di aNoNimo
In un remoto villaggio fra i
monti viveva un tempo un contadino che, vedovo, condivideva con l'unica figlia
il duro lavoro dei campi.
Donata, era questo il nome della ragazza, sebbene ventenne nonché di gradevole
aspetto e di pronta intelligenza, non aveva trovato marito in quanto il padre
non possedeva abbastanza per costituirle una dote.
Un giorno, all'alba, il brav'uomo, mentre era intento a dissodare le zolle del
suo piccolo podere, mise allo scoperto un oggetto che luccicò al sole nascente e
che, prontamente ripulito, risultò essere un mortaio d'oro. Eccitato, felice,
interruppe il lavoro e si affrettò a far ritorno al villaggio per mostrarlo alla
figlia.
Donata se lo rigirò perplessa fra le mani. "È d'oro massiccio", convenne, "ma
credo sia di scarsa utilità. Nessuno qui ha abbastanza soldi per poterlo
comprare e se proviamo a venderlo in città c'è il rischio che ci accusino di
averlo rubato".
Il buon uomo, che aveva costruito tanti sogni su quell'improvvisa fortuna,
controvoglia dovette ammettere che sua figlia aveva ragione. Stette a pensarci
un po' su, poi alfine decise: "Lo porterò in dono al re. Nella sua magnanimità
non mancherà di ricompensarmi generosamente, così, finalmente, riuscirò a
realizzarti il corredo e la dote".
Donata scosse il capo dubbiosa. "Sono sicura che il re non ti darà alcuna
ricompensa", avvertì. "Piuttosto ti dirà: Il mortaio è
raro e bello, ma, villan, dov'è il pestello?"
L'uomo si mostrò profondamente seccato dalla saccenteria e dalle continue
obiezioni che gli muoveva la figlia. "Che sai tu dire?" la rimbeccò. "Un re non
può essere che giusto e buono, altrimenti non sarebbe re".
Fu così che, fermo nella propria decisione, il giorno successivo, di buon'ora,
si mise in cammino alla volta della città. Era l'imbrunire quando bussò alla
porta del palazzo reale e, informate le guardie circa il prezioso rinvenimento,
fu ammesso al cospetto del re.
Il sovrano, sprofondato in atteggiamento pensoso fra i cuscini di velluto del
trono, lo degnò appena di uno sguardo. Soggezionato, profondendosi in inchini
goffi e scomposti, il povero contadino pose ai suoi piedi il mortaio senza
profferire parola. Il re lo prese, lo rigirò a lungo fra le mani, lo considerò
ammirato ma alfine, in tono di rimprovero, disse: "Il
mortaio è raro e bello, ma, villan, dov'è il pestello?" Sorpreso, l'uomo,
scordando il contegno ossequioso cui era tenuto, si drizzò nella persona
menandosi nel contempo una sonora pacca sull'anca. "Che cretino sono stato!"
sbottò. "Avrei fatto meglio a dare ascolto a mia figlia".
Il re inarcò le sopracciglia. "Tua figlia cosa suggeriva?" si informò.
"Vostra maestà non la tenga per offesa", si affrettò a chiarire il contadino,
mordendosi le labbra e maledicendo fra sé la propria impulsività. "Mia figlia
aveva previsto che vostra maestà avrebbe pronunciato le esatte parole testè
dette".
"Si diletta forse di magia nera?" indagò il re sospettoso. "Assolutamente no,
maestà", respinse con forza il contadino e si segnò il petto e la fronte con la
croce. "Mia figlia è devota alla Vergine e non manca di ascoltare messa ogni
domenica. Solo è una ragazza saggia".
Se è saggia come tu dici", replicò il re, "ordinale di comparire alla mia
presenza, ma faccia in modo che non venga né di notte né di giorno, né a piedi
né a cavallo, né nuda né vestita, né digiuna né sazia. Ora va e non provare ad
ingannarmi perché la mia collera ti raggiungerebbe ovunque, anche ai confini del
mondo".
Il pover'uomo rifece a ritroso il cammino nella notte, maledicendo la propria
ingenuità e raccomandandosi a tutti i Santi del Paradiso. Paventava l'ira del re
e già si figurava fustigato e rinchiuso in una putrida cella, punito per la
propria arroganza. A rendere più gravoso il suo sconforto era il pensiero di
aver ridotto Donata in miseria, in quanto il re non avrebbe mancato di
confiscargli il podere.
Giunse a casa a mattino inoltrato. A Donata che lo aveva atteso in ansia, senza
chiudere occhio, non dette il tempo di parlare. Si accasciò esausto su di una
sedia e cominciò a gemere ed a lamentarsi: "Poveri noi. Le disgrazie mele vado
proprio a cercare. Ti avessi dato retta, figlia mia!"
Donata tirò fuori dalla credenza pane e formaggio. "Non c'è ragione di
crucciarsi", lo rincuorò. "Io sulla ricompensa non ci ho mai contato. Poveri
eravamo e poveri siamo rimasti".
"È successo di peggio", gemette il pover'uomo, visibilmente sconvolto.
Donata si fece seria, apprensiva. "Ti hanno accusato di furto?" interrogò
allarmata. "Ti hanno depredato? Qualcuno ti ha minacciato?"
L'uomo scosse il capo sconsolato e, tutto d'un fiato, riferì alla figlia
l'assurda richiesta del re. La ragazza rifletté un istante, poi, rasserenata
dall'intuizione di una possibile soluzione, esortò il padre a consumare il suo
frugale pasto ed a recuperare almeno in parte il sonno perduto.
Impiegò l'intera giornata nella ricerca di una robusta capra e di una rete da
pescatore, quindi, serbata una castagna nel pugno, si denudò, si avvolse nalla
rete e, montata in groppa alla capra, parti alla volta della città che
annottava.
Raggiunse la reggia che l'aurora schiariva l'orizzonte. Le guardie, sebbene
insonnolite, non potettero che apprezzare l'insolita apparizione e, tutte, le
si fecero intorno, ammiccando, ammirandola, interrogandola premurose, ma alla
richiesta di ammetterla alla presenza del re decisamente si opposero. "Ho
assoluta urgenza di vederlo", sostenne lei caparbia, alzando il tono della
voce.
"Sua maestà sta riposando e non può essere disturbata", tentavano di spiegare
gli armigeri; ma la ragazza non intendeva ragioni.
"Debbo conferire col re", cominciò ad urlare con voce stridula, spronando la
capra nell'intento di aprirsi un varco.
"Zitta, sciagurata", raccomandavano quelli. "Ci rincrescerebbe che una siffatta
figliola finisse ad invecchiare nei sotterranei del castello".
"Lasciatemi passare", continuava ad insistere lei. "E' di vitale importanza che
conferisca subito col re".
Dei lumi si accesero nella reggia. Scalpiccii e voci concitate fiorirono
ovunque. Tutto quel trambusto finì col destare il sovrano che, furente, venne
alla finestra. Come lo vide, Donata gli si rivolse direttamente:
"Sono Donata, sire", gli gridò, "la figlia del villico che vi ha fatto dono del
mortaio d'oro".
Alla vista delle fattezze armoniche della ragazza, che la rete da pescatore mal
celava, l'ira del re sbollì per cedere il posto all'ammirazione. Tuttavia il
tono della voce si conservò autoritario: "Ti avevo fatto chiedere di comparire
al mio cospetto non di giorno, ma neppure di notte", le ricordò.
"Vi pare che sia già giorno, sire?" domandò lei di rimando, per nulla
intimidita.
"No, non posso affermare che sia già giorno", convenne il re.
"E ritenete che sia ancora notte?" incalzò lei.
"No, neppure questo posso affermare", ammise il re. "Comunque avevo chiesto che
venissi non a piedi, ma neppure a cavallo".
"Come potete vedere, sire, sono in groppa ad una capra; ma non si può dire chela
cavalchi in quanto ho i piedi al suolo, né che cammini, in quanto mi lascio
portare da essa", argomentò Donata.
"Può darsi che tu abbia ragione", concesse il re; "ma ti vedo coperta, e
l'ordine era di presentarti non vestita né nuda".
"Vostra maestà ritiene una rete da pescatore sufficiente a vestire un corpo?"
interrogò Donata.
"In effetti non basta", concordò il re. "E nel contempo dovete ammettere che
nuda non sono in quanto indosso questo seppur singolare vestito".
Il monarca annuì. Donata dischiuse il pugno e si affrettò a mangiare la castagna
che aveva serbato sino ad allora. "E dell'ultima condizione cosa puoi dirmi?"
domandò il re che, smesso l'iniziale piglio austero, appariva ormai divertito.
"Come vostra maestà ha potuto costatare", fece notare Donata, "ho appena finito
di mangiare una castagna, quindi digiuna non sono. Peraltro, sebbene la povera
gente come me sia avvezza a contentarsi del poco cibo lasciato da censi e
gabelle, non può bastare una sola castagna a saziarmi". Il re, sedotto
dall'arguzia oltre che dalla bellezza di Donata, ordinò alle guardie di
introdurla al proprio cospetto. "Sei saggia ed astuta", riconobbe ammirato,
"pertanto sarai la mia sposa. Però", avvertì, "ricorda che mai, e per nessuna
ragione, dovrai interferire col mio operato".
Le nozze furono solenni e fastose, e per Donata ebbe inizio una vita da favola.
Passarono i mesi e venne il tempo della vendemmia. Un povero contadino, venuto
in città per la fiera col suo carico d'uva, nell'intento di arrotondare i suoi
miseri proventi, dette a nolo la propria asina incinta ad un commerciante del
luogo perché ne trainasse il carro fino ad un paese vicino. Il caso volle che
durante il tragitto l'asina partorisse ed il commerciante, adducendo a pretesto
la circostanza che l'evento si fosse verificato fra le stanghe del suo carro,
rivendicò il possesso del puledro. La questione fu sottoposta al giudizio del re
il quale, ascoltate le ragioni dell'uno e dell'altro, ritenne valida la tesi del
commerciante.
Il contadino era disperato. Tutta la giornata si aggirò, dolente, nei pressi
della reggia. Non riusciva a rassegnarsi all'ingiustizia patita, né aveva il
coraggio di tornare al suo villaggio dove la moglie non avrebbe inteso ragioni.
Fu così che Donata, durante la sua passeggiata vespertina, lo sorprese in
lacrime ai margini del parco ed apprese quanto era accaduto. Sebbene memore
dell'impegno assunto col proprio sposo, impietosita, non potette esimersi dal
consigliargli un espediente che forse gli avrebbe consentito di rientrare in
possesso del puledro, raccomandandogli però di non rivelare ad alcuno l'origine
del suggerimento. Rincuorato, il contadino, fece solenne promessa e, il mattino
successivo, come dettogli, si portò nel giardino del re e prese a trascinare nel
prato una lunga rete da pesca.
Quando, poco più tardi, il monarca si destò e venne alla finestra, scorgendo lo
impegnato in tale strana attività, lo interpellò incuriosito: "Cos'è che stai
facendo, villano?"
"Come vostra maestà illustrissima può vedere, sto pescando", rispose il
contadino senza fermarsi.
"Da quando il prato dà pesci?" interrogò il re divertito.
"Da quando i carri mettono al mondo asinelli", fu la pronta risposta.
Il re ne fu irritato. Chi poteva aver suggerito a quel rozzo villico ignorante
una tale messinscena allo scopo di contestare il giudizio con cui, il giorno
innanzi, aveva chiuso la vertenza che lo aveva visto contrapposto ad un onesto e
rispettato commerciante del luogo? Qualcuno osava criticare la sua
imparzialità, screditare l'amministrazione della giustizia, seminare il dubbio
e lo scontento fra i sudditi. Tali dissensi andavano stroncati sul nascere se
non si voleva incorrere nel pericolo dell'anarchia.
In preda a queste tumultuose considerazioni, non esitò ad ordinare alle
guardie di trascinare l'uomo al suo cospetto. "Son disposto a perdonare la tua
arroganza", promise, "ed anche a farti rendere il puledro, purché tu mi faccia
il nome di colui che ti ha consigliato un tale stratagemma".
"Nessuno mi ha consigliato, maestà", farfugliò il contadino, tremante.
"Se ti ostini a tacere", minacciò il re, "ti farò decapitare e confischerò tutti
i tuoi beni".
Il contadino sbiancò in viso. Nonostante il terrore gli fiaccasse le membra,
non intendeva mancare alla promessa fatta. "Lo giuro, maestà; nessuno mi ha
consigliato", insistette.
Il re si levò in piedi, furente. "Consegnatelo all'inquisitore perché lo faccia
confessare", urlò. "E se nonostante le torture si ostina a tacere, affidatelo al
boia affinché venga giustiziato sulla pubblica piazza a mo' di esempio per
tutti".
Il pover'uomo si senti venir meno. Le guardie lo afferrarono per le braccia,
pronte a trascinarlo via. "Pietà", egli supplicò fra le lacrime, ma la rude
inflessibilità degli armigeri lo convinse che sarebbe stato inutile invocare
clemenza. "Il consiglio mi è stato dato dalla regina, vostra consorte",
confessò allora tutto d'un fiato.
Il re fu profondamente turbato da tale rivelazione. Fedele alla parola data,
dispose che l'uomo fosse liberato e che il puledro gli venisse restituito,
quindi ordinò che si convocasse d'urgenza la regina.
Donata non si mostrò affatto sorpresa dell'insolito invito a comparire dinanzi
al suo sposo nella sala delle udienze. Era consapevole di aver contravvenuto
alle regole, ma non ne era affatto pentita. Aveva agito di istinto, obbedendo al
proprio senso di giustizia, ed era pronta a subirne le conseguenze. Il re
appariva sinceramente rammaricato. Era innamorato della sua sposa, ma non poteva
permettere che i sentimenti personali ostacolassero i suoi doveri di sovrano.
Evitò di incrociarne lo sguardo. "Hai dimostrato di non essere alfine tanto
saggia", esordì. "Sei venuta meno all'impegno di non interferire nel governo del
regno, e ciò ti impone di lasciare la mia dimora. Comunque, pur se ti ho sposata
senza che possedessi un abito da mettere in dosso, a riprova della mia
magnanimità, ti consento di portare con te ciò che di più prezioso ritieni
contenga questo palazzo".
"Non posso darvi torto, sire", convenne Donata. "Permettetemi solo di restare
qui ancora una notte, in modo che possa vagliare, fra le tante cose a me care,
ciò che maggiormente potrebbe consolarmi della perdita della mia privilegiata
condizione".
II re annuì. "Ti concedo di pernottare a palazzo, ma esigo che alle prime luci
dell'alba tu ne sia lontana".
Quella sera, a cena, Donata nascostamente versò una fiala di sonnifero nella
coppa del vino del re e questi, dopo averne bevuto solo pochi sorsi, cadde in un
sonno profondo. Lei dispose che si approntasse in tutta fretta un cocchio e vi
fece caricare il re addormentato. Quindi salì a cassetta e, senza scorta, spronò
i cavalli alla volta del villaggio natio, diretta alla casa paterna.
Qui giunta, con l'aiuto dell'anziano genitore, trasportò il suo sposo in quella
che era stata la sua camera e ve lo adagiò sul letto.
Al mattino il monarca fu destato dal canto dei galli e dall'operoso risveglio
della campagna. Sorpreso, disorientato, si rizzò a sedere sul misero letto di
spoglie. "Dove sono?" interrogò.
Dalla penombra venne fuori Donata che lo aveva vegliato l'intera notte. "In casa
mia", gli rispose. "In casa tua!?" si stupì il re. "E cosa ci faccio io in casa
tua?"
"Perdonatemi, maestà", gli disse Donata. "Siete stato voi ad autorizzarmi a
portare con me quanto di più prezioso ritenessi fosse a palazzo. E la cosa più
preziosa, per me, siete voi".
Il re, commosso, l'abbracciò. "Donata", le disse, "sei una cara, saggia ragazza
e qualsiasi uomo al mondo, persino il più potente dei re, non potrebbe che
considerarsi fortunato di averti come sposa. Ti prometto che da oggi mai più
prenderò una decisione senza averti prima interpellata."
aNoNimo