di aNoNimo
In un remoto villaggio fra i
monti viveva un tempo un contadino che, vedovo, condivideva con l'unica figlia
il duro lavoro dei campi.
Donata, era questo il nome della ragazza, sebbene ventenne nonché di gradevole
aspetto e di pronta intelligenza, non aveva trovato marito in quanto il padre
non possedeva abbastanza per costituirle una dote.
Un giorno, all'alba, il brav'uomo, mentre era intento a dissodare le zolle del
suo piccolo podere, mise allo scoperto un oggetto che luccicò al sole nascente e
che, prontamente ripulito, risultò essere un mortaio d'oro. Eccitato, felice,
interruppe il lavoro e si affrettò a far ritorno al villaggio per mostrarlo alla
figlia.
Donata se lo rigirò perplessa fra le mani. "È d'oro massiccio", convenne, "ma
credo sia di scarsa utilità. Nessuno qui ha abbastanza soldi per poterlo
comprare e se proviamo a venderlo in città c'è il rischio che ci accusino di
averlo rubato".
Il buon uomo, che aveva costruito tanti sogni su quell'improvvisa fortuna,
controvoglia dovette ammettere che sua figlia aveva ragione. Stette a pensarci
un po' su, poi alfine decise: "Lo porterò in dono al re. Nella sua magnanimità
non mancherà di ricompensarmi generosamente, così, finalmente, riuscirò a
realizzarti il corredo e la dote".
Donata scosse il capo dubbiosa. "Sono sicura che il re non ti darà alcuna
ricompensa", avvertì. "Piuttosto ti dirà: Il mortaio è
raro e bello, ma, villan, dov'è il pestello?"
L'uomo si mostrò profondamente seccato dalla saccenteria e dalle continue
obiezioni che gli muoveva la figlia. "Che sai tu dire?" la rimbeccò. "Un re non
può essere che giusto e buono, altrimenti non sarebbe re".
Fu così che, fermo nella propria decisione, il giorno successivo, di buon'ora,
si mise in cammino alla volta della città. Era l'imbrunire quando bussò alla
porta del palazzo reale e, informate le guardie circa il prezioso rinvenimento,
fu ammesso al cospetto del re.
Il sovrano, sprofondato in atteggiamento pensoso fra i cuscini di velluto del
trono, lo degnò appena di uno sguardo. Soggezionato, profondendosi in inchini
goffi e scomposti, il povero contadino pose ai suoi piedi il mortaio senza
profferire parola. Il re lo prese, lo rigirò a lungo fra le mani, lo considerò
ammirato ma alfine, in tono di rimprovero, disse: "Il
mortaio è raro e bello, ma, villan, dov'è il pestello?" Sorpreso, l'uomo,
scordando il contegno ossequioso cui era tenuto, si drizzò nella persona
menandosi nel contempo una sonora pacca sull'anca. "Che cretino sono stato!"
sbottò. "Avrei fatto meglio a dare ascolto a mia figlia".
Il re inarcò le sopracciglia. "Tua figlia cosa suggeriva?" si informò.
"Vostra maestà non la tenga per offesa", si affrettò a chiarire il contadino,
mordendosi le labbra e maledicendo fra sé la propria impulsività. "Mia figlia
aveva previsto che vostra maestà avrebbe pronunciato le esatte parole testè
dette".
"Si diletta forse di magia nera?" indagò il re sospettoso. "Assolutamente no,
maestà", respinse con forza il contadino e si segnò il petto e la fronte con la
croce. "Mia figlia è devota alla Vergine e non manca di ascoltare messa ogni
domenica. Solo è una ragazza saggia".
Se è saggia come tu dici", replicò il re, "ordinale di comparire alla mia
presenza, ma faccia in modo che non venga né di notte né di giorno, né a piedi
né a cavallo, né nuda né vestita, né digiuna né sazia. Ora va e non provare ad
ingannarmi perché la mia collera ti raggiungerebbe ovunque, anche ai confini del
mondo".
Il pover'uomo rifece a ritroso il cammino nella notte, maledicendo la propria
ingenuità e raccomandandosi a tutti i Santi del Paradiso. Paventava l'ira del re
e già si figurava fustigato e rinchiuso in una putrida cella, punito per la
propria arroganza. A rendere più gravoso il suo sconforto era il pensiero di
aver ridotto Donata in miseria, in quanto il re non avrebbe mancato di
confiscargli il podere.
Giunse a casa a mattino inoltrato. A Donata che lo aveva atteso in ansia, senza
chiudere occhio, non dette il tempo di parlare. Si accasciò esausto su di una
sedia e cominciò a gemere ed a lamentarsi: "Poveri noi. Le disgrazie mele vado
proprio a cercare. Ti avessi dato retta, figlia mia!"
Donata tirò fuori dalla credenza pane e formaggio. "Non c'è ragione di
crucciarsi", lo rincuorò. "Io sulla ricompensa non ci ho mai contato. Poveri
eravamo e poveri siamo rimasti".
"È successo di peggio", gemette il pover'uomo, visibilmente sconvolto.
Donata si fece seria, apprensiva. "Ti hanno accusato di furto?" interrogò
allarmata. "Ti hanno depredato? Qualcuno ti ha minacciato?"
L'uomo scosse il capo sconsolato e, tutto d'un fiato, riferì alla figlia
l'assurda richiesta del re. La ragazza rifletté un istante, poi, rasserenata
dall'intuizione di una possibile soluzione, esortò il padre a consumare il suo
frugale pasto ed a recuperare almeno in parte il sonno perduto.
Impiegò l'intera giornata nella ricerca di una robusta capra e di una rete da
pescatore, quindi, serbata una castagna nel pugno, si denudò, si avvolse nalla
rete e, montata in groppa alla capra, parti alla volta della città che
annottava.
Raggiunse la reggia che l'aurora schiariva l'orizzonte. Le guardie, sebbene
insonnolite, non potettero che apprezzare l'insolita apparizione e, tutte, le
si fecero intorno, ammiccando, ammirandola, interrogandola premurose, ma alla
richiesta di ammetterla alla presenza del re decisamente si opposero. "Ho
assoluta urgenza di vederlo", sostenne lei caparbia, alzando il tono della
voce.
"Sua maestà sta riposando e non può essere disturbata", tentavano di spiegare
gli armigeri; ma la ragazza non intendeva ragioni.
"Debbo conferire col re", cominciò ad urlare con voce stridula, spronando la
capra nell'intento di aprirsi un varco.
"Zitta, sciagurata", raccomandavano quelli. "Ci rincrescerebbe che una siffatta
figliola finisse ad invecchiare nei sotterranei del castello".
"Lasciatemi passare", continuava ad insistere lei. "E' di vitale importanza che
conferisca subito col re".
Dei lumi si accesero nella reggia. Scalpiccii e voci concitate fiorirono
ovunque. Tutto quel trambusto finì col destare il sovrano che, furente, venne
alla finestra. Come lo vide, Donata gli si rivolse direttamente:
"Sono Donata, sire", gli gridò, "la figlia del villico che vi ha fatto dono del
mortaio d'oro".
Alla vista delle fattezze armoniche della ragazza, che la rete da pescatore mal
celava, l'ira del re sbollì per cedere il posto all'ammirazione. Tuttavia il
tono della voce si conservò autoritario: "Ti avevo fatto chiedere di comparire
al mio cospetto non di giorno, ma neppure di notte", le ricordò.
"Vi pare che sia già giorno, sire?" domandò lei di rimando, per nulla
intimidita.
"No, non posso affermare che sia già giorno", convenne il re.
"E ritenete che sia ancora notte?" incalzò lei.
"No, neppure questo posso affermare", ammise il re. "Comunque avevo chiesto che
venissi non a piedi, ma neppure a cavallo".
"Come potete vedere, sire, sono in groppa ad una capra; ma non si può dire chela
cavalchi in quanto ho i piedi al suolo, né che cammini, in quanto mi lascio
portare da essa", argomentò Donata.
"Può darsi che tu abbia ragione", concesse il re; "ma ti vedo coperta, e
l'ordine era di presentarti non vestita né nuda".
"Vostra maestà ritiene una rete da pescatore sufficiente a vestire un corpo?"
interrogò Donata.
"In effetti non basta", concordò il re. "E nel contempo dovete ammettere che
nuda non sono in quanto indosso questo seppur singolare vestito".
Il monarca annuì. Donata dischiuse il pugno e si affrettò a mangiare la castagna
che aveva serbato sino ad allora. "E dell'ultima condizione cosa puoi dirmi?"
domandò il re che, smesso l'iniziale piglio austero, appariva ormai divertito.
"Come vostra maestà ha potuto costatare", fece notare Donata, "ho appena finito
di mangiare una castagna, quindi digiuna non sono. Peraltro, sebbene la povera
gente come me sia avvezza a contentarsi del poco cibo lasciato da censi e
gabelle, non può bastare una sola castagna a saziarmi". Il re, sedotto
dall'arguzia oltre che dalla bellezza di Donata, ordinò alle guardie di
introdurla al proprio cospetto. "Sei saggia ed astuta", riconobbe ammirato,
"pertanto sarai la mia sposa. Però", avvertì, "ricorda che mai, e per nessuna
ragione, dovrai interferire col mio operato".
Le nozze furono solenni e fastose, e per Donata ebbe inizio una vita da favola.
Passarono i mesi e venne il tempo della vendemmia. Un povero contadino, venuto
in città per la fiera col suo carico d'uva, nell'intento di arrotondare i suoi
miseri proventi, dette a nolo la propria asina incinta ad un commerciante del
luogo perché ne trainasse il carro fino ad un paese vicino. Il caso volle che
durante il tragitto l'asina partorisse ed il commerciante, adducendo a pretesto
la circostanza che l'evento si fosse verificato fra le stanghe del suo carro,
rivendicò il possesso del puledro. La questione fu sottoposta al giudizio del re
il quale, ascoltate le ragioni dell'uno e dell'altro, ritenne valida la tesi del
commerciante.
Il contadino era disperato. Tutta la giornata si aggirò, dolente, nei pressi
della reggia. Non riusciva a rassegnarsi all'ingiustizia patita, né aveva il
coraggio di tornare al suo villaggio dove la moglie non avrebbe inteso ragioni.
Fu così che Donata, durante la sua passeggiata vespertina, lo sorprese in
lacrime ai margini del parco ed apprese quanto era accaduto. Sebbene memore
dell'impegno assunto col proprio sposo, impietosita, non potette esimersi dal
consigliargli un espediente che forse gli avrebbe consentito di rientrare in
possesso del puledro, raccomandandogli però di non rivelare ad alcuno l'origine
del suggerimento. Rincuorato, il contadino, fece solenne promessa e, il mattino
successivo, come dettogli, si portò nel giardino del re e prese a trascinare nel
prato una lunga rete da pesca.
Quando, poco più tardi, il monarca si destò e venne alla finestra, scorgendo lo
impegnato in tale strana attività, lo interpellò incuriosito: "Cos'è che stai
facendo, villano?"
"Come vostra maestà illustrissima può vedere, sto pescando", rispose il
contadino senza fermarsi.
"Da quando il prato dà pesci?" interrogò il re divertito.
"Da quando i carri mettono al mondo asinelli", fu la pronta risposta.
Il re ne fu irritato. Chi poteva aver suggerito a quel rozzo villico ignorante
una tale messinscena allo scopo di contestare il giudizio con cui, il giorno
innanzi, aveva chiuso la vertenza che lo aveva visto contrapposto ad un onesto e
rispettato commerciante del luogo? Qualcuno osava criticare la sua
imparzialità, screditare l'amministrazione della giustizia, seminare il dubbio
e lo scontento fra i sudditi. Tali dissensi andavano stroncati sul nascere se
non si voleva incorrere nel pericolo dell'anarchia.
In preda a queste tumultuose considerazioni, non esitò ad ordinare alle
guardie di trascinare l'uomo al suo cospetto. "Son disposto a perdonare la tua
arroganza", promise, "ed anche a farti rendere il puledro, purché tu mi faccia
il nome di colui che ti ha consigliato un tale stratagemma".
"Nessuno mi ha consigliato, maestà", farfugliò il contadino, tremante.
"Se ti ostini a tacere", minacciò il re, "ti farò decapitare e confischerò tutti
i tuoi beni".
Il contadino sbiancò in viso. Nonostante il terrore gli fiaccasse le membra,
non intendeva mancare alla promessa fatta. "Lo giuro, maestà; nessuno mi ha
consigliato", insistette.
Il re si levò in piedi, furente. "Consegnatelo all'inquisitore perché lo faccia
confessare", urlò. "E se nonostante le torture si ostina a tacere, affidatelo al
boia affinché venga giustiziato sulla pubblica piazza a mo' di esempio per
tutti".
Il pover'uomo si senti venir meno. Le guardie lo afferrarono per le braccia,
pronte a trascinarlo via. "Pietà", egli supplicò fra le lacrime, ma la rude
inflessibilità degli armigeri lo convinse che sarebbe stato inutile invocare
clemenza. "Il consiglio mi è stato dato dalla regina, vostra consorte",
confessò allora tutto d'un fiato.
Il re fu profondamente turbato da tale rivelazione. Fedele alla parola data,
dispose che l'uomo fosse liberato e che il puledro gli venisse restituito,
quindi ordinò che si convocasse d'urgenza la regina.
Donata non si mostrò affatto sorpresa dell'insolito invito a comparire dinanzi
al suo sposo nella sala delle udienze. Era consapevole di aver contravvenuto
alle regole, ma non ne era affatto pentita. Aveva agito di istinto, obbedendo al
proprio senso di giustizia, ed era pronta a subirne le conseguenze. Il re
appariva sinceramente rammaricato. Era innamorato della sua sposa, ma non poteva
permettere che i sentimenti personali ostacolassero i suoi doveri di sovrano.
Evitò di incrociarne lo sguardo. "Hai dimostrato di non essere alfine tanto
saggia", esordì. "Sei venuta meno all'impegno di non interferire nel governo del
regno, e ciò ti impone di lasciare la mia dimora. Comunque, pur se ti ho sposata
senza che possedessi un abito da mettere in dosso, a riprova della mia
magnanimità, ti consento di portare con te ciò che di più prezioso ritieni
contenga questo palazzo".
"Non posso darvi torto, sire", convenne Donata. "Permettetemi solo di restare
qui ancora una notte, in modo che possa vagliare, fra le tante cose a me care,
ciò che maggiormente potrebbe consolarmi della perdita della mia privilegiata
condizione".
II re annuì. "Ti concedo di pernottare a palazzo, ma esigo che alle prime luci
dell'alba tu ne sia lontana".
Quella sera, a cena, Donata nascostamente versò una fiala di sonnifero nella
coppa del vino del re e questi, dopo averne bevuto solo pochi sorsi, cadde in un
sonno profondo. Lei dispose che si approntasse in tutta fretta un cocchio e vi
fece caricare il re addormentato. Quindi salì a cassetta e, senza scorta, spronò
i cavalli alla volta del villaggio natio, diretta alla casa paterna.
Qui giunta, con l'aiuto dell'anziano genitore, trasportò il suo sposo in quella
che era stata la sua camera e ve lo adagiò sul letto.
Al mattino il monarca fu destato dal canto dei galli e dall'operoso risveglio
della campagna. Sorpreso, disorientato, si rizzò a sedere sul misero letto di
spoglie. "Dove sono?" interrogò.
Dalla penombra venne fuori Donata che lo aveva vegliato l'intera notte. "In casa
mia", gli rispose. "In casa tua!?" si stupì il re. "E cosa ci faccio io in casa
tua?"
"Perdonatemi, maestà", gli disse Donata. "Siete stato voi ad autorizzarmi a
portare con me quanto di più prezioso ritenessi fosse a palazzo. E la cosa più
preziosa, per me, siete voi".
Il re, commosso, l'abbracciò. "Donata", le disse, "sei una cara, saggia ragazza
e qualsiasi uomo al mondo, persino il più potente dei re, non potrebbe che
considerarsi fortunato di averti come sposa. Ti prometto che da oggi mai più
prenderò una decisione senza averti prima interpellata."
aNoNimo
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La palla passa a Dario Carcano:
Il Libro del Profeta Colin
(Versione attualizzata del Libro di Giona)
Fu rivolta a Colum Vero
questa parola del Signore: "Alzati, va' a Mosca, la grande metropoli, e in essa
proclama che la loro malvagità è salita fino a me".
Colum, detto Colin, era un sacerdote cattolico di Boston. Nato nel 1905 da padre
italiano e madre irlandese, non era diventato sacerdote per vocazione. Terzo di
undici fratelli, Colin era il meno adatto al lavoro fisico, e il più cagionevole
di salute; i suoi genitori lo avevano spedito in seminario semplicemente perché
volevano togliersi di dosso una bocca da sfamare di troppo.
Colin non aveva mai realmente creduto in Dio, e la sua condotta era tutt’altro
che integerrima: beveva, scommetteva sui cavalli e giocava d’azzardo, e aveva
anche avuto delle amanti. Per padre Vero l’abito sacerdotale era solo un modo
come un altro per ricevere uno stipendio, e per questo disprezzava coloro che al
contrario mostravano una sincera fede.
Nel momento in Colin sentì la parola del Signore, egli seppe immediatamente cosa
fare: si imbarcò sulla prima nave diretta verso l’Australia, fuggendo da Dio e
dal suo comando.
Ma Dio scatenò un fortissimo uragano contro la nave, che dopo poche ore di
tempesta rischiava di affondare. Colin non si era accorto di nulla, ed era
sottocoperta a dormire; uno dei passeggeri, un indiano kannadiga e induista,
trovò Colin addormentato e lo svegliò, dicendogli:
"Che cosa fai così addormentato? Alzati, invoca il tuo Dio! Forse si darà
pensiero di noi e non periremo".
Colin e l’indiano si avvicinarono ad un gruppo di cinesi che stavano tirando a
sorte per trovare il responsabile dell’uragano, e dai dadi venne fuori che il
colpevole era proprio padre Vero; l’indiano chiese:
“Chi sei dunque? Da dove vieni? Qual è il tuo mestiere?
E Colin raccontò la sua storia: “Sono un sacerdote americano, e prego l’unico
vero Dio che ha creato il Cielo e la Terra e si è incarnato in Gesù Cristo.”
“Che cosa hai fatto per causare questa sciagura?” gli venne chiesto, e Colin
raccontò di come Dio gli avesse parlato, dicendogli di andare a Mosca, ma lui
avesse disobbedito. Disse poi che, se avessero voluto salvarsi, avrebbero dovuto
gettarlo in mare, e questo avrebbe fatto cessare l’uragano.
Così, il gruppo di cinesi e indiani si raccolse in preghiera, rivolgendo a Dio
la seguente invocazione: "Signore, fa' che noi non periamo a causa della vita di
quest'uomo e non imputarci il sangue innocente, poiché tu, Signore, agisci
secondo il tuo volere". Poi presero Colin e lo gettarono in mare, e
immediatamente il vento si placò e tornò a splendere il sole; da quel giorno
quegli uomini ebbero grande timore di Dio, e tutti cercarono il battesimo.
Nel frattempo, Colin si era messo a nuotare nelle acque dell’oceano, ma dopo
alcune bracciate si accorse che l’oceano era più solido di quanto gli avessero
insegnato a scuola. Realizzò solo allora che un sottomarino era emerso sotto di
lui, e che un gruppo di marinai lo stavano tenendo sotto tiro. Dal fatto che
parlavano russo si accorse che era un sottomarino sovietico, e che lo avevano
scambiato per una spia.
Messo agli arresti in una cella dentro al sottomarino, Colin rivolse al Signore
la seguente preghiera:
"Nella mia angoscia ho invocato il Signore
ed egli mi ha risposto;
dal profondo degli inferi ho gridato
e tu hai ascoltato la mia voce.
Mi hai gettato nell'abisso, nel cuore del mare,
e le correnti mi hanno circondato;
tutti i tuoi flutti e le tue onde
sopra di me sono passati.
Io dicevo: "Sono scacciato
lontano dai tuoi occhi;
eppure tornerò a guardare il tuo santo tempio".
Le acque mi hanno sommerso fino alla gola,
l'abisso mi ha avvolto,
l'alga si è avvinta al mio capo.
Sono sceso alle radici dei monti,
la terra ha chiuso le sue spranghe
dietro a me per sempre.
Ma tu hai fatto risalire dalla fossa la mia vita,
Signore, mio Dio.
Quando in me sentivo venir meno la vita,
ho ricordato il Signore.
La mia preghiera è giunta fino a te,
fino al tuo santo tempio.
Quelli che servono idoli falsi
abbandonano il loro amore.
Ma io con voce di lode
offrirò a te un sacrificio
e adempirò il voto che ho fatto;
la salvezza viene dal Signore."
Quando il sottomarino era in vista della costa russa, Colin approfittò di un
momento di distrazione delle guardie e, infilatosi in un tubo lanciasiluri, si
lanciò fuori dal sottomarino. Il Signore comandò il mare di depositare Colin
sulla spiaggia.
Per la seconda volta, a Colin fu rivolta questa parola dal Signore: "Alzati, va’
a Mosca, la grande metropoli, e annuncia loro quanto ti dico". Colin si alzò e
andò a Mosca secondo la parola del Signore.
Mosca era grande molte giornate di cammino, e padre Vero la percorse in lungo e
in largo predicando: "Ancora quaranta giorni e Mosca sarà stravolta".
I cittadini di Mosca credettero a Dio, e bandirono un digiuno penitenziale cui
parteciparono adulti e bambini. Giunta la notizia fino a Stalin, anch’egli si
coprì il capo di cenere e vestì di sacco; per ordine del Partito e del compagno
Stalin, venne emanato il seguente decreto: "Uomini e animali, armenti e greggi
non gustino nulla, non pascolino, non bevano acqua. Uomini e animali si coprano
di sacco, e Dio sia invocato con tutte le forze; chi non è battezzato riceva il
battesimo, e ognuno si converta dalla sua condotta malvagia e dalla violenza che
è nelle sue mani. Chissà che Dio non cambi, si ravveda, e deponga il suo ardente
sdegno, cosicché noi non abbiamo a perire!".
Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta
malvagia, e Dio si ravvide riguardo al male che aveva minacciato di fare loro, e
non lo fece.
Ma Colin fu sdegnato dalla misericordia di Dio, e disse al Signore: “Signore,
questa è la ragione per cui non volevo venire in Russia, e ho invece tentato di
fuggire in Australia. Perché so che tu sei un Dio misericordioso e pietoso,
lento all'ira, di grande amore e che ti ravvedi riguardo al male minacciato.
Sapevo che appena i russi si fossero convertiti, essi ai tuoi occhi avrebbero
avuto la stessa considerazione che abbiamo noi americani, il popolo più
cristiano del mondo. Dunque, Signore, toglimi la vita, perché preferisco morire
piuttosto che vivere in un mondo in cui i comunisti sono nostri pari nel tuo
amore.”
Ma il Signore gli rispose: "Ti sembra giusto essere sdegnato così?".
Colin allora uscì dalla città e sostò a oriente di essa. Si fece lì una capanna
e vi si sedette dentro, all'ombra, in attesa di vedere ciò che sarebbe avvenuto
nella città. Allora il Signore Dio fece crescere un nocciòlo al di sopra di
Colin, per fare ombra sulla sua testa e liberarlo dal suo male. Colin provò una
grande gioia per quel nocciòlo.
Ma il giorno dopo, allo spuntare dell'alba, Dio mandò un verme a rodere la
pianta e questa si seccò. Quando il sole si fu alzato, Dio fece soffiare un
vento afoso. Il sole colpì la testa di Colin, che si sentì venire meno e chiese
di morire, dicendo: "Meglio per me morire che vivere".
Dio disse a Colin: "Ti sembra giusto essere così sdegnato per questo nocciòlo?".
Egli rispose: "Sì, è giusto; ne sono sdegnato da morire!". Ma il Signore gli
rispose: "Tu hai pietà per quella pianta per cui non hai fatto nessuna fatica e
che tu non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta e in una notte è
perita! E io non dovrei avere pietà di Mosca, quella grande città, nella quale
vi sono milioni di persone? Devo forse avere il tuo permesso per amare i tuoi
nemici, ed essere disposto a perdonarli?"
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E ora, la parola a Tommaso Mazzoni:
La Pulce d'Acqua
Una piccola fiaba ispirata a questa canzone:
C'era una volta tanto tempo fa, in un piccolo villaggio un giovane di nome Angiolino, un pastorello dalla belissima voce, che viveva con la nonna vicino ad un ruscello; sua nonna gli diceva sempre "Angiolino, il ruscello è un posto dove vige una tregua magica; nessun animale può essere ucciso sulle sue sponde."
Ma un giorno d'autunno Angiolino mentre beveva senti ronzare una mosca. Agitò la mano per scacciarla, e la schiacciò. Allora dalla roccia dove la mosca era morta usci una serpe verde con gli occhi dorati che ammonì Angiolino: "Quel che hai fatto non è giusto, chiedi scusa!!"
Ma Angiolino diede un pestone alla serpe che fuggi via.
Angiolino riprese a bere, e ad un certo punto sentì un morso sul naso. Il pastorello imprecò, e poi tornò a casa. Quella sera si sentì male, gli salì la febbre e non riusciva a dormire. Allora sua nonna vide il rossore sul suo naso, e chiese al nipote cosa fosse successo.
Angiolino raccontò quello che aveva fatto. La nonna sospirò, fece alzare il nipote eaccese la lanterna. Meraviglia! Angiolino non aveva l'ombra.
"Ti avevo avvisato, ragazzo mio", spiegò la nonna "La pulce d'Acqua, che vigila sulla tregua del ruscello, ti ha rubato l'ombra, per punirti di aver ucciso la mosca e scacciato in malo modo la serpe verde."
Angiolino fu stupito e andò in cerca della sua ombra, ma per quanto la chiamasse l'ombra non tornava.
Allora, disperato, Angiolino chiese alla nonna" cosa posso fare?"
La nonna rispose " Devi cantare, figliolo. Canta tutta la notte con la tua bella voce, per chiedere scusa alla serpe e alla mosca."
E Angiolino cantò, tutta la notte fino all'alba, senza stancarsi; dalla roccia emerse la serpe verde e man mano che Angiolino cantava diventava più grande. Poi, all'improvviso, mutò la pelle e si trasformò in una bellissima ragazza con gli occhi verdi come la pelle della serpe e i capelli dorati come i suoi occhi.
"Io sono Scitale, regina dei serpenti" spiegò. "E con il tuo canto, ti mi hai fatto innamorare di te!"
Angiolino la guardò, e anche lui fu perdutamente innamorato. "Se vuoi sposarmi, prendi la mia pelle, e gettala nel ruscello."
Lui lo fece ed ecco che la Pulce d'Acqua balzo fuori, la mangiò e divenne grande come un uomo.
"Angiolino, accetto il tuo grazioso dono", disse. "Ecco la tua ombra", e la sputò fuori.
Angiolino sentì la febbre lasciarlo e ringraziò la pulce d'acqua, che, tornata piccola, scomparve nel ruscello.
Angiolino portò Scitale a casa, e la sposò con la benedizione della nonna e i due vissero per sempre felici e contenti.
Larga è la foglia, stretta è la via scrivete la vostra, che ho scritto la mia.