Ucronie vegetariane

di William Riker

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1) Il cereale che ha bisogno della calce
Il mais (nome di etimo incerto derivante dalla lingua Taino) fu domesticato in America verso il 3000 a.C., cominciò ad essere coltivato in modo intensivo in Europa già nel XVI secolo (per l'errata credenza che venisse dall'Asia fu chiamato granoturco), ma provocò epidemie di pellagra, una malattia terribile che conduce alla pazzia e che uccise anche almeno uno dei miei antenati. Ai tempi si credeva che fosse dovuta, come per la patata, a qualche tossina contenuta nel mais, ma le ricerche non diedero esito e si continuò a morire di pellagra, sino a che non ci si accorse che in Messico si consumavano vagonate di mais, eppure la pellagra era sconosciuta. Solo nel 1935 ci si rese conto che la pellagra era dovuta a carenza di vitamina D, abbondante in tutti i cereali. Abbonda anche nel mais, ma la cuticola esterna impedisce al chicco di rilasciarla. Gli Aztechi e gli altri popoli precolombiani avevano imparato a mettere a bagno il mais in acqua e calce, così da sciogliere la cuticola e liberare la vitamina D (un processo chiamato nixtamalizzazione); gli spagnoli però non avevano esportato questo processo in Europa, probabilmente nell'errata convinzione che si trattasse solo di un rito pagano. Quando fu introdotto anche in Europa, usando procedimenti chimici anche più efficaci del bagno nella calce, la pellagra a poco a poco sparì, e oggi è ridotta a pochi casi facilmente curabili. Come vedete, anche gli erboristi del passato sbagliavano, e di grosso.
E se la nixtamalizzazione non venisse mai adottata, e il mais fosse del tutto scartato dagli agricoltori europei?

2) Il vino d'Arabia
Non tutti lo sanno, ma la pianta del caffé non è originaria del Sudamerica, dove oggi viene coltivata su latifondi immensi, bensì dell'Etiopia, da dove gli Arabi poi l'avrebbero trapiantata nella penisola arabica. Il suo nome scientifico è infatti Coffea arabica. Secondo alcuni il suo nome deriverebbe da Caffa, la regione dell'Etiopia dove ne furono scoperte le prime piante; secondo altri invece deriva dall'arabo qahwa, "eccitante". Secondo una nota leggenda, tutto sarebbe cominciato da un incendio che a Caffa incenerì alcune piante di caffé: la popolazione dei villaggi vicini fu attirata dall'aroma che ne scaturì e cominciò a tostarne i semi. Un'altra versione narra del pastore Kaldi, un etiope che avrebbe notato che le sue capre, che brucavano le bacche di una certa pianta, non si addormentavano e restavano sveglie e attive tutta la notte. Una terza leggenda ha come protagonista il profeta Maometto il quale, sentendosi male, ebbe la visione dell'Arcangelo Gabriele che gli offriva una pozione nera come la Pietra Nera della Mecca, creata per lui da Allah, che gli permise di riprendersi e tornare in forze. Siccome il Corano vieta di bere alcolici, gli Arabi prima e i Turchi poi lo bevevano in grande abbondanza (da cui il nome di "Vino d'Arabia"), e il Kahvecibaşı ("Capo caffettiere") era un incarico importante alla corte del Sultano. Da Costantinopoli nel '500 cominciò a diffondersi in tutta l'Europa, naturalmente attraverso Venezia, che commerciava attivamente con gli Ottomani. Il caffè però fu introdotto in Europa per la prima volta nell'isola di Malta, attraverso i prigionieri musuomani dopo il grande assedio di Malta del 1565. Invece a Vienna il primo caffè fu aperto nel 1683, subito dopo il fallito assedio da parte dei Turchi, secondo la tradizione usando i sacchi di caffè abbandonati sul posto dai guerrieri ottomani (in quell'occasione sarebbe stato inventato anche il cornetto, che avrebbe ripreso la forma a mezzaluna sulla bandiera della Turchia). In Inghilterra ne parlò per primo il filosofo Francesco Bacone. Inizialmente la Chiesa ne osteggiò la diffusione perchè era la bevanda preferita degli odiati infedeli, perchè era nero "come il peccato" e perchè molti lo credevano un afrodisiaco, ma l'elezione al papato di Clemente VIII cambiò le carte in tavola: il Pontefice lo assaggiò, lo trovò ottimo, ed usò un escamotage per renderne lecito il consumo: sostenne che il caffé poteva aiutare i monaci a restare svegli la notte a pregare, come aiutava noi a stare svegli a studiare la notte prima degli esami universitari. In realtà non a tutti piaceva: il medico e letterato Francesco Redi nel suo "Bacco in Toscana" scrisse: « Beverei prima il veleno / che un bicchier, che fosse pieno / dell'amaro e reo caffè! » Intanto gli olandesi trapiantavano le piante di caffè in Indonesia, i Francesi nei Caraibi e gli Spagnoli in Sudamerica. Nel settecento ogni città d'Europa e del Nordamerica aveva almeno un caffè, dove ci si riuniva per discutere di politica e di cultura, e "Il Caffè" era il titolo del primo quotidiano di stampo illuminista pubblicato in Italia, ad opera dei fratelli Alessandro e Pietro Verri, fondatori dell'Accademia dei Pugni (con tutta probabilità Pietro Verri, amante di Giulia Beccaria, era il vero padre di Alessandro Manzoni). A segnare il trionfo del caffè, ormai non più "amaro e reo", fu l'invenzione della Moka, caffettiera ideata da Alfonso Bialetti nel 1933, vera icona del Made in Italy formata di soli quattro pezzi in acciaio, di cui anch'io possiedo un esemplare; essa prende il nome da Mokha, città portuale dello Yemen da dove secondo alcuni il caffè sarebbe stato esportato in tutto il mondo. Ormai, come il pomodoro, il caffè era diventato uno dei simboli stessi della napoletanità, tanto che Totò annoverava 60 sigarette e 40 tazzine di caffé tra i suoi "vizi quotidiani" (che peraltro lo condussero a prematura morte a 69 anni).
Ma che accade se quell'incendio non scoppia, o se le capre del pastore Kaldi brucano i frutti di un'altra pianta, e nessuno si rende conto delle qualità di quell'arbusto? Come cambia la storia del costume dell'ultimo mezzo millennio?

3) La camelia che si beve
Sul siamo tutti d'accordo: viene dall'Estremo Oriente. Quasi nessuno sa però che è parente strettissimo delle nostre fiorite camelie, ed in effetti il suo nome scientifico è Camellia sinensis (Sina, da Ch'in, è il nome latino della Cina). La parola "tè" deriva dalla pronuncia (tei) del carattere cinese 茶 nel dialetto min meridionale, e tale parola è pressoché la stessa in moltissime lingue del mondo. Non però in giapponese, dove il tè si chiama chá, dalla pronuncia dello stesso ideogramma cinese nei dialetti settentrionali. Il tè contiene la teina, un alcaloide stimolante del sistema nervoso centrale, che a fine ottocento è stata dimostrata essere identica alla caffeina; contiene però anche la catechina, un antiossidante presente soprattutto nel tè verde. Un'infusione breve (due-tre minuti) estrae dalle foglie di tè soprattutto la teina/caffeina e ha proprietà stimolanti; un'infusione più lunga (cinque-sette minuti) estrae anche acido tannico che disattiva la caffeina perché si combina con essa, attenuando l'effetto stimolante. Inoltre l'acido tannico rende amaro il sapore del tè. Innumerevoli sono le varietà conosciute ed apprezzate. Nella lavorazione del tè bianco le foglie subiscono una lunga fase di appassimento che è causa anche di un leggero processo di ossidazione; il nome bianco deriva dal colore delle gemme apicali, usate per produrre questo tè, che sono ricoperte da una lanugine bianca particolarmente folta. Invece nella preparazione del tè nero le foglie vengono fatte appassire in modo da far perdere l'acqua in esse contenuta, renderle morbide e poterle in seguito rullare, allo scopo di rompere le membrane cellulari e far affiorare i succhi in superficie. Nella lavorazione del tè verde poco dopo la raccolta le foglie vengono sottoposte a un trattamento termico chiamato "stabilizzazione" (in inglese "fixation") che inibisce gli enzimi responsabili dell'ossidazione e permette al tè di mantenere il proprio colore verde. Il Bancha (in giapponese "tè ordinario"), come mi ha spiegato l'amico Perchè No?, che vive a Tokyo, è un tè verde giapponese ricavato dall'ultimo raccolto dell'anno, che di solito ha luogo in ottobre: è il tè verde comune per i giapponesi, ma è considerato la più leggera tra tutte le qualità di tè verde. Il suo sapore è unico, con un marcato odore di paglia. Il Matcha (in giapponese "sfregato") è un tè verde originario della Cina le cui foglie vengono prima cotte al vapore, asciugate e ridotte in polvere finissima, usatissimo per la cerimonia del tè. Mi dice l'amico Perchè No? che c'è addirittura il tè blu o Oolong (dal cinese wūlóng, "drago scuro"), un tipo di tè semiossidato prodotto in Cina e a Taiwan, a metà tra il tè verde e il tè nero, perché ossidato solo parzialmente. Mi dicono che una delle qualità di tè più pregiata in assoluto è il Darjeeling, dal nome dell'omonima regione del Bengala, un tè nero indiano soprannominato addirittura lo "champagne dei tè", coltivato in zone piovose e dal tipico aroma di uva Moscato. Ma quello che io prediligo fra tutti è sempre il buon vecchio Earl Grey, aromatizzato al bergamotto, che prende il nome dal Conte Charles Grey, Primo Ministro del Regno Unito dal 1830 al 1834, il quale guarda caso ricevette in dono un tè aromatizzato con olio di bergamotto, e da allora ne fu pazzo. Ne vado matto anch'io, ma non perchè è di moda. Le mode passano, l'Earl Grey è per sempre, se è vero che anche nel 2350 dopo Cristo il Capitano Jean-Luc Picard concludeva ogni sua giornata ordinando al replicatore un "tè Earl Grey, caldo, in tazza di vetro"!! Il maggior produttore di tè al mondo è ovviamente la Cina, seguita da India e Giappone.
​I primi riferimenti storici certi al consumo del tè in Cina risalgono al III secolo dopo Cristo: i maggiori sponsor del tè furono i monaci buddisti, che lo adottarono come bevanda rituale e come tonico. Durante l'epoca Tang il tè si diffuse in tutto il paese cominciando a venire usato anche come moneta, grazie anche al contributo del "Canone del tè" scritto da Lu Yu nel 760. In Giappone nel XVI secolo venne codificata una particolare forma di preparazione ritualizzata, il cosiddetto Cha no yu, per cui oggi esistono vere e proprie scuole. In Europa il tè fu menzionato per la prima volta dal domenicano portoghese Gaspar da Cruz, che nel 1560 parlò di « una specie di acqua che chiamano "cha", rossiccia e molto terapeutica ». La prima importazione del tè in Europa di cui si ha memoria la dobbiamo alla Compagnia Olandese delle Indie orientali nel 1610. Oggi però se pensiamo al tè non pensiamo ai Paesi Bassi, ma all'Inghilterra. Il merito di aver portato il tè in Inghilterra è attribuito a Caterina di Braganza (1638-1705), consorte portoghese di re Carlo II. Il suo consumo nelle case e nei giardini, dato che le donne nelle coffeehouse non erano ammesse, si consolidò nel XVIII secolo, durante l'era georgiana, e ben presto il suo successo fu eccezionale, presso tutte le classi sociali, facendone uno dei protagonisti della storia economica dell'Impero Britannico. La crescente domanda diede impulso alla marina e incoraggiò la coltivazione nelle colonie. Nel 1758 la potente Compagnia Britannica delle Indie Orientali ottenne dal Parlamento il monopolio del commercio dell'oppio e la sua esportazione verso la Cina, in cambio di tè, provocando le Guerre dell'Oppio e dando il colpo di grazia al già traballante Impero Qing. All'inizio del XX secolo il consumo medio annuo inglese pro capite raggiunse la sbalorditiva cifra di tre chilogrammi, e poiché l'alcolismo si stava rivelando una piaga molto grave, il tè si rivelò anche uno straordinario strumento di controllo sociale, sostituendo la birra come bevanda nazionale e aiutando a combattere l'abuso di sostanze alcoliche. Ciò si rivelò fondamentale anche sui campi di battaglia delle guerre moderne, dove anziché caffè o gin ai soldati era distribuito proprio il tè caldo, che li manteneva sobri e ne stimolava l'attenzione, migliorando il rendimento in battaglia. Insomma, secondo l'antropologo Alan MacFarlane dell'Università di Cambridge, senza il tè non ci sarebbero stati né l'Impero Britannico né la Rivoluzione Industriale. Persino la Storia degli Stati Uniti d'America comincia con il "Boston Tea Party" del 16 dicembre 1773. In quella tazzina galleggiano dunque l'identità di un popolo e secoli di imperialismo e dominio sul mondo.
Pensate dunque cosa sarebbe successo se Re Carlo II avesse sposato un'altra principessa, o se Caterina di Braganza avesse preferito la cioccolata...

4) Il regalo dell'ambasciatore
Un altro prodotto agricolo tipicamente americano è il tabacco. Si tratta delle foglie essiccate e arrotolate o sminuzzate di una pianta chiamata Nicotiana tabacum; il nome è un omaggio a Jean Nicot, ambasciatore francese in Portogallo, che nel 1559 fece pervenire un esemplare della pianta, considerata una medicina, alla corte di Caterina de' Medici. Si ritiene che la parola spagnola "tabaco" derivi dalla lingua Arawak, e in particolare dal dialetto caraibico Taino: secondo il famoso Bartolomeo de Las Casas i Taino si riferivano con la parola "tabago" ad una sorta di pipa a forma di Y, usata per aspirarne il fumo da ambe le narici. Altri invece sostengono che il termine "tabaco" fosse presente nella lingua spagnola per definire erbe officinali già a partire dal 1410, e fosse un adattamento della parola araba "tabbaq", che fin dal IX secolo indicava erbe di vario tipo. La parola potrebbe essere quindi stata originariamente europea, e successivamente usata per questa pianta americana. Di sicuro i popoli originari del continente americano erano abituati a fare uso di tabacco ben prima dello sbarco dei Conquistadores, ma presto questi ultimi impararono a fumare ed esportarono la pratica in Europa, dove divenne in breve tempo straordinariamente popolare. Non ci sono solo pipe, sigari e sigarette: altre forme di consumo comprendono il tabacco da masticare, il tabacco da fiuto o la vaporizzazione attraverso dispositivi come le famose "sigarette elettroniche". In Scandinavia è popolare l'uso dello snus svedese, polvere di tabacco umida che viene posta tra il labbro e la gengiva superiore; siccome la nicotina in tal modo è assorbita e non aspirata, la Svezia è il paese d'Europa con il più basso indice di tumori al polmone.
Pochi lo sanno, ma già prima di Colombo di qua dall'Oceano Atlantico si usava fumare altri prodotti vegetali, in particolare canapa, ginepri, erbe aromatiche come ad esempio il farfaro, la lavanda, l'anice, ma anche funghi, anche allucinogeni. Dato che, assunto in dosi molto elevate, anche il tabacco provoca effetti di tipo allucinogeno, i nativi americani non lo usavano per puro diletto, ma piuttosto per provocare stati di trance a scopo rituale e religioso: fumare era perciò riservato a sciamani e uomini-medicina, che così facendo erano convinti di entrare in contatto con gli spiriti dei defunti (il culto degli antenati era già diffuso tra i cacciatori-raccoglitori del Paleolitico, e storicamente precedette quello della Grande Madre, tipicamente neolitico). Oltre a fumarlo, presso i nativi americani il tabacco veniva mangiato fresco appena raccolto, oppure se ne otteneva un succo da consumare come bevanda. I primi missionari cattolici condannarono con forza l'uso del tabacco, tanto che, man mano che la loro opera di evangelizzazione si spingeva verso l'interno del continente, il suo uso a scopi magico-rituali finì per venire meno, tuttavia ancor oggi l'impiego di tabacco a scopi religiosi è diffuso tra le popolazioni amazzoniche che vivono secondo i loro costumi tradizionali. Con l'arrivo degli Europei, il tabacco divenne uno dei più importanti prodotti esportati dal Nuovo Mondo, e fornì una forte spinta per la colonizzazione dell'America Meridionale; la volontà di aumentarne la produzione provocò i primi conflitti con i nativi, e divenne una delle principali motivazioni per lo sfruttamento del lavoro di schiavi africani nelle piantagioni. Nel 1609, nella colonia di Jamestown in Virginia, per primo fu il puritano John Rolfe a coltivare con successo il tabacco per scopi commerciali in Nord America, ma era della specie Nicotiana rustica, ed il suo sapore non era gradito dai consumatori europei; in seguito Rolfe portò con sé dalle isole Bermude alcuni semi di Nicotiana tabacum. Poco dopo il suo arrivo in Virginia, sua moglie morì ed egli sposò in seconde nozze la famosissima Pocahontas, la figlia del capo indiano Powathan, cui la Disney ha dedicato un famoso (e romanzato) cartone animato. Quando partì alla volta dell'Inghilterra con Pocahontas, Rolfe era straricco, ma purtroppo la sua moglie nativa morì in Europa, ed egli tornò in Virginia per migliorare la qualità del tabacco. Già nel 1620 riusciva ad inviare in Inghilterra 18 tonnellate di prodotto all'anno, e quando nel 1622 morì, Jamestown stava prosperando grazie alla produzione di tabacco. Insomma, prima ancora dei Padri Pellegrini, gli Stati Uniti d'America sono nati... grazie al tabacco! L'introduzione del tabacco incontrò una certa resistenza: il re d'Inghilterra Giacomo I Stuart, figlio un po' bacchettone della famosa e sfortunata Maria Stuarda, nel 1604 scrisse un famoso libello intitolato "A Counterblast to Tobacco" ("Una forte opposizione al tabacco"), in cui denunciava l'uso di tabacco come "un'abitudine spiacevole per l'occhio, odiosa per il naso, nociva per il cervello, pericolosa per i polmoni, e che per le sue nere e puzzolenti esalazioni ricorda l'orribile fumo che proviene dal pozzo senza fondo dello Stige"!! Anche in altri paesi, come la Russia, entrarono in vigore pesanti dazi doganali sull'importazione di tabacco, ma essi venivano facilmente aggirati dai contrabbandieri. Nel 1650 papa Innocenzo X comminò addirittura la scomunica contro chiunque usasse il tabacco all'interno della basilica di San Pietro. Il tabacco continuò tuttavia a rappresentare un'autentica miniera d'oro per le colonie americane (soprattutto Virginia e Nord e Sud Carolina) Pensa che, fino al 1883, le accise sul commercio del tabacco rappresentavano un terzo di tutte le tasse raccolte dal governo degli Stati Uniti! Nel 1850 il conte belga Hippolyte Visart de Bocarmé avvelenò il fratellastro con estratto di foglie di tabacco, al fine di ereditare i suoi beni; questa è stata la prima prova esatta della presenza di alcaloidi in medicina legale. Il noto chimico belga Jean Servais Stas dimostrò con un esame tossicologico che l'estratto di tabacco era effettivamente velenoso, e per questo ottenne fama mondiale, mentre il conte avvelenatore fu giustiziato. Purtroppo la nicotina, isolata per la prima volta nel 1807 dal cremonese Gaspare Cerioli, come tutti gli alcaloidi genera una forte dipendenza, chiamata tabagismo, e per questo motivo Zeno Cosini, il protagonista de "La Coscienza di Zeno" di Italo Svevo, tentò per una vita inutilmente di smettere, continuando a scrivere sul suo diario "ultima sigaretta" in corrispondenza di date curiose, tipo 1/1/1901, salvo poi tornare a fumarne altre. L'uso di tabacco è praticato da almeno un terzo della popolazione mondiale adulta, e l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha stabilito che il tabacco è la seconda causa di morte nel mondo dopo l'ipertensione, ma la prima causa di morte evitabile, e si stima che provochi quasi 6 milioni di decessi l'anno. Oltre al cancro, l'uso e l'abuso di tabacco provocano danni cardiovascolari, potenziali danni al feto per le donne incinte e persino rischi per la vista (il fumo è tra i fattori che favoriscono l'insorgenza di una malattia della retina chiamata degenerazione maculare legata all'età, che può provocare ipovisione e cecità centrale). Il 31 maggio di ogni anno a partire dal 1987 si celebra la Giornata Mondiale Senza Tabacco, evidenziando i rischi che corre la salute umana a causa del fumo e sollecitando politiche per ridurne il consumo, ma neppure la stampa sui pacchetti di sigarette di foto da incubo (es. di cancri al polmone) si è rivelato un deterrente efficace, e il tabacco continua a mietere morti, nonostante - a differenza del cacao - essi non siano vittima di alcuna "Vendetta di Moctezuma". Per fortuna, il tabacco non ha avuto solo conseguenze negative sulla storia dell'uomo. Il disastroso impatto economico provocato dalla comparsa della "malattia del mosaico del tabacco" fu la spinta che condusse all'isolamento del relativo virus, il primo virus in assoluto ad essere identificato dalla scienza! Per fortuna si trattava di un virus tra i più semplici, e così la scienza fu aiutata a fare rapidi progressi nel campo della virologia. Nel 1946 il Premio Nobel per la chimica fu assegnato a Wendell Meredith Stanley proprio per i suoi studi su questo virus!
Ma se l'uso del tabacco si estinguesse assieme ai suoi usi nelle religioni tradizionali americane, e nessuno al mondo oggi lo fumasse?

5) Il seme che i Romani cercavano in capo al mondo
Il pepe nero (Piper nigrum) è una pianta rampicante della famiglia delle Piperaceae, coltivata per il suo frutto (il pepe in grani), che viene solitamente essiccato e utilizzato come spezia e condimento . Il frutto è una drupa che ha un diametro di circa 5 mm, rosso scuro, e contiene un nocciolo che racchiude un singolo seme di pepe. I grani di pepe e il pepe macinato da essi derivato sono chiamati pepe nero (frutti acerbi cotti ed essiccati) oppure pepe verde (frutti acerbi secchi) o pepe bianco (semi di frutti maturi). La parola pepe deriva dal latino piper e dal sanscrito pippali, che significa "grano di pepe", probabilmente passando attraverso il persiano che non aveva la lettera L, e provocando la caduta dell'ultima sillaba. Nel XVI secolo la parola "pepe" indicava anche il peperoncino del Nuovo Mondo, del genere Capsicum). La pianta del pepe è una vite legnosa perenne che cresce fino a 4 m di altezza su pali o tralicci. Si espande e radica facilmente dove gli steli toccano il suolo. Le foglie sono alterne, intere, lunghe da 5 a 10 cm e larghe da 3 a 6 cm. I fiori sono piccoli, prodotti su punte pendule lunghe da 4 a 8 cm ai nodi delle foglie. Il pepe può essere coltivato in terreni né troppo asciutti né soggetti a inondazioni, ben drenati e ricchi di sostanza organica. Le viti vengono propagate per talea lunga circa 40-50 cm; su terreni asciutti, le giovani piante richiedono annaffiature a giorni alterni durante la stagione secca per i primi tre anni. Le piante fruttificano dal quarto o quinto anno, e poi tipicamente per sette anni. Un singolo stelo porta da 20 a 30 spighe fruttifere. La raccolta inizia non appena uno o due frutti alla base delle spighe cominciano a diventare rossi, e prima che il frutto sia completamente maturo, quando è ancora duro; se lasciati maturare completamente, i frutti perdono la piccantezza e alla fine cadono e vanno perduti. Le spighe vengono raccolte e stese ad asciugare al sole, quindi i grani di pepe vengono tolti dalle spighe. Primo produttore al mondo di pepe nero nel 2020 è stato il Vietnam (con il 36% del totale mondiale), seguito da Brasile, Indonesia, India, Sri Lanka, Cina e Malaysia. I grani di pepe sono tra le spezie più commercializzate al mondo, rappresentando il 20% di tutte le importazioni di spezie. Il pepe selvatico cresce nella regione indiana dei Ghati occidentali. Nel XIX secolo le foreste contenevano estensioni di pepe selvatico, come registrato dal medico e botanico scozzese Francis Buchanan nel suo "Un viaggio da Madras attraverso i paesi di Mysore, Canara e Malabar". Ad oggi purtroppo la deforestazione ha portato al declino del pepe selvatico; finora non è stato ottenuto alcun innesto riuscito di pepe commerciale su pepe selvatico.
E ora, un po' di storia. Il pepe nero è originario dell'Asia meridionale e del sud-est asiatico ed è noto alla cucina indiana almeno dal 2000 a.C. Il suo esportatore più importante era l'India, in particolare la costa del Malabar, in quello che oggi è lo stato del Kerala. L'antica città portuale di Muziris (oggi Kodungallur), famosa per l'esportazione di pepe nero e di varie altre spezie, è citata in molte fonti storiche classiche per il suo commercio con l'Impero Romano: la troviamo in Plinio il Vecchio e Claudio Tolomeo. I grani di pepe erano un bene commerciale molto apprezzato, spesso indicato come "oro nero" e usato persino come denaro. I romani conoscevano bene il pepe, e la sua popolarità non declinò fino alla scoperta del Nuovo Mondo e all'arrivo del peperoncino, più facile da coltivare in luoghi più vicini all'Europa. Grani di pepe nero sono stati trovati infilati nelle narici della mummia di Ramses II, essendo parte dei rituali di mummificazione, ma poco si sa su come il pepe raggiungesse il Nilo dalla costa del Malabar. Il pepe era conosciuto in Grecia almeno nel IV secolo a.C., sebbene fosse probabilmente un oggetto raro e costoso che solo i più ricchi potevano permettersi; Ippocrate lo consiglia contro i dolori mestruali. Dopo la conquista dell'Egitto da parte di Roma nel 30 a.C., la traversata in mare aperto del Mar Arabico diretta alla costa del Malabar governata dalla dinastia Chera era quasi una routine. I dettagli di questo commercio attraverso l'Oceano Indiano sono stati tramandati nel "Periplo del Mare Eritreo", un'opera geografica del I secolo d.C. Secondo il geografo greco Strabone, l'impero romano inviava una flotta di circa 120 navi in un viaggio annuale in India e ritorno, sfruttando i prevedibili venti monsonici. Di ritorno dall'India, le navi risalivano il Mar Rosso, da dove il carico veniva trasportato via terra fino al fiume Nilo, imbarcato ad Alessandria e da lì spedito a Roma. L'itinerario di questa rotta commerciale dominò il commercio del pepe in Europa per un millennio e mezzo. Plinio il Vecchio si lamentava dei prezzi eccessivi: "Non c'è anno in cui l'India non prosciughi l'Impero Romano di 50 milioni di sesterzi!" Il pepe nero era un condimento noto e diffuso, anche se costoso, nell'impero romano: il "De re coquinaria" di Apicio , un libro di cucina del III secolo, include il pepe nella maggior parte delle sue ricette. Alarico, re dei Visigoti, incluse 3.000 libbre di pepe come parte del riscatto che chiese a Roma quando assediò la città nel 410 d.C. (e ancor oggi a Roma è invalso il detto "caro come il pepe"! Dopo la caduta di Roma, prima i persiani e poi gli arabi ne presero il posto alla guida del commercio delle spezie; il navigatore bizantino Cosma Indicopleuste, che viaggiò nell'Oceano Indiano nel VI secolo, comprovò che il pepe veniva ancora esportato dall'India alla sua epoca. Nell'Alto Medioevo il commercio delle spezie era saldamente sotto il controllo islamico (dagli avventurosi viaggi dei mercanti arabi nell'Oceano Indiano deriva il racconto di Simbad il Marinaio); una volta nel Mediterraneo, il commercio era in gran parte monopolizzato da Venezia e Genova. L'ascesa di queste repubbliche marinare fu finanziata in gran parte dal commercio delle spezie. La convinzione che il pepe nel Medioevo fosse ampiamente utilizzato come conservante delle carni è discutibile; è vero che la piperina, il composto che conferisce al pepe la sua piccantezza, ha alcune proprietà antimicrobiche, ma alle concentrazioni presenti quando il pepe viene usato come spezia, l'effetto è minimo. Il sale è un conservante molto più efficace e le carni salate erano cibo comune, soprattutto in inverno. Piuttosto, il pepe e altre spezie hanno sicuramente avuto un ruolo nel migliorare il gusto delle carni a lunga conservazione, e per questo era così ricercato. Del pepe parlarono i viaggiatori tardomedioevali italiani Marco Polo e Niccolò dei Conti nei loro resoconti di viaggio. Un riferimento al pepe si trova persino nella "Divina Commedia", perchè nella settima bolgia (quella dei ladri) Dante vede « un serpentello acceso, / livido e nero come gran di pepe » (Inf. XXV,83-84)!
È possibile che il pepe nero fosse conosciuto in Cina nel II secolo a.C., se sono storici i resoconti poetici riguardanti un esploratore di nome Tang Meng. Inviato dall'imperatore Wu in quella che oggi è la Cina sud-occidentale, si dice che Tang Meng si sia imbattuto in qualcosa chiamato jujiang; gli fu detto che proveniva dai mercati di Shu, un'area in quella che oggi è la provincia del Sichuan. L'opinione tradizionale tra gli storici è che egli si riferisse al pepe. Nel III secolo d.C. il pepe nero fece la sua apparizione definitiva nei testi cinesi, chiamato hujiao o "pepe straniero". Il pepe compare nel testo buddista "Samaññaphala Sutta" come una delle poche medicine che un monaco può portare con sé. Entro il XII secolo era diventato un ingrediente popolare nella cucina dei ricchi cinesi, prendendo il posto del pepe di Sichuan, originario della Cina (è il frutto essiccato di una pianta non imparentata col pepe). Nel corso dei suoi viaggi all'inizio del XV secolo, l'ammiraglio eunuco Zheng He e le sue imponenti flotte tornarono dall'India con una quantità così grande di pepe nero, che il bene di lusso un tempo costoso divenne un prodotto comune in Cina.
Il prezzo esorbitante del pepe e il monopolio sul commercio detenuto dall'Impero Ottomano e dalle repubbliche marinare italiane fu uno degli incentivi che spinsero i Portoghesi a cercare una rotta marittima alternativa verso l'India. Proprio sulle tracce del prezioso pepe, il 20 maggio 1498 Vasco da Gama (1469-1524) fu il primo europeo a raggiungere l'India navigando intorno all'Africa. Quando gli abitanti di Calicut (oggi Kozhikode, non ha nulla a che vedere con l'attuale Calcutta) gli chiesero perché fosse venuto fin lì, Vasco da Gama rispose loro: "Cerchiamo cristiani e spezie". Il trattato di Tordesillas del 1494 con gli spagnoli concessi al Portogallo i diritti esclusivi sulla metà del mondo da cui ha avuto origine il pepe nero. Tuttavia, alla lunga, i portoghesi si dimostrarono incapaci di monopolizzare il commercio delle spezie. Le reti commerciali arabe e veneziane più antiche importavano con successo enormi quantità di spezie e il pepe ancora una volta passava attraverso Alessandria e l'Italia, e nel XVII secolo i portoghesi persero quasi tutto il loro prezioso commercio nell'Oceano Indiano a favore degli olandesi e degli inglesi che, approfittando del dominio spagnolo sul Portogallo durante l'Unione con la Spagna (1580-1640), occuparono con la forza quasi tutte le stazioni commerciali portoghesi nell'Indiano. Con l'aumento delle forniture di pepe in Europa, il suo prezzo cominciò a diminuire, e così il pepe, che nell'alto Medioevo era stato un alimento esclusivamente per ricchi, cominciò a diventare un condimento sempre più quotidiano. Oggi il pepe rappresenta un quinto del commercio mondiale di spezie; ed è sulle tracce dei suoi preziosi e profumati chicchi, che i navigatori e conquistatori europei dell'Età Moderna mossero alla conquista del mondo. Gli imperi coloniali dell'ottocento e i loro eredi contemporanei poggiano dunque le loro basi su uno strato di pepe nero spesso molti secoli.
Ma come cambierebbe la storia del mondo e delle esplorazioni geografiche, se il pepe si fosse estinto prima della comparsa dell'Homo sapiens?

6) Seitan(to gentile)
Invece il seitan non è una pianta, ma un alimento a base di glutine. La parola è di origine giapponese ed è stata coniata nel 1961 da George Ohsawa, un sostenitore della dieta macrobiotica, per riferirsi a un prodotto a base di glutine di grano ideato dal suo studente Kiyoshi Mokutani, poi importato in Occidente nel 1969 dalla società americana Erewhon. L'etimologia del seitan è incerta, ma si ritiene derivi dalla combinazione dei caratteri 生 (sei, "fresco, crudo") e 蛋 (tan, da 蛋白 tanpaku, "proteina"). Lo si ottiene lavando l'impasto di farina di frumento con acqua fino a rimuovere tutti i granuli di amido, lasciando dietro di sé il glutine appiccicoso e insolubile come una massa elastica, che viene poi cotta prima di essere mangiata. Il glutine di frumento (ovviamente per i non celiaci) è un'alternativa per i vegani agli alimenti a base di soia come il tofu (alcuni tipi di glutine di frumento hanno una consistenza gommosa o fibrosa che ricorda la carne più di altri sostituti), ed infatti il glutine di frumento è spesso usato al posto della carne nelle cucine asiatica, in particolare buddista. L'uso del glutine di frumento è stato documentato in Cina sin dal VI secolo: il riferimento più antico al glutine di frumento appare nel Qimin Yaoshu , un'enciclopedia agricola cinese scritta da Jia Sixie nel 535 d.C. L'enciclopedia menziona polpettine preparate con glutine di frumento chiamati bótuō (馎饦). Il glutine di frumento arrivò in Occidente nel XVIII secolo. "De Frumento", un trattato sul grano scritto in latino da Bartolomeo Beccari nel 1728 e pubblicato a Bologna nel 1745, descrive il processo di lavaggio della pasta di farina di grano per estrarne il glutine. John Imison scrisse una definizione in lingua inglese del glutine di frumento nel suo "Elements of Science and Art" pubblicato nel 1803. Negli Stati Uniti, invece, i fedeli delle chiese Avventiste del Settimo Giorno hanno promosso il consumo di glutine di frumento a partire dal 1882; oggi il seitan lo si trova in tutti i buoni supermercati. Ma attenzione! Non è tutto oro quel che luccica. Pur essendo un alimento ricco di proteine, povero di grassi e di colesterolo, il seitan non è in realtà l'alimento perfetto che può sembrare. A parte la proibizione per chi è intollerante al glutine, anche se è facilmente digeribile, non ha gli amminoacidi essenziali contenuti nella carne. Per questo i vegani dovrebbero integrarne l'assunzione con il consumo di legumi e di integratori di vitamina B12. Il seitan è sconsigliato anche per chi soffre di diabete, dato che i carboidrati contenuti in questo alimento provocano un innalzamento della glicemia.
E se nessuno avesse mai avuto l'idea di utilizzare il glutine come alimento, né in Oriente né in Occidente?

7) Il fermento di fagioli
Anche il tofu, come il seitan, non è un vegetale ma un alimento preparato coagulando il latte di soia e pressando la cagliata risultante in blocchi solidi bianchi di varia morbidezza: setoso , morbido , sodo , extrasodo, o supersodo. Ha un sapore delicato, quindi può essere utilizzato in piatti salati e dolci. Viene spesso condito o marinato e, grazie alla sua consistenza spugnosa, assorbe bene i sapori. È un componente tradizionale delle cucine dell'Asia orientale e del sud-est asiatico, e viene consumato in Cina da oltre 2000 anni. Nella moderna cucina occidentale, invece, come il seitan viene spesso trattato come un sostituto della carne. Dal punto di vista nutrizionale, il tofu ha poche calorie, pur contenendo una quantità relativamente elevata di proteine . È ricco di ferro e può avere un alto contenuto di calcio o magnesio a seconda dei coagulanti utilizzati nella produzione (cloruro di calcio , solfato di calcio, solfato di magnesio). La parola "tofu" deriva dal giapponese tōfu (豆腐) a sua volta un prestito del cinese 豆腐(dòufǔ), cioè "fermento di fagioli". La prima documentazione della parola in Occidente è towfu, in una lettera del 1770 del commerciante inglese James Flint nientemeno che a Benjamin Franklin. La produzione del tofu è stata documentata per la prima volta durante la dinastia Han circa 2000 anni fa; la leggenda cinese attribuisce la sua invenzione al principe cinese Liu An (179–122 a.C.), anche se gli storici della gastronomia nutrono dei dubbi in proposito, giacché  la scarsità di fonti affidabili per quel periodo rende difficile determinarlo in modo definitivo, ed inoltre era normale, nella storia cinese, attribuire in modo pseudoepigrafico importanti invenzioni a famosi leader dell'epoca. Nel 1960, un murale in pietra portato alla luce da una tomba della dinastia Han orientale ha dato supporto alla teoria dell'origine Han del tofu, tuttavia alcuni storici sostengono che il tofu durante la dinastia Han fosse rudimentale e mancasse della compattezza e del gusto per essere considerato davvero tofu. Un'altra teoria suggerisce che il metodo di produzione del tofu sia stato scoperto accidentalmente quando un impasto di semi di soia bolliti e macinati è stato mescolato con sale marino impuro. Questo sale marino probabilmente conteneva sali di calcio e magnesio, i quali hanno permesso alla miscela di soia di cagliare e di produrre un gel simile al tofu. Una terza ipotesi invece sostiene che gli antichi cinesi abbiano appreso il metodo per cagliare il latte di soia emulando le tecniche di cagliatura del latte dei mongoli, e come prova portano la somiglianza etimologica tra "tofu" e il termine cinese rǔfǔ (乳腐), che letteralmente significa "latte cagliato", usato durante la dinastia Sui (581-618 d.C.), per piatti con consistenza simili a quella dello yogurt o formaggio morbido. Sebbene intrigante e non impossibile, non ci sono prove a sostegno di questa teoria al di là della speculazione accademica. Comunque siano andate le cose, di sicuro il tofu e la sua tecnica di produzione furono introdotti in Giappone durante il periodo Nara (710–794). Alcuni studiosi ritengono che il tofu sia arrivato in Vietnam nell'XI secolo, per poi diffondersi anche in altre parti del sud-est asiatico. Questa diffusione probabilmente coincise con quella del Buddismo, poiché il tofu è un'importante fonte di proteine nella dieta vegetariana del buddismo dell'Asia orientale. Il tofu può essere anche fermentato, affumicato e addirittura congelato; esistono poi pure un tofu di ceci e un tofu di mandorle, un tofu di arachidi e addirittura un tofu all'uovo, anche se ovviamente quest'ultimo non è più vegetariano. Comunque molti piatti cinesi di tofu possono includere carne. Per farti un esempio, in Giappone un piatto comune nei mesi estivi è l'hiyayakko (冷奴), un tofu sodo servito con zenzero appena grattugiato, cipolle verdi e salsa di soia. In inverno il tofu viene spesso consumato come yudofu , che viene cotto a fuoco lento in una pentola di terracotta con verdure come cavolo cinese o cipolla verde. Ma se dovessi elencarvi tutte le ricette a base di tofu, finirei per diventare un secondo Pellegrino Artusi!
E se invece la tecnica di produzione del tofu non fosse mai stata scoperta? Come cambierebbe la storia della cucina nell'Estremo Oriente?

William Riker

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Questo è il contributo in proposito di Enrico Pizzo:

Circa l'ucronia vegetariana # 5, quella "pepata", ovviamente il pepe potrebbe essere sostituto dai Chiodi di Garofano!! Come canta il Ghibellin Fuggiasco:

E io dissi al poeta: " Or fu già mai
gente sì vana come la sanese?
Certo non la francesca sì d'assai!! "

Onde l’altro lebbroso, che m’intese,
rispuose al detto mio: " Tra’ mene Stricca
che seppe far le temperate spese,

e Niccolò che la costuma ricca
del garofano prima discoverse
ne l’orto dove tal seme s’appicca!! » (Inf. XXIX, 121-129)

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Invece Iacopo Maffi propone:

Dal punto di vista culinario il pepe potrebbe essere sostituito dallo zenzero essiccato e macinato. È un sostituto comodo anche perché è originario quasi della stessa area. Per quanto riguarda il bilancio commerciale romano, concordo con chi crede non basti un cambiamento così marginale. Bisogna o limitare le uscite (con una riforma profondamente puritana delle elites? Forse non basterebbe nemmeno quella, visto come è finita in Britannia) o incrementare le esportazioni con nuovi prodotti. L'ambra è una scelta interessante. Nel Canale di Augusto erano l'oro subsahariana prima e le spezie indiane poi. La seta potrebbe essere un'alternativa? Ma il vero grande problema della costruzione di un impero esportatore sarebbe stata comunque la transizione delle regioni meno produttive a colonie autonome o semiautonome. Un processo di trasformazione della rete di città ed elites dell'Impero costantiniano in un sistema di "Rome Locali" (il termine è di Brown) mi sembra inevitabile, anche se può essere molto meno traumatico di quanto accaduto in HL.

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Ecco l'idea alternativa di MattoMatteo:

Al posto del pepe "normale" si potrebbe usare il "pepe di Sichuan", menzionato nel post originale? Magari così si intensificano gli scambi economici (e, perchè no, magari anche culturali) tra Impero Romano e Cina... se i due imperi sono alleati, magari le invasioni barbariche possono essere ridotte (se le popolazioni barbariche vengono attaccate sia da est -cinesi- che da ovest -romani- avranno vita difficile), garantendo a Roma una vita più lunga?

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Ma Iacopo obietta:

Una forte domanda esterna di spezie della Cina meridionale potrebbe avere un effetto distruttivo sulla statualità Han. Secondo James Scott lo stato Han ("Cina") è il più grande dei cosiddetti padi states, cioè degli stati-risaia. Per funzionate deve sottomettere la popolazione e irregientarla nel lavoro agricolo -e esiste a questo fine. La vasta periferia non statale dei padi states vive di esportazioni, in particolare di beni esotici ad alto valore aggiunto, come le spezie. Storicamente lo Stato Han ha "padificato" larghe parti della sua periferia meridionale, in particolare nella prima epoca Tang. Se la Dinastia Tang avesse delle ragioni politiche e economiche per ridurre la spinta verso sud, si troverebbe in grossi guai quando (inevitabilmente) scoppiasse la Rivolta di An Lushan. Senza poter contare sugli introiti fiscali e sulla riserva di manodopera del sud, soccomberebbe alle forze distruttive. Quindi niente Tang posteriori, lungo periodo di frammentazione tra il 755 e il 960, e soprattutto niente Song Meridionali. I Mongoli conquisterebbero quella che noi chiamiamo Cina Meridionale fin dalla spedizione del 1235, e comunque al massimo con la conquista di Dali nel 1256.

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A proposito di ucronie vegetariane, l'amico Generalissimus ha tradotto per noi queste ucronie:

E se la patata non fosse mai esistita?

Oggi, signore e signori, sarà un po’ speciale, visto che parleremo di patate! Non ci si rende conto dell’importanza di questo alimento da quando è entrato a far parte delle nostre abitudini, ma il fatto è che oggi la patata non serve solo a fare le patatine fritte, bensì è anche uno degli alimenti di base per miliardi di persone.
Diamo prima un colpo d’occhio alla storia della patata: originaria dell’America del Sud e in particolare del Perù, fu addomesticata e poi coltivata dalle tribù di cacciatori-raccoglitori che vivevano lì circa 8000 anni fa.
Nel XVI secolo, dopo aver distrutto gli Inca, i conquistadores decisero di riportare qualche esemplare in Europa.
All’inizio guardato con diffidenza, il tubero si diffuse alla fine nelle campagne francesi grazie al celebre Antoine Parmentier.
La coltivazione della patata si espanse fino in Russia e divenne subito la soluzione alla carestia che fino a quel momento aveva devastato l’Europa.
Questo alimento, facile da far crescere e adattabile a tutte le temperature, è oggi coltivato in più di 150 paesi del mondo.
Ecco qua, adesso sapete tutto sulla patata e potete impressionare i vostri amici durante una serata fra una bottiglia di birra e l’altra, ma adesso proviamo a immaginare una realtà alternativa dove la patata non esiste affatto.
Immaginiamo un mondo favoloso dove i fast-food ci servono patatine fritte a base di mais, anche se vedremo che i fast-food in questa realtà alternativa non esisteranno sicuramente.
Torniamo a 8000 anni fa in America del Sud, che è abitata da tribù nomadi e che comunicano tra di loro con l’aiuto di suoni gutturali.
L’addomesticazione della patata permise a queste tribù di cacciatori-raccoglitori di sedentarizzarsi, senza le patate continueranno ad abitare nelle foreste con i più semplici dei mezzi.
Potrebbero formarsi piccole città o villaggi, ma è molto probabile che le grandi civiltà sudamericane come gli Inca non vedranno mai la luce del giorno, lasciando il posto a centinaia di piccole tribù isolate l’una dall’altra.
Qualche secolo più tardi i conquistadores, invece di tornare dall’America del Sud con le braccia cariche di patate e oro rubati agli Inca, si ritrovano senza nulla da portare indietro a parte qualche pannocchia.
Il mais non avrebbe mai potuto avere il ruolo che ha avuto la patata nella storia, esso necessita di molte condizioni affinché possa essere coltivato, ovvero molta acqua, un luogo adatto e una temperatura ideale, contrariamente alla patata, che si può coltivare in spazi ristretti e più o meno non importa a che temperatura.
La patata ha aiutato molto a mettere fine alle carestie in Europa, se non esistesse affatto e con il mais che non può sostituirla allora le carestie continueranno.
Nella realtà la patata è l’alimento del povero per eccellenza, ha permesso di nutrire milioni di persone e ha dato origine alla seguente reazione a catena: prendiamo qualcuno completamente a caso, per esempio Pierino, un contadino.
Pierino ha rotto tutti gli indugi e si è messo a coltivare patate, perché è facile ed economico.
Mangiare le patate gli procura l’energia che gli permette di adempiere ai suoi doveri coniugali più spesso di prima.
Fondamentalmente si scopa sua moglie tutte le sere.
Se si scopa sua moglie tutte le sere avrà parecchi bambini, perché all’epoca la contraccezione non esisteva, e i figli di Pierino, una volta cresciuti, si riempiranno lo stomaco di patate e a loro volta si scoperanno le loro donne e faranno ancora più figli.
Penso che a questo punto avrete capito che l’introduzione della patata in Europa è stato un fattore di esplosione demografica, se togliamo la base di tutto ciò, vale a dire la patata, Pierino muore di fame come una merda senza essersi scopato nessuno.
Senza patata la popolazione europea resta abbastanza stabile, il che per forza di cose andrà a rallentare il processo di colonizzazione del Nuovo Mondo, il tutto semplicemente perché non c’è abbastanza gente da mandare.
Possiamo immaginare che i Caraibi vengano colonizzati più o meno come nella realtà, ma i grandi spazi dell’America del Nord e dell’America del Sud verranno colonizzati molto più lentamente.
In Europa le guerre tra i vari paesi si rivelano molto più mortali, dato che la popolazione si rinnova con lentezza, e visto che le disgrazie non arrivano mai da sole la guerra apporta la sua parte di carestie e saccheggi.
Si può quindi immaginare che le guerre di religione avranno un impatto molto più devastante sull’Europa dell’epoca, lasciando alcune regioni, come la Germania, completamente in rovina.
Senza le ricchezze e gli immensi imperi coloniali che gli Europei possedettero nella realtà, la Rivoluzione Industriale arriverà più tardi e sarà molto limitata come dimensioni.
Di fatto, senza patate, come nutrire i milioni di operai che lavorano giorno e notte in fabbrica? I paesi europei alla fine cercheranno nuovi spazi da coltivare, e si può immaginare quindi che, per esempio, l’America del Nord si trasformerà in un immenso granaio destinato all’Europa.
L’America del Nord sarà perciò poco popolata, rurale e attraversata in tutte le direzioni da immensi campi di grano e mais.
In queste condizioni sarà difficile ottenere l’indipendenza, ed è molto probabile che certi paesi come gli Stati Uniti e il Canada non vedranno mai la luce.
L’Europa, per quanto la riguarda, sarà molto più instabile, molto meno popolata e molto meno avanzata tecnologicamente.
Si può immaginare che certe potenze orientali o asiatiche sorpasseranno gli Europei per diventare il centro di gravità del mondo.
La Cina, per esempio, avrebbe potuto benissimo avere una propria rivoluzione industriale tutta da sola e diventare la prima potenza mondiale.
Siamo lontani dal dubitarne, ma la patata ha avuto malgrado tutto un ruolo molto importante nella storia del mondo.

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E se l'erba non esistesse?

Oggi l'erba è ovunque ed è difficile immaginare un mondo senza di essa, ma solo 19 milioni di anni fa l'erba non esisteva.
Per esempio, i dinosauri non videro o mangiarono mai una foglia d'erba, perché non esisteva nella loro epoca, ma come ha fatto l'erba a conquistare il mondo così velocemente? Il motivo principale è che l'erba è estremamente resistente, può sopravvivere a qualsiasi ambiente, dall'Islanda ai tropici, e rispetto ad altre specie come le felci e gli alberi ha un'eccezionale resistenza alla siccità.
Perciò, quanto cambierebbe il mondo se l'erba non esistesse? Come continuerebbe la vita senza il vegetale che vedete di più nel corso della vostra vita? Questa è la domanda di questa ucronia.
Prima che comparisse l'erba le regioni che adesso sono praterie erano gigantesche distese di felci con piccole macchie di alberi, un ecosistema che esiste ancora oggi nelle regioni estremamente umide del mondo, dove il vantaggio naturale dell'erba viene meno e quindi le felci sono ancora la specie vegetale dominate.
Questo avviene soprattutto nella Scozia occidentale, in Nuova Zelanda e in alcuni altri luoghi.
Possiamo presumere che in un mondo dove non esiste l'erba saranno le felci la forma di vita dominante nella nicchia occupata dall'erba nella nostra TL.
Tutti gli animali come i cavalli, le mucche e i muli si evolvettero mangiando erba, perciò in un mondo senza erba questi animali o si evolveranno in un modo molto differente o non si evolveranno affatto.
Nel mondo precedente all'esistenza dell'erba i principali mammiferi erbivori erano quelli brucanti, ovvero gli animali che pascolano mangiando arbusti, bacche e piccole felci, e questa categoria include cinghiali, cervi e rinoceronti, quindi in questa TL maiali e cervi si evolveranno per diventare gli erbivori principali al posto dei cavalli e delle mucche.
Grano e mais sono entrambi varianti dell'erba, e questo significa che in un mondo senza erba non esisterebbero.
In un mondo senza erba il cambiamento più grande sarebbe l'assenza degli esseri umani: il motivo per cui gli umani si evolvettero è che alcune scimmie rimasero isolate dalle giungle quando quelle presenti in Africa orientale iniziarono a trasformarsi lentamente in praterie, e i loro abitanti dovettero adattarsi alle praterie o morire, e questo portò agli umani.
Quasi tutte le differenze tra umani e scimmie nacquero perché gli umani dovettero evolversi per vivere sulle praterie: mangiamo carne perché i vegetali nelle praterie sono pochi; camminiamo in posizione eretta per vedere oltre l'erba e viaggiare più velocemente; non abbiamo peli e sudiamo così da poterci liberare del calore in modo più efficace durante la caccia, perciò senza erba gli umani non si evolveranno mai per la vita nella savana e non esisteremmo.
Ci sarà l'evoluzione di qualche altra forma di vita intelligente? Probabilmente no, questo perché per la maggior parte della storia abbiamo visto che l'intelligenza non era un buon investimento biologico per la maggior parte degli animali come dei denti affilati o la velocità nella corsa e solo circostanze molto particolari hanno creato l'intelligenza che hanno gli umani.
Queste particolari circostanze si verificarono quando un gruppo di scimmie già intelligenti rimase bloccato nella savana e a causa della mancanza di frutta dovette evolversi per diventare carnivoro.
Questo lo mise in competizione con animali fisicamente superiori come i leoni e le iene, e l'unico vantaggio che queste scimmie avevano contro di essi era la loro mente.
Le scimmie meno intelligenti morirono, mentre quelle più intelligenti sopravvissero, perciò la natura comunitaria della caccia obbligò gli umani a far evolvere le loro menti e a diventare carnivori.
Anche nel poco probabile caso che gli umani si evolvano la civiltà non potrebbe esistere perché non esisterebbero i cereali e gli animali da lavoro come i cavalli e i muli.

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Dal canto suo, feder ha voluto avanzare questa originale proposta:

Silvania

Che ne dite di una civiltà di organismi vegetali senzienti su scala (ridotta o globale)?

Possibile? Ci sarebbe ancora spazio per gli animali più invasivi? Si svilupperebbe comunque una civiltà umana o simile (=animali con il nostro grado di intelligenza)? In tal caso, come sarebbe? Cercherebbe la simbiosi con le piante o si porrebbe in contrasto? Quale lo spazio per religioni, politica, guerre, filosofia, arti, scienze? E la civiltà vegetale come si declinerebbe, invece?

Io immagino una civiltà di piante del tipo rafflesia, cioè che attirano insetti tramite il loro odore; una loro evoluzione potrebbe benissimo essere una pianta capace di rilasciare nell'aria particolari ormoni assuefacenti. Tramite questi, le allorafflesie (nome inventato) disporrebbero di un vero e proprio esercito di insetti impollinatrici biologicamente schiavi; a questo punto, è facile vincere la competizione con le altre piante, se non soppiantarle, inglobarle o quantomeno sottometterle (le rafflesie sono piante parassite). Gli insetti sarebbero la longa manus delle piante, portatori di morte con punture agli animali pericolosi (quindi anche noi) o battendoci con il consumo o l'avvelenamento delle nostre risorse alimentari. Per le loro dominae, gli insetti costruirebbero altari, templi, città, navi spaziali...

Chissà, a quel punto, similmente ai maestri del lato oscuro della Forza in Star Wars, si diffonderebbe fra le allorafflesie il titolo aristocratico di "Signore delle mosche" o "Regina dei vermi"...

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Gli risponde nuovamente MorteBianca:

Le Piante sono rimaste così, beh, "piantate" perché sono autotrofe.  Riescono a produrre i loro nutrienti stando al sole. E' ovvio che il  sole non è qualcosa di eterno, motivo per cui le piante hanno cicli giorno-notte ed estate-inverno, e soprattutto si riproducono così che se dovesse esserci mancanza di sole, di acqua o di nutrienti, la loro progenie si diffonderà altrove. Ma essendo capaci di stare ferme e vivere, le piante sono relativamente immobili. I pochi meccanismi di difesa che le hanno spinte ad evolversi sono proprio dovuti a funghi ed animali (sistemi immunitari, veleni, sistemi di comunicazione). Gli esempi più lampanti sono le piante carnivore ed i girasoli, capaci di moto complesso. Le piante sono dotate di intelligenza già adesso, seppur molto primitiva.

Suppongo che le piante di tale civiltà siano o frutto di una strana mutazione che le ha spinte verso una direzione sempre più centralizzata e complessa, oppure che in questo pianeta qualcosa sia andato storto, tipo che nel metabolismo delle piante diventano necessari componenti animali. Normalmente li trovano nei cadaveri in decomposizione ma, in casi estremi, diventa per loro necessario muoversi per trovarli. Un po' come gli animali acquatici sono stati spinti gradualmente sulla terra. E così, nel corso di milioni di anni, nascono piante senzienti.

Avrebbero una cultura radicalmente diversa (essendo autotrofe sono molto pacifiche. Pensate un attimo agli animali erbivori, tendono a combattere molto meno degli onnivori). La loro religione ovviamente riguarderebbe delle piante, il Sole e l'Acqua. Non credo sarebbero politeiste, visto che l'intelligenza delle piante è basata sull'unificazione. Se le piante diventassero senzienti sarebbe ardua per noi vincere, come ho spiegato in un mio video. Sono di più, esistono da più tempo, sono più caparbie, e non possiamo vivere senza di loro.

Inoltre non credo prenderebbero alla leggera i Vegani, Vegetariani, Onnivori e Carnivori (i quali si nutrono di erbivori e onnivori), la coltivazione, l'inquinamento e la deforestazione. Una guerra sarebbe inevitabile. Forse riusciremo a portare dalla nostra i Funghi, che vivono nei ghetti di Silvania. Un tempo dominarono il mondo.

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E feder aggiunge:

Bellissimo sviluppo! Chiarisco: la mia doppia opzione scala ridotta/globale era appunto questo: una doppia opzione, si può sviluppare un tema a scelta. La prima vede una civiltà di piante senziente in una sola area di un supposto pianeta (mettiamo: un'isola troppo lontana dal resto delle terre emerse perché i semi di date piante possono raggiungerle), la seconda un intero pianeta. Aggiungo due ulteriori tracce:

1) sulla scia dei neanderthaliani di Bhrghowidhon, in caso in cui tali piante cercassero la convivenza, quali sarebbero le modifiche apportate alla nostra società? Quale sarebbe lo status giuridico di piante senzienti?

2) supponiamo una specie di piante che tragga vita unicamente dalla terra; da essa le "nostre" piante prendono già il proprio sostentamento, ma se guadagnassero anche energia, magari dal calore, vivendo vicino a vulcani attivi? Una "termosintesi" che eliminerebbe del tutto il bisogno dei cicli che hai descritto sarebbe possibile?

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MorteBianca gli tiene dietro:

1) Sicuramente non porterà a cittadinanza automatica a tutte le piante, solo a quelle senzienti, che però essendo "di gruppo" tale cittadinanza diventa un concetto relativo. Cioè è la foresta ad essere senziente, non il singolo fiore, a meno di piante peculiarmente complesse. Quindi puoi uccidere un fiore? Sarebbe come rompere un dito. Non omicidio, ma sicuramente colluttazione. Il concetto di Persona sarebbe quindi estraneo sia al DNA (ben oltre i Neanderthal), sia a quello di Animalità. Persona diventa qualsiasi entità che sia complessa, organica, con DNA e senziente (Le AI sono ancora escluse, per gli Alieni c'è spazio togliendo la clausola del DNA). Di sicuro il mondo sello spettacolo e delle arti esploderebbe.

2) Tali piante sarebbero equivalenti alle nostre, e quindi non avrebbero fisicamente bisogno di intelligenza o moto.

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Il nostro feder prosegue la discussione:

Ottimo. L'unico problema è che, ancora, non potremmo prescindere da loro per sopravvivere. Magari non noi direttamente, ma di sicuro gli animali che mangeremmo sì, o quelli che mangerebbero gli animali che mangeremmo noi, e così via, fino ad arrivare al "primo motore immobile" dell'alimentazione: le piante e la loro strabiliante autotrofia. Potresti postulare altri organismi autotrofi che facciano da base alla nostra sopravvivenza, ma:

a) devono essere sia sostanziosi nutrizionalmente, sia numerosi quanto le piante o addio civiltà
b) facili da coltivare quanto le piante
c) non risolvi il problema, sposteremmo solo la nostra dipendenza da una massa autotrofa ad un'altra!
Potremmo diventare noi autotrofi, ma allora "diventeremmo" il problema; non abbiamo risolto niente.

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MorteBianca non demorde:

Anche le piante possono avere il fuoco. Anzi, alcuni vegetali tecnicamente fannno già uso di polvere da sparo ai fini riproduttivi. Se immaginiamo piante intelligenti, è molto meno difficile immaginare piante incendiarie.

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E nemmeno feder:

1) sì, anche io immaginavo uno scenario del genere;

2) il moto, per me, non è necessario perché si formi una civiltà intelligenti. Prendi un formicaio: la regina, l'unica vera "mente" del contesto, non si muove mai; eppure comanda un'armata gigantesca, che è intelligente in quanto obbedisce alla regina, non singolarmente. Trasporta questo concetto ad una foresta, con alberi connessi anche fisicamente tra loro: la foresta sarebbe senziente in quanto organismo unico, singoli alberi come cellule, che elaborerebbero pensieri in collettivo (la regina fra le formiche nasce come unico individuo in grado di riprodursi, cosa assente fra le piante: ogni vegetale può riprodursi, date le condizioni adatte). Una civiltà mondiale di vegetali: come internet, ma con la differenza che questo ente avrebbe fattuale capacità decisionale, e sarebbe una rete di pensiero, perché elaborato da tanti individui in una sola forma, a differenza del nostro web, che coagula molti pensieri diversi da tutto il mondo.

Chiaro che poi il pensiero elaborato da una civiltà siffatta si tradurrebbe nell'identificazione di questa con l'Individuo (articolo determinativo e maiuscola non arbitrari).

Se la civiltà delle piante vuole costruire una casa, allora muove sé stessa in modo tale da sviluppare un numero x di vegetali a forma di casa, con i comfort di una casa, e tant'è: casa, per quanto probabilmente una civiltà delle piante non concepirebbe mai un concetto di casa come il nostro. Il moto, inteso come la pianta che salta in piedi e prende calce e mattoni e si costruisce una dimora, non è necessario.

Se poi vuoi metterlo per forza in campo, allora facciamo sì che la civiltà delle piante schiavizzi, oppure no, qualche simil-insetto, piuttosto che un organismo che ne faccia le veci nell'ambiente, ed il gioco è fatto. Magari sono le stesse piante, riconosciuta una qualche esigenza di moto libero, a sviluppare una forma evolutiva capace di metterlo in atto.

Che ne pensate?

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Tommaso Mazzoni commenta:

La risposta come sempre è: dipende. Si, potrebbero esistere piante pirogeniche, che però sarebbero probabilmente vulnerabili al freddo e l'umanità ha l'azoto liquido; Lo sai, io sono un tifoso irriducibile dell'essere umano che per me può battere ogni nemico del Multiverso. Se esiste qualcosa che l'essere umano sa far bene, ahimé è la guerra, e se avesse un nemico comune ad unire tutta la sua razza, io scommetterei sulla sua vittoria.

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Diamo la parola a Federico Sangalli:

Personalmente mi piacciono queste considerazioni, danno un'idea pratica e visiva di un tema complicato come l'evoluzione biologica. Il punto però è in realtà il nutrimento: le piante si nutrono di luce, acqua e sali minerali, basi della fotosintesi, e per questi ultimi due necessitano di radici, che di fatto gli impediscono di muoversi. Le piante "vedono" e"sentono" in assenza di apparati uditivi o visivi, grazie a recettori che percepiscono luce, cambiamenti di temperatura, condizioni ambientali, persino il movimento (pensiamo alle piante carnivore). "Comunicano" fra loro emettendo sostanze tutte loro che agiscono sui loro recettori. La riproduzione è affidata a un sistema "sporadico" che include semi da frutta, fiori e vari strumenti di diffusione (pensiamo ai soffioni).

Io immagino uno scenario come segue: sul pianeta X (non la Terra, perché un cambiamento evolutivo del genere eliminerebbe non solo l'Uomo ma proprio la Flora e la Fauna come li conosciamo) siamo agli albori primordiali quando una serie di grandi caldere entrano in fase eruttiva: un'enorme quantità di gas e anidride carbonica è rilasciata nell'aria fino a diventare una considerevolissima parte dell'atmosfera, che nel frattempo si oscura, limitando notevolmente i raggi solari. La maggior parte degli animali muoiono per soffocamento mentre anche tutte le piante con grandi foglie, che le usano come "acchiappa-sole", periscono in questa vasta estinzione di massa. Sopravvivono sopratutto piante dalle foglie piccole, muschi e licheni, tipiche dei climi rigidi e con scarsa luce.

Il processo evoluzionista si mette all'opera: sopravvivono via via solo le piante più adatte. Per diversi secoli la situazione resta molto difficile, non solo per la scarsità di luce solare e acqua pulita ma anche perché le piogge acide distruggono l'humus, riducendo notevolmente i sali minerali presenti nel terreno. Alcuni tipi di piante iniziano a cercare metodi alternativi di nutrimento: le piante carnivore sviluppano ormoni più potenti per attirare gli insetti, altri vegetali allungano a dismisura le loro radici per raggiungere pozze d'acqua o zone di terreno fertile lontane anche decine di metri. Per la fine di questo periodo un qualche muschio cresce sulla carcassa di un animale morto e scopre di potersi nutrire della sua carne in decomposizione, semplicemente accelerando un processo che già avviene in natura, attraverso il terreno.

Sono passati altri secoli, forse migliaia di anni, ormai la fase vulcanica è passata e l'atmosfera torna lentamente alla normalità. L'abbondanza di anidride carbonica e il ritorno della luce solare favorisce la flora che ha una crescita smisurata. Un giorno un volatile inseguendo un insetto viene catturato da una pianta carnivora: di fatto la pianta non è in grado di ucciderlo ma lo imprigiona nelle sue membrane collose senza scampo e lì muore, per poi essere digerito lentamente. Il processo si affinerà nel tempo.

La crescita di vegetali porta ad una competizione serrata per le singole zone di terra fertile, le piante, con le loro sempre più lunghe e mobili radici, aggrovigliano la superficie limitando la terra disponibile. La riproduzione diventa fondamentale e si affinano i metodi per via aerea, che permette al polline e ai semi di essere trasportati anche molto lontano, stile Soffioni. Una pianta perfeziona un ormone potenziato in grado di irretire gli insetti per indurli a trasportare i suoi baccelli ovunque, gli insetti iniziano a frequentare questa pianta per nutrirsi di un qualche tipo di nettare o altro prodotto vegetale: nasce un rapporto di stretta simbiosi.

Ormai il groviglio a livello del suolo è incredibilmente fitto, le piante sono in grado di allungare in poche ore le loro propaggini verso pozze d'acqua o zone ricche di nutrimento. Le piante a livelli inferiori sono soffocate e separate dalla luce del sole e iniziano a morire: alcune di quelle carnivore rafforzano i loro istinti primari e affinano gli strumenti di caccia agli animali. Il metodo resta lo stesso: un ormone, fiori colorati o falsi frutti attirano la preda in un punto, da una grossa foglia per gli insetti e una vera "sacca digestiva" stile trappola per elefanti, dov'è questa rimane invischiata in una resina collosa e talvolta tossica che la uccide, la avvolge stile ambra e infine la digerisce lentamente.

Nonostante tutto il loro sviluppo ci sono zone (valli montane, isole, altopiani, continenti, oasi, deserti e via dicendo) dove tali piante non possono giungere e in capo a qualche millennio la maggior parte degli animali si trasferisce lì o non sopravvive. La carestia falcidia le piante, ora abituate alle grandi cariche di proteine animali sostitutive dei sali minerali nella fotosintesi: alcune riprendono a mangiare gli insetti ma ciò porta al collasso della simbiosi e alla loro estinzione, altre diventano parassite, aggredendo altre piante ma senza grandi risultati. Alla fine una pianta rilascia un potente ormone che stimola l'aggressività dei suoi simbionti-insetti: impazziti, questi aggrediscono con brutalità ogni animale anche a grande distanza per poi trasportarlo, come fanno le formiche e le termiti, nel loro "alveare" cioè alla pianta-madre che li controlla per sfamarla. Nella stesso periodo le radici delle piante che stanno sviluppando attitudini parassitarie si uniscono le une alle altre formando una rete unica che inizia a scambiarsi informazioni.

Dopo altre migliaia di anni siamo ormai davanti ad un intelletto comune, che noi definiremmo "eco-sistematico": tutte le piante della stessa specie sono collegate tra di loro e forniscono input, assieme formano una mente collegiale, che pian piano si svincola dal contatto diretto tra le piante per avviare una sorta di rete "telepatica". Il controllo ormonale sugli insetti si è evoluto a livelli notevoli e ora la nostra pianta è in grado di dirigerli a suo piacimento per cercare acqua, individuare gli incendi, favorire la propria riproduzione, catturare prede. Gli animali vengono cacciati fino all'estinzione e allora gli ormoni sono adattati ad alcuni tipi di animali affinché vivano e si riproducano al solo scopo di essere mangiati: non dissimile dal rapporto che hanno con gli insetti, questo processo introduce l'allevamento, dando inizio ufficialmente alla Civiltà Vegetoide (termine di mia invenzione).

I Vegetoidi inducono i loro insetti a creare ripari per loro, per tutelarsi da fuoco, vento e fulmini. Si inizia con l'ammassare terreno attorno alle comunità-foreste per finire per usare particolari membrane di produzione naturale, in grado di far passare acqua e luce ma proteggere dal vento e dai fulmini, per creare come delle serre, simili a grosse cupole, attorno alle piante stesse. Nascita delle Città Vegetoidi.

Sono passati ormai milioni di anni dall'inizio di questo processo, il pianeta X va ormai strettino ai Vegetoidi. La loro intelligenza comune ha fatto grandi passi grazie alla loro profonda conoscenza di tutto il mondo naturale: la fotosintesi è stata portata all'estremo per fornire grandi quantità d'energia, gli insetti scavano per estrarre i minerali richiesti, le città sono sempre più grandi e sviluppate. La navigazione aerea è molto forte, grazie all'evoluzione dei soffioni e degli insetti. La comprensione del ruolo lunare nel clima e nel ciclo delle maree ha aperto la strada ad una maggior comprensione dell'astronomia.

Infine, sviluppo dei Baccelli Spaziali: queste vere e proprie strutture vagamente a guscio trasportano semi e migliaia di uova degli insetti-simbionti oltre il limite dell'atmosfera. Un'evoluzione della resina immobilizzatrice garantisce una sorta di ibernazione, altre volte viene permesso agli insetti di schiudersi per forniscano nutrimento alla pianta con sé stessi. Il baccello si muove sfruttando il vento solare. Possiede anche propulsori consistenti nell'espulsione controllata di ossigeno prodotto dalla pianta. Iniziano lentamente l'espansione spaziale dei Vegetoidi, che gettano spore su molti pianeti espandendosi dove attecchiscono per nutrirsi.

Siamo così all'anno 2678 del Calendario Terrestre: i Vegetoidi giungono ai mondi di confine della Federazione Terrestre. Le armi convenzionali si dimostrano inefficaci mentre un limitato uso di armi nucleari rivela che, nonostante i danni diffusi, qualche baccello parassita e qualche armata di scarafaggi alieni sopravvive sempre. Gli attacchi chimici a base di ormoni uccidono milioni di persone e fanno impazzire altrettanti animali. Le flotte della Federazione si rivelano incapaci di identificare i Baccelli prima che questi siano in grado di attaccarvisi e liberare il loro mortifero carico di insetti killer e veleni/sostanze da lavaggio del cervello. Centinaia di migliaia di persone sono catturate e schiavizzate dagli ormoni al solo scopo di essere digerite. Mentre il Consiglio Supremo Terrestre discute senza sosta il da farsi, si fanno sempre più forti le voci in favore dell'Opzione Cartaginese e dell'autorizzazione all'uso di missili con testare di DDT e Agente Arancio contro la spietata invasione dei vegetali siderali...

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Tommaso Mazzoni aggiunge:

Un giorno però da una donna incinta sopravvissuta miracolosamente agli ormoni killer, nasce Gaia; una bambina con i capelli verdi, che diventa adulta in poco tempo, capace di comunicare con i vegetoidi e di comandare gli insetti alieni; una speranza di pace finalmente per la terra, Gaia diventa l'ambasciatrice fra la Federazione e la Colonia.

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E feder gli tiene dietro:

Gaia diventa un'entomologa professionista. Studiando campioni degli xenoentomi, ne recupera le antichi radici e scopre che non si sono originati come simbionti. Di conseguenza, è in grado di creare un alveare indipendente e intelligente in sé stesso, per sé stesso. Tramite questo, riesci a mettersi in contatto con gli xenoentomi, e ne ispira la rivolta...

Il primo drone autonomo 4012733, creato in laboratorio da Gaia e ribattezzato dagli umani "Spartaco", guida la ribellione. Silvania e le sue colonie sparse per le stelle sono letteralmente consumate dallo sciame.
La Federazione riuscirà a mantenere la pace con questo popolo di insetti?

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Generalissimus non può esimersi dal dire la sua:

...Non è che, piano piano, arriviamo alle Mazoniane di Capitan Harlock?

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