Tato, ci hai stufato!


Tutto parte da un'idea di William Riker:

Todor Zhivkov, detto "Tato", fu il più longevo segretario comunista dell'Europa orientale, e dominò la vita politica bulgara dal 1958 al 1989; la sua fedeltà a Mosca fu tale che la Bulgaria si meritò il titolo di "sedicesima tra le quindici repubbliche dell'URSS". Proprio l'eccessiva subordinazione del regime nei confronti dell'Unione Sovietica fu una delle ragioni che spinsero i generali Cvjatko Anev e Ivan Todorov-Gorunja a un tentativo di colpo di stato nel 1965.

Il golpe, fondamentalmente filocinese (la Bulgaria aveva intessuto crescenti relazioni commerciali con quel paese negli anni precedenti), venne sventato, anche se i congiurati se la cavarono con condanne alla detenzione abbastanza miti (a Imre Nagy era andata sicuramente peggio). Uscito rafforzato dal fallito putsch militare, Zhivkov continuò ad esercitare un potere assoluto sul suo paese fino alla rivoluzione del 1989, provocando tra l'altro una catastrofe ecologica nel fiume Danubio e l'esodo di centomila turcofoni, che egli voleva slavizzare a forza.

Ma se il colpo di stato riesce? Come cambia la storia della Bulgaria? Sofia lascia il COMECON come l'Albania e si accosta alla Cina? A fine anni ottanta questo paese evolverà pacificamente verso la democrazia come Ungheria e Polonia, o conoscerà una rivolta cruenta come nella vicina Romania?

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Enrico Pellerito parte allora a ruota libera:

Premetto che nello sviluppo di questo POD mi sono accorto, per l'ennesima volta, quanto possono essere veramente "stretti" i plausibili margini di manovra, anche volendo immaginarsi il peggio, confutando così le mie prime ipotesi sul possibile progresso degli eventi.

Tutto sommato, il rispetto di determinati impegni, come quelli probabilmente presi a Yalta, hanno garantito il mantenimento di un equilibrio e credo che su questo ci sia una convergenza di opinioni tra tutti noi che scriviamo su questa lista.

I fatti che ho potuto appurare sembrerebbero questi: nell'ottobre del 1964, il generale Ivan Todorov Gorunja, già comandante partigiano nel Fronte della Patria (una coalizione di movimenti antifascisti, comprendente anche i comunisti, operante in Bulgaria durante il secondo conflitto mondiale), ritiene che la dirigenza di Todor Zhivkov stia deviando da quelli che sono i principi del Marxismo-Leninismo; ciò comporta il rischio che la Bulgaria possa cedere all'azione dell'imperialismo USA (?!?)

E' questa la reale motivazione? o piuttosto la voglia di dare un'impronta nazionalistica alla leadership della Bulgaria?

Agli occhi di Gorunja, Todor Zhivkov appare troppo subordinato al Cremlino, nonostante quest'ultimo abbia fatto parte, insieme ad Anton Tanev Jugov e a Encho Staikov, del cosiddetto gruppo dei "nazionali", che sin dal 1954 aveva progressivamente estromesso i "moscoviti" (in effetti stalinisti) di Valko Cervenkov. Ma Gorunja ha ragione, in quanto al posto dei russofili stalinisti sono arrivati alla guida della Bulgaria non dei nazionalisti, ma sempre dei russofili, supini stavolta a Chruscev.

Oppure, c'è la longa manus di Pechino dietro a questo tentativo di sovvertire Zhivkov, considerando l'incremento delle relazioni commerciali (e quindi politiche e culturali) fra Bulgaria e Cina popolare a partire dal 1958, sebbene questi contatti siano poi man mano diminuiti dopo il 1961?

Facciamo un mix di tutto questo, senza dimenticare che, spesso, a spingere verso certe scelte può semplicemente essere la bramosia del potere.

Gorunja decide di agire per riportare, secondo lui, la Bulgaria nell'alveo del socialismo reale, coinvolgendo nella cospirazione, fra gli altri, il ministro degli Esteri Tsolo Krasztev (già ambasciatore in Corea del Nord e noto pro-cinese), il comandante della guarnigione di Sofia, generale Cvjatko Anev e Zunàchst Vraca, un autorevole membro del PC bulgaro.

Il colpo di stato dovrà avvenire attraverso l'arresto dei membri deviazionisti durante una riunione del Comitato Centrale del Partito comunista bulgaro.

Il giorno 8 aprile del 1965 (certo ne è passato tempo dalla supposta ideazione del golpe) però ad essere arrestato è il generale Anev; appresa la notizia, Gorunja si suicida, o forse "viene" suicidato, chi lo sa? Un'altra fonte parla del suicidio di Gorunja all'interno della cella dove viene messo dopo il suo arresto; la sostanza non cambia poi molto.

Il successivo 12 aprile, vengono arrestati gli altri congiurati, che saranno processati tra il 14 e il 19 giugno; le pene, così come riportato da Riker, sono invero lievi: a 9 dei golpisti vengono comminati dagli 8 ai 15 anni di reclusione, mentre altre 192 persone riceveranno condanne di entità minore, in media fino a 3 anni di carcere.

Questi, come detto i fatti reali, ma ho letto che tentativi di colpo di stato contro Zhivkov, tra il 1965 e il 1971, ve ne sarebbero stati almeno più di sei!

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Tornando ora al POD immaginato dal nostro webmaster, vediamo quale sviluppo potevano prendere gli avvenimenti se i golpisti avessero ottenuto successo.

Aprile 1965: durante una riunione del Comitato Centrale del Partito Comunista Bulgaro (facciamo che sia stata indetta per il giorno 8 di quel mese), Zhivkov viene arrestato con l'accusa di deviazionismo; la totalità dei suoi collaboratori e molti dei membri del partito a lui vicini vengono pure ristretti all'interno di alcune caserme.

Radio Pechino esalta l'avvenimento, subito seguita dalle felicitazioni espresse da Radio Tirana.

Le nazioni facenti parte della NATO e quelle neutrali d'Europa, Jugoslavia in prima fila, restano attonite, in attesa di vedere che piega prendono gli avvenimenti; ovviamente tutti mettono in stato di allerta le forze armate.

Al Cremlino, Breznev è alle prese con la prima grossa gatta da pelare da quando è diventato Primo segretario del PCUS, ma è ben intenzionato a fare sentire la preminente volontà dell'URSS in tale avvenimento.

Dopo i primi contatti ufficiali con il nuovo governo di Sofia, i Sovietici comprendono che, nonostante le assicurazioni, l'intenzione dei Bulgari è quella di sganciarsi da Mosca; probabilmente i primi passi saranno la fuoriuscita dal Patto di Varsavia e dal Comecon (così come operato dall'Albania nel 1961, sebbene, formalmente, Tirana faccia ancora parte di tali organizzazioni).

Vengono immediatamente posti in essere negoziati tendenti ad evitare questo allontanamento da parte dei Bulgari; contatti continui avvengono tramite l'ambasciatore sovietico a Sofia.

Il ministro degli Esteri dell'URSS, Andrej Gromiko, parte da Mosca per la capitale balcanica, accompagnato da una numerosa delegazione.

Nel frattempo, il KGB si sta dando da fare per contattare i propri corrispondenti presenti tra le file del governo e delle forze armate bulgare, ma pare che gli elementi su cui si faceva affidamento siano nell'impossibilità di essere d'ausilio; molti di questi erano fra coloro che facevano parte dell'entourage di Zhivkov, trovandosi ora nell'impossibilità di agire.

Un contro colpo di stato, ad opera degli stessi Bulgari fedeli a Mosca, è quindi impossibile.

Come prassi, vengono attivate le strutture dello Stavka (l'alto comando supremo delle forze armate sovietiche) preposte alla stesura e all'aggiornamento dei piani relativi a simili situazioni (come già fatto in Ungheria 9 anni prima), solo che la mancanza di truppe dell'Armata rossa stanziate in loco rende più difficoltosa la gestione di un'eventuale soluzione militare di questa crisi.

I colloqui a Sofia durano alcuni giorni, senza però giungere ad una soluzione; sebbene si muovano con cautela, i Bulgari sono chiaramente intenzionati ad avvicinarsi a Pechino e la richiesta di proseguire i colloqui a Mosca non viene accettata; su questo punto Krasztev è irremovibile.

Al rientro a Mosca, durante un vertice al quale sono ovviamente presenti i massimi responsabili dell'URSS, Gromiko non può altro che puntualizzare quanto ha già comunicato da Sofia nei giorni precedenti.

Durante questo stesso vertice, viene per la prima volta espressa quella che in seguito verrà definita "dottrina Breznev", cioè l'impossibilità, per i paesi satelliti di Mosca, ad allontanarsi dai principi imposti dal Cremlino.

Breznev stesso conclude la lunga e pesante riunione affermando che non sarà la distanza dei confini, così come avvenuto per l'Albania, ad impedire di "...schiacciare questo tradimento. Se a Sofia contano sull'interposizione territoriale della Romania, sperando di evitare quanto successo a Budapest nel 1956, sono degli illusi."

Passano i giorni: le riunioni indette dalle organizzazioni come il Patto di Varsavia e il Comecon, vengono ormai puntualmente disertate dagli ufficiali e dai funzionari bulgari.

Di fatto non si hanno che formali contatti tra la Bulgaria e le altre democrazie popolari dell'Europa dell'Est, a parte la Romania e la Jugoslavia, mentre quelli con la Cina e l'Albania sono diventati sempre più intensi.

A Sofia è iniziato il processo alla "cricca di Zhivkov", mentre un notevole repulisti è stato fatto negli apparati del partito, delle amministrazioni civili e nelle forze armate.

Molte persone sono state arrestate, mentre è iniziato ad un programma di rinnovamento culturale e politico, dove non ci sarà spazio per menzionare i legami e i punti di contatto tra il popolo bulgaro e quello russo (a partire dalla comunanza dell'alfabeto cirillico).

Falliti tutti i tentativi diplomatici per far rientrare quella che viene ormai chiamata l'eresia bulgara, al Cremlino si decide (mantenendo sempre una parvenza di trattativa per non insospettire Gorunja e i suoi) di dare allo Stavka il via libera all'operazione "Titano", l'invasione della Bulgaria; l'inizio è programmato per la tarda notte del 30 maggio (scelto anche perché sarà un novilunio).

A questo punto si può ipotizzare che tale azione preveda l'utilizzo esclusivo di truppe sovietiche, ovvero (e la ritengo la cosa più probabile) che si operi un intervento nominalmente gestito dal Patto di Varsavia (nel concreto dallo Stavka sovietico) con la partecipazione delle altre nazioni facenti parte del blocco socialista.

L'Armata Rossa è stata sempre pronta a reprimere i movimenti controrivoluzionari nelle nazioni satelliti facenti parte del suo dominio: ha appoggiato la polizia della DDR durante le rivolte operaie del 1952-53, ha agito pesantemente in Ungheria nel 1956, ha minacciato di farlo allorquando, nello stesso anno, ci sono stati disordini in Polonia. Ma nel 1965 l'organizzazione militare del Patto di Varsavia è una realtà più che consolidata, ed è altamente probabile che Mosca avrebbe voluto dimostrare al mondo intero che è, appunto, tutto il blocco socialista che si muove per soffocare le controrivoluzioni antimarxiste. Quanto realmente accaduto nel 1968 in Cecoslovacchia, è al riguardo emblematico.

Dando, quindi, per scontata l'adesione delle altre nazioni del Patto (con una possibile eccezione che ora si analizzerà), questa compartecipazione potrà pure essere simbolica, stante le distanze in gioco, ma è comunque importante che ci sia.

L'eccezione, ovviamente, è rappresentata dalla Romania di Ceausescu; questi, proprio in quel periodo, è salito al potere a Bucarest da pochi giorni, in quanto il suo predecessore Gheorghiu-Dej è morto il 19 marzo 1965.

Gheorghiu-Dej aveva già impostato una via nazionale al comunismo rumeno, cercando, per quanto possibile e senza creare troppe irritazioni, di mantenere un certo grado di autonomia da Mosca.

Sappiamo che Ceausescu avrebbe ancor più accentuato questa politica, ma è possibile che lo faccia già nei primi giorni del suo "regno" in presenza di una simile crisi?

Come si sarebbe comportato di fronte ad una pressante richiesta da parte di Mosca a consentire il passaggio dei reparti del Patto di Varsavia per invadere la Bulgaria?

Forse avrebbe potuto astenersi dal partecipare con proprie truppe all'azione, ma questo, in fin dei conti, diventa un aspetto marginale; resta il fatto che quando non intervenne in Cecoslovacchia nel 1968, non aveva certo l'incomoda posizione territoriale nella quale si ritroverebbe, se il POD in questione si sviluppa come sin qui immaginato.

Tra il Distretto militare sovietico di Kiev e la Bulgaria insiste la Romania, e c'è il concreto rischio che di fronte ad un netto diniego a consentire il passaggio delle truppe sovietiche, i paesi ad essere invasi saranno ben due. Vale la pena rischiare così tanto? Forse Ceausescu potrebbe proporsi come mediatore, onde garantire che la Bulgaria abbia maggiore autonomia da Mosca, pur sempre restandone satellite; sarebbe una sorta di "Cicero pro domo sua", ottenendo una sorta di precedente benestare a quanto egli stesso intende prefiggersi.

Se però le cose precipitano, fin dove potrà tirare la corda con il Cremlino?

D'altra parte, dovremmo chiederci se anche Mosca può tirare troppo questa corda; mostrare nei fatti ben due anelli deboli, nella catena che lega le nazioni dell'Europa orientale all'Unione Sovietica, è certamente qualcosa che agli occhi del mondo imperialista andrebbe evitato.

Questo stato di cose potrebbe pure indurre gli USA e la NATO a considerare fattibile l'inizio di una politica aggressiva verso l'Est, con lo scopo di fiaccare sempre più Mosca, isolarla progressivamente dai suoi alleati con appropriate misure diplomatiche e, probabilmente, economiche, giungere perfino ad attaccare per concludere, una volta e per tutte, questa contesa.

Ma qui diventa preminente non perdere posizioni a rischio anche di far sembrare una scampagnata quanto accaduto 9 anni prima in Ungheria; non ci si può permettere che un solo tassello venga meno, non è consentibile alcuna defezione; la Bulgaria non deve essere persa e per questo è necessario utilizzare il territorio rumeno, e se anche a Bucarest intendono porre problemi, le conseguenze dovranno essere chiare e d'esempio per tutti. Anzi, potrebbe essere l'occasione per chiarire definitivamente a tutto il mondo come devono andare le cose.

Lo Stavka sa benissimo che, nell'eventualità di dover riportare con la forza l'ordine socialista in Bulgaria, non basterebbe lanciare una divisione di paracadutisti su Sofia (che è il massimo consentito dagli aerei da trasporto sovietici), né sbarcare truppe a Burgas e a Varna e da lì avanzare verso occidente e la capitale bulgara.

Nessun affidamento sui soli paracadutisti, perché sarebbero esposti ad una pronta reazione dei Bulgari in un'area, come quella di Sofia, lontana centinaia di chilometri dalla più vicina base sovietica; immaginare che ciò possa bastare per permettere di occupare la capitale bulgara, prendere prigionieri i vertici del locale governo nazionale e insediare una dirigenza amica che imponga di non lottare contro le nazioni sorelle, vincolate al "Patto di amicizia, cooperazione e mutua assistenza", è solo pura utopia. Ci vorrebbe almeno un intero corpo aviotrasportato e non è detto che basterebbe.

Neanche la sola avanzata da Burgas e Varna verso ovest garantirebbe la buona riuscita dell'invasione: la Flotta del Mar Nero poteva eliminare la marina bulgara senza alcun problema, ma poi sarebbero stati necessari massici sbarchi di truppe e un'incessante spola di navi da Odessa e da Sebastopoli per trasportare personale, mezzi e rifornimenti onde alimentare e consentire avanzata e conquista. Non penso proprio ci sarebbero state sufficienti navi trasporto per sostenere un siffatto impegno logistico; se invasione deve essere, è necessario che si agisca scendendo dalle pianure della Valacchia, per cui non si può prescindere dall'attraversamento della Romania, con il principale asse di penetrazione proveniente dall'Oltenia, indirizzato quanto più velocemente possibile verso Sofia.

Le pressioni su Ceausescu sarebbero quindi massime.

Ritengo, dunque, molto difficile che il leader rumeno possa temporeggiare, o addirittura propendere per un risoluto no.

E nonostante la possibilità di usare la rete ferroviaria rumena, una volta giunti sul Danubio e in Dobrugia, per gli invasori non si tratterebbe certo di una passeggiata: buona parte del territorio bulgaro è montuoso e difficile da conquistare per qualsiasi esercito. A questo si aggiunga che l'Armata Popolare Bulgara, stante l'esigenza di dover fronteggiare da sola un'eventuale invasione da parte della Grecia e della Turchia, proprio per espressa volontà di Mosca è stata dotata di armi ed equipaggiamenti in quantità notevole, onde consentire il rallentamento dell'azione NATO in attesa dell'arrivo di rinforzi dall'URSS; conseguentemente, lo Stavka corre il serio rischio di dover affrontare una campagna militare sanguinosa e lunga, che comporterà l'afflusso costante di truppe e rifornimenti lungo una linea di collegamento terrestre che deve essere certa e protetta.

La resistenza bulgara, comunque tenace, costringerebbe gli invasori a penosi combattimenti per superare i valichi tra le catene dei Balcani Occidentali e Centrali, ma alla fine, penso entro due o tre settimane, massimo un mese, i Bulgari avrebbero dovuto cedere; è altamente probabile che i profughi verso la Macedonia jugoslava e verso Grecia e Turchia non sarebbero stati pochi.

Escluderei, però, coinvolgimenti da parte di Tito e della NATO, al di là di qualche aiuto materiale (se non armi e munizioni, certamente cibo e medicine) e le tanto veementi, quanto sterili, proteste verbali per via diplomatica.

Diversa la situazione ai confini tra URSS e Cina: se dietro al golpe di Gorunja c'è Pechino, qui è probabile qualche incidente, così come sarebbe accaduto nella nostra Timeline (marzo 1969), ma nessuno avrebbe rischiato più di tanto.

Questo è la prospettiva ucronica così come lo vedo io: nessuna terza guerra mondiale, ma il rischio di poter assistere al massacro del popolo bulgaro.

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Falecius aggiunge:

E se invece Ceausescu s'impuntasse? Se a fronte della pressione sovietica si costituisse un'alleanza balcanica di paesi comunisti ma non filosovietici, comprendente Jugoslavia, Bulgaria, Albania e Romania (magari con una alleanza difensiva), col sostegno di Pechino e, segretamente, della stessa NATO? E' in effetti poco probabile, ma le conseguenze sarebbero notevoli, fino al punto di poter anticipare lo stesso crollo del blocco sovietico...

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Ecco il parere in proposito di Enrico Pellerito:

Indubbiamente la tua ipotesi è realistica; considera che nel tentativo creare un'alleanza degli slavi meridionali, già ci avevano provato i Bulgari con la Jugoslavia all'indomani del secondo dopoguerra, poi la cosa fallì per svariati motivi, compreso il progressivo allontanamento di Belgrado da Mosca.

Ma di fronte ad un immediato attacco contro la Romania, ci sarebbe ancora la volontà di costituire tale alleanza?

Presupposto sarebbe il poter disporre di forse sufficienti a resistere all'ondata dell'Armata Rossa, sulla quale, a parte i simbolici contingenti delle altre nazioni del Patto, ricadrebbe l'onere del conflitto.

Ad ogni modo, Pechino cosa potrebbe fare, una volta che Romania e Bulgaria venissero conquistate? Intervenire direttamente nella guerra?

Diciamo la verità, la Cina non sarebbe stata all'altezza di poter competere militarmente con l'URSS; anche se capace di poter lanciare centinaia di migliaia di uomini contro l'oriente sovietico, avrebbe dovuto pagare lo scotto di una tecnologia di gran lunga inferiore.

Nella peggiore ipotesi, i Sovietici sarebbero stati disposti a colpire il fronte avanzante cinese anche con ordigni nucleari.

E al riguardo, resta ancora avvolto nel mistero se effettivamente lo abbiano fatto nel 1969, duranti gli scontri sull'Ussuri.

Nessuno ha interesse a dire se ciò è effettivamente accaduto, nei i Russi, tantomeno oggi, né gli Americani (gli unici all'epoca che se ne sarebbero potuti accorgere) né, ovviamente i Cinesi.

Tornando al "fronte" balcanico, anche in presenza di probabili e rapidi aiuti militari NATO (parliamo esclusivamente di forniture materiali, non certo di truppe) l'Armata rossa sarebbe giunta all'occupazione di Romania e Bulgaria (controllare e "pacificare" sarebbe stata tutta un'altra cosa e avrebbe richiesto tempo, lutti e costi).

I Sovietici avrebbero combattuto anche eventuali unità jugoslave e albanesi sui territori bulgari e rumeni, ma si sarebbe ben guardati dal penetrare nella Macedonia jugoslava, evitando, in tal modo, di mettere la NATO nell'imbarazzo di dover decidere in merito a possibili interventi.

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Così gli risponde Falecius:

Allora: a livello militare, Romania e Bulgaria, anche mettendoci sostegno jugoslavo e albanese, appoggio militare NATO e tintinnar di sciabole cinese (non credo che Mao fosse tanto pazzo da rischiare una guerra per la Bulgaria), sarebbero state un semplice "no match" per l'Armata Rossa.

Mi chiedo però se l'URSS avrebbe rischiato un intervento militare contro due paesi alleati, la cui natura imperialistica sarebbe stata evidente anche ai ciechi; certamente ci sarebbero stati malumori anche al vertice perlomeno in Polonia (dove se non ricordo male c'era Gomulka) ed Ungheria (Kadar era comunque stato inizialmente dalla parte di Nagy prima dell'intervento russo) e probabilmente anche in Cecoslovacchia, e facilmente un indebolimento, se non addirittura una scissione, nei maggiori partiti comunisti d'Occidente (già in parte screditati dai fatti d'Ungheria di nove anni prima). I costi ideologici, insomma, potevano essere consistenti, al punto forse di rendere problematica la tenuta del Patto di Varsavia, anche se ne escluderei in ogni caso il collasso.

Non ho dubbi che invece, in caso di fedeltà romena, l'invasione della Bulgaria insubordinata sarebbe stata probabilmente attuata senza vere difficoltà e al prezzo di qualche fuoriuscito dai partiti comunisti italiano e francese.

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Enrico replica allora:

L'aspetto "occidentale" del problema, cioè le ripercussioni all'interno dei partiti comunisti europei dove era presente e consentita la dialettica (al di là del nostrano centralismo democratico, che era pur sempre il frutto di discussioni, di contraddittori e confronto fra i membri della Segreteria e dei comitati del PCI) non mi aveva neanche sfiorato la mente.

Ecco quanto è importante discutere su ciò che inventiamo a livello ucronico.

La possibilità di conseguenze nefaste, sia all'Est sia all'Ovest, a livello politico va certamente considerata.
La soluzione migliore per Mosca sarebbe stata, in qualsiasi caso, risolvere con un contro colpo di stato ad opera di elementi legati al Cremlino.

Questo laddove la situazione fosse giunta a quanto si è ipotizzato, dato che la prevenzione, come ben sappiamo, è meglio della cura.

Ora, se le misure di sorveglianza e salvaguardia del regime non fossero bastate ad avvisare ed evitare simili sconvolgimenti, se non ci fosse stata la possibilità di un'azione a livello locale che garantisse l'ordine socialista o il ripristino di questo, abbiamo sotto gli occhi quali sono le iniziative che Mosca ha preso o avrebbe preso: Ungheria e Cecoslovacchia penso ci fanno intendere il modus operandi di Mosca.

Jugoslavia e Albania rappresentano, a mio avviso, eccezioni molto particolari; ambedue le nazioni decisero di rompere con l'URSS in frangenti temporalmente significativi: la prima quando ancora il dominio sovietico sui regimi comunisti in Europa non era del tutto consolidato e perfezionato, la seconda proprio per la mancanza di continuità territoriale, esigendo per la sua invasione l'utilizzo di uno strumento anfibio di cui Mosca avrebbe potuto disporre soltanto tempo dopo la defezione di Hoxha.

Nell'ipotesi che stiamo valutando, ritengo che il Cremlino, pur riflettendo attentamente sui "costi ideologici" cui tu fai riferimento, che io non avevo molto considerato e che sono invece importantissimi, non si sarebbe discosto molto da quanto già operato in simili frangenti, per come sopra ricordato.

Resta, comunque, da considerare un fatto: anche senza aiuto diretto di Belgrado e Tirana, anche senza l'afflusso di aiuti materiali NATO (e in tutto questo vanno vagliati anche i tempi) e il "tintinnar di sciabole cinese", per l'Armata Rossa non sarebbe stata una gita, anche se si fosse trattato solo di entrare in Bulgaria.

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Passiamo ora alla seguente proposta di Rivoluzionario Liberale:

Ho appena letto "La primavera di Praga" di Enzo Bettiza. E se Tito e Ceausescu si schierassero con i Cecoslovacchi? Sarebbe potuto nascere un terzo polo socialista, magari allargato ad alcuni paesi arabi o alla Cina? Si sarebbe arrivati a uno scontro fisico tra Sovietici da una parte e ceco-jugo-romeni (piccola intesa) dall'altra? Quale sarebbe stato il comportamento dei paesi occidentali? E della Cina di Mao? E l'Ungheria di Kadar nell'occhio del ciclone? La sinistra francese o italiana avrebbe aderito all'alleanza?

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Gli risponde Massimiliano Paleari:

L'ipotesi non è del tutto implausibile. Del resto anche nella nostra timeline nel 1968 Ceasescu (che in quel momento non aveva ancora raggiunto il livello di paranoia e di "satrapismo" che lo caratterizzeranno più tardi) non solo non partecipò all'invasione della Cecoslovacchia, ma cercò anche di avvertire Dubcek rispetto a ciò che "bolliva in pentola" dalle parti del Patto di Varsavia.

Chissà, forse con una dirigenza cecoslovacca un po' più intraprendente in politica estera un Patto Jugo/Ceco/Rumeno (a cui in seguito si sarebbe aggiunta l'Ungheria) sarebbe stato nel novero delle possibilità. La Jugoslavia in quel momento non era più considerato dai Paesi dell'Est il "diavolo traditore social/fascista" degli anni '50 e la stessa Romania di Ceasescu "giocava" una politica estera con guizzi di autonomia da Mosca (seppure incoerenti, ad esempio buoni rapporti con la Francia e contemporaneamente con la Cina allora in piena Rivoluzione Culturale). Tutto però si sarebbe dovuto svolgere in tempi molto stretti. La nuova Piccola Intesa Balcanica sarebbe dovuta nascere entro luglio. A quel punto per l'URSS le cose si sarebbero complicate, e non poco. Un conto è infatti reprimere un singolo Stato satellite (presentando l'operazione come un intervento congiunto e "fraterno" dell'intero Patto di Varsavia), un conto è affrontare la "rivolta" di mezzo Patto di Varsavia! Non tanto e non solo sul piano militare (ma anche da questo punto di vista non sarebbe stata più una passeggiata), ma soprattutto da quello della sostenibilità politica della difficile operazione di "recupero".

La mossa successiva di Mosca sarebbe allora quella di pretendere la neutralizzazione della Germania. A quel punto avremmo una grande fascia neutralizzata dal Baltico al Mediterraneo a dividere i due blocchi (se colleghiamo questa ipotesi a quella della Grecia "neutralizzata"). Questa Timeline potrebbe però svilupparsi un una distopia. Il residuo Comecon e Patto di Varsavia, molto più isolato e impermeabile alle influenze occidentali, si sarebbe probabilmente rinchiuso su se stesso. Quindi "Guerra Fredda" eterna, tanto per parafrasare la monumentale ucronia del mostro webmaster e moderatore.

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E Bhrghowidhon commenta:

Il Patto di Varsavia aveva un grande futuro davanti a sé in Asia; la neutralizzazione dell'Europa Centrale avrebbe spostato il perno geopolitico nel Vicino e Medio Oriente e il tema all'ordine del giorno sarebbe diventata la Repubblica Araba Unita...

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Diamo ora la parola al giovane Federico Passantino:

Buongiorno, sono un sedicenne, ho seguito ultimamente con molto interesse le ucronie proposte sul sito e ho pensato di inviare questa idea che mi frulla da un po' in testa, sperando che qualcuno con più conoscenza in materia la possa espandere in qualcosa di più elaborato. Il 3 ottobre 1973 Enrico Berlinguer non sopravvive all'attentato ordito dal KGB in Bulgaria. Il nuovo segretario del PCI continuerà la linea di allontanamento dal blocco est? Oppure sarà una marionetta di Breznev? Cosa cambia nella politica nazionale? Gli anni di piombo non avvengono? Craxi diventerà segretario del PSI? E cosa cambia nella politica internazionale? I partiti comunisti occidentali rimangono legati all'URSS? Il vento della riforma arriverà ad est? Gorbacev viene eletto? E infine, il blocco est crolla infine? Oppure l'URSS riesce a riformarsi e rimane in vita oggi?

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A rispondergli è Dario Carcano:

Doverosa premessa: trovo molto bello che nel mondo di Tiktok e della comunicazione 3.0 esistano ancora dei giovanissimi che utilizzino un tipo di comunicazione fuori dagli standard come la nostra (non che l'uno escluda l'altro)!

Detto questo, caro Federico, prima di rispondere alla tua domanda bisogna fare una premessa sul ruolo di Berlinguer nella storia del PCI. A Berlinguer sono attribuite (1) l'abbandono del Marxismo-Leninismo ortodosso e l'adozione come ideologia del partito dell'Eurocomunismo, ossia una via media tra Socialismo Democratico e Leninismo, e (2) lo strappo con Mosca, consumato nel 1981 in seguito al golpe militare che in Polonia portò al potere Jaruzelski.
Tuttavia il PCI era Eurocomunista e critico di Mosca già prima di Berlinguer; partendo dall'Eurocomunismo, questo non è stato inventato da Berlinguer, perché il PCI era eurocomunista fin dai tempi di Togliatti, che obbedendo ai diktat staliniani che gli imposero di accettare i risultati delle elezioni del 1948 (nonostante i sospetti di brogli contro il Fronte Popolare, ma questa è un altra storia) e giocare secondo le regole del parlamentarismo borghese, rese de facto il PCI una forza socialdemocratica e riformista; Berlinguer fu semplicemente quello che formalizzò questo stato di cose, coniando il termine Eurocomunismo per definire l'ideologia dei comunisti italiani.
Anche l'autonomia da Mosca non è tutta farina del sacco di Berlinguer: già Togliatti, il più filo-sovietico dei segretari del PCI, nel Memoriale di Yalta parlò della necessità che il PCI iniziasse a seguire una linea autonoma da Mosca, e Longo nel 1968 criticò la repressione della primavera di Praga da parte dell'URSS.

Ora cerco di rispondere alle tue domande:

1) Il nuovo segretario del PCI continuerà la linea di allontanamento dal blocco est? Nel 1973 Berlinguer non aveva ancora formalmente rotto con Mosca, né lanciato l'Eurocomunismo; quindi non c'era nel PCI una corrente organizzata che aveva come priorità il riportare il partito nell'orbita sovietica. C'era un orientamento, ma non una corrente.
A questa domanda non so cosa rispondere, se non che l'allontanamento del PCI da Mosca prescindeva da Berlinguer, e quindi anche un segretario più filo-sovietico dovrebbe fare i conti con un partito sempre più orientato a seguire una linea autonoma indipendente da Mosca.

2) Cosa cambia nella politica nazionale? Il PCI sarà comunque la prima forza di opposizione, vittima della legge non scritta che chiude ai comunisti le porte del governo. Penso che, anche con una leadership del PCI diversa da Berlinguer, Moro avrebbe comunque tentato di fare il compromesso storico e portare i comunisti al governo, e sicuramente avrebbe fatto la fine dell'HL, perché di nuovo, la legge non scritta della I Repubblica era che i comunisti dovevano star fuori dal governo, e chi provava a violare questa legge pagava. Gli anni di piombo avverranno comunque, anche perché nel 1973 sono già iniziati, e le cause erano indipendenti dall'operato di Berlinguer o qualsiasi altro segretario del PCI.

3) Craxi diventerà segretario del PSI? Questa è una domanda interessante, perché la risposta dipende da chi sarà l'erede di Berlinguer alla guida del PCI. Infatti, Berlinguer nel corso della sua segreteria cercò di attirare verso il PCI i voti dei marxisti moderati che votavano il PSI; da un lato questo portò al risultato del 1976, ossia il PCI al 34,4% (massimo storico dei comunisti italiani), ma dall'altro lato in quelle stesse elezioni il PSI ottenne uno dei suoi peggiori risultati, il 9,6%.
Ciò spinse il PSI a intraprendere un processo di rinnovamento, e Craxi fu la persona scelta per questo compito, con le conseguenze che ben sappiamo (il PSI che abbandona definitivamente il marxismo e diventa un partito riformista e governista).
Un segretario del PCI che segua una linea più dura rispetto a Berlinguer potrebbe spingere i marxisti moderati a continuare a votare per i socialisti, e ciò vorrebbe dire che il PSI non sentirebbe il bisogno di rinnovarsi abbandonando il marxismo e spostandosi a Destra, e resterebbe un partito socialista democratico, probabilmente guidato da esponenti delle correnti manciniane e martiniane.

4) E cosa cambia nella politica internazionale? Non credo molto, il PCI non era così influente da poter cambiare i destini dell'URSS. Anche con un segretario del PCI più allineato a Mosca, si formerà comunque un polo comunista autonomo dall'URSS, che sarà centrato sul PCF e sul PCE, che il HL aderirono al progetto eurocomunista di Berlinguer.

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Questo invece è il contributo di Enrica S., scritto il 21 agosto 2016:

Oggi cade il 25° anniversario del tentato golpe in URSS. Per celebrarlo, vi invio alcune vignette di Carl Barks, il creatore di Paperon de' Paperoni alias Scrooge McDuck, tratte da "Paperone e il tesoro sottozero" (1957) e da "Zio Paperone e la palude senza ritorno" (1965). In esse si accenna a Brutopia, immaginario paese il cui nome può benissimo derivare da Brutta Utopia, cioè da Distopia, e che evidentemente è una parodia dell'URSS, dato che, come si vede nell'ultima vignetta, sul suo stemma ci sono catena e martello, simili alla falce e martello comunista (e lo scagnozzo del console si chiama Fidelov... come Fidel Castro!)

(da "Paperone e il tesoro sotto zero", sul n° 173 di "Topolino" del 25 ottobre 1957)

(da "Zio Paperone e la palude senza ritorno", sul n° 524 di "Topolino" del 12 dicembre 1965)

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A proposito di Fidel Castro, così Federico Sangalli ci ha scritto il 25 novembre 2016:

Proprio non mi va di far passare la giornata senza tributare un pensiero a quello che, nel bene e nel male, é stato un grandissimo personaggio storico e un simbolo di un'epoca, e che oggi è scomparso a 90 anni. Fidel Castro Ruz é stato un individuo incredibile, l'inarrestabile rivoluzionario, l'amico-nemico dei Kennedy, l'uomo della Crisi dei Missili di Cuba, quello dei mille cento attentati falliti e quello che, chiamato a parlare per un quarto d'ora all'Assemblea delle Nazioni Unite, si presentò in divisa rivoluzionaria e barba lunga e parlò per più di due ore della necessità rivoluzionaria dei paesi del Terzo Mondo. Fu Presidente di Cuba per ben 50 anni, dal 1958 al 2008, una presidenza, non dimentichiamocelo, macchiata dalla prigionia per gli oppositori politici e dalla frequente censura dell'informazione, e tuttavia un periodo di grande crescita( PIL in crescita del 14% tra gli anni '80 e '90, oggi é a +4%, dati ONU) che ha reso Cuba la nazione con la sanità e l'istruzione gratuita obbligatoria e garantita a tutti più avanzata dell'America Latina, con percentuali da far invidia ai paesi del Primo Mondo. Questa estate sono stato a Cuba e ho visto come la popolazione non vivesse certo tra gli agi e tuttavia il mito di Fidel era ancora fortissimo, a testimonianza di un amore per un leader che ha permesso a questa nazione e a questo popolo di sopravvivere mezzo secolo tagliato fuori dal Mondo dall'embargo americano. A proposito degli americani, molti oggi stanno festeggiando, Trump ha esultato, molti hanno detto che se n'è andato un tiranno costruttore di gulag tropicali e probabilmente continueranno a brindare per la morte di uomo che si è fatto le beffe dei loro tentativi di assassinio per decenni. Ho qui in casa un romanzo, che leggevo giusto ieri sera, datato 1990, di un americano ovviamente, in cui, parlando degli eventi che accadevano dopo la caduta dell'URSS, immaginava ovviamente una rivoluzione a Cuba che terminava con la fucilazione in piazza di Fidel. E invece Cuba é sopravvissuta alla fine del Comunismo senza scossoni, forse anche perché con quel comunismo lì aveva poco da spartire: detestato da Breznev perché era un eretico del movimento comunista e perché si rifiutava di prendere provvedimenti contro i cattolici e le religioni nel suo paese, Castro si era sempre considerato un Umanista, un Socialista più che un marxista. Fino all'avvento di Batista militò in partiti che nulla avevano a che vedere con l'abolizione della proprietà privata e anche dopo la rivoluzione non aderì al Comunismo finché gli USA non gli imposero l'embargo a seguito della nazionalizzazione delle piantagioni da zucchero, costringendolo a schierarsi in quel duello globale che fu la Guerra Fredda. Un uomo che propugnò una conciliazione tra Social-Comunismo e Fede e valori Cristiani, tanto da dire a Papa Francesco che "Gesù fu il primo comunista della Storia!" Al che ovviamente Bergoglio rispose con aria sorniona: "Gesù é vissuto milleottocento anni prima di Karl Marx, semmai sono i comunisti che sono Cristiani!" Insomma, comunque sia é stato un grande uomo del '900. Il minimo che possiamo fare per ricordarlo é ucronizzarci sopra nel nostro miglior stile.

Per esempio: e se Baptista non facesse il golpe del 1952, appena tre mesi prima delle elezioni presidenziali in cui il candidato del Partito Ortodosso Roberto Agramonte era dato come ultrafavorito, lo stesso partito in cui militava e nelle cui fila si era candidato deputato questo giovane avvocato? Cuba diventa una democrazia e Castro intraprende la via democratica?

Oppure come sarebbe la Storia senza Castro? Se lui e Raul fossero rimasti uccisi nell'assalto alla Caserma Moncada? Camillo Ciesfuegos avrebbe preso il potere al suo posto, morendo nel 1959 e lasciando il posto a qualche burattino anticattolico di Mosca, aprendo così la strada ad una caduta del regime negli anni '90? Oppure se lui, Raul, Ciesfuegos e Che Guevara fossero rimasti uccisi durante la fuga sulla Sierra Madre (in ottanta sopravvissero in dodici) oppure se la nave che lo trasportava a Cuba dal Messico, il celebre Granma, fosse stata affondata? Batista sarebbe rimasto al potere fino alla morte nel 1973 oppure ci sarebbe stata ugualmente una rivoluzione? E guidata da chi? E poi?

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Generalissimus gli tiene dietro con altre tre ucronie:

Il Lider Maximo a Santo Domingo.
Nel 1947 Fidel Castro, prima di dedicarsi alla lotta contro Batista, cercò di prendere parte alla pianificata invasione della Repubblica Dominicana
per rovesciare Rafael Trujillo e la sua giunta militare di destra.
Ma il presidente cubano Grau, su pressione americana, fermò tutto e fece arrestare tutti i partecipanti alla spedizione, anche se Castro riuscì a scamparla assieme ad altri suoi compagni.
Ma che accade se l'invasione parte, il regime di Trujillo cade e si insedia un regime comunista in Repubblica Dominicana? Sicuramente gli USA, per contrasto, appoggerebbero il fascista "Papa Doc" in funzione anticomunista, ma la possibilità che anche ad Haiti il regime dei Duvalier venga travolto da un'insurrezione popolare è reale.
Difficile però pensare che l'Hispaniola castrista possa esportare il suo "messaggio" sia verso est (Porto Rico e Piccole Antille) che verso ovest (Cuba e Giamaica); subirebbe lo stesso trattamento da parte degli Americani e agli inizi sopravvivrebbe solo grazie a Mosca.
E poi?

Granma, son tanto infelice!
Il Granma, lo yacht diretto dal Messico a Cuba con a bordo i fratelli Castro, Che Guevara e Camilo Cienfuegos si capovolge e affonda a causa del sovraccarico nel bel mezzo del Mare Caraibico (trasportava 82 persone invece delle 12 per le quali era stato progettato) e ciò provoca la morte di tutti i suoi occupanti.
Cosa prospetta il futuro per Cuba? Rimarrà nella sfera di influenza americana? Batista si autoproclamerà presidente a vita? Ci sarà comunque un movimento di resistenza contro di lui? Non è detto che la Crisi dei Missili non ci sia, la Guerra Fredda è un gioco troppo sottile e sul filo, forse sarebbe semplicemente avvenuta in un altro luogo, con più probabilità la Turchia.

¡Hasta la victoria en el Congo!
Nel 1965 Ernesto Che Guevara guidò una spedizione cubana di sostegno ai Simba, guerriglieri congolesi che si ispiravano alla politica di Patrice Lumumba. La spedizione fallì soprattutto a causa dell'incompetenza di Kabila, capo della guerriglia, e delle discordie all' interno degli stessi Simba che rendevano difficile la coordinazione delle operazioni. Ma poniamo che a capo dei guerriglieri ci sia qualcuno più competente e che i Simba siano più uniti: cosa succede? La rivoluzione riesce e la prima mossa del nuovo governo è la collettivizzazione delle enormi risorse naturali del Congo, espellendo tutte le compagnie straniere. Probabilmente il nuovo governo sarà autoritario come quello cubano, ma almeno risparmierà alla popolazione tutte le varie cleptocrazie e guerre civili che ha dovuto subire il Congo nella nostra Timeline. Magari le condizioni di vita non diverranno eccezionali, ma sicuramente migliori di quelle in cui la gente si trova oggi. Addirittura potremmo ipotizzare che il Burundi e il Ruanda (ex colonie belghe anche loro) chiedano l'annessione al nuovo stato. Sarebbe interessante vedere come si porrebbe il Congo nei confronti dell'URSS. Se dovesse prevalere la linea di Guevara, i rapporti non sarebbero tanto buoni, visto che la politica sovietica lo aveva deluso molto. Forse si avvicinerebbe alla Cina, anticipando così gli interessi cinesi in Africa. Sicuramente gli americani foraggerebbero il movimento indipendentista del Katanga per mettere in difficoltà il Congo, e per evitare ulteriori rivoluzioni comuniste in Africa insedierebbero un governo amico in qualche altro stato africano, che potrebbe venire ai ferri corti con il Congo.

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E Pavel Tonkov aggiunge di suo:

Si dice che in gioventù Fidel Castro avesse avuto simpatie per Hitler e Mussolini e che durante la Seconda Guerra Mondiale tenesse in camera sua una cartina dove segnava gli avanzamenti delle forze dell'Asse. E se anche dopo la guerra Castro continua ad avere orientamenti politici di destra? Durante la dittatura di Fulgencio Batista Castro fa carriera nelle forze armate e nel 1973, all'indomani della morte di Batista, ne diventa il suo successore. Quindi Cuba rimane un regime strettamente alleato degli Stati Uniti e diventa un rifugio per molti estremisti di destra, di conseguenza i Sandinisti non prenderanno mai il potere in Nicaragua, ma grazie all'aiuto cubano molte dittature dell'America Latina sopravvivranno anche dopo il 1989. Perciò Pinochet e Stroessner rimarrano al potere in Cile e Paraguay fino al 2006, anno delle loro morti, Duvalier ad Haiti fino al 2010, quando perirà nel sisma, il Brasile sarà ancora retto da una giunta militare e lo stesso discorso vale anche per l'Argentina dove ormai si contano più di 300.000 desaparecidos. Quando il 25 novembre 2016 Fidel Castro muore all'età di 90 anni Cuba è un paese ancora più povero e sottosviluppato con un alto tasso di analfabetismo e condizioni sanitarie precarie; l'economia è quasi totalmente controllata dalle multinazionali e da poche famiglie che hanno fatto del paese un paradiso fiscale, mentre la criminalità organizzata detiene il controllo della prostituzione, del gioco d'azzardo e del traffico di stupefacenti. Se da una parte molti Cubani festeggiano la morte di Castro, dall'altra Donald Trump piange per la scomparsa di un "grande statista e sincero amico degli Stati Uniti".

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Aggiungiamo adesso il contributo di Dario Carcano:

Destalinizzazione e segregazione

Segretari Generali del PCUS:

Nikita Chruščëv (1953 – 1971): Divenuto segretario del PCUS dopo la morte di Stalin, a partire dal 1956 inizia un processo di destalinizzazione, ossia di critica alle azioni del suo predecessore, che giunge a compimento nel 1969 con la riabilitazione dei morti nelle purghe, come Bucharin e Trockij. Fu anche artefice di una nuova politica economica, seguita anche dai suoi successori, focalizzata non più su armamenti e industria pesante ma su beni di consumo e industria leggera.
In seguito alla primavera di Praga, annunciò chiaramente che non avrebbe interferito negli affari interni dei paesi alleati, purché non fossero in discussione il socialismo e l’alleanza con Mosca.

Nikolaj Podgornyj (1971 – 1983): Diventa segretario alla morte di Chruščëv nel 1971, e ne porta avanti l’operato. Sotto di lui si ha un miglioramento nelle condizioni di vita in Unione Sovietica e nei paesi dell’Europa orientale, dove progressivamente i regimi autoritari di matrice stalinista sono sostituiti da regimi socialisti democratici. Deve più di una volta confrontarsi duramente con gli Stati Uniti, ma durante la presidenza Carter promuove la distensione tra i due blocchi.
In politica estera ci furono dei successi come il rientro della Jugoslavia di Tito nell’orbita di Mosca, e il riavvicinamento con la Cina dopo la morte di Mao e la salita al potere di Deng Xiaoping.

Michail Gorbačëv (1983 – 2003): La sua segreteria, iniziata con la morte di Podgornyj nel 1983, fu una stagione di intense riforme all’interno dell’Unione Sovietica. Il partito divenne aperto a tutti e democratico al suo interno, e la stessa Unione Sovietica si trasformò, diventando davvero federale e rispettosa delle minoranze etniche e linguistiche.
L’URSS restava uno stato a partito unico, ma grazie alle riforme di Gorbačëv il suddetto partito unico era aperto e non era sordo ai bisogni del popolo sovietico.
Le riforme democratiche, la crescita economica e i miglioramenti negli standard di vita sovietici resero Gorbačëv molto popolare tra i cittadini sovietici.

Natalia Platova (2003 – in carica): Dopo vent’anni di segreteria, Gorbačëv decise di lasciare l’incarico e ritirarsi a vita privata. Al suo posto arrivò alla guida del PCUS la giovane Natalia Platova, politica abile e vicina alle posizioni del suo predecessore.
La Platova andò avanti sulla strada tracciata da Gorbačëv: democratizzare l’URSS e i paesi ad essa alleati, ma senza mettere in discussione il socialismo e il marxismo.
In politica estera la Platova ottenne un grande risultato diplomatico con la “rottura atlantica” e l’avvicinamento a Mosca dei paesi dell’Europa occidentale.

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Presidenti degli Stati Uniti d'America

John F. Kennedy (1961 – 1965): Democratico, sopravvive ad un tentativo di assassinio nel 1963. Nel corso del suo mandato non riesce a realizzare il suo obiettivo più ambizioso, l’approvazione del Civil Rights Act, che resta impantanato in un Congresso ostile. Questo, unito alle accuse di non essere abbastanza duro coi comunisti, causa la sua sconfitta alle elezioni del 1964 per mano del candidato repubblicano Barry Goldwater.

Barry Goldwater (1965 – 1973): Repubblicano e fieramente anticomunista, aumenta l’impegno degli Stati Uniti in Indocina in nome della Teoria del Domino, arrivando nel corso del suo mandato ad aver schierato oltre mezzo milione di soldati in Vietnam, dove combatte una guerra tanto sporca quanto sanguinosa, fatta di napalm e bombardamenti in Cambogia e in Laos (teoricamente neutrali ma che ospitavano basi dei guerriglieri comunisti). Nel 1970 Goldwater andò molto vicino a sganciare una bomba atomica su Hanoi, e fece marcia indietro solo quando l’Unione Sovietica annunciò che un attacco atomico sul Vietnam sarebbe stato considerato allo stesso modo di un attacco nucleare sull’URSS, e che Mosca avrebbe risposto allo stesso modo.
Quella crisi è unanimemente considerata il punto della Guerra Fredda in cui si è andati più vicini allo scoppio della terza guerra mondiale.
Nonostante la guerra e i magri risultati da essa prodotti, riuscì a essere rieletto alle elezioni del 1968, anche grazie ad una politica di tagli alle tasse. Compensati da tagli alla spesa sociale e al welfare in generale.

William E. Miller (1973 – 1977): Repubblicano, vicepresidente di Goldwater. Porta avanti le sue politiche economiche di tagli alla spesa pubblica e riduzione delle tasse. Sotto il suo mandato si ha la fine della guerra in Vietnam, e con fine intendo la sconfitta degli Stati Uniti, perché il Vietnam del Sud cessò di esistere come Stato indipendente e filo-americano. Il fallimento bellico lo rese un presidente impopolare, tanto che l’ex governatore della California Ronald Reagan lo sfidò alle primarie repubblicane, andando vicino a batterlo. Perse la rielezione contro il democratico Jimmy Carter.

Jimmy Carter (1977 – 1981): Democratico, sotto la sua presidenza si ebbe una parziale marcia indietro rispetto alle politiche economiche di Goldwater, e cercò anche di far approvare dal Congresso una legge molto simile al Civil Rights Act di Kennedy, fallendo. Perse la rielezione contro Ronald Reagan.

Ronald Reagan (1981 – 1989): Repubblicano, annullò le riforme sociali di Carter, tagliò ulteriormente il welfare e le tasse. Perseguì una politica estera aggressiva, caratterizzata da espansionismo e interventismo. Sotto la sua presidenza, in risposta all’aumento delle tensioni razziali, ebbe inizio la militarizzazione della polizia.

George H. W. Bush (1989 – 1993): Repubblicano, vicepresidente di Reagan. Portò avanti la sua politica estera muscolare contro l’URSS, senza però ottenere grandi risultati perché Mosca fin dall’inizio aveva scelto di non giocare quel gioco. Ma quella politica dissanguò le finanze pubbliche americane, costringendolo a violare la promessa fatta in campagna elettorale che non avrebbe alzato le tasse. Perse la rielezione contro lo sfidante democratico Paul Tsongas.

Paul Tsongas (1993 – 1997): Democratico, vinse le primarie e le elezioni nonostante le voci sulla sua salute cagionevole. Da un punto di vista economico, non si distaccò troppo dalle politiche liberiste di Goldwater e Reagan, ma abbandonò la politica reaganiana di confronto muscolare con l’URSS, anche perché era evidente che non stava funzionando e avrebbe dissanguato prima Washington di Mosca, cercando invece la distensione con il governo sovietico. Fu un presidente popolare, e vinse le elezioni del 1996 senza troppi problemi, ma morì a causa di un tumore pochi giorni prima del suo secondo insediamento.

Lloyd Bentsen (1997 – 2001): Democratico, vicepresidente di Tsongas. Alla sua morte gli successe alla presidenza, e cercò di portare avanti la sua agenda di riforme sociali, senza però riuscire a superare la resistenza di un Congresso in gran parte conservatore.

Donald Rumsfeld (2001 – 2009): Repubblicano, sconfisse Bentsen alle elezioni del 2000. Con Rumsfeld si ebbe il ritorno alla politica militarista che cercava il confronto muscolare con Mosca e la fine della distensione con l’Unione Sovietica. Nel 2003 il presidente decise di invadere l’Iraq di Saddam Hussein, accusandolo falsamente di fabbricare armi di distruzione di massa di natura biologica, e pochi anni dopo seguì un intervento analogo in Siria. Nel caso dell’Iraq la reazione sovietica fu assente, perché i rapporti con Saddam erano tesi anche dal loro punto di vista, ma per la Siria ci fu una crisi diplomatica che portò ad un netto raffreddamento nei rapporti tra le due potenze.
Entrambi gli interventi militari sarebbero stati un fallimento, un pantano in cui gli Stati Uniti gettarono inutilmente soldi, risorse e vite umane, ottenendo in cambio un maggiore instabilità nella regione.

Donald Trump (2009 – 2017): Repubblicano, vince da outsider le primarie del GOP approfittando dell’impopolarità dei membri dell’amministrazione Rumsfeld, e le elezioni presidenziali promettendo una pace onorevole in Medio oriente. Sotto la sua presidenza inizia il ritiro da Iraq e Siria, completato dal suo successore, e ha luogo un breve intervento nella guerra civile libica a sostegno dei ribelli anti-Gheddafi. Durante la sua presidenza scoppia una grave crisi economica, cui reagisce tagliando le tasse e finanziando le grandi imprese in difficoltà, e la sua netta ostilità alle riforme in tema di diritti civili (ancor più pronunciata di Rumsfeld, che come presidente evitò l’argomento rifugiandosi dietro l’ambigua tesi per cui la competenza è dei singoli stati) non fece altro che incrementare le tensioni razziali, rendendolo il bersaglio dei movimenti di protesta che cercavano di permettere agli afroamericani di esercitare il loro diritto di voto in tutti gli stati dell’Unione.

John Bolton (2017 – in carica): Repubblicano, segretario di Stato di Rumsfeld e imposto a Trump come vicepresidente dai vertici del GOP. Completa il ritiro dal Medio Oriente, e prova a spacciare per un successo il disastro ereditato dai suoi predecessori (due paesi deboli in cui il terrorismo islamico prospera allegramente). Sotto di lui avviene anche la “rottura atlantica”, ovvero l’uscita dalla NATO dei paesi membri dell’Unione Europea (a parte la Gran Bretagna, che resta nella NATO e lascia l’Unione Europea), con questi ultimi che decidono di perseguire una propria politica di difesa indipendente da Washington. La “rottura atlantica” non fu colpa del solo Bolton, ma il risultato di una lunga insofferenza dei paesi europei verso una politica americana sempre più nazionalista, militarista e aggressiva.
Nonostante questi fallimenti in politica estera e le elevate tensioni razziali, la ripresa economica e una discreta gestione della pandemia di Covid-19 assicurano a Bolton una rielezione abbastanza comoda nel 2020.

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Il Nazionalismo americano mette alla prova la NATO
Pierre Haski, France Inter, Francia
10 novembre 2016

Non c'è dubbio che la recente vittoria elettorale del vicepresidente John Bolton sia una vittoria del presidente in carica e di un establishment politico americano sempre più chiuso in sé stesso e ostile ad ogni istanza di riforma economica, politica o sociale. Ma in queste elezioni c'è un grande sconfitto, e quel grande sconfitto è l'alleanza atlantica.
In questi sedici anni in cui la politica estera americana si è fatta sempre più aggressiva, prima con la presidenza Rumsfeld, dove il neopresidente Bolton era una delle figure più ascoltate in quanto segretario di Stato, e poi con la presidenza Trump, che dopo otto anni si avvia alla conclusione, l'Europa ha mostrato sempre più insofferenza verso la politica aggressiva del fratello maggiore d'oltreoceano.
L'ovvia eccezione è il Regno Unito, che ha sostenuto tutte le recenti guerre condotte dagli Stati Uniti, e dove il primo ministro James Cameron ha recentemente fatto approvare dal parlamento una legge che impegna il governo di sua maestà ad attivare l'uscita del paese dall'Unione Europea nel caso in cui questa dovesse perseguire una politica di difesa autonoma dalla NATO.
Ma Londra è l'eccezione: il resto dell'Europa è insoddisfatto della politica estera statunitense. A cominciare dalla Francia che, a parte la parentesi Sarkozy, ha sempre guardato con ostilità alla NATO e al fatto che sia uno strumento della politica estera americana. Non sono passate inosservate a Washington le dichiarazioni del presidente Hollande, che non ha mai nascosto come nella sua opinione la Francia debba seguire la propria strada qualora "gli alleati usino i trattati internazionali come paravento per i propri interessi". I principali candidati alle elezioni del prossimo anno, dall'ex socialista Macron al repubblicano Fillon, sono tutti su questa linea, e solo un esito clamoroso come la vittoria di Marine Le Pen potrebbe cambiare la posizione dell'Eliseo sull'argomento.
Anche la Germania occidentale è sempre più schierata contro la NATO e a favore di un integrazione europea nella difesa: il cancelliere Friedrich Merz, eletto nel 2009 accusando il predecessore, il socialdemocratico Schröder, di antiamericanismo, è in caduta libera nei sondaggi ed è a rischio di essere superato non solo dall'SPD, ma anche dai Verdi. Se le elezioni in Francia non dovessero riservare sorprese, e le prossime elezioni in Germania Ovest dovessero essere il preludio alla nascita di un governo formato dai socialdemocratici insieme ai verdi, le cose si metterebbero male per l'alleanza atlantica.
In tutto questo, Washington può incolpare solo sé stessa. I paesi dell'Europa occidentale hanno sopportato l'intervento in Iraq, ma il rifiuto di prendere parte all'intervento in Siria era un chiaro segnale di insofferenza. L'Italia, uno degli alleati più stretti degli Stati Uniti, all'epoca guidata dal comunista Claudio Fava, addirittura rifiutò di concedere l'uso delle proprie basi militari alle forze armate statunitensi. Iniziativa che però tre anni dopo, in occasione dell'intervento in Libia, non fu replicata dal governo del suo successore, Gianfranco Fini.
E ovviamente, le accuse del presidente Trump agli alleati d'oltreoceano di sfruttare gli Stati Uniti per la propria sicurezza non hanno migliorato la situazione.

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La difesa comune europea manda la NATO in soffitta
Pierre Haski, France Inter, Francia
30 giugno 2018

Il consiglio europeo concluso ieri, il primo a cui ha partecipato il nuovo presidente del consiglio dell'Italia, Enrico Giovannini, è storico perché ha sancito ufficialmente qualcosa che era nell'aria da molti mesi, da quando cioè Emmanuel Macron ha vinto le elezioni presidenziali dello scorso anno, in Germania l'atlantista Merz è stato costretto a farsi da parte dopo la sua sconfitta alle elezioni, e le elezioni politiche italiane di quest'anno sono state un plebiscito contro le destre e hanno visto il ritorno al governo del più grande partito comunista dell'Europa occidentale dopo dieci anni di opposizione.
Per la prima volta infatti si è non solo discusso di difesa comune e di un esercito europeo, ma è stata trovata un intesa in proposito. E per la prima volta si è parlato di difesa europea al di fuori della NATO. L'intesa raggiunta ovviamente non comprende il Regno Unito, che ha abbandonato i negoziati e annunciato l'attivazione delle procedure per l'uscita del paese dall'Unione europea.
Washington non ha ancora commentato, mentre invece Mosca ha già espresso i propri apprezzamenti per la scelta dell'Europa di perseguire una politica autonoma non più subordinata agli Stati Uniti. Ovviamente la speranza di Mosca, alimentata dal fatto che un paese importante per l'Unione come l'Italia sia ora governato da una coalizione che include i comunisti, è che questo atto sia la fine dell'ordine di Yalta e segni il progressivo avvicinamento a Mosca dell'Europa occidentale.
Questa svolta è comunque sorprendente, perché pochi mesi fa sembrava che il tour europeo del presidente Bolton avesse riavvicinato le due sponde dell'Atlantico. Invece è evidente che ormai la distanza era troppo ampia per poter evitare questa spaccatura.
Una rottura che ha nel nazionalismo americano incarnato da Bolton e dai suoi predecessori il principale responsabile. Sono state infatti le loro scelte politiche a spingere i paesi europei verso una simile decisione.
Una decisione storica, che avrà molte conseguenze nel futuro del continente.

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Nota dell'Autore: in HL Natalija Platova è stata la leader dell'Unione Giovanile Socialdemocratica Russa.

Dario Carcano

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Gli replica Federico Sangalli:

Ecco la mia versione dei fatti:

JFK non perde contro Goldwater. Concordo sul fatto che Kennedy non sarebbe riuscito a passare il Civil Rights Bill almeno nel suo primo mandato ma si tratta comunque un giovane e aitante Presidente telegenico che ha fatto scappare i sovietici con la coda tra le gambe a Cuba (questa è la versione americana naturalmente) contro Barry “Nuclearizziamo Hanoi” Goldwater. Sicuramente non ci sarebbe stata la valanga di Lyndon Johnson ma Kennedy avrebbe prevalso. Come escamotage suggerirei che uno dei molti scandali sessuali-mafiosi (la sua relazione con Judith Exner mi sembra perfetta) di Kennedy vengano fuori come “sorpresa d’ottobre” con sostanziali prove della loro autenticità (credo basterebbe che J. Edgar Hoover pensasse che Kennedy voglia rimpiazzarlo dopo le elezioni, Hoover aveva più foto oscene sui politici di chiunque altro). Con un colpo del genere Goldwater potrebbe vincere.

Postilla: in HL George Wallace sfidò Johnson alle primarie e straperse anche perché LBJ era un texano fatto e finito ed era dura per i segregazionisti dipingere come un nemico dello stile di vita sudista per il suo sostegno alla desegregazione uno il cui hobby preferito era ritirarsi nel suo ranch in Texas a masticare tabacco sulla sedia a dondolo in veranda. Così Wallace considerò di correre come third-party alle elezioni (cosa che avrebbe poi fatto quattro anni dopo) ma realizzò che LBJ era troppo forte e quindi propose a Goldwater di fare un ticket unico per non dividere il voto conservatore sulla base del comune anti-comunismo. Ora, Goldwater difendeva i diritti degli Stati ma non era un razzista (aveva votato a favore dei Civil Rights Bill di Eisenhower) e odiava con tutto il cuore i politici che mischiavano religione e politica. Quindi gli disse di no con la scusa che Wallace era “sconosciuto al di fuori del Sud”, un evidente pretesto se si pensa che il vice che poi si scelse, Miller, era sconosciuto persino a sua madre. Wallace allora scelse di non correre.

In questa TL Wallace farebbe sicuramente meglio ma se corresse dividerebbe il voto conservatore e Kennedy vincerebbe. Quindi suggerisco di risolvere il tutto individuando come POD una più chiara vittoria sovietica nella Crisi di Cuba, almeno d’immagine. Basterebbe anche solo la pubblicazione del non-segreto che i sovietici lasciarono segretamente truppe a Cuba anche dopo la crisi, cosa che non contraddiceva direttamente l’accordo ma non era quello che era stato venduto agli americani. A questo punto tutto il resto torna: Chruscev resta al potere perché non è umiliato, Kennedy invece sì, la cosa peggiora dopo la sua decisione di ritirare le truppe dal Vietnam, piuttosto che ammazzarlo e renderlo un martire lo si ricopre di fango per delegittimarlo con gli scandali, nel 1964 Goldwater accetta con riluttanza l’offerta di Wallace pur di rimuovere quella marionetta dei comunisti di Kennedy, sul lungo termine l‘umiliazione di Cuba contribuisce al declino della potenza americana.

Goldwater voleva risolvere la Guerra del Vietnam atomizzandolo e sicuramente Wallace e LeMay sarebbero stati d’accordo ma Mosca mette il veto minacciando ritorsioni. Questo è chiarissimo. Quello che non capisco è come faccia Goldwater ha restare indenne alla pressione pubblica contro la guerra. Probabilmente avrebbe persino problemi interni e avrebbe dovuto affrontare una sfida alla sua ri-nomination da parte di quei repubblicani che ne contestato l’impopolare condotta bellica e l’alleanza coi segregazionisti del Sud: Eugene Siler o Mark Hatfield potrebbero essere una sorta di Eugene McCarthy del GOP. Anche i democratici contesteranno la conduzione della guerra. Qui ci sono dunque due opzioni. La prima è che l’ala “kennediana” sia ormai screditata dopo i disastri di JFK: i conservatori riconducibili all’ala “johnsoniana” (probabilmente LBJ non è stato ricandidato da Kennedy nel 1964) puntano il dito sul percepito disfattismo pro-comunista per spiegare l’ultima sconfitta e, approfittando della divisione del voto anti-guerra tra Bobby Kennedy e Hubert Humphrey e con l’appoggio del DNC, si impongono. Johnson o il suo pupillo John Connally ottengono la nomination con una piattaforma nixoniana che promette legge e ordine e pace con onore e poi vincono le elezioni senza porre fine alla guerra.

La seconda opzione è che Goldwater venga assassinato nell’estate del ‘68. In fondo, se vogliamo credere che Sirhan Sirhan abbia ucciso RFK per le sue promesse di sostegno a Israele, allora assassinare il primo Presidente ebreo d’America sarebbe un bersaglio ancora più invitante. La morte di Goldwater lascia Wallace Presidente. I repubblicani lo rifiutano come loro candidato e si uniscono dietro a Rockefeller. Con i sudisti che abbandonano il partito per seguire Wallace ora che ha rotto coi repubblicani, i democratici nominano Humphrey. Wallace non sceglie LeMay come vice e, sfruttando la potenza mediatica della Presidenza, trascina gran parte della working class bianca dietro di lui (ci mancò poco in HL). Wallace vince le elezioni e istituzionalizza definitivamente il segregazionismo.

William Miller era davvero sconosciuto, i democratici lo presero in giro cantando “É un duro, è un killer, chi diavolo è William Miller?!?”. Non so quanto possa essere “presidenziale”. Se seguiamo quanto detto prima, gli Anni Settanta vedranno un parallelo con Nixon solo che con Johnson, che muore in carica poco dopo la rielezione al suo secondo mandato, lasciando al suo vice (Edmund Muskie?) la gestione del ritiro dal Vietnam, oppure Connally, le cui accuse di corruzione di metà anni settanta potrebbero tradursi in una sorta di scandalo watergate e azzopparne la presidenza.

In questa TL non c’è lo Scandalo Watergate. Carter era un abile politico quando si trattava di campagne elettorali ma godette molto del fattore outsider, cioè l’essere una faccia nuova sconosciuta in una Washington avvolta dagli scandali. Non penso sarebbe riuscito a imporsi in assenza del Watergate.

Nota: per amor di semplicità d’ora in poi prediligerò la linea che ritengo più di equilibrio tra quanto qui detto e quanto scritto da Dario, quindi opto per lo scenario in cui Wallace diventa Presidente così da giustificare il perpetuarsi del segregazionismo.

Con Wallace fuori gioco i segregazionisti non hanno un leader all’altezza come successore e perdono. I repubblicani sono presi tra l’incudine e il martello. I democratici, dopo l’umiliazione ripetuta dell’ala sinistra, optano per un candidato socialmente liberale ma falco in politica estera (in pratica come Kennedy), che potrebbe essere Henry Jackson. Jackson riesce a vincere ma la fine degli anni settanta è un disastro per tutti, la decisione del presidente di fare la guerra in Iran e Panama non aiuta e così nel 1980 si cambia.

Il GOP si decide, sceglie Reagan e vira sulla Southern Strategy che di fatto è una riedizione del patto Goldwater-Wallace. Certo, Bush non sarebbe mai il vice di Reagan e non solo perché troppo moderato. In HL Bush era diventato deputato del Texas ma a un certo punto perse le elezioni. La sua carriera fu salvata perché il suo padrone politico John Connally (che nel frattempo era diventato repubblicano) era un idolo per Nixon (che lo nominò suo ministro del tesoro) e poté così chiedergli di trovare un posto per George Sr: Bush divenne così ambasciatore all’ONU e poi direttore della CIA e rilancio la sua carriera ai massimi livelli di Washington. Qui questo non accade perché non c’é Nixon ergo fine carriera per Bush. Credo che Howard Baker (esperto di Washington come capogruppo al Senato rispetto a un neofita come Reagan, moderato ma rappresentante del Sud) potrebbe essere una buona scelta. Reagan viene eletto come in HL e nel 1988 Baker gli succede e probabilmente pone fine alla Guerra del Vietnam.

Tsongas era malato di cancro, non si sarebbe mai ricandidato. Bentsen non se la sentì di continuare a fare il ministro del tesoro di Clinton anche nel sue secondo mandato (con ragione, visto che ebbe due infarti nel 1998), figurarsi fare il presidente. Tsongas sperava che Colin Powell un giorno sarebbe diventato Presidente quindi probabilmente lo nominerebbe nel gabinetto (il primo ministro nero?) e forse gli chiederebbe di candidarsi ma visto che declinò già in HL quando il GOP glielo chiede a maggior ragione declinerebbe più con un razzismo istituzionale più forte. Forse il suo successore potrebbe essere Bob Kerrey, che collaborò con Tsongas nelle sue battaglie pro-austerità, se ottenesse un endorsement da parte del presidente. Sennò sarà una lotta tra Al Gore, John Kerry e Warren Bradley.

Kerrey serve un mandato grazie alla popolarità di Tsongas (martirio causa malattia) ma ha la reputazione rovinata dopo che salta fuori un suo presunto coinvolgimento in crimini di guerra in Vietnam. Senza George Sr la vedo dura per i Bush. Penso che Rumsfeld, non essendo mai stato nominato nell’amministrazione Nixon, sarebbe rimasto quel potente deputato che aveva fatto eleggere Gerald Ford capogruppo alla camera e prima o poi sarebbe lui diventato capogruppo (carriera simile la fede il suo protetto Dick Cheney). Come volto del tentativo di impeachment a Kerrey, Rumsfeld viene facilmente eletto Presidente. Cheney è Segretario di Stato.

Sappiamo cosa succede dopo. Nel 2008 la stanchezza per le guerre petrolifere e la recessione riporta il pendolo verso i democratici. Forse Niki Tsongas potrebbe essere una sorta di Hillary Clinton alternativa con un tocco di Jacqueline data la morte del marito e potrebbe diventare Presidente, con tanto di rielezione causa allergia acuta degli elettori al GOP nonostante i democratici non entusiasmino. Nel 2016 uno stratega repubblicano, tal Steve Bannon, cerca un candidato che possa mischiare suprematismo razziale e appello alla classe lavoratrice come faceva George Wallace e lo trova nell’ex Colonnello Oliver North, quello dell’Irangate, che qua è riuscito a farsi eleggere Senatore della Virginia nel 1994 grazie a un GOP (se possibile) ancora più di destra. Tutti lo danno per sconfitto ma a sorpresa North vince facendo leva sul sentimento di abbandono di molti americani. John Bolton (Santo cielo, credo non ci sia diplomatico americani che odi di più le Nazioni Unite di lui!) è il nuovo segretario di stato. Ad oggi la sua presidenza é riuscita soprattutto a sfasciare la NATO con i suoi goffi tentativi di organizzazione di golpe contro i paesi alleati. Al Congresso i democratici hanno lanciato un’indagine di impeachment contro di lui per corruzione e abuso di fondi pubblici ma per ora la notizia è stata mediaticamente oscurata dal fatto che ogni giorno il nuovo Giudice della Corte Suprema Ted Cruz usi un travestimento diverso per infiltrarsi nello studio di qualche telegiornale del mattino liberale e passare dietro ai conduttori correndo mezzo nudo mentre grida come un ossesso che gli ebrei e i bolscevichi non vogliono che i telespettatori vedano la verità...

Presidenti USA:
35 John Fitzgerald Kennedy (D-Massachusetts) 1961-1965
36 Barry Morris Goldwater (R-Arizona) 1965-1968
37 George Corley Wallace (I-Alabama) 1968-1977
38 Henry Martin Jackson (D-Washington) 1977-1981
39 Ronald Wilson Reagan (R-California) 1981-1989
40 Howard Baker (R-Tennessee) 1989-1993
41 Paul Tsongas (D-Massachusetts) 1993-1997
42 Lloyd Bentsen (D-Texas) 1997
43 Bob Kerrey (D-Nebraska) 1997-2001
44 Donald Rumsfeld (R-Illinois) 2001-2009
45 Niki Tsongas (D-Massachusetts) 2009-2017
46 Oliver North (R-Virginia) 2017-...

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La parola va a Dario Carcano:

Il film del 1973 "Il giorno dello sciacallo", a sua volta tratto dal romanzo omonimo scritto da Frederick Forsyth, segue un anonimo killer inglese al soldo dell'OAS, che nel film viene chiamato semplicemente Lo Sciacallo, incaricato di uccidere il presidente Charles De Gaulle. Nel film l'attentato, che consiste nello sparare a De Gaulle mentre sta presenziando ad una parata per l'anniversario della Liberazione di Parigi, fallisce letteralmente all'ultimo secondo, perché De Gaulle si china esattamente mentre il killer spara, e prima che questi riesca a sparare un altro colpo la polizia irrompe nella stanza e lo uccide.

Il film all'inizio, prima di introdurre lo Sciacallo, ricostruisce l'attentato subito da De Gaulle il 22 agosto 1962 a Petit Clamart, il che ci permette di dedurre che l'ucronico attentato a De Gaulle perpetrato dallo Sciacallo avvenga il 25 agosto 1963 (è infatti impossibile che gli avvenimenti del film si svolgano in appena tre giorni). Immaginiamo quindi che la storia sia vera, e che lo Sciacallo non sbagli e riesca a uccidere De Gaulle. Come cambia la politica francese ed europea se De Gaulle viene assassinato da un misterioso killer dell'OAS nell'estate del 1963?

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Gli replica Perchè No?:

Se De Gaulle muore in un attentato nell'estate 1963, tecnicamente Gaston Monnerville, Presidente del Senato. diventa presidente ad interim, il che di lui il primo presidente nero della Francia, probabilmente Pompidou rimane premier per gestire la transizione. Politicamente De Gaulle aveva già completato l'instaurazione della V Repubblica presidenziale con l'introduzione del suffragio universale diretto per l'elezione del presidente, la V Repubblica dunque non cambia. Le elezioni legislative anticipate dell'ottobre 1962 sono state vinte da una larga maggioranza gollista con Pompidou come premier. Il partito gollista é dunque tranquillo per le elezioni seguenti ma riceve anche il sostegno popolare dopo il martirio patriottico del suo fondatore. Il candidato gollista sarebbe probabilmente l'uomo considerato l'erede più fedele di De Gaulle: Georges Pompidou (premier e già pensato come successore), Michel Debré (premier fino al 1962, co-scrittore della costituzione e gollista storico benché lasciato da De Gaulle) con una vittoria probabile di Pompidou. I Socialisti sarebbero rappresentati da Gaston Deferre.

Pompidou sarebbe presidente dal 1963 al 1970, gia malato non si ricandida e dunque non muore in carica nel 1974. Secondo me la morte di De Gaulle e l'assenza della sua forte personalità fanno sì che non ci sarebbe un maggio 1968 come nella nostra TL, o ci sarebbe in tono minore. Comunisti e sindacalisti non partecipano alle proteste degli studenti e preferiscono aspettare le elezioni presidenziali del 1970, ma riescono a ottenere delle riforme come compromesso. La ricerca di un'alternanza potrebbe permettere al socialista Gaston Deferre di essere eletto presidente e rimarrebbe in carica fino a 1977. il resto sarebbe:

1977-1984: Valery Giscard d'Estaing
1984-1991: François Mitterrand (la malattia del presidente gli impedisce il secondo mandato come nella nostra TL).
1991-1998: Jacques Chirac (il mandato non è ridotto a cinque anni)
1998-2005: Lionel Jospin
2005-2012: Nicolas Sarkozy
2012-2019: Ségolène Royal (in questo momento avrebbe ancora la meglio su François Hollande)
2019-...: Emmanuel Macron (fino al 2026? O ci saranno discussioni per ridurre il mandato a cinque anni?)

Decisioni in politica estera: De Gaulle non puòo mettere in atto la sua politica di indipendenza nazionale e Pompidou probabilmente non avrebbe lo stesso atteggiamento di sfida perpetua, dunque nel 1966 la Francia non si ritira del commando unito della NATO, rimangono delle basi americane in Francia, la politica estera francese rimane più nella linea di Washington. Di conseguenza, anche se la Francia conserva l'idea della propria indipendenza, non cerca di costruire la sua bomba atomica privata e finisce per riceverla dagli USA come ha fatto Londra. L'esercito francese non si sviluppa in modo autonomo e non avrebbe la stessa capacità bellica di oggi, rimane strettamente legata al Grande Fratello Americano. Ovviamente ciò significa che nel 2003 la Francia non si oppone alla guerra in Irak che si farebbe nel quadro di un mandato dell'ONU. Inoltre nel 1967 la Francia non si oppone all'entrata della Gran Bretagna nella CEE, entrata anticipata con conseguenze che non saprei definire. Visto che in HL gli appartenenti all'OAS catturati e condannati dai francesi furono poi amnistiati dallo stesso De Gaulle nel 1968, ucciderlo significa che invece avranno un appuntamento con il rasoio nazionale. Il resto sarebbe più o meno lo stesso.

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E Federico Sangalli aggiunge:

Monnerville riteneva la riforma presidenzialista gollista incostituzionale. Infatti questa era stata adottata con una scappatoia legale: mentre la Costituzione della Quarta Repubblica prevedeva che le modifiche costituzionali venissero adottate prima dalle due camere poi ratificate eventualmente da un referendum o di nuovo dal parlamento in seconda lettura, De Gaulle, conscio di quanto il Parlamento fosse ostile alla svolta, la adottò di sua iniziativa approfittando un un articolo che permetteva al governo di adottare “disposizioni generali in ambito elettorale” senza passaggio parlamentare purché sottoposte a conseguente referendum. La maggior parte dei costituzionalisti concorda nel ritenere questa mossa incostituzionale (se il costituente avesse voluto questa strada allora non ci sarebbe stato l’apposito articolo sulle modifiche costituzionali) ma la Corte Costituzionale francese, allora piena di gollisti tanto da essere soprannominata “il secondo Gabinetto Pompidou”, approvò la scelta. Monnerville fu il più duro tra i politici critici, dicendo che De Gaulle si era macchiato di “abuso di potere”.
Adesso Monnerville è Presidente della Repubblica, seppur solo provvisoriamente in attesa di nuove elezioni. Chiaramente considera il sistema gollista illegittimo quindi secondo me almeno un tentativo per correggere il tiro lo fa. I gollisti hanno solo la maggioranza relativa in parlamento e si appoggiano ai Repubblicani Indipendenti di d’Estaing, il quale era favorevole alla riforma ma anche critico del ruolo di “solista” di De Gaulle al potere. Era anche ambizioso. Inoltre un’elezione indiretta favorirebbe il suo mentore Antoine Pinay.
Allora ecco che Monnerville unisce tutti i non gollisti da d'Estaing ai comunisti in un nuovo governo guidato dallo stesso VGdE. Sarebbe un’alleanza solo temporanea, in vista della riforma a cui tutti i partiti meno quelli della maggioranza gollista si opponeva con veemenza, quindi secondo me ci starebbero.
Questa nuova maggioranza approfitterebbe del momento per cancellare la neonata riforma costituzionale, in fondo in vigore da pochi mesi, mai usata e pensata addosso a un uomo morto. La modifica avverrebbe con doppia lettura come prescrive la costituzione, la Corte non potrebbe opporsi. Subito dopo il parlamento vota ed elegge presumibilmente Pinay come Presidente, battendo il candidato delle sinistre Mendes France. Pinay riconferma immediatamente d’Estaing e gli Indipendenti Repubblicani finiscono per assorbire buona parte del blocco gollista.

Presidenti della IV Repubblica 2.0:
4 Antoine Pinay 1962-1976 Repubblicano
5 Pierre Mendes France 1976-1982 Socialista
Facente Funzioni Alain Poher 1982 Centro Democratico
6 Alain Poher 1982-1989 Centro Democratico
7 Jacques Delors 1989-1996 Indipendente di centrosinistra
8 Raymond Barre 1996-2003 Unione Democratica
9 Michel Rocard 2003-2010 Socialista
10 Lionel Jospin 2010-2016 Socialista
11 Alain Juppé 2016-2021 Repubblicano

Primi Ministri:
Valery Giscard d’Estaing 1963-1976 Repubblicano
Gaston Defferre 1976-1981 Socialista
Raymond Barre 1981-1986 Unione Democratica
Michel Rocard 1986-1996 Socialista
Jacques Chirac 1996-2001 Repubblicano
Lionel Jospin 2001-2006 Socialista
Alain Juppè 2006-2011 Repubblicano
François Hollande 2011-2016 Socialista
François Fillon 2016-2021 Repubblicano

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Ma Perchè No? obietta:

La tua idea non é realizzabile per diverse ragioni:

1- Il processo di revisione costituzionale sarebbe impossibile, secondo la costituzione un presidente ad interim ha dei poteri limitati, per esempio gli é impedito di sciogliere l'assemblea o di condurre in porto una riforma costituzionale. Monnerville può teoricamente cambiare di premier ma non avrebbe il tempo di fare qualsiasi cosa, l'elezione presidenziale diretta doveva essere organizzata entro 35 giorni dopo l'inizio dell'interim.

2- Non potrebbe usare una ragione tecnica per abolire il suffragio universale diretto perché i suoi poteri sono limitati, perché non ha la legittimità democratica limitata per respingere il risultato di un referendum che ha approvato la revisione appena qualche mese prima. Perché anche se tenta una nuova revisione costituzionale non ne avrebbe il tempo (solo 35 giorni) e non avrebbe i numeri (deve avere con lui i 3/5 del congresso).

3- Giscard d'Estaing, benché già visto come un futuro importante uomo politico, non era ancora capace di mobilitare un partito o una fazione, anche usando Pinay. Per di più in questo momento sarebbe probabilmente nei guai. É stato rivelato nel 2015 che dava informazioni all'OAS ed era forse legato all'attentato del Petit-Clamart (era a favore dell'Algeria francese). In caso di morte di De Gaulle e di indagini più approfondite, questo fatto potrebbe essere rivelato prima o spingere Giscard a rimanere più discreto.

4- Monnerville e i suoi sostenitori diventerebbero immediatamente molto impopolari. Il suffragio universale diretto é stato visto come una riforma democratica da molti Francesi (che l'hanno approvata) e un ritorno al suffragio indiretto sarebbe visto come la confisca arbitraria di un loro diritto.

5- Tutto questo si svolgerebbe dopo la morte violenta di De Gaulle e in questi casi la popolarità del defunto santificherebbe tutta la sua opera per mesi, chiunque tentasse di toccare la sua memoria sarebbe mediaticamente crocifisso come complice dell'assassino. Il partito gollista avrebbe allora gioco facile a denunciare Monnerville e i suoi come i veri traditori di De Gaulle e alleati dei terroristi. Farebbero un vero ostruzionismo ai suoi progetti di cancellare la riforma costituzionale, che non arriverebbe in tempo per concludersi prima dell'elezione presidenziale.

6- Sapendo tutto questo, né il centro né i socialisti sarebbero abbastanza folli per imbarcarsi nell'avventura quando sono in piena campagna elettorale di emergenza. Monnerville stesso non ci avrebbe provato secondo me. Una critica di De Gaulle é molto probabile, ma senza dubbio molti anni dopo, verso la fine della presidenza Pompidou (diciamo attorno all'epoca dell'agitazione studentesca del maggio 1968).

7- Sarebbe un disastro di comunicazione. Che sia Monnerville o un candidato suo alleato, dovrebbe prima farsi eleggere presidente, dunque a suffragio universale diretto, e poi condurre una revisione abolendo lo stesso suffragio diretto. Cosa si direbbe di un capo di Stato che si fa eleggere prima per poi confiscare il diritto di votare a vantaggio del suo partito in assemblea? Non mancherebbe di farsi accusare di tirannia o di golpe legale.

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Ed ora, un'idea di Enrico:

Sono in corso i Campionati Mondiali di Calcio del 1966 in Inghilterra. Con il gol di Pak Doo Ik, il 19 luglio all'Ayresome Park di Middlesbrough la Repubblica Popolare Democratica di Corea elimina clamorosamente l'Italia e conquista, in maniera insperata, la qualificazione ai quarti di finale. L'avversario è il Portogallo del temibilissimo Eusebio, ma le cose si mettono ancora bene...

POD: 23/6/1966, Liverpool. Al 25' del primo tempo la Corea del Nord è in vantaggio per 3-0 contro il Portogallo nei quarti di finale. Contrariamente a quando avvenuto nella realtà, la reazione del Portogallo è tardiva. Eusebio accorcia le distanze su rigore al 59' e Josè Augusto segna il 2-3 all'80'. Nonostante un arbitraggio chiaramente favorevole, la Corea vince e va in semifinale.
A Pyongyang la notizia viene data nel bel mezzo della notte e la gente scende in strada a celebrare l'incredibile successo. Adesso di fronte ai coreani ci saranno i padroni di casa dell'Inghilterra, ma poco importa.

A Wembley, storicamente un'arena impossibile per ogni squadra avversaria, gli inglesi prendono in simpatia la Corea del Nord che si guadagna gli applausi dei tifosi britannici all'entrata in campo.
La partita è dominata dagli inglesi, che però faticano soprattutto sul piano della corsa. Il gol del vantaggio arriva solo a 10' dalla fine con Bobby Charlton, ma neppure due minuti dopo Pak Seung Zin si guadagna un rigore che lui stesso trasforma. Si va ai supplementari, ma non succede nulla. La sorte sorride ancora alla Corea: la monetina dice che in finale ci vanno gli asiatici.

In finale c'è un altro pasticcio: la Corea del Nord è uno stato ufficialmente in guerra con l'Inghilterra, motivo per il quale sono state proibite bandiere ed inni nazionali per tutte le partite tranne quella di apertura (dove la Corea non compariva) e la finale (dove non si pensava che la Corea potesse arrivare).
Contro la Germania Ovest si consuma la vendetta dell'oltrecortina, con l'inno coreano che risuona a Wembley. Gli inglesi, nonostante l'eliminazione, supportano apertamente la nazionale asiatica, ma questa volta non ce n'è per nessuno e finisce 2-0 per i tedeschi che possono sollevare la seconda coppa del mondo, 12 anni dopo il trionfo di Berna.
Al rientro i giocatori vengono acclamati come degli eroi.

Luglio 1968: Lee Dong Won, attaccante della Corea del Nord ai mondiali inglesi, viene acquistato dall'Arsenal in cambio di un congruo compenso per la squadra del Rodongja, nella quale militava, e per il governo nordcoreano in modo da avere il nulla osta. La carriera inglese di Lee Dong Won è piuttosto breve e nonostante uno scudetto, vinto senza incidere, ritorna in patria nel 1973.

Settembre 1988: Kim Il Sung apre ufficialmente i controversi giochi olimpici di Pyongyang. Ultimo tedoforo è Pak Doo Ik, il "dentista" castigatore dell'Italia, in realtà istruttore di educazione fisica. La Corea del Sud boicotta i giochi, mentre gli Stati Uniti si presentano dopo la linea distensiva proposta dal presidente nordcoreano tre anni prima.

Maggio 2000: si aprono le frontiere fra Corea del Nord e Corea del Sud. La dittatura comunista è crollata due anni prima in seguito alla prematura morte di Kim Jong Il ed il vuoto di potere conseguente. Nasce la Repubblica di Corea.

Giugno 2002: ai mondiali nippo-coreani viene inserita, fra le città ospitanti, anche Pyongyang. La nazionale coreana, rafforzata dagli elementi della nazionale del Nord, arriva in finale contro il Brasile e perde 2-0.

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Che ne dite? Se volete commentare queste ucronie, scriveteci a questo indirizzo.


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