Il segreto del successo

di William Wallace


In una malinconica sera di qualche anno fa, mentre facevo la spola tra Ginevra e Bonn per motivi di lavoro, mi capitò per uno strano caso del destino di perdere per una manciata di minuti il mio volo. Chiamai immediatamente casa e spiegai lo spiacevole imprevisto, avvertendo che sarei salito sul primo volo disponibile l'indomani mattina e che, essendo ormai in aeroporto, avrei lì atteso le luci del giorno. Mentre mi preparavo alla bell'e meglio a passare la notte su una scomoda poltrona della sala d'attesa, rassegnato al mal di schiena che mi avrebbe dato amorevolmente il buongiorno il mattino successivo, mi accorsi improvvisamente di essere solo. Mi guardai attorno alla ricerca di qualche altro sfortunato esemplare di uomo d'affari, ma non potei che constatare l'assenza più assoluta del ben che minimo segno di vita. Le serrande dei negozi erano mestamente abbassate e finanche il bar sembrava aver chiuso i battenti: solo le luci al neon rimanevano accese, dandomi la malaugurata impressione, con il loro tremolio, di trovarmi in un reparto d'ospedale d'infimo grado. Stupito della mia condizione di naufrago, ma sopraffatto dalla stanchezza accumulata durante la lunga giornata, mi avvolsi nel cappotto e stringendo bene tra le braccia (non si sa mai) il mio bagaglio a mano mi appisolai.

Quel che successe dopo aleggia nei miei ricordi avvolto da una strana foschia, tanto che non saprei dire se accadde davvero o se soltanto lo immaginai. Fatto sta che, mentre riposavo ospite di Morfeo, mi parve di sentire in lontananza come una musica. Dapprima il suono fu appena percepibile, ma poi prese sempre più forza e vigore ed io mi decisi ad aprire gli occhi. Vidi che il paesaggio intorno a me non era cambiato, eccezion fatta per un tubo al neon che aveva deciso di passare a miglior vita, e diedi un'occhiata assonnata all'orologio: non avevo dormito che per una mezz'ora scarsa, eppure mi sembrava passata un'eternità. Tesi le orecchie rammentando il motivo che mi aveva spinto a lasciare il mondo dei sogni e mi alzai in piedi deciso a scoprirne l'origine. Presi con me il bagaglio, rassettai alla meglio il cappotto cercando di mascherare i maltrattamenti che gratuitamente gli avevo inflitto e, dopo un'ultima occhiata alla poltroncina (non avete idea di quante cose si dimentichino sulle poltrone delle sale d'attesa), mi avviai verso l'ignoto guidato dal mio solo udito. Non feci molta strada che mi resi conto di aver già percorso a perdifiato quel corridoio la sera precedente (o dovrei dire una cinquantina di minuti prima?) nel disperato tentativo di raggiungere il check-in, il quale non tardò a comparire alla mia destra. Sul suo schermo lampeggiava ancora l'identificativo del mio volo, SA 1654 Bonn, accompagnato da un beffardo "Departed": lo guardai per un istante con rinnovato odio prima di proseguire la mia marcia verso quella musica che suonava ora sempre più chiara e, dovetti ammetterlo, sempre più incantevole. Svoltai a destra e poi a sinistra, mentre il rumore sordo dei miei passi rimbombava per i corridoi deserti facendomi assomigliare ad un mediocre ballerino di tip tap, il che, dovetti convenire, contribuiva ad attribuire alla mia figura assonnata un'aria a metà tra il comico e l'assurdo.

Non feci molta strada che mi ritrovai di fronte ad una rampa di scale che indovinai portare ai ristoranti del piano superiore (fast food travestiti da locali di lusso), da dove si poteva godere una suggestiva vista sulle piste di decollo. Immaginai come dovesse sembrare quel luogo alla luce del giorno, i bambini incollati ai vetri e i loro gridolini di giubilo di fronte a un 737 che staccava le ruote dal suolo, la confusione di gambe che si muovevano disordinatamente disegnando sul pavimento lucente le più improbabili traiettorie e le voci, centinaia, che si riunivano in un unico vociare indistinto e mi resi conto della fortuna avuta ad essere lì solo in quel momento, a quell'ora della notte, cullato da quella musica.

Già, la musica. Notai una serranda, in fondo all'immenso salone, che per un qualche motivo aveva deciso di rimanere aperta e avvicinandomi a passi insicuri ebbi in breve la certezza che quella musica, insieme al profumo del caffè appena tostato, provenisse proprio da quel locale. Guardai la mia immagine riflettersi in uno degli specchi che guarnivano una colonna e cercai di darmi un'ultima sistemata prima di mettere piede nel locale: riannodai la cravatta intorno al collo, ravvivai i capelli e mi abbottonai il cappotto cercando di riportare quel mio fisico assonnato agli splendori di un tempo. Presi una boccata d'aria ed infine entrai.

Il posto era un bar di dimensioni normali, con delle grandi vetrate che davano sull'esterno, arredato con gusto alla maniera dei café parigini d'inizio secolo: ovunque era un troneggiare di intrecci e forme svolazzanti in stile liberty e finanche i baffi del barista sembravano essere attratti irresistibilmente da quel tema, tanto che il poveruomo non faceva altro che passarsi le dita sul volto cercando di porre un freno all'intemperanza dei mustacchi. L'uomo, più vicino ai sessanta che ai cinquanta, mi accolse con un caloroso "Buonasera", cui risposi di rimando con un timido sorriso. 

"Cosa posso portarle, signore?"

Lo guardai da capo a piedi, indugiando su una macchia che imbrattava il grembiule, prima di decidermi per un whisky. Lo so, un whisky appena svegli non è roba da poco, ma mi occorreva qualcosa di forte per scansare definitivamente il sonno e riprendere padronanza completa (il che può sembrare un nonsense) delle mie facoltà. Presi il bicchiere e iniziai a sorseggiare quel liquido ambrato, sforzandomi di nascondere le smorfie che mi procuravano i suoi fumi a quell'ora della notte e poi, una volta ristabilitomi, domandai al barista donde provenisse quella musica meravigliosa.

"Oh, ha proprio ragione, è davvero meravigliosa. Di là, vede? Oltre quell'arco c'è un piccolo salottino".

Mi voltai e, seguendo la parabola disegnata nell'aria dal dito del barista, individuai il salottino. Nella penombra mi sembrò di scorgere delle poltroncine di tessuto rosso che, da quella distanza e a quell'ora della notte, mi parve poter essere velluto. Guardai di nuovo in faccia l'uomo con un'aria che dovette sembrargli interrogativa, tanto che si sentì in dovere di invitarmi ad accomodarmi nell'altra stanza. Mi alzai in piedi, raccolsi le mie cose e mi avviai verso l'altro locale. Un odore acre di sigaro mi impregnò le narici ed io ne godetti con avidità (avevo smesso di fumare da poco meno di un anno), apprezzandone l'aroma pungente ma al tempo stesso dolce e la morbidezza con la quale si diffondeva nell'aria disegnando nuvole dalle forme leggere e ovattate. Non c'erano dubbi, si trattava di sigaro e della migliore qualità! Stordito da questa piacevole sorpresa mi dimenticai per un attimo della musica e del motivo che mi aveva spinto fin lì, finché il rumore stridente di una nota fuori luogo mi fece riavere.

"Chiedo scusa", tentennai, "forse la mia presenza la disturba", dissi rivolgendomi ad una figura indistinta che sedeva dietro al piano.

"Niente affatto, è colpa mia. Non mi ero accorto della sua presenza; sa, la musica..." disse interrompendosi di colpo come se stesse per dire qualcosa di scontato. Poi prese tra le dita il sigaro che aveva lasciato riposare sul bordo di un posacenere di vetro e diede una lunga, profonda ed interminabile boccata mentre io, imbarazzato e forse di troppo, me ne stavo in piedi a qualche decina di passi da lui, cappotto in una mano e bagaglio nell'altro.

"Ma prego", aggiunse guardandomi, "si sieda. Venga pure qui vicino, in prima fila se vuole".

Tranquillizzato da quei modi gentili mi feci avanti e mi accomodai su una poltroncina proprio sotto il palchetto dal quale quell'individuo ancora misterioso suonava. Vestiva con un frac nero lucido, di quelli che di solito indossano gli artisti ai loro concerti in teatri di lusso, e un paio di guanti bianchi gli avvolgevano le dita per non contaminare, come mi spiegò in seguito, la poesia di quei tasti con il sudore dell'animo umano. Mi guardò per un lungo, interminabile istante e poi, forse leggendomelo in faccia, mi chiese se non avessi avuto una cattiva giornata. Mi strappò un sorriso che intese come un segno d'assenso e riprese ad accarezzare quei tasti come se non fosse mai stato interrotto. Fu un pezzo breve, di quelli che i pianisti usano per prendere confidenza con lo strumento e, molto probabilmente, con il pubblico prima di iniziare il concerto vero e proprio, ma nonostante ciò l'esecuzione perfetta mi lasciò piacevolmente sorpreso ed io, entusiastico per natura, non potei trattenere un timido applauso.

"Lei è troppo buono, mio caro signore. Ma mi dica, che cosa ci fa a quest'ora della notte in questo posto?"

"Ho perso il volo, poi ho sentito la musica. ed eccomi qui. Ma lei piuttosto, un pianista del suo livello. non mi dirà che suona davvero in questo posto?"

L'uomo rise di gusto di fronte all'ingenuità della mia domanda.

"Voglio rassicurarla", obiettò in tono scherzoso: "sono qui di passaggio. Ho visto il piano e, ahimè, non ho resistito. Deformazione professionale. Molti uomini sono attratti da una bella donna, io preferisco di gran lunga un buon pianoforte."

"Sicuramente ciò le darà meno seccature" convenni.

"Ah, non creda", rispose il pianista ridendo: "il piano sa essere un'amante esigente. E alquanto volubile. A volte litighiamo, ma, devo ammetterlo, poco dopo facciamo la pace. E l'amore, anche. Non mi guardi con quella faccia, dico sul serio." E rise, notando l'aria perplessa che mi aggrottava la fronte.

Poi, dopo aver dato un'altra boccata al suo sigaro, chiamò il barista e chiese una bottiglia di champagne. "Spero vorrà farmi compagnia, mio caro signore." Ed io, prendendo in mano un bicchiere, non potei che brindare alla sua salute.

Sorseggiammo il migliore champagne che io abbia mai bevuto, mentre il mio nuovo amico (chiunque ti offra dello champagne ha diritto ad essere considerato tale) mi scrutava sciogliendosi di tanto in tanto in un sorriso.

Passammo così una buona mezz'ora, prima che il pianista riprendesse a suonare con ritrovato ardore. Dalla mia poltroncina, spettatore privilegiato di uno spettacolo unico, osservavo le dita muoversi con abilità strabiliante, toccando di volta in volta un tasto diverso, movendosi ad una velocità tale che le credetti in grado di racchiudere in un unico tocco tutte le note che quel piano sarebbe stato in grado di produrre. E, devo riconoscerlo, lo vidi con imbarazzo fare l'amore con quello strumento, sentirsi da esso tradito e adirarsi per poi tornare di nuovo tra le braccia di quella sua strana amante. Finì esausto, abbandonandosi privo di fiato allo sgabello che ne aveva assecondato puntigliosamente i movimenti, e solo allora mi rivolse rapido un'altra occhiata.

"Le chiedo scusa, alle volte mi lascio prendere la mano", sospirò. Lo guardai mandare giù due bicchieri di champagne e mi chiesi come potesse mantenere la lucidità necessaria per distinguere ancora i tasti l'uno dall'altro.

"Per stasera basta, credo che il nostro pianoforte, qui, ne abbia avuto abbastanza" aggiunse picchiettando con le nocche della mano sul legno lucido. Poi afferrò svogliatamente il sigaro e lo spense nel posacenere, osservandolo esalare gli ultimi respiri.

Lo guardai perplesso, temendo che la serata fosse giunta ormai al termine e feci per raccogliere le mie cose quando l'uomo mi chiese se non mi andasse di parlare un po'. Mi parve diverso, come se il dovere abbandonare la sua amante anche solo per pochi istanti gli procurasse una pena infinita che, notai, cercava di dissipare attaccandosi alla bottiglia. Rimasi testimone basito di quella strana metamorfosi, mentre l'imbarazzo iniziava a farsi spazio sul mio volto, che immaginai teso in un'espressione ebete di circostanza. L'uomo non parve notarlo e mi rivolse un sorriso spento.

"Lo sa come è iniziato tutto?" chiese come se si aspettasse una mia risposta. "Con una bottiglia, come questa qui."

Mi tirai su, sporgendomi in direzione del palchetto, per poter meglio prestare attenzione a quella che aveva tutti i presupposti per essere una storia che valeva la pena di essere ascoltata e, mandato giù l'ultimo goccio che aveva atteso paziente sul fondo del mio bicchiere, tesi le orecchie in attesa che lo spettacolo continuasse.

"Iniziai a suonare a diciassette anni, tardi per uno che voglia combinare qualcosa di buono con uno strumento tra le mani. Fu chiaro fin dal principio il mio maestro, questo devo riconoscerlo", e mi guardò come se potessi capire, prima di proseguire.

"Dopo poche lezioni capii di amare la musica più di qualsiasi altra cosa. Certo, all'inizio essa mi respinse con foga e il mio strimpellare non faceva che suscitare malcelati mormorii di disapprovazione nel mio insegnante. Ma fui un amante fedele e insistente. Dopo che la mia domanda per entrare al conservatorio fu respinta, lo confesso, mi persi un po' d'animo e, uscito di lì, presi a camminare sconsolato per le strade di Berna finché non inciampai in un gradino che dava l'accesso ad un locale molto simile a questo. Raccolsi da terra il mio berretto e, saliti i due gradini che davano il benvenuto, o il benservito, ai clienti spinsi la porta del bar. Entrai e l'odore del fumo mi avvolse togliendomi l'aria. Mi feci coraggio e, attraversata la cortina di nebbia mi avvicinai al bancone. Ordinai un bicchierino e poi un altro e poi un altro ancora. In breve feci fuori una bottiglia nell'indifferenza più completa del barista e degli altri avventori che affollavano il locale. E fu così che iniziai a suonare. A suonare per davvero. Tornai a casa ubriaco fradicio, sedetti al piano e iniziai a sfiorarne i tasti, dapprima timidamente e poi via via con foga crescente, mentre mia madre mi guardava stupita, incapace di credere che la musica, perché finalmente di musica si trattò, che giungeva alle sue orecchie fosse stata creata dalle mie dita. Non passò molto tempo che compresi il segreto del successo: lasciarsi andare, mio caro signore, sempre ed in ogni situazione."

Lo guardai con crescente interesse e poi gli sorrisi. "Oh, certo. Un artista non è tale se non riesce a comunicare al pubblico i propri sentimenti", dissi.

L'uomo rise di gusto alla mia affermazione e riprese:

"Non ha proprio capito, mio caro amico:" e il suono della parola amico prese una sfumatura sinistra che mi diede i brividi. "Passò qualche settimana, ma la mia abilità al piano non accennava a migliorare. Tornai nel locale e bevvi dio solo sa quanto. Poi, barcollando, tornai a casa e mi diressi il più velocemente possibile al mio strumento, impaziente di mettermi alla prova. Non successe nulla. Per quanto tentassi, per quanta energia sfogassi su quei maledetti tasti, mi resi conto che non una virgola era cambiata. Uscii in preda ad una rabbia crescente, scaraventando a distanza qualsiasi cosa mi capitasse a tiro, prima di trovarmi, esausto e senza nemmeno sapere come, in un piccolo vicolo maleodorante. Mi guardai attorno e rientrai finalmente in me: avevo camminato così a lungo che senza nemmeno rendermene conto mi trovavo ora in un luogo niente affatto familiare. Il sole iniziava a farsi pallido e la paura (o forse era il freddo) mi agitava come un fuscello al vento. A stento riuscii a controllarmi, mi voltai e feci per ritornare sui miei passi quando all'improvviso mi sentii afferrare con forza alle spalle. Non lo vidi in faccia, sentii soltanto il suo lezzo, e il suo fiato condensarsi sul mio collo mentre la mia faccia sbatteva violentemente contro un muro. Prese ad armeggiare con i miei pantaloni mentre io mi dibattevo come un animale in gabbia: avevo deciso che gli avrei reso la cosa quanto più difficile mi fosse stato possibile."

Fece una pausa, come per osservare l'effetto che le sue parole mi avevano fatto, ed io lo guardai con compassione. Seduto sul suo sgabello, rimpianse forse di aver finito lo champagne ed io lo vidi accarezzare malinconico il bordo del bicchiere prima che riprendesse a raccontare.

"Certo non finì come si aspettava. La mia mano, alla disperata ricerca di una via di fuga, incappò in una pietra. La strinsi con forza e colpii dietro le mie spalle, alla cieca, là dove sentivo il respiro rimbombare nelle orecchie. Colpii una, due, tre volte. La stretta si fece lentamente più debole fino a dissolversi con un tonfo sordo. Mi gettai su di lui e continuai a colpire finché i rantoli divennero sempre più sommessi, prima di cessare del tutto. Gettai il sasso e corsi a perdifiato cercando di ritrovare, tra le tante strade che mi si paravano innanzi, la via di casa. Il giorno dopo composi un'aria per pianoforte con la quale ottenni una borsa di studio e l'accesso al più prestigioso conservatorio di Berna".

Lo guardai incredulo. Un brivido mi percorse la schiena, mentre cercavo di nascondere i miei timori mordendomi nervosamente il labbro. E tuttavia, tacqui. Cercai un modo per troncare la conversazione, ma non riuscii a trovare una scusa plausibile. Temetti di innervosirlo e per la prima volta ebbi davvero paura. Distolsi lo sguardo dalla sua figura e lo posai sulle mie mani, che nervosamente stringevano i braccioli della poltroncina di velluto rosso sangue.

"Ero ancora giovane e sprovveduto, ma avevo finalmente compreso il segreto del successo. Studiando mi resi conto che Mozart, Wilde, Goethe, Poe, avevano anch'essi avuto accesso al grande mistero. Da allora la mia vita fu un crescendo di crimini cui si accompagnarono grandiosi trionfi, mio caro. Uccisi ancora, e ben presto persi il conto. Ed era come se ogni vita si incarnasse in quei tasti, bramosa di parlare di sé attraverso la musica, la mia musica. Grazie a loro, grazie a quelle vite, oggi posso dire di aver raggiunto la perfezione."

Sentivo ormai il sudore impregnarmi la fronte ed ero talmente scosso che non mi accorsi del bicchiere che lentamente rotolava sulle mie gambe prima di cadere rovinosamente a terra andando in frantumi, spargendo schegge di vetro tutt'intorno. Cercai il barista chiamandolo a gran voce, ma le parole mi si spezzavano in gola e dalla mia bocca non uscivano che soffocati ed incomprensibili mormorii. Tremai, e a poco a poco la vista mi si fece sempre più offuscata, finché ad un tratto piombai nel buio più totale.

Mi svegliai madido di sudore, accucciato sulla poltroncina della sala d'attesa, il bavero del cappotto alzato a proteggere il collo, il bagaglio stretto fra le braccia e il mal di schiena a darmi il buongiorno. L'aeroporto brulicava di vita e dall'altoparlante lo speaker invitava un certo signor Hans Huber, del volo per Berlino, ad affrettarsi all'imbarco 11. Mi portai una mano d'innanzi alla bocca per mascherare uno sbadiglio, mi lisciai i capelli e accarezzandomi la barba lunga di un giorno iniziai a chiedermi come fossi finito lì, io che probabilmente avrei dovuto giacere ora immobile da qualche parte in quell'aeroporto. Risi di gusto, suscitando lo sguardo ostile di un addetto delle pulizie il quale si risentì a tal punto che neppure il mio excuse moi riuscì a dissiparne l'astio (che potevo farci? Ero felice!). Respirai avidamente come se fosse la prima volta, elargendo sorrisi agli sconosciuti viaggiatori che, senza prestarmi attenzione, proseguivano il loro cammino. Decisi di alzarmi e mi avviai verso la toilette, con l'intenzione di rendermi un tantino più presentabile, cancellando l'esperienza della notte precedente e i segni che essa mi aveva lasciato nell'animo, sotto forma di una inspiegabile inquietudine. L'acqua fresca sembrò lavare via anche gli ultimi segni di agitazione ed io restai a lungo a guardare il mio volto, finalmente tornato ai suoi splendori abituali. Lanciai un sorriso alla mia immagine che rispose di rimando e, afferrato il bagaglio, mi diressi con passo spedito verso la biglietteria.

Erano quasi le dieci e il mio volo sarebbe partito soltanto un'ora dopo. Dunque mi restava ancora una mezz'ora da spendere girovagando per negozi, prima di lasciarmi definitivamente alle spalle Ginevra e rimettere piede in Germania. Mi sembrava già di poter assaporare l'aria di casa, di scorgere la mia casa tra la macchia d'alberi in fondo al viale e, finalmente, mia moglie in trepidazione sulla porta di casa. Mi ero lasciato dolcemente cullare da questi pensieri quando, non so come, mi venne il desiderio incontrollabile di dare un'ultima occhiata al bar dove si era svolta la mia avventura. Non che dubitassi di aver sognato, ma dentro di me si faceva largo il bisogno di averne l'assoluta certezza, per poter catalogare definitivamente quell'esperienza tra gli incubi più reali in cui io avessi mai avuto la sfortuna di imbattermi. E così mi avviai, non senza una punta inspiegabile di nervosismo, verso le grandi scale che portavano al piano superiore. Vidi i bambini incollati ai grandi vetri emettere grida di eccitazione alla vista del susseguirsi dei velivoli sulle piste, osservai smarrito l'ammasso di gambe incrociarsi confusamente e udii il vociare indistinto riempirmi disordinatamente la testa. Fatta salva la vita che animava quel posto, il luogo era perfettamente identico a quello da me sognato quella notte. Certo non ne restai stupido: viaggiavo con cadenza quasi mensile, e sicuramente in uno dei miei tanti viaggi dovevo essere capitato lì, chissà, forse alla ricerca di un ristorante o attratto dalla visuale che le vetrate generosamente concedevano. Gettai lo sguardo in fondo alla sala, ma, complice la calca e la mia altezza non eccelsa, non riuscii a scorgere nulla di più che le teste variopinte di quanti quel giorno sembravano essersi dati appuntamento in quel posto. Mi incamminai così nella direzione verso la quale ero stato irresistibilmente attratto quella notte, cercando di riconoscere ad ogni mio passo i particolari che avevano attirato la mia attenzione nell'oscurità della sera precedente. I negozi di cui avevo indovinato la presenza dietro le serrande abbassate se ne stavano ora lì, aperti, luccicanti di colore e brulicanti di partecipazione umana; ed io, ad ogni passo, sentivo i battiti del mio cuore farsi sempre più vicini e risuonare cupi nel costato.

Mi imbattei nuovamente nella colonna avvolta nella trasparenza illusoria dei suoi specchi e capii di essere arrivato. Notai la mia immagine riflettersi spaurita e guardandola con occhio paterno, cercai di tranquillizzarla. Si era trattato di un sogno. Non poteva che essere stato un sogno. E i sogni, di giorno, lasciano posto alla realtà. Chiusi gli occhi e mi voltai nella direzione in cui ricordavo essere il bar che mi aveva accolto soddisfacendo (anche più del dovuto) la mia curiosità e rimasi così per qualche istante, combattuto tra il timore di veder prendere forma le mie paure e il bisogno di avere la conferma che si fosse trattato di una esperienza frutto della mia troppo fervida immaginazione.

Mi decisi ad aprire gli occhi e con mio immenso sollievo notai che, là dove doveva sorgere il locale, non c'era che una vecchia serranda corrosa dalla ruggine e un cartello in francese con la scritta "Affittasi". Mi voltai cercando la mia immagine nel grande specchio e le sorrisi, come per dirle "Hai visto?", e notai che anche lei rise, visibilmente sollevata.

Quel giorno presi l'aereo con una gioia in più nel cuore. Non era l'avvicinarsi sempre di più a casa, no. Era una sensazione diversa, che in vita mia provai soltanto quella volta. E che, ancora oggi, non so descrivere a parole. Il resto fu tutto come avevo immaginato. Arrivato a Bonn, presi un taxi e mi diressi verso casa, ansioso di riabbracciare mia moglie. Vidi la villa, in fondo al viale, spuntare tra gli alberi e, scendendo dall'auto, incontrai il suo sguardo che in un silenzio amorevole, alla sua maniera, mi dava il bentornato a casa.

Quella notte dormii profondamente per nove ore filate e al mio risveglio, il mattino successivo, trovai lei ad accogliermi in cucina, alle prese con i preparativi per il pranzo. L'abbracciai e lei si schermì, tingendo di rosso le sue gote dorate. Mi invitò a sedere e mi servì la colazione, ed io ubbidii docilmente. Afferrai con una mano la tazza fumante e con l'altra, come mia abitudine, il giornale, lanciando un'occhiata distratta alla prima pagina.

Strabuzzai gli occhi riconoscendo nella foto in prima pagina il pianista che avevo sognato (?) quella notte, e per poco non rovesciai il caffé. Posai la tazza sul tavolo e lessi nervosamente l'articolo. « Uno dei più famosi e controversi pianisti del nostro tempo, Hans Huber, (lo speaker, all'aeroporto, non aveva forse invitato un certo signor Hans Huber ad affrettarsi all'uscita 11?) ha dato ancora una volta, ieri sera, sfoggio della sua abilità e fantasia suscitando negli spettatori del Teatro Grande di Berlino un entusiasmo ed un trasporto che... »

Smisi di leggere. La mia attenzione fu infatti attratta da due brevi righe dell'indice che rimandavano a pagina 13. Aprii il giornale saltando frettolosamente le pagine di politica estera e arrivai finalmente alla cronaca. "Misterioso omicidio, nel pomeriggio di ieri a Berlino. Il corpo senza vita di una ragazza, probabilmente una prostituta dell'est, ritrovato senza vita in Kaiser Karel Straat". Rabbrividii pensando a quanto vicina fosse Kaiser Karel Straat al Teatro Grande e soffocai a stento un gemito. "La polizia sospetta che l'omicidio sia nato all'interno dell'ambiente della prostituzione e della malavita che ne detiene il controllo".

"Il segreto del successo", mormorai.

"Cos'hai detto, caro?" fece lei di rimando.

"Niente, cara", risposi con un sussulto.

William Wallace

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E ora, un altro breve ma suggestivo racconto di Dario Carcano:

La Paura

Cammino di sera su una strada buia per tornare a casa; sono solo, non c’è nessuno. All’improvviso nella luce arancione dei lampioni distinguo una figura che mi viene incontro; abito scuro con impermeabile chiaro. Improbabile sia Humprey Bogart.

Questa visione provoca l’attivazione dell’amigdala, la quale attiva una serie di reazioni fisiologiche comunemente dette paura. E’ a duecento metri e cammina verso di me; la strada è buia, non c’è nessuno, solo lui con l’impermeabile bianco. Sono quei momenti in cui amo la polizia, e se adesso vedessi un agente mi getterei ai suoi piedi, manco fosse Gesù sceso in Terra… purtroppo, in questi momenti la polizia si fa desiderare. Almeno avessi con me una pistola, invece viviamo in una nazione dove c’è il controllo delle armi.

Sono a cento metri. Cosa faccio? Cambio strada? Idea! Mi butto a destra e mi nascondo nel cancello di questa casa, poi aspetto passi… Al tre: Uno; Due; Tre; Ora! Sono nascosto, ora non mi vede, rimango qui finché non lo vedo passare. Quanto ci mette! Proviamo a mettere fuori la testa, così vedo dov’è... non c’è nessuno. Esco fuori allora... esce anche lui. Ha avuto la mia stessa idea! Che fa? Prende pure in giro?

Perché sono uscito di casa? Da domani mi barrico dentro e metto sulla porta un cartello con scritto “qui non c’è niente da rubare”... già, e lo strangolatore solitario? Lo stupratore seriale? A quelli non frega niente dei soldi!

Ho deciso! Lo punto! Tipo incrociatore; così lo costringo a cambiare strada. Ecco! Si sposta! No, mi punta anche lui. Allora faccio così: metto mano al portafogli, così quando arrivo lì, lo lascio cadere. Poi corro via senza voltarmi indietro. E’ deciso, farò così. Lo vedo: ha la barba, un libro tra le mani; un terrorista islamico! Sicuramente ha un pugnale nascosto da qualche parte.

E’ a un metro. Oddio, spero di uscire vivo da qui… l’ho toccato, adesso via senza voltarsi...

Aspetta! Ha buttato anche lui il portafogli... e adesso corre via senza voltarsi indietro! Che fifone!

Dario Carcano


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