alcuni soggetti intenti a correre. Perché mai la Guida li avrebbe portati in un luogo simile?

La leggenda metropolitana delle "Linee Fantasma", percorsi misteriosi che la Guida eseguiva una volta ogni mille giorni dati da supposta Follia della Guida stessa o per un bene superiore misterioso divenne estremamente popolare, e alcuni iniziarono a cercare attivamente di "provocare" la Guida cercando di dirigersi nei luoghi da cui dovevano essere partiti questi misteriosi viaggiatori, di modificare continuamente il proprio percorso, di tentare di provocare incidenti o in qualche modo "attivare" questo percorso nascosto della Guida. In tanti ci provarono, ma nessuno ci è mai riuscito, e la cosa divenne un semplice mito.

Pochi sanno che il Binario Fantasma è reale, e che in una certa zona del pianeta quando accade una certa cosa, ogni singolo pedone si ritroverà a venire indirizzato allo stesso identico percorso, in fila indiana. Il soggetto continua a camminare pensando che la Guida lo stia portando alla salvezza, al luogo di civiltà più vicino, benché il percorso più sensato sia decisamente dall'altra parte. Il percorso continua passando per una foresta montuosa dagli alberi altissimi, in un percorso senza strada battuta dall'uomo e senza la minima traccia di elettricità e connessione internet, dove non è possibile il soccorso. Un Buco Nero per il sistema, ma non per la Guida. Ma il soggetto continua a camminare. Fino a giungere ad una radura vicino ad uno strapiombo che conduce, sotto, alla scogliera. Il soggetto continua a camminare, dritto verso il mare. Alcuni hanno continuato a camminare fidandosi che, all'ultimo secondo, la Guida avrebbe svoltato. La Guida era talmente brava da riuscire ad evitare gli incidenti anche con pochi millisecondi e quindi riduceva al minimo inutili rallentamenti e deviazioni facendo mosse che per un umano sarebbero rischiose. Altri non guardavano nemmeno la strada, distraendosi come facevano sempre durante una passeggiata. Altri ancora hanno continuato a guardare il Mare, terrorizzati all'idea di cadere ma increduli che la Guida potesse seriamente farli precipitare, dato che la Guida era la soluzione ad ogni problema, dunque nulla si poteva fare se la Guida stessa fosse il problema. Altri ancora trovavano il coraggio di chiedere alla Guida di fermarsi. Le loro gambe si paralizzavano, loro ora ne avevano il pieno controllo, ma non avendo mai mosso un solo passo sin dalla nascita rimanevano bloccati lì, sperduti e terrorizzati. Non potevano muoversi, e dopo qualche ora di pianto alla fine chiedevano alla Guida di riattivarsi. Ma nessuno, in ogni caso, è mai riuscito ad impedire l'inevitabile.
Per attivare il percorso della Guida, questo è ciò che molti non sanno, bisogna dirle una frase che attivi il suo senso di protezione del bene comune. E quella frase è:

"Guida, ho deciso che non voglio più riprodurmi".

Ovunque tu sia, dopo aver detto quella frase, anche se per scherzo, tutti gli umani andranno nella stessa direzione, nella stessa spiaggia, nello stesso strapiombo, e si butteranno.

MorteBianca

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L'ultimo rifugio

di Luigi Righi

Seguendo l'idea del nostro Comandante, a cui faccio i complimenti per il suo racconto, partecipo anche io all'iniziativa 'una novella al giorno', anche se le premesse citate del Decameron, che parla di 10 giovani, mi escluderebbe a priori... Invio quindi questa breve novella come mio piccolo contributo:

Il Re fu svegliato dai raggi del sole.

Aprì lentamente gli occhi, si stiracchiò e finalmente, dopo tanto tempo, pensò al futuro con serenità; si accorse, dopo tanto tempo, di avere fame: si recò allora nella zona-pasto e si avvicinò al distributore per ricevere il cibo. Scelse con cura gli alimenti, premette i pulsanti ed il distributore gli fornì il pasto, come aveva fatto per tanto tempo e come avrebbe potuto fare ancora per secoli.

Il Re mangiò con calma, gettò i residui nel convertitore e si alzò per andare ad osservare il suo regno.

Uscì dalla casa in cui abitava, una costruzione piuttosto piccola ed arredata semplicemente, ma che lui aveva preferito alla Reggia che ‘loro’ gli avevano assegnato: in un piccolo ambiente si sentiva meno solo, se mai era possibile non sentirsi soli quando in tutto il pianeta non esisteva più un solo essere vivente, quando anche la più piccola forma di vita era stata distrutta dai mostruosi invasori, quando anche viaggiando per tutto l’universo non sarebbe più stato bruciato dall’amore, scaldato dall’amicizia, accecato dall’odio per un suo simile, perché nessun suo simile esisteva più.

Per un attimo la disperazione riemerse come fino al giorno prima, schiacciandolo in una solitudine che toglieva ogni respiro.

“Ma adesso,” si scosse, “adesso,” pensò, “tutto sarà diverso!”

E con una nuova serenità avanzò tra gli edifici lasciati intatti dalle radiazioni che avevano invece devastato i DNA cellulari; avanzò tra i giochi di luce ed ombre creati dal sole e dalle meraviglie architettoniche; avanzò tra i massi inariditi e screpolati dal fuoco e dal gelo, ed arrivò ai confini della città.

Si fermò a scrutare l’orizzonte, muovendo lentamente lo sguardo da un estremo all’altro di quella distesa, desolata e prosciugata da ogni forma di vita, che era stato il suo Regno.

Si sedette sopra un masso, al sole, con la ricerca di calore dei vecchi, anche se ancora non era vecchio; con la lentezza dei vecchi raccolse alcuni ciottoli, ne studiò la forma e li lasciò cadere, lentamente: tutte azioni che ripeteva ormai da tanto tempo.

Aprì il libro che aveva portato con sé e cominciò a leggere, soffermandosi su ogni parola, lasciando che i ragionamenti della sua mente rubassero un po’ di tempo alla solitudine.

Ora, però, le cose sarebbero cambiate!

Alzò lo sguardo verso la città, e vederla così bella e così deserta gli procurò ancora una volta un’atroce fitta di dolore.

Per un istante, davanti ai suoi occhi, la città si riempì di vita e ritornò come era stata un tempo, piena di popolazione che si muoveva, che lavorava, che si amava: il suo popolo!

Il suo popolo e, tra gli altri e più degli altri, la sua compagna. Sentiva ancora fortissima la sua mancanza, o, forse, la sua presenza; in quell’allucinate solitudine, il desiderio di averla vicina, glie la mostrò davanti ai suoi occhi, così bella da far piangere, così dolce da togliere il respiro, piena di vita come era stata fino a quando dallo spazio arrivarono i mostruosi invasori.

E rivide anche "loro". Venuti dalla Terra, carichi di armi e di odio, portarono conquista o sterminio, e sterminarono ogni essere vivente di quel mondo che si era ribellato. La morte cavalcò sull’onda delle radiazioni, straziando rabbiosa ogni carne, bruciando crudele ogni fiore.

Salvarono solo lui, il Re di quello che era stato il popolo degli Iper-aracnidi, affinché servisse da beffardo monito per ogni altra specie.

Lui, sovrano di niente, unico essere vivente in un mondo di sassi, solo come nessuno era stato mai in tutto l’universo: lui, con la mente che traboccava disperazione verso l’infinito in cui si perdeva smarrita, senza appigli perché sapeva di essere sola; lui, il cui urlo di solitudine dilagava in tutto il cosmo, ultimo...

“Ma tutto questo fino a ieri!” si disse interrompendo quei pensieri devastanti. “Ora finalmente le cose sarebbero cambiate!”

Il Re appoggiò a terra un lunghissimo arto da insetto e si levò in piedi, guardando la sua ombra disegnata in terra dai raggi del gigantesco sole rosso.

Ora era sereno perché, ne era sicuro, il suo popolo sarebbe tornato e, come un tempo, sarebbe stato felice.

Ancora poco tempo e sarebbe arrivata anche la sua compagna, dolce e bellissima: lo sentiva, lo sapeva, ne era sicuro e finalmente non sarebbe stato più solo.

Sarebbero stati di nuovo insieme, sereni come si può essere solo in un sogno.

E serenamente alzò tutti gli occhi verso il cielo, come già in attesa del loro ritorno.

Rimase a fissare il cielo lattiginoso fino al tramonto, ma la sua fiducia non si incrinò:

“Arriveranno domani.” pensò.

Sperare aiuta a vivere; forse la pazzia è l’ultimo rifugio. Per qualsiasi specie.

Luigi Righi

Su un balcone di Roma, durante la pandemia di Coronavirus...

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Garibaldi e il suo piccione

di Never75

Nota dell'Autore: Questo racconto svelerà dettagli riservati e imbarazzanti sulla vita dell'Eroe dei Due Mondi, dettagli ignorati volutamente nei libri di Storia. Se ne consiglia pertanto la lettura a un pubblico di soli adulti.

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Estratto dall'Enciclopedia Treccani alle voci:

Garibaldi, Giuseppe - Patriota, generale e uomo politico (Nizza 1807 – Isola di Caprera 1882). Dopo aver aderito alla Giovine Italia visse alcuni anni (1835-48) in America, combattendo per l’indipendenza di vari Paesi. Rientrato in Italia, dopo la proclamazione della Repubblica romana, partecipò alla difesa di questa città. Sconfitto dai francesi , Garibaldi sfuggì all'accerchiamento e riparò a S. Marino donde tentò di raggiungere Venezia ancora libera ma, nel tragico inseguimento, vide morire la moglie Anita. Dopo l'annessione da parte del Piemonte di Lombardia, Emilia, Toscana e Romagna, Garibaldi riavviò il processo di unificazione d’Italia. Giuntagli nell'aprile del 1860 notizia della rivolta scoppiata a Palermo, si pose a capo della missione nota come spedizione dei Mille, che partì da Quarto nella notte dal 5 al 6 maggio 1860. Tappa tra le più importanti dell'impresa fu la decisiva battaglia del Volturno che consentì di unire il Mezzogiorno al Piemonte e di giungere alla costituzione del Regno d’Italia (1861). Scoppiata la terza guerra d'indipendenza nel 1866, accettò il comando dei volontari; entrò con essi nel Trentino e li condusse alla vittoria di Bezzecca il 21 luglio. Per le sue imprese, nelle quali dimostrò di avere non solo rare doti militari ma anche indiscutibile acume politico, Garibaldi è considerato uno dei più grandi artefici del Risorgimento italiano.

Colombo - Nome comune di varie specie di Uccelli appartenenti all’ordine Colombiformi (Columbiformes), nel linguaggio corrente detti anche piccioni. I Colombiformi hanno dimensioni medie, con becco breve e sottile, piede a quattro dita. Prevalentemente granivori e frugivori, mangiano anche vermi e insetti. Sono monogami, il maschio nel corteggiare la femmina fa la ruota e tuba, emettendo piccole e caratteristiche grida. Maschio e femmina, alternativamente, covano le uova. I colombi si allevano per la produzione di carne, allo scopo di ottenere colombi viaggiatori e di alto volo, o razze di bell’aspetto. I colombi viaggiatori furono usati fin da tempi remoti per trasmettere messaggi mettendo a profitto la capacità che hanno di orientarsi e di ritrovare il nido anche se portati a grandi distanze.

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Roma, 3 giugno 1849

Il condottiero è riconoscibile dagli altri soldati grazie al suo mantello svolazzante e alla sciabola che impugna. Sta impartendo le ultime disposizioni al suo drappello.
La chioma bionda e folta spicca sotto il sole quasi estivo della Città Eterna. Anche il suo destriero, un bianco pomellato, ha la criniera dorata che brilla. I due sembrano quasi una cosa sola.
Il generale ha in mano un binocolo e può vedere già i suoi nemici.
Sono i maledetti francesi accorsi in aiuto del papa-re. Li comanda il generale Oudinot, figlio di un generale di Napoleone I.
Sono in numero schiacciante, quasi il doppio dei loro. Sconfiggerli sul campo è un'impresa quasi disperata.
Ma il generale non conosce la parola “resa” e il suo ordine è quello di resistere a oltranza.
Incita i suoi uomini a combattere fino alla fine.
I francesi potranno anche sconfiggere la Repubblica Romana, ma non distruggeranno mai ciò che essa rappresenta per tutti loro.
I soldati lo guardano ammutoliti. Qualcuno di loro piange. Sono volontari accorsi da tutta Italia e non solo. Oltre a un paio di còrsi e ticinesi, a ingrossare le scarne file dei patrioti, c'è anche qualche irlandese, greco, spagnolo, portoghese e perfino tedesco. Tutti lì per difendere un sogno. Tutti pronti a sacrificare le loro vite, per Roma e per Garibaldi.
Nel frattempo anche il generale Oudinot li sta osservando con il suo binocolo.
“Pezzenti! Li schiacceremo come animali! Allons!”
Grida ai suoi uomini lanciando una carica di cavalleria.

Ma Oudinot non è l'unico a tenere d'occhio Garibaldi.
Nei pressi del campo di battaglia, sopra un albero nei pressi dell'accampamento dei patrioti, stava appollaiato un piccolo piccione di nome Flick.
Qualche giorno prima la madre di Flick stava addestrando i suoi pulcini per il primo volo.
Si dovevano lanciare da un tetto. I suoi fratelli di si erano già buttati giù tutti, con discreti risultati. Mancava solo Flick.
Il piccione stava per lanciarsi, quando vide Garibaldi per la prima volta mentre parlava alla piccola folla radunata in piazza.
L'uomo continuava a ripetere le stesse frasi: Libertà, fratellanza, indipendenza, uguaglianza...
Flick non comprendeva ancora la lingua degli umani, però il portamento dell'uomo lo colpì subito. Pareva emanare energia ogni volta che apriva bocca. Quando gesticolava, il suo mantello rosso sembrava imitare il fuoco acceso di un falò.
Da quel momento Flick volle seguirlo, a ogni costo.
“Flick! Dove vai?”
Lo richiamò la madre, ma invano.
Ancora incerto sulle alette, spiccò il suo primo, timido volo e seguì il suo uomo.
E adesso eccolo lì, alla vigilia di una battaglia.

Le truppe francesi, lanciate alla carica, ebbero purtroppo la meglio suoi difensori della Repubblica.
Dal ramo sul quale si trovava, Flick poteva avere la visuale di tutta la battaglia.
I difensori ce la stavano mettendo davvero tutta per resistere alle forze soverchianti dei nemici. Ma era inutile.
Dopo l'ultima carica di cavalleria Garibaldi e i suoi, ridotti ormai a pochi uomini, sembrano spacciati.
Circondati da più parti non rimaneva loro che un solo imperativo: morire con onore.
Un soldato francese prende la mira. Avrebbe ucciso lui quello che tutti, perfino i suoi nemici, definivano ormai “eroe dei due mondi”.
Flick lo vede. Non può permettere al suo mito di morire.
Vola verso il soldato nemico. Non sa di preciso cosa fare. Alla fine gli viene un'idea.
Bombarda il francese con l'arma più nota e fastidiosa dei piccioni.
“Merde!” Urla il cecchino francese accecato dalla deiezione dell'animale.
Garibaldi, ringraziando il Cielo per lo scampato pericolo, incita il cavallo a galoppare via, seguito a ruota dal suo pungo di fedelissimi.
Flick, intanto, fiero dell'impresa appena compiuta, vola via pure lui dal campo di battaglia.
Ha appena salvato la vita al suo eroe! Quasi non ci crede.
Senza forse nemmeno immaginarlo, il casato dei Flick passerà anche lui alla Storia. Ovviamente alla Storia dei Piccioni!

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Fattoria Guiccioli, vicino a Ravenna, 8 agosto 1849

Sono passati due mesi.
Nel frattempo Flick ha trovato una compagna, Lea e con lei ha già fatto delle uova da cui son nati da pochi giorni dei piccoli.
Adesso con la moglie sta osservando attraverso il vetro scheggiato di una finestra l'uomo con la divisa rossa al capezzale di una donna.
Lui le sta tastando il polso, sempre più debole.
“Anita, Anita mia.”
Flick, intenerito, si stringe ancora di più alla sua Lea.
“Poverina, credi che morirà, Flick?”
gli domanda la sua dolce metà
Flick non risponde, tutto concentrato su ciò che vede.
A un certo punto la donna a letto, con la poca voce rimasta, bisbiglia qualche frase all'orecchio di lui.
“Fammi sentire, Lea!”
Flick non riesce a udire le ultime parole di Anita.
“No! Non lasciarmi solo!” grida l'uomo che si dispera sul letto, stringendo a sé l'amata.

“Che teneri! Come si volevano bene! Quasi come noi, vero Flick?”
“Sì, Lea, si amavano veramente tanto.”
risponde il piccione.
L'uomo stava ancora piangendo, quando un soldato fa irruzione nel capanno che i coniugi Garibaldi avevano scelto come temporaneo rifugio.
“Generale! Gli austriaci, sono vicini!”
Grida il ragazzo, che a occhio e croce non doveva avere più di venti-venticinque anni.
“Sono nella bratta! [1] Dobbiamo scappare!”bestemmia l'uomo.
Prima di uscire, getta un ultimo sguardo alla moglie.
“Tornerò un giorno. Te lo prometto amore mio.”
Poi fugge via.

“Che uomo insensibile! La lascia così?”
chiede Lea al marito, alquanto delusa dal comportamento dell'uomo.
“Non sappiamo perché se ne è andato. Forse aveva qualcosa di urgente da fare.”
cerca di giustificarlo Flick.
“Povera donna! Abbandonata e sola. Promettimi Flick che tu non mi lascerai mai, vero?”
gli dice Lea con fare civettuolo.
Flick appoggia il becco a quella della compagna. Gli uomini lo definirebbero un bacio.
I passeri non piangono ma Flick, alla morte di Anita, provava qualcosa di simile al dolore che fa lacrimare gli occhi degli umani.
Intuisce che era appena mancata la donna più importante della vita del suo beniamino.
Si avvicina al letto e la osserva. Per i gusti degli uomini, è una donna davvero bella. Sta qualche minuto a osservarla in religioso silenzio.
“Amore! Fai presto!” Lea lo richiama al suo dovere, “Bisogna da mangiare ai bambini. Te ne sei scordato?”
Flick, obbediente, raggiunge la moglie alla finestra. Poi la afferra romanticamente ala nell'ala, e i due volano assieme al loro nido.
Qualche minuto dopo, un drappello di soldati austriaci fa irruzione nel capanno. Di Garibaldi non c'è traccia. In compenso sul letto trovano il corpo di Anita ancora caldo. Sul suo petto, ci sono anche delle piume di uccello disposte a forma di croce. Chissà chi avrà creato la bizzarra composizione?

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Scoglio di Quarto, Genova, 5 maggio 1860

Due imbarcazioni sono ormeggiate al largo.
Illuminate da lanterne e da un bel faccione di luna piena, la loro sagoma si riflette nell'acqua scura del mare.
Intanto un migliaio di uomini attende nel piccolo porto gli ordini d'imbarco.
I due uomini intabarrati, già al molo, stanno ancora decidendo come ripartire i volontari, molti dei quali indossano una camicia rossa. Si sentono bisbigliare voci provenienti da tutte le regioni d’Italia riconoscibili dalle loro marcate pronunce. Ormai bisogna affrettarsi: ci sono ben due navi due da equipaggiare: il Piemonte e il Lombardo.
Ovviamente uno dei due uomini intabarrati che dà ordini è proprio lui, Giuseppe Garibaldi.
Son passati un po' di anni. È quasi calvo, ha problemi di artrite e zoppica da una gamba, ma Flick lo distinguerebbe tra un milione.
Pure il piccione è invecchiato. Non riesce più fare grandi voli come una volta. E anche per quel viaggio ha dovuto farsi accompagnare da un suo bis-bisnipote, Flick V.
È l'unico suo parente rimasto dopo che la sua Lea lo ha lasciato, l'estate scorsa.
E Flick ,sentendosi pure lui la morte vicina, ha deciso di salutare Garibaldi per l'ultima volta.
Non è stato facile rintracciarlo. Ha dovuto chiedere a tutti i piccioni che incontrava se lo avessero visto, e anche dopo aver recuperato questa informazione, ha faticato parecchio per raggiungerlo.
Seduto col nipote sulla sponda di un carro, assiste agli ultimi preparativi.
“Dove vanno, bis-bis-nonno?” domanda Flick V a Flick I.
“Non so, nonno. Credo molto lontano.”
Flick I era quasi cieco e sordo. Tuttavia anni di esperienza gli avevano permesso di intendere alla perfezione il linguaggio degli uomini. Capiva che quei volontari avevano una missione importantissima da compiere che avrebbe cambiato la Storia.
Adesso il Generale e l'altro uomo si stringono la mano. Il patto è concluso e, tra urla di gioia ed “Evviva Garibaldi” , i volontari iniziano ordinatamente a imbarcarsi sui piroscafi.
Per ultimo sale lui, l'Eroe dei Due Mondi.
“Sta per partire bis-bis-nonno. Non lo saluti?”
Ma Flick I non ascolta più il nipote.
Ora non lo vuole più abbandonare, il suo eroe.
“No! Sei matto! Alla tua età!”
Flick I, seppure a fatica, riesce a volare sull'albero di trinchetto. Nessuno si accorge di lui.
Mentre il Lombardo e il Piemonte si staccano lentamente dalla riva eruttando sbuffi di vapore nero, giunge fin lì uno stormo di gabbiani.
Flick I sa che sono venuti per lui, e si nasconde come meglio può tra le vele dell'albero.
I marinai invece interpretano l'arrivo dei gabbiani come un ottimo auspicio, e iniziano a cantare La bandiera dei tre colori.
Anche il Generale si sporge dal Piemonte, e vede la lingua di terra chiamata Liguria, allontanarsi sempre più. Può essere anche il suo ultimo viaggio, lo sa bene. E anche molti “ragazzi” che sono imbarcati con lui non torneranno indietro sulle loro gambe.
Cerca di non pensarci.
“Qui si fa l'Italia o si muore!” dice ai suoi, prima di ritrarsi sottocoperta.

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Nei pressi del fiume Volturno, 1° ottobre 1860

Flick I ha dormito per tutto il tempo del viaggio. Poi, una volta sbarcati i garibaldini, ha seguito i loro combattimenti fin dalle prime imprese.
Lo sbarco a Marsala, la presa di Palermo e Messina, la battaglia di Reggio e l'ingresso trionfale a Napoli.
Tutte le volte era riuscito a trovare un buon punto per osservarli, anche se a volte doveva scappare per paura delle pallottole nemiche.
Anche quella volta aveva adibito a suo riparo il ramo più alto possibile di un vecchio noce.
Quella battaglia non voleva perdersela.
Si sentiva che sarebbe successo qualcosa di grosso che avrebbe cambiato i destini del Mondo.
Flick aveva fatto amicizia con una famiglia di piccioni, i signori La Vedova, che, viste le condizioni in cui versava, gli aveva anche recuperato del cibo nei giorni precedenti.
Flick stava appunto commentando la battaglia con Regin, il figlio minore dei La Vedova.
Gli occhi stanchi del vecchio piccione gli impedivano di distinguere bene le figure lontane. Oltretutto il fumo generato da fucili e cannoni peggiorava la situazione.
Flick si trovava quindi costretto a chiedere a Regin di volare verso il campo e fornirgli un resoconto della battaglia in tempo reale.
Regin, con il coraggio e l'incoscienza tipici della gioventù, obbediva volentieri.
“Allora, Regin, chi avanza per primo?” chiedeva di continuo l'anziano piccione tamburellando il ramo con le zampette.
“Nessuno dei due” rispondeva il giovane la maggior parte di volte.
Poi, all'improvviso, la risposta cambia.
“Quelli vestiti di rosso, Signor Flick.”
Flick, se avesse potuto, sarebbe volato su su fino al Vesuvio dalla contentezza che aveva.
Il “suo” Garibaldi stava vincendo, finalmente!
“Ma, mi scusi se glielo chiedo, Signor Flick.” domanda Regin al piccione più anziano, “ma mi può dire per cosa lottano quelli vestiti di rosso.”
“Te l'ho già detto! Per la propria libertà!” afferma Flick I gonfiando il petto come se avesse una piccioncina davanti da corteggiare.
“Perché adesso non sono liberi?” chiede di nuovo Regin, “non possono andare dove vogliono? Non mi sembrano in gabbia!”
“Sei troppo giovane, ragazzo mio! Gli uomini hanno un concetto di libertà diverso da quello di noi uccelli” risponde Flick in tono saccente.
Regin alza le alucce. Gli esseri umani erano davvero un mistero per lui.
Dopo un paio di minuti, chiede di nuovo a Flick, che pareva sapere tutto.
“E allora, Signor Flick, i soldati vestiti di blu perché combattono?”
“Loro combattono per difendere il loro territorio” risponde il piccione più vecchio.
“Come noi lo difendiamo dai merli o dai corvi?” ipotizza Regin che finalmente crede di capirci qualcosa.
“Beh, più o meno” conferma l'altro.
“E i soldati rossi mangiano i quelli blu come i corvi e i merli mangiano noi?” domanda nuovamente Regin.
“No! Gli uomini non si mangiano tra di loro. Devo proprio spiegarti tutto!” sbotta Flick. L'età lo aveva reso impaziente e nervoso.
“E allora perché combattono tra di loro? ” dice Regin scuotendo le ali, “se si uccidono tra di loro, e poi non si mangiano nemmeno, allora sono proprio degli sciocchi a combattersi gli esseri umani!”
“Sei tu a essere uno sciocco!” lo rimprovera l'anziano,“Se non capisci niente, chiudi il becco e osservali in silenzio.”
“Beh, a questo punto io preferisco non capirli allora” conclude il giovane abbandonando la discussione.

Dopo qualche ora dall'inizio della battaglia cannoni e fucili smettono di sparare.
Flick ordina a Regin di andare subito sul campo di battaglia.
Il giovane è presto di ritorno.
“Signor Flick, ho visto i soldati blu issare una specie di tovaglia bianca a un bastone. Che vuol dire? Che hanno fame?”
Flick fa un salto.
“No! Significa che si arrendono! Garibaldi ha vinto! I Mille ce l'hanno fatta! Urrah!”
E Flick, incurante dell'età e dell'artrite vola verso i vincitori.

Garibaldi è letteralmente circondato dalla folla che lo osanna come liberatore.
I Borbonici se ne sono andati e non torneranno mai più. L'Italia Meridionale è quasi tutta conquistata ormai. Resiste solo Gaeta, ma è isolata. Ad assediarla ci penseranno più avanti. Ora è il momento di godersi la vittoria.

L'osservazione di un soldato interrompe il momento di euforia generale.
“Signor Generale, adesso dobbiamo comunicare la vittoria al re e ai suoi generali. Come facciamo? I piccioni viaggiatori che avevamo ci sono morti tutti durante il viaggio.”
Garibaldi è in difficoltà.
Si toglie il berretto e si gratta i capelli ormai radi, pensando a una soluzione.
Flick non crede alle sue orecchie.
Un piccione! Serviva un piccione!
Si posa sulla camicia rossa dell'Eroe dei Due Mondi.
Il Generale lo nota subito.
“E questo che cos'è?” chiede al suo attendente,
“Beh, un piccione. Ma non so come è finito lì!” cerca di giustificarsi il ragazzo.
“Non aspettiamo allora. Affidagli il messaggio e poi mandalo al re. Intesi?”
Il soldato annuisce.
Avvolge un nastrino con il messaggio alla gamba striminzita di Flick.
“Ce la farà ad arrivare a destinazione?”
Si domanda prima di lasciarlo libero.
Flick, dall'emozione, per poco non cade dritto stecchito ai piedi dell'uomo.
Ma poi si fa forza. Deve resistere. Troppe vite dipendono dal suo gesto. Non può morire prima di adempiere alla sua missione.

Quello che giunge al campo del re è un uccellino stremato.
Le ali gli battono sempre più lente e il respiro è sempre più affannoso.
“Coraggio! Ancora un piccolo sforzo!” dice per incoraggiarsi.
Poi, eccolo davanti a lui, il re.
Era impossibile non riconoscerlo, dal tanto che spiccavano i suoi baffoni dritti e sparati in aria.
“E questo chi è?”, chiede il Re di Sardegna a un suo generale.
“Forse è un messaggio dal fronte, sire.”
Il soldato afferra Flick un istante prima che l'uccello cada e legge avidamente il suo messaggio.
“Vittoria, Maestà! Garibaldi e i suoi hanno sconfitto i Borboni!”
Il re è un po' deluso. Pensava che fosse una missiva della sua Bella Rosina!
Però cerca di fingere contentezza.
“Meno male, neh,” esclama“che quel nizzardo patelavache [2] ce l'ha fatta, finalmente!”
I soldati sabaudi, dalla gioia, si abbracciano.
Nessuno si ricorda del povero Flick, che giace ancora esanime sulla nuda terra.
Solo un valletto del re, a un certo punto, ha pietà di lui e gli dà un po' di cibo.
“Povero uccellino! Ta s'é vej com ël coco.[3]
Flick, immaginando che è Garibaldi a parlare, apre gli occhietti felice.

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Bezzecca, vicino a Trento, 21 luglio 1866

Garibaldi ha respinto per l'ennesima volta gli austriaci, i tugnitt come li chiamano da quelle parti.
Adesso la via per il Trentino è libera. Manca davvero poco.
Il generale è ormai solo l'ombra di se stesso. L'artrite non gli dà requie. Non riesce più a fare lunghe cavalcate come una volta e la gamba ferita all'Aspromonte gli pizzica ancora. Ma lo spirito è ancora quello di un tempo.
Flick adesso fatica pure lui a riconoscerlo.
Non distingue più i suoi capelli biondi, né la sua camicia rossa.
Accompagnato, o per meglio dire, trascinato, da suo bis-bi-bis-nipote Flick VI si appoggiano entrambi sulla spalla del soldato che sta parlando al Generale.
Garibaldi si regge al suo fucile come a un bastone, ma a un certo punto, dalla rabbia lo scaglia via.
Il soldato gli porge il telegramma per farglielo vedere di persona.
L'umore del generale, man mano che prosegue nella lettura, passa dalla contentezza alla rabbia per terminare infine con la rassegnazione.
Flick vorrebbe tanto capire cosa c'è scritto di così importante su quel foglietto.
Ma, nonostante la sua intelligenza, neppure lui è riuscito a decifrare la scrittura umana.

“È un ordine del re. Non si può discutere, Generale” gli sta spiegando il giovane ufficiale.
“I prussiani hanno già firmato l'armistizio col nemico. Anche noi dobbiamo fermarci. Non siamo in grado di sconfiggere gli austriaci da soli. ”
Garibaldi annuisce e, seppure a malincuore dà ai suoi, delusi forse più di lui, l'ordine di ritirata.
“Obbedisco.” È il suo unico commento mentre le lacrime gli scendono sulla barba ormai quasi del tutto bianca.
Flick non ha mai visto il Generale così triste e abbattuto. Neppure quando è morta la sua amata Anita.
Vorrebbe almeno consolarlo. Gli svolazza davanti per farlo sorridere.
Ma l'eroe dei Due Mondi non ricambia il suo gesto.
Afferra con una mano l'ignaro uccelletto, ignorando ciò che il pennuto ha fatto per lui negli ultimi tempi.
Dopo avergli stritolato le ossa ben bene, lo scaglia più lontano che gli riesce.
Flick, seppure malandato, riesce a ancora a volare via.
“Nonnino! Aspettami!”
Il suo bis-bi-bis-nipote Flick VI tenta di raggiungerlo per metterlo al riparo.
Ma non è finita.
Garibaldi estrae dalla sua fondina la pistola, una fedele Colt da cui non si separava mai e che gli aveva salvato la vita più di una volta. La solleva in alto e prende la mira.
“Questo è per te, Austria.” E colpisce Flick I che stramazza al suolo senza un lamento.
“E questo è per te, Prussia.” La seconda pallottola colpisce Flick V che, essendo più giovane, qualche metro riesce lo stesso a farlo.
Il Generale ora è soddisfatto.
È sempre andato fiero della sua mira pressoché infallibile. Pensava di esser peggiorato con l'età, e invece riesce ancora a colpire bersagli in volo così lontani.
Anche i suoi soldati si complimentano con lui.
Adesso il generale si dirige verso i due piccioni. Flick V sbatte ancora le ali.
“Un po' piccolo. Però va bene per il brodo.” E lo porge al suo attendente che lo ficca nel paniere.
Non si degna nemmeno di considerare Flick I per quello.
“Questo qui invece è solo pelle e ossa. Non lo mangerebbe nemmeno il mio gatto!”
E gli passa su con lo stivale senza troppi riguardi.

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Roma, 17 marzo 2011

La folla festante è radunata sul Gianicolo, ai piedi della statua di Giuseppe Garibaldi che però è coperta.
Dieci diverse bande, provenienti da tutta la Penisola, hanno appena finito di suonare gli inni più famosi del Risorgimento.
Il pubblico li applaude.
Ora la parola spetta al sindaco.
Sale sul palco. Dopo un lungo discorso di circostanza, viene anche lui applaudito in un tripudio di bandiere tricolori.
Il momento tanto atteso è giunto.
Un grosso telo copre la Statua dell'Eroe dei Due Mondi.
È stata appena rimessa a nuovo con un restauro lungo e costoso.
Ma, per festeggiare degnamente il 150^ dell'Italia Unita, non si bada a spese, e anche la crisi va in secondo piano.
Con un rullare di tamburi di sottofondo, fra qualche minuto, il Primo Cittadino tirerà un cordone. Con esso si solleverà il telo che nasconde l'opera.
Il sindaco è fin troppo consapevole della tensione che si sta accumulando. Sceglie apposta di compiere gesti lenti, per aumentare all'inverosimile la suspence.
Poi tira il cordone, con decisione, godendosi il suo trionfo.
Ma le grida dei cittadini e dei consiglieri dell'Urbe non sono quelle che si sarebbe aspettato.
Qualche assessore sviene addirittura, e si deve chiamare la protezione civile per calmare i più facinorosi.
Il Primo Cittadino rimane con il telo in mano, impietrito da ciò che ha appena scoperto.
La statua equestre di Garibaldi, appena restaurata, è in condizioni più pietose di prima.
È tutta ricoperta da cacche di uccelli di ogni tipo e dimensione. E, come in un perfetto puzzle, non un solo millimetro di bronzo è lasciato scoperto.
“Con tutti i soldi che è costato il restauro! Che figura che abbiamo fatto! Con le televisioni in eurovisione! Con la stampa di tutto il Mondo! Con la campagna elettorale vicina!” continua a delirare il sindaco che a un certo punto viene caricato pure lui su un'autoambulanza.
La maggior parte dei presenti pensa a uno scherzo di pessimo gusto o a un atto vandalico.
Ma chi potrebbe odiare così tanto, quello che la quasi totalità degli italiani reputa l'eroe nazionale per antonomasia?
Il gesto sconsiderato di qualche neo-borbonico o simpatizzante dell'Austria-Ungheria? Oppure il sabotaggio di un clericale troppo tradizionalista? Chi ha osato così tanto?

Poco distante dal parapiglia del Gianicolo, Flick XXX sta salutando calorosamente la sua variegata squadriglia, composta da centinaia di uccelli di tutte le specie. Alcuni provengono perfino dalla lontana Australia!
Ci ha impiegato molti anni, per radunarne così tanti.
Soprattutto è stato difficile lavorare di notte, sotto quel telone scuro che non faceva passare un filo d'aria. Ma il lavoro è stato compiuto nel migliore dei modi.
Flick XXX può dirsi soddisfatto. Finalmente i suoi antenati Flick I e Flick VI sono stati vendicati. Anche se ci son voluti quasi 150 anni, l'uomo che ripagò con l'ingratitudine e la morte il suo benefattore, ha finalmente avuto il fatto suo. Con buona pace dei garibaldini.

Note:

[1] Modo di dire ligure che equivale a dire “sono nei guai.”
[2] Lett. “picchiamucche”. In torinese si dice di persona zotica e grossolana.
[3] Lett. “vecchio come il cuculo”. Sempre in torinese si dice di persona o cosa molto vecchia.

Never75

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Frate Camillo

di Tommaso Mazzoni

Giù, nelle fiamme eterne dell'Inferno, seduto sul suo trono di teschi, Satana stava meditando nuovi flagelli con cui affliggere l'umanità.

All'improvviso un demone servitore entrò nella sala del trono maledetto, soggiungendo:

"Maestà,Maestà! Il Dottore la vuole, è urgente!"

Satana incenerì il demonietto con uno sguardo, poi, con uno sbuffo, si materializzò nell'ospedale infernale.

Il primario, il dottor Joseph Mengele, fece un inchino, poi mostrò a Satana una lunga corsia, dove giacevano, in precarie condizioni, migliaia di diavoli tentatori, di svariate età e rango.

Perfino Mefistofele, il numero 1 del settore (dopo Satana), giaceva su di un letto, un corno rotto, pieno di lividi, lacerazioni e fratture.

"CHI?" urlò adirato il signore degli inferi, con fiamme che gli uscivano dagli occhi. "Chi è stato? Un Arcangelo?"

Mefistofele scosse il capo, poi con un filo di voce sussurrò:

"F-fra C-camillo di Torrevecchia!"

Venne fuori che il frate era la causa dell'ospedalizzazione di tutto il reparto tentatori; il danno all'economia infernale era ingentissimo, e l'ira di Satana esplose.

"Ora basta! A quel maledettissimo frate penserò di persona!"

Dopo aver recuperato le armi più potenti del suo arsenale, Satana uscì dall'Inferno, materializzandosi al 100 % sulla terra. Questo significava che il signore dell'Inferno aveva ora un corpo solido, poteva esercitare il suo potere appieno e non era avvertibile da altri esseri spirituali.

Assunto l'aspetto di una mosca, volò nella radura di Torrevecchia, ove sorgeva la chiesa affidata al frate.

Il frate, massiccio individuo alto oltre due metri, un passato da pugile e folta barba nera, stava celebrando Messa.

Un altro vantaggio della materializzazione era che la naturale avversione degli spiriti maligni per i luoghi, gli oggetti ed i riti sacri, pur provocando ancora intenso disagio al Malefico Nemico, non riuscivano a bloccarlo.

Egli iniziò dunque a ronzare intorno al frate, contemporaneamente sussurrandogli dubbi e pensieri malvagi, e disturbandolo.

Ma il chierichetto, un bambino biondo e dagli occhi intelligenti, passò al frate un turibolo di incenso che il frate usò per scacciare l'insetto molesto, pronunciando un sonoro: "Vade Retro!"

Anche materializzato, la situazione era eccessivamente precaria per Satana, e lo costrinse alla ritirata.

Uscito dalla chiesa, vi fece ritorno nella forma di una bellissima donna in vesti succinte, che suscitò un fremito in tutta la chiesa.

La donna si mise spudoratamente in prima fila, sperando di turbare il frate al punto da indurlo al peccato.

Ma ancora una volta il chierichetto fu provvidenziale, perchè egli rovesciò l'acquasantiera, facendone cadere il contenuto sul padre che, svegliatosi dalla malia, recitò una potente preghiera di penitenza e poi un esorcismo, obbligando così il Nemico alla fuga.

Stavolta fuggì in modo teatrale, urlando e bestemmiando, e terrorizzando i poveri fedeli.

Allora il Maligno si decise a passare a vie più spicce, sfondando la porta della chiesa e apparendo con il suo temuto aspetto infernale, gridando poi: "Mortale!!! Giunta è la tua ora!"

Satana appariva alto quasi tre metri, grandi corna d'ariete, artigli alle mani, coda da scorpione, ali da pipistrello, un'armatura nera come la notte e un tridente in mano. Tutti i fedeli fuggirono atterriti.

Fra Camillo raccolse il coraggio, recitò una preghiera, prese un pesante candeliere in bronzo e ingiunse:

"Fuori dalla mia chiesa, immondo spirito!"

Satana rise malvagiamente di quell'affermazione, e i due iniziarono il cimento.

I due si batterono dentro la chiesa di San Francesco, in canonica e in sacrestia. Numerose ferite e scottature spiccavano sul corpo del massiccio frate esorcista, ma il Demonio non era messo meglio, con un corno spezzato, un occhio accecato e un ala squarciata. Tuttavia la potenza fisica del Diavolo era enorme, e fulmini, fiamme ed altri malefici gli permisero di ottenere un vantaggio notevole sul frate, che alla fine si ritrovò sulla cima del campanile, ad oltre quindici metri di altezza.

Frate Camillo riuscì a disarmare il Nemico del suo forcone, ma Satana lo afferrò per la gola con il suo terribile artiglio, preparandosi a scaraventarlo verso morte certa. Proprio in quell'istante, Frate Camillo implorò:

"Salvami, Signore, perchè io non sia perduto!"

Ed ecco, il chierichetto mise mano alle campane; il loro suono argentino e celestiale sorprese Lucifero, facendogli abbassare la guardia.

"Vade Retro! In nomine Pater!"e il frate lo colpì al volto, liberandosi. "Et Fili!" E gli scagliò una pedata spingendolo sul bordo; infine, avvolgendosi il rosario sul pugno gridò: "Et Spiritus Sancti", sferrando un terribile diretto al volto di Satana che fu precipitato contro una croce di pietra ai piedi del campanile. Con un'ala squarciata il Maligno non poté volare, quindi restò fu impalato sulla croce e la sua forma fisica fu distrutta.

Tornato all'Inferno in terribili condizioni, fu ricoverato accanto a Mefistofele, e gli ci volle un anno per rimettersi, per fortuna di tutto il genere umano.

Frate Camillo fu bendato e fasciato dal chierichetto, e si addormentò sfinito dopo un'ultima preghiera di ringraziamento, mormorando: "Grazie Gabri, puoi andare a casa adesso!"

Il fanciullo sorrise e annuì, uscì dalla canonica e si diresse verso casa.

"Questa è stata una giornata intensa", disse il fanciullo fra sé e sé. "Meno male che il viaggio è breve!"

Così dicendo, l'Arcangelo Gabriele aprì le ali e, splendendo come il Sole, fece ritorno al Paradiso.

Tommaso Mazzoni

L'auriga romano Coronavirus nell'avventura a fumetti "Asterix e la corsa d'Italia" del 2017

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Fuga dal morbo

di Generalissimus

Eccovi una delle mie distopie brevettate.

Edda camminava.

Camminava e camminava.

Da quanto tempo stava camminando? Ormai non lo sapeva più neanche lei.

Camminava da così tanto tempo da aver perso il conto dei giorni e delle notti.

Da tempo aveva scambiato il suo orologio per un po’ di cibo, ma tanto, dopo tutto quello che era successo, sapere con precisione quale fosse l’ora era diventata l’ultima delle preoccupazioni sue e di tutte quelle che conosceva.

Ma sapeva perché stava camminando.

Stava andando via.

Via da tutto quell’orrore, quella disperazione.

Andarsene era pericoloso.

Molti non ce l’avevano fatta, troppi.

Ma ormai non se ne poteva più.

“Non andate ad est!”, dicevano quelli che non erano riusciti nell’impresa ed erano miracolosamente riusciti a tornare alle loro case: “la strada è troppo lunga e ci sono troppe pattuglie.”

Chi aveva provato la strada verso sud diceva la stessa cosa.

“Le pianure ormai sono dei carnai”, avvertivano, “non ci sono posti dove nascondersi, bisogna fare troppa strada allo scoperto e prima o poi si diventa dei bersagli facili per i fucili delle milizie”.

Qualcuno a tutto questo rispondeva: “Perché non si può andare a nord, allora? L’altra nazione è a pochi passi! Se ci si procura un binocolo al mercato nero la si riesce a vedere!”, ma subito si sentiva dire da qualcun altro: “Stupido! Secondo te non ci hanno già pensato? Adesso ti dico la verità: l’altra nazione non vuole avere niente a che fare con noi! Sparano a vista! Appena vedono la tua testa spuntare di un millimetro da oltre uno dei loro monti te la fanno saltare”.

C’era un lago, vicino a dove abitava Edda.

Confinava con l’altra nazione, ma chi era al potere lo sapeva, e per impedire a chiunque di attraversarlo in qualsiasi modo aveva affondato tutte le barche, reso inservibili tutti gli attracchi e riempito il lago di così tanto materiale nocivo che chiunque fosse riuscito nella traversata a nuoto di quello specchio d’acqua non sarebbe vissuto tanto a lungo una volta raggiunta l’altra nazione… Sempre ammesso, ovviamente, che la polizia e l’esercito dell’altra nazione, sempre in guardia sull’altra sponda, decidesse di risparmiare quel poveraccio.

Rimaneva solo l’ovest.

Chiunque era andato ad ovest non era più tornato indietro.

Perché? Delle due l’una: o erano tutti riusciti a scappare o erano tutti morti.

Ma qualcuno di quelli che provava ad andare ad est o a sud tornava indietro dopo aver fallito, mentre di quelli che andavano ad ovest non tornava nessuno, non potevano essere tutti morti.

Qualcuno doveva essersi salvato per forza! Di conseguenza, l’unica via per scappare era quella ad ovest.

E così un bel giorno Edda decise che sarebbe andata ad ovest.

Via di lì.

Via da tutto quello.

Ormai non ne poteva più.

Non se ne poteva più.

Angherie, violenze di ogni genere, soprusi, persecuzioni, coprifuoco.

E la malattia.

Soprattutto la malattia.

La malattia che uccideva e faceva uccidere tutta quella gente.

Quella malattia per la quale non c’erano cure, solo palliativi.

Fuggire era pericoloso? Certo, ma Edda non aveva più nulla da perdere.

L’unica cosa che possedeva era il monolocale in cui abitava.

Fratelli non ne aveva, e poco tempo addietro le erano morti i genitori.

A causa delle condizioni in cui viveva, la gente del suo paese non aveva una vita sociale degna di questo nome, perciò era arrivata ormai ai 38 anni senza né un fidanzato né amici veri e propri.

Tutto quello che aveva era qualche conoscente occasionale, ma anche quelli, in una maniera o nell’altra, se ne stavano andando, rendendo il paese sempre più vuoto.

Tutti i suoi parenti o erano morti o erano fuggiti.

Animali a cui badare non ne aveva, erano stati abbattuti tutti.

E così un bel giorno, dopo una giornata intera passata a piangere, abbandonò tutte le sue paure, mise in un angolo la sua tristezza, riempì all’inverosimile di qualsiasi cosa potesse essere utile un vecchio zaino e un borsone militare logoro, quei pochi documenti che le erano rimasti e col favore delle tenebre partì.

Camminò senza mai fermarsi, nascondendosi il più possibile.

Ad un certo punto sentì anche un rumore di fischietti e qualche occasionale sparo.

Avevano scoperto che era scappata, ma ormai era troppo tardi.

Era abbastanza lontana da riuscire a vedere il paese nella sua interezza.

Gli diede un’ultima occhiata, si girò e si incamminò di nuovo, decisa a non tornarci mai più.

Edda si mise a camminare.

Camminare senza mai fermarsi.

Camminare seguendo la riva del lago verso sud, per poi tornare verso nord e allontanarsi definitivamente da esso dopo un po’.

Camminare piano, senza stancarsi.

Camminare verso ovest fino ad arrivare ad un altro lago, costeggiando la sua sponda nord.

Camminare su strade ormai distrutte, prive di vita, piene di carcasse di auto.

Camminare di nascosto, possibilmente di notte, senza farsi vedere.

Camminare sussultando ad ogni rumore, correndo verso il primo nascondiglio alle prime avvisaglie della presenza di una pattuglia in cerca di infetti, fuggitivi e presunti malfattori.

Camminare consumando il meno possibile, per non doversi ritrovare nella posizione di dover chiedere qualcosa a qualcuno.

Sicuramente i buoni Samaritani e le persone di buon cuore non erano scomparse dalla faccia della terra, ma visto l’andazzo c’era la fortissima probabilità che se Edda, una straniera mai vista prima, avesse chiesto a qualcuno un tozzo di pane raffermo, si sarebbe vista ricevere al suo posto un colpo di doppietta in faccia.

Camminare tenendosi alla larga dai centri abitati e dalle persone.

Camminare sotto la pioggia e con la nebbia.

Fortunatamente aveva scelto la primavera per partire, perciò non doveva preoccuparsi particolarmente del freddo, contro il quale era comunque abbastanza attrezzata.

Camminare senza un’indicazione precisa se non quella del sole che calava.

Camminare su sentieri di montagna ormai quasi invisibili a causa dell’incuria.

Camminare raccogliendo bacche e acqua piovana e rubando di nascosto da qualche cascina isolata, per provare a rimpinguare almeno un po’ le sue provviste.

Camminare, camminare e camminare.

Edda non sapeva più da quanto tempo stava camminando, quando all’improvviso, in lontananza, vide un cartello al fianco della strada che stava percorrendo, ridotta a poco più di una mulattiera dalla prolungata mancanza di manutenzione.

Corse via dalla strada e andò a nascondersi nel fossato al suo fianco.

Tirò fuori un binocolo dal suo borsone militare e cercò di interpretare la scritta che recava, cosa resa un po’ difficoltosa dalla ruggine presente e dai fori di proiettile praticati per divertimento, per noia, o forse per ribadire la presenza di squadroni della morte armati fino ai denti che rivendicavano per loro quella zona.

Edda puntò un binocolo appartenuto al padre, figlio di cacciatore, nipote di cacciatore e lui stesso bracconiere a tempo perso per procurare una forma di sussistenza alla sua famiglia e, sempre ben nascosta, si mise a leggere: ben-ve-nu-ti a Ras-sa.

Rassa! Il paese dove era arrivata si chiamava Rassa! Edda ripose il binocolo nel borsone, poi si rivolse ad una tasca del suo zaino, dalla quale tirò fuori un foglietto.

Su di esso erano riportati i nomi delle città che si trovavano sul confine, l’ultimo ostacolo da superare prima di uscire dal paese e ricevere tutti gli aiuti possibili da un’altra nazione, una che si era dimostrata amichevole con i suoi compaesani, infetti o meno che fossero.

Le città erano elencate in ordine alfabetico.

Edda arrivò alla R e scorse i nomi.

Trovò Rassa quasi subito.

Finalmente! Ce l’aveva fatta! Quasi non riusciva a crederci.

Ora però rimaneva il problema di come oltrepassare quel paese e contemporaneamente il confine.

Prima della sua fuga aveva cercato quante più informazioni possibili (che aveva ricevuto obbligatoriamente dietro pagamento) su tutti i paesi presenti nella lista in suo possesso.

Tanto tempo fa, prima dell’epidemia, Rassa era piccolissima, contava meno di 50 abitanti.

Quando il nuovo governo intraprese misure d’emergenza per limitare l’epidemia, fece sloggiare gli abitanti rimasti e fece occupare le casette che costituivano il villaggio da soldataglia della peggior specie che sparava a qualunque cosa si muovesse, trasformando il paese in una specie di fortilizio.

La strada diretta era fuori discussione.

Sicuramente pattugliavano anche i boschi circostanti.

Edda rimase dove si trovava solo per infilarsi degli stivali di gomma.

L’avevano avvisata che Rassa si trovava alla confluenza di due torrenti, e infatti riusciva a sentirne il rumore.

Conclusa l’operazione, si allontanò dalla strada e cercò un nascondiglio per attendere la notte.

Fu difficile arrivare alla sera.

Le foreste erano piene di miliziani, ma fortunatamente erano poco più che bifolchi esaltati dal fatto di tenere in mano un’arma, non avevano idea di come si trovassero e si seguissero le tracce di qualcuno, né tanto meno avevano cani che li potessero aiutare nelle ricerche di chi tentava di passare il confine.

Era buio, ormai, ed Edda si era arrampicata con molta difficoltà su un albero che si trovava a debita distanza dal centro abitato per avere una visuale migliore della zona grazie al suo binocolo.

Vedeva la strada che portava a Rassa, il paese e i boschi oltre il paese, attraversati da una recinzione che delimitava il confine di stato.

Seduta su un robustissimo ramo, stava valutando il da farsi quando sentì un rumore.

Qualcuno stava percorrendo di corsa la strada che portava a Rassa, quella che Edda aveva deciso di non percorrere! Edda puntò il binocolo per capire cosa stava succedendo.

Un ragazzino di non più di 15 anni, spuntato da chissà dove, stava correndo di gran carriera direttamente verso il paese con in mano un minuscolo zainetto.

Che cosa pensava di fare? Dal nulla infatti spuntò un pick-up Chevrolet Silverado color verde militare stracarico di soldatesca dall’aspetto quasi barbarico.

Il pick-up inchiodò proprio davanti al ragazzino e gli tagliò la strada.

Edda sentì chiaramente il suono degli otturatori che mettevano i proiettili in canna ai fucili di quella marmaglia.

Il ragazzino, intanto, era caduto all’indietro per lo spavento, ed era rimasto impietrito in mezzo alla strada a contemplare quel tremendo spettacolo.

Edda vide il finestrino del guidatore abbassarsi e il guidatore del mezzo gridare a squarciagola: “Ammazzate quell’infetto! Ora!!”

Il ragazzino ebbe appena il tempo di rialzarsi e voltare le spalle a quella squadraccia, lasciando a terra lo zainetto che si portava appresso, dopodichè uno sciame immenso di proiettili di vario calibro ridusse quasi in brandelli il suo esile corpo.

I miliziani si misero ad esultare, poi alcuni di essi si divertirono a sparare ancora qualche colpo al cadavere esanime di quello sventurato, ma alla fine l’autista li fermò:

“E basta, ragazzi! Mi avete quasi assordato! E poi quante volte vi devo dire di non sprecare proiettili perché costano? Valgono più delle vostre teste bacate, ad essere sinceri!”

“E dai, capo, e lasciaci divertire! Sparare agli infetti è l’unico spasso che abbiamo in questa valle dimenticata dalla civiltà e tu ce lo vuoi togliere?”

“Bah! Non vi sopporto più! Siete peggio di quegli adolescenti dall’altro lato del confine che non tutto il giorno non fanno altro che giocare a GTU VII e leggere Malù o come altro diavolo si chiamano quelle cavolate! Fortuna che tra un mese non sarò più costretto a vedere le vostre facce da scippatori moldavi”.

“Come? E perché, capo?” “Eh eh eh, la staffetta ha portato la lettera stamattina: trasferito sul confine orientale! Fra 30 giorni verrà qui un camion per portarmi a Sondrio”.

“O quello che ne rimane”, disse uno degli sgherri.

“Bada a come parli, disfattista! Solo per quello che hai detto adesso dovrei piantarti una pallottola nel cranio! A proposito di disfattisti, Bernardelli! Vai a vedere cosa teneva quell’infetto in quel ridicolo zainetto che si portava appresso!”

Il miliziano scese dal pick-up e andò a controllare lo zainetto del povero ragazzino.

Dopo un po’ si rivolse al suo superiore:

“Ehi, capo, vieni a vedere! Lo zainetto era pieno di merendine, ma in mezzo ho trovato due mazzi di banconote che non ho mai visto prima!”

“Aspetta che scendo e arrivo! Come sono fatte?”

“Beh, dunque, quelle del primo mazzetto sono verdi con sopra disegnate porte e finestre, quelle del secondo… Sembrano Grossi, ma di un tipo che non ho mai visto prima”.

Il soldato chiamato Bernardelli le porse al suo superiore:

“Mmm, Bernabò Visconti… Ci credo che non le hai mai viste, sono fuori corso da quel dì! Tutta robaccia inutile. Forza, meglio tornare tutti in paese a… Ehi, chi sta arrivando da lì?”

Un uomo uscì dalla foresta nella direzione opposta da dove era giunto il pick-up, e arrivato a debita distanza dal gruppo di bravacci si mise ad inveire:

“Sono io, razza di scalzacani sfagiolati e stracciafaccende che non siete altro!”

Il soldato chiamato Ansaldi e il suo superiore si misero impacciatamente sull’attenti:

“Comandante! Come va?” chiese l’individuo a capo del manipolo.

“Dove diavolo vi eravate cacciati?”

“Noi… Beh, noi stavamo completando la ronda”.

“Quale ronda? Quella che io NON ho programmato?”

“Beh, ecco, io…”

“Silenzio! Caposquadra, un giorno o l’altro troverò il babbuino che ha fatto in modo che voi pagliacci da circo licenziati per eccesso di buffoneria vi riciclaste come membri della Guardia di Confine, vi rispedirò da lui a calci nel sedere, e poi butterò tutti quanti giù dal Monte Disgrazia! Vi sto cercando da mezz’ora, e dov’è che vi trovo? A fare la gimcana tra i boschi scolandovi una lattina di birra per ogni albero che vedete! Voglio vedere voi scarti di Lanzichenecchi nei vostri capisaldi entro dieci minuti!”

Il caposquadra provò a protestare:

“Ma come? Perché?”

“A quanto pare sono state avvistate pattuglie di Alpini”.

“Alpini? Cosa sono?”, si chiese Edda, che ancora stava osservando la scena.

Il caposquadra invece sembrava sapere benissimo cosa fossero:

“Davvero? Quelle teste d’oca devono essersi arrabbiate per via di quei quattro con i quali ci siamo divertiti la settimana scorsa.

Eppure siamo stati attenti a non deturpargli la faccia, così che le loro madri potessero riconoscerli”.

Due dei membri della squadraccia rimasti sul pick-up si diedero il cinque.

“No”, disse il comandante, “deve trattarsi di qualcosa di più grosso. Non riesco più a contattare Alagna Valsesia”.

“Porco cavolo! Crede sia caduta?”

“Spero proprio di no. Ho mandato una richiesta di aiuti a Borgosesia, non so quanto ci metteranno i rinforzi ad arrivare da lì, ma fino a quel momento voglio tutti nelle postazioni difensive di propria competenza con…”

Il comandante non poté finire di dare le proprie consegne, perché un colpo di mortaio centrò in pieno il pick-up, mandando al Creatore chiunque fosse sopra o nei pressi di esso.

L’onda d’urto dell’esplosione fece quasi cadere Edda dall’albero sul quale si trovava.

Dopo un attimo di confusione si riebbe e riprese ad osservare quello che stava succedendo.

Le guardie di frontiera che affollavano i boschi si affrettavano a raggiungere il confine, mentre in paese iniziava ad ululare una sirena mezza scassata e il confine si illuminava di spari ed esplosioni.

Ci mancava solo questo.

Edda era finita nel bel mezzo di una battaglia.

Ma come dicevano quegli untori appestati dei Cinesi, una crisi può anche essere un’opportunità.

Edda non era certo arrivata fin lì per arrendersi all’ultimo.

Avrebbe tentato il tutto per tutto e approfittato della confusione per attraversare la frontiera.

Ormai non c’era più differenza tra essere colpita da un proiettile vagante mentre sconfinava o fatta saltare in aria da un sempre più frequente colpo di mortaio rimanendo su quell’albero.

E poi, se era vero quello che aveva detto prima il comandante, se rimaneva lì rischiava di rimanere bloccata a causa dell’arrivo di altri soldati provenienti dal posto che aveva chiamato Borgosesia.

Edda si fece coraggio, scese dall’albero e poi si mise a correre verso la battaglia.

Si tenne lontana dal paese, stando ben attenta ad evitare le zone dove si svolgevano gli scontri più cruenti.

Arrivò nel punto dove i due torrenti si congiungevano, e lo guadò senza fatica.

Ormai aveva oltrepassato Rassa, doveva solo arrivare al confine e varcarlo.

Si mise ad avanzare piano, poco a poco, cercando di non farsi scoprire, ma la fortuna doveva essere dalla sua parte, perché era come se nessuno si accorgesse di lei.

Vedeva i difensori ai suoi fianchi correre nella sua stessa direzione, e vedeva le esplosioni delle granata degli attaccanti farsi più vicine.

Nessuno la scoprì neanche quando una guardia di frontiera, dopo aver visto un colpo di mortaio esplodere davanti a lui, gettò il fucile, fece dietrofront e dicendo: “Taurinense del cavolo, vedetevela voi, io me la squaglio!”, travolse Edda mandandola a gambe all’aria.

“E levati di mezzo, imbecille!”, le ingiunse quel soldato senza nemmeno voltarsi.

Edda si rialzò e continuò a muoversi.

I cadaveri dei difensori si facevano sempre più numerosi avvicinandosi al confine, mescolati ai cadaveri di soldati che avevano una penna nera infilata nell’elmetto.

Edda si sdraiò pancia a terra.

Davanti a lei c’era una radura affollata di guardie di frontiera che sparavano in direzione del confine.

La recinzione che lo delimitava quasi non esisteva più, squassata dalle varie esplosioni che l’avevano colpita.

“Forza! Forza!”, disse una delle guardie, “li stiamo respingendo!”, ma un’improvvisa serie di esplosioni costrinse tutti a cercare riparo.

Edda alzò la testa per un po’, e vide tre grossi fuoristrada armati di lanciagranate automatici avvicinarsi rapidamente.

“Come hanno fatto a far arrivare quei cosi fin qui?”, disse la stessa guardia di prima.

“Torniamo indietro! Non abbiamo nulla per bucare le loro corazze! Mi avete sentito?! Ripiegate tutti! Si torna a Rassa!”

Edda si appiattì il più possibile mentre la soldataglia che occupava la radura scappava a gambe levate.

Qualcuno calpestò il braccio sinistro di Edda, che dovette farsi forza per non emettere un grido.

I lanciagranate dei fuoristrada spararono un’altra raffica di colpi e subito le voci delle guardie di frontiera lasciarono il passo a quelle dei soldati con la piuma nell’elmetto:

“Forza! Avanti! Continuate a martellarli! Fuoco a volontà!”

“Per voi è finita, Fascisti da quattro soldi!”

“Occhio, stanno scappando!”

“Passami un altro caricatore, per favore, ho finito i colpi”.

Uno dei blindati passò talmente vicino a Edda da schiacciare il borsone militare che aveva deposto a pochi centimetri da lei.

Il rumore fortissimo del suo motore le fece temere il peggio, ma chissà come se la cavò anche stavolta.

Attese il più possibile che i suoni della battaglia fossero tutti alle sue spalle, poi alzò la testa, si guardò intorno, si assicurò di essere a debita distanza da chiunque, si alzò e si mise a correre.

Correre come non aveva mai corso dall’inizio di quel viaggio.

Correre come non aveva mai corso in vita sua.

Correre lasciandosi dietro il suo borsone, che il peso del blindato aveva appiattito e strappato.

Correre verso il confine, verso la salvezza, la libertà.

Correre per fermarsi solo davanti ai grovigli di filo spinato.

Edda li attraversò con la massima cautela possibile, ma non bastò.

Sentì uno strappo.

Controllò la gamba.

Era solo il pantalone, per fortuna.

Edda si rimise a correre.

Ce l’aveva fatta! Finalmente era libera dalle catene della sua orribile patria!

Ora nessuno poteva più farle niente.

Era padrona del suo destino.

Si inginocchiò piangendo, alzando i pugni al cielo, come un attaccante dopo aver segnato una tripletta in un accesissimo derby.

Dopo un po’ si riscosse, e si mise di nuovo a pensare il da farsi.

Decise quasi subito.

Meglio mettere quanta più distanza possibile tra lei e il suo paese, trovare il primo centro abitato e chiedere aiuto.

Edda riprese a camminare.

I suoni della battaglia dietro di lei si affievolivano sempre più.

Davanti a lei, verso destra, vedeva dei lampi seguiti da dei suoni sommessi ad intervalli regolari.

“Ma certo”, pensò Edda, “i mortai che stanno cannoneggiando Rassa”.

Riprese a muoversi di soppiatto, così che non la vedessero.

Anche stavolta, come prima con la squadraccia del pick-up, riuscì ad avvicinarsi tanto da sentire quello che dicevano i soldati.

“Alt! Cessate il fuoco! Cessate il fuoco! Rassa è nostra!”

Gli altri soldati con la penna sull’elmetto esultarono, ma il loro entusiasmo non durò a lungo.

“Calma, uomini, calma! Per stanotte non è finita. Sono appena arrivati i nuovi ordini. Campertogno resiste ancora, rischiamo di bloccarci. Preparate tutto, perché tra poco dovremo avanzare”.

Edda si rimise in cammino.

Non voleva che la vedessero.

Camminò ancora, fino a quando non si accorse di un altro cartello.

Non ci fu bisogno del binocolo, questa volta.

A causa del buio e della stanchezza ci era quasi sbattuta contro.

Edda accese uno dei suoi preziosissimi bastoncini luminosi e lo lesse.

"Benvenuti a Gaby"

E sotto, la stessa scritta in quella che sembrava un’altra lingua.

Edda posò lo zaino.

Scoprì che era stato trapassato da un proiettile.

Tirò fuori dallo zaino un altro foglietto.

A differenza del primo elencava i nomi dei paesi che segnalavano l’ingresso nella nuova nazione.

Al centro c’era un evidente foro di proiettile.

Edda si mise a cercare il nome Gaby.

C’era! Era fatta! Era arrivata! Edda si mise a percorrere la strada.

Continuò fino ad arrivare ad un paesino.

Era notte, e non c’era anima viva in strada.

O forse no? Sentì qualcuno borbottare:

“Accidenti, avevo detto a quel pelandrone di mio figlio di portare dentro un po’ di legna prima di tornarsene ad Issime, e invece… Come al solito tocca a me! Proprio stanotte, poi, che dovevamo starcene tutti tappati in casa… Senti che fuochi d’artificio da quella part.. Oh!”

L’uomo non poté terminare le sue elucubrazioni ad alta voce, perché si accorse di Edda.

“La prego, signore, ho bisogno di aiuto…”, disse piano la donna prima di stramazzare al suolo.

Aveva finito i viveri da due giorni, e ormai era stremata dal viaggio.

L’uomo andò quasi nel panico:

“Oh, San Michele Arcangelo, aiutaci tu! E adesso che faccio? Ma chi è questa? Da dove è uscita? Calma, Jean-Jacques, calmati. Prendiamola e portiamola dal dottore”.

L’uomo si caricò in spalla Edda con facilità grazie al suo fisico possente temprato da anni di lavori nei boschi, e la adagiò nella sua auto.

La mise in moto e partì spedito, fino ad arrivare ad una casa sulla cui porta c’era una targhetta che recava la scritta:

Dr. Philippe Martin – Allergologo

Jean-Jacques corse a suonare al citofono.

Dopo qualche secondo senza ottenere risposte si mise a bussare alla porta con abbastanza vigore.

Finalmente si aprì una finestra al piano superiore della casa.

“Sono le due di notte, ma chi è? Jean-Jacques? Sei tu? Cosa stai facendo qui a quest’ora? Non ti sarai mica amputato un altro dito del piede?”

“No, Philippe, no, scendi subito, presto, ho trovato una donna, credo che abbia bisogno di aiuto!”

“Una donna? E chi e?”

“Non lo so, non l’ho mai vista prima!”

“Va bene, arrivo, aspetta che scendo”.

Dopo un po’ la porta si aprì e comparve il dottore:

“Fortuna che mia moglie è andata a Fontainemore da sua madre malata e si è portata anche le bambine, altrimenti avresti dovuto affrontare anche la loro ira. Allora, vediamo cos’ha questa donna… Perché ha una mascherina?”

“Non saprei, io mi sono girato e me la sono trovato davanti, poi è cascata come una pera cotta”.

“Non sembra avere la febbre… Forza, levale lo zaino e portiamola dentro”.

I due così fecero e la lasciarono sdraiata su un divano.

Mentre il Dottor Martin si sincerava delle sue condizioni, l’uomo che aveva soccorso Edda portò dentro anche il suo zaino.

“Senti, Jean-Jacques”, disse il medico, “io vado a prenderle dell’acqua, tu se vuoi puoi tornare a casa. Non è sicuro andarsene in giro a quest’ora”.

“Va bene, Philippe, vado, tienimi aggiornato”.

I due si salutarono e Jean-Jacques tornò a casa.

Il Dottor Martin andò a prendere dell’acqua per la sconosciuta, ma quando tornò con un bicchiere in mano nella stanza dove l’aveva lasciata la trovò seduta sul divano a stropicciarsi la faccia con le mani.

“Oh, è sveglia! Va tutto bene?”

“Io… Io credo di sì”.

“Le avevo portato dell’acqua”.

“Oh, grazie, l’avevo terminata, e poi sono due giorni che non mangio”.

“Davvero? Purtroppo non ho niente di pronto, sa com’è, l’ora, al massimo posso offrirle una scatoletta di tonno”.

“Non si preoccupi, andrà benissimo”.

“Come si chiama?”

“Edda Bortoletto”.

“Da dove viene?”

“Dumenza”.

“Non ne ho mai sentito parlare”.

“Si trova… Ad est di qui, più o meno”.

“Aspetti… Quell’est!?”

Edda non rispose.

“Avrei dovuto capirlo dalla mascherina che portava! Ma allora lei è scappata dal quel posto orribile?”

“Sì, orribile, davvero orribile, per questo sono andata via, hanno ucciso mia madre, mio padre è morto di crepacuore, ogni giorno le squadre di monatti uccidevano qualcuno…”

“Va bene, basta così, non si preoccupi, è al sicuro adesso. Comunque non mi sono ancora presentato: sono il Dottor Philippe Martin…”

“Un dottore? Ma allora mi può aiutare!”

“Perché? Ha qualche malattia? Qualche ferita?”

“Io… Sì, sono malata, sono infetta, sono scappata anche per questo, ho la Peste della Val d’Arda!”

“No”, disse laconicamente il medico valdostano.

Edda rimase interdetta, quasi di stucco:

“C-Come no? Sono infetta, ormai lo siamo quasi tutti dalle mie parti, mia madre era infetta e ha trasmesso la malattia a me. Fortunatamente ho la forma latente, posso tenerla sotto controllo grazie all’Elisir Longobardo del Dottor Rivellini. Lo porto sempre con me, anche se è quasi finito”.

Edda vide il suo zaino, vi infilò una mano e tirò fuori una fiaschetta da tasca con un cervo inciso, anch’essa eredità del padre.

“Eccolo”.

“posso vederlo?”, chiese incuriosito il Dottor Martin.

“Sì, lo prenda, per favore, se ne spalmi un po’ sulle mani, così sarà al sicuro da me”.

Il Dottor Martin aprì la fiaschetta, ne annusò il contenuto e la inclinò delicatamente sulla mano per farlo uscire.

“Mmm, un gel trasparente aromatizzato… Mi ricorda qualcosa…”

“Sì, è un antico rimedio, dottore, tramandato fin dai tempi degli Sforza, tiene a bada qualsiasi morbo. Il governo ne ha imposto l’uso a tutti gli infetti, e…”

A questo punto, Edda perse di nuovo i sensi per la stanchezza.

“Povera ragazza”, pensò il medico dopo aver chiuso la fiaschetta e averla appoggiata su un tavolinetto, “chissà quante ne ha viste.

E adesso chi glielo dice che la cosiddetta Peste della Val d’Arda non esiste, che ha indossato tutta la vita una mascherina per niente e che ha speso chissà quanti soldi inutilmente per quel placebo dal nome strano.

Per non parlare di tutte le cose brutte che avrà subito.

Esisteva una malattia, tanto, tanto tempo fa, certo, ma non era niente di che.

Solo che qualcuno ad un certo punto gonfiò la cosa, e la gonfiò ad un punto tale che alla fine la cosa andò fuori controllo, proprio come un palloncino pieno d’elio che sfugge dalle mani di un bambino di quattro anni.

Non passò molto prima che qualcuno se ne approfittasse e riuscisse addirittura a prendere il potere e usarlo per i suoi comodi.

Chissà quali altre stupidaggini mettono in testa a questi sventurati.

Fortunatamente hanno deciso di farla finita con quel regime di folli.

Meglio chiamare il 118.

Ci penserò qualcun altro a spiegare alla povera Edda tutto quello che è successo”.

Il Dottor Martin, dopo aver dato un’ultima occhiata alla donna, si avviò verso il telefono.

Generalissimus

I rischi del Coronavirus visti dal grande Giannelli sul "Corriere della Sera"

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I Grandi Signori

di Paolo Maltagliati

Una piccola storiella per onorare questo nuovo Decameron anche da parte mia.

L'Elfo guardò l'Uomo con curiosità. Il motivo era una collana di denti che ne ornava il collo. Da quando gli uomini erano in grado di produrre monili? Naturalmente, gli elfi producevano oggetti ancor più raffinati, ma erano... Stagnanti. Erano migliaia di anni che dipingevano le loro dimore allo stesso modo, che costruivano archi allo stesso modo, che intagliavano l'osso allo stesso modo. Gli uomini, invece, no. Li avevano visti per la prima volta poco più che animali, ai loro occhi, venuti da sud. Incapaci di orientarsi nella grande distesa di ghiaccio, ne morirono a centinaia, raccontavano le leggende. Le tribù elfiche decisero di lasciarli morire, abbandonandoli al loro destino. Ma un clan si oppose e decise di aiutare i nuovi venuti. In un primo momento vennero adorati come salvatori, persino dei. Poi però il sangue di quella tribù si mischiò a quello degli uomini, divenendo indistinguibili da loro. Cercarono di allungarsi il cranio artificialmente, per essere esteriormente più somiglianti ai loro elfici progenitori, ma era una fatica vana. La loro genia era definitivamente corrotta.

Questo racconto veniva tramandato come monito a tutti i giovani elfi. 'Non mischiatevi con gli umani'. Era quella, la morale.

Ma per quanto tempo ancora avrebbe avuto senso? Gli orchi stavano sparendo, e quei pochi sopravvissuti si nascondevano nelle valli più remote.

Loro sarebbero stati senza dubbio i prossimi.

“Crescerete e vi moltiplicherete – disse tra sé l'elfo, rivolto alla figura dell'uomo che si allontanava lentamente – E noi non sapremo tenere il passo. Ci farete sparire... E chissà se rimarrà qualcosa di noi nelle vostre leggende...”

L'Orco guardò l'elfo con un misto tra rabbia e rassegnazione. Loro erano la colpa, secondo i canti. Erano giunti da terre sconosciute, attraverso il mare di ghiaccio. Così alti e pallidi, sembravano fragili fuscelli continuamente sul punto di rompersi. E invece... Non solo avevano resistito al grande freddo, ma avevano prosperato. Gli orchi all'improvviso non dominavano più le sacre foreste com'era sempre stato. C'erano stati confronti diretti tra le due razze e gli orchi ne erano sempre usciti vittoriosi. Ma allora perché? Perché erano gli orchi che stavano soccombendo? A questo interrogativo non sapeva dare risposta.

“Siete cresciuti e vi siete moltiplicati – disse tra sé l'orco, rivolto alla figura dell'elfo, intento a fissare l'orizzonte – E noi non abbiamo saputo tenere il passo. Ci avete fatto sparire... E chissà se rimarrà qualcosa di noi nelle vostre leggende...”

L'uomo vide un elfo; poi subito dopo un orco. Si spaventò. Le due grandi razze superiori, i dominatori della terra... Presenti nello stesso luogo e nel medesimo istante? Era troppo. Lui non sarebbe stato in grado di competere minimamente. Se voleva aver salva la vita, doveva sperare nella loro magnanimità e misericordia.

“Oh, grandi signori – disse tra sé l'uomo – Abbiate pietà di un povero uomo e non fatelo sparire dalla faccia della terra... Canterò la vostra leggenda in lungo e in largo, ma vi prego, lasciatemi vivere!”

Paolo Maltagliati

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Quarantena

di Dario Carcano

Questo racconto riprende un'idea che già da un po' avevo in testa, e che ho buttato giù in risposta all’appello del nostro comandante. Spero sia all’altezza dei vostri lavori.

La famiglia Colli era nel soggiorno, e siccome erano quasi le quattro nell’altra stanza la governante stava preparando per il pranzo. Il capofamiglia, Carlo Francesco, stava leggendo il giornale e commentava con disappunto le notizie che leggeva:

“In Città sono matti, come si può scendere a protestare con quello che sta succedendo? Bene han fatto i soldati a sparare contro quelle teste calde, che certa gente solo il piombo può riportarla alla ragione.”

“Che dovevano fare? Non avevano pane.” si inserì nel discorso Teresa, la moglie.

“Tutte scuse… se non hanno pane perché non mangiano riso?”

“Cosa fa l’imperatore?” chiese il figlio più grande, Ferdinando, di undici anni.

“L’Imperatore cosa può fare? Non sta nel Ducato lo sai…”

La conversazione fu interrotta quando Carlo Francesco vide fuori dalla finestra un individuo familiare, che si avvicinò e salutò cordialmente la famiglia Colli:

“Alberto!” disse Teresa riconoscendo suo fratello.

“Buongiorno cara sorella, posso entrare?”

“Certo, entra.”

Alberto entrò, era stanco per il lungo viaggio e voleva sedersi e riposare. Sedette su una poltrona e la sorella gli chiese:

“Come vanno le cose a Laurate? Immagino che arrivi da lì…”

“Non lo so, a Laurate ci sono stato l’ultima volta un mese fa.”

“E da dove arrivi allora?” chiese Teresa con preoccupazione.

“Da Corsago.”

Le facce di Teresa del marito sbiancarono come se avessero appena visto un fantasma.

“Ma c’è il morbo laggiù…”

“Lo so, ho visto coi miei occhi i morti, i roghi dei cadaveri, le esecuzioni degli infetti. C’è l’inferno laggiù, potrei stare qua fino a domani a raccontarvi tutto quello che ho visto.”

“Ma è stata isolata Corsago, il Governatore e il Commissario di Sanità hanno dichiarato che chi esce da Corsago senza sottoporsi alla quarantena sarà punito con la morte… tu hai fatto la quarantena vero?”

“Io sto bene, non serve la quarantena per me…”

Carlo Francesco, allarmato, andò dalla governante e le ordinò di chiamare il Capitano di Giustizia.

“Però, fratello caro, non hai risposto, l’hai fatta la quarantena?”

“Sì, mi avevano messo in quarantena. Ma poi sono riuscito a scappare; non è stato difficile, i soldati che ci sorvegliavano erano malati. Ma io sto bene ve lo assicuro, sto bene!” Ma sembrava dirlo più a sé stesso che ai suoi familiari.

Il piccolo Ferdinando chiese allo zio “Come sei scappato?”, ma quando Alberto tese la mano per accarezzarlo, Teresa tirò il figlio verso di sé:

“Non toccarlo, Alberto! Stai lontano da mio figlio!”

“Ma come, Teresa, io sto bene! Perché ti comporti così?”

E quando Alberto si avvicinò alla sorella lei si allontanò da lui.

“Stammi lontano! E stai lontano dalla mia famiglia!”

“Ma io sto bene!”

Bussarono alla porta:

“Polizia! Aprite la porta!”

Carlo Francesco corse ad aprire, ed entrarono il Capitano di Giustizia e due soldati, assieme alla governante. Indicarono dove stava Alberto, l’infetto, che resosi conto della situazione stava cercando di scappare da una finestra, ma era troppo tardi. Lo presero e lo portarono via.

Fuori dalla casa c’erano altri soldati, e Carlo Francesco chiese al Capitano di Giustizia:

“E noi?”

“Le disposizioni del Commissario di Sanità non fanno sconti. Sarete sigillati in casa per i prossimi due mesi; chiuderemo tutti gli ingressi dall’esterno e li controlleremo affinché non siano forzati. Una volta al giorno vi passeremo del cibo. Se fra due mesi sarete ancora vivi riapriremo la casa e potrete uscire. Buona fortuna.”

E quando ebbe finito e Carlo Francesco fu rientrato in casa, due soldati dall’esterno sprangarono la porta della loro casa, mentre dalla finestra la famiglia Colli assisteva impotente alla scena.

Dario Carcano

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(cliccare per andare al sito di origine della fotografia)

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Lo scatolone

di Sandro Degiani

Un bambino stava giocando con uno scatolone immaginando che fosse una astronave che lo portasse in pianeti fantastici con il motore della fantasia.

Passò di lì un amico con un pacco di libri in mano e lo guardò con uno sguardo triste.

Lui lo invitò: "Dai, sali con me... andiamo su Marte a divertirci!!!"

L'altro rispose: "Non posso, guarda quanti compiti devo fare per domani...!"

"E perchè li devi fare per domani, non puoi farli per dopodomani? Oggi ti diverti con me!!"

"Devo farli per domani se voglio un bella pagella, e una bella pagella mi serve per andare in una buona scuola Superiore che mi dia una buona preparazione per sperare di poter essere ammesso alla Facoltà prestigiosa che mi darà una Laurea di valore, con quella troverò un buon lavoro dove dovrò darmi da fare ed impegnarmi al massimo per fare carriera, per essere promosso e non essere licenziato, così dopo quarant'anni di lavoro, a sessantasette anni potrò andare in pensione con un bel gruzzoletto e fare finalmente quello che mi pare..."

"Fammi capire: non puoi fare oggi quello che ti piace a otto anni perchè devi studiare per poter fare quello che ti piace tra cinquantanove anni?"

Il ragazzo ci pensò su un attimo, sorrise, e... buttò i libri e saltò nello scatolone!

Sandro Degiani

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Per farci sapere che ne pensate di questo "Decameron 2020", scriveteci a questo indirizzo.


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