Il mortaio è raro e bello...

di aNoNimo


In un remoto villaggio fra i monti viveva un tempo un contadino che, vedovo, condivideva con l'unica figlia il duro lavoro dei campi.

Donata, era questo il nome della ragazza, sebbene ventenne nonché di gradevole aspetto e di pronta intelligenza, non aveva trovato marito in quanto il padre non possedeva abbastanza per costituirle una dote.

Un giorno, all'alba, il brav'uomo, mentre era intento a dissodare le zolle del suo piccolo podere, mise allo scoperto un oggetto che luccicò al sole nascente e che, prontamente ripulito, risultò essere un mortaio d'oro. Eccitato, felice, interruppe il lavoro e si affrettò a far ritorno al villaggio per mostrarlo alla figlia.

Donata se lo rigirò perplessa fra le mani. "È d'oro massiccio", convenne, "ma credo sia di scarsa utilità. Nessuno qui ha abbastanza soldi per poterlo comprare e se proviamo a venderlo in città c'è il rischio che ci accusino di averlo rubato".

Il buon uomo, che aveva costruito tanti sogni su quell'improvvisa fortuna, controvoglia dovette ammettere che sua figlia aveva ragione. Stette a pensarci un po' su, poi alfine decise: "Lo porterò in dono al re. Nella sua magnanimità non mancherà di ricompensarmi generosamente, così, finalmente, riuscirò a realizzarti il corredo e la dote".

Donata scosse il capo dubbiosa. "Sono sicura che il re non ti darà alcuna ricompensa", avvertì. "Piuttosto ti dirà: Il mortaio è raro e bello, ma, villan, dov'è il pestello?"

L'uomo si mostrò profondamente seccato dalla saccenteria e dalle continue obiezioni che gli muoveva la figlia. "Che sai tu dire?" la rimbeccò. "Un re non può essere che giusto e buono, altrimenti non sarebbe re".

Fu così che, fermo nella propria decisione, il giorno successivo, di buon'ora, si mise in cammino alla volta della città. Era l'imbrunire quando bussò alla porta del palazzo reale e, informate le guardie circa il prezioso rinvenimento, fu ammesso al cospetto del re.

Il sovrano, sprofondato in atteggiamento pensoso fra i cuscini di velluto del trono, lo degnò appena di uno sguardo. Soggezionato, profondendosi in inchini goffi e scomposti, il povero contadino pose ai suoi piedi il mortaio senza profferire parola. Il re lo prese, lo rigirò a lungo fra le mani, lo considerò ammirato ma alfine, in tono di rimprovero, disse: "Il mortaio è raro e bello, ma, villan, dov'è il pestello?" Sorpreso, l'uomo, scordando il contegno ossequioso cui era tenuto, si drizzò nella persona menandosi nel contempo una sonora pacca sull'anca. "Che cretino sono stato!" sbottò. "Avrei fatto meglio a dare ascolto a mia figlia".

Il re inarcò le sopracciglia. "Tua figlia cosa suggeriva?" si informò.

"Vostra maestà non la tenga per offesa", si affrettò a chiarire il contadino, mordendosi le labbra e maledicendo fra sé la propria impulsività. "Mia figlia aveva previsto che vostra maestà avrebbe pronunciato le esatte parole testè dette".

"Si diletta forse di magia nera?" indagò il re sospettoso. "Assolutamente no, maestà", respinse con forza il contadino e si segnò il petto e la fronte con la croce. "Mia figlia è devota alla Vergine e non manca di ascoltare messa ogni domenica. Solo è una ragazza saggia".

Se è saggia come tu dici", replicò il re, "ordinale di comparire alla mia presenza, ma faccia in modo che non venga né di notte né di giorno, né a piedi né a cavallo, né nuda né vestita, né digiuna né sazia. Ora va e non provare ad ingannarmi perché la mia collera ti raggiungerebbe ovunque, anche ai confini del mondo".

Il pover'uomo rifece a ritroso il cammino nella notte, maledicendo la propria ingenuità e raccomandandosi a tutti i Santi del Paradiso. Paventava l'ira del re e già si figurava fustigato e rinchiuso in una putrida cella, punito per la propria arroganza. A rendere più gravoso il suo sconforto era il pensiero di aver ridotto Donata in miseria, in quanto il re non avrebbe mancato di confiscargli il podere.

Giunse a casa a mattino inoltrato. A Donata che lo aveva atteso in ansia, senza chiudere occhio, non dette il tempo di parlare. Si accasciò esausto su di una sedia e cominciò a gemere ed a lamentarsi: "Poveri noi. Le disgrazie mele vado proprio a cercare. Ti avessi dato retta, figlia mia!"

Donata tirò fuori dalla credenza pane e formaggio. "Non c'è ragione di crucciarsi", lo rincuorò. "Io sulla ricompensa non ci ho mai contato. Poveri eravamo e poveri siamo rimasti".

"È successo di peggio", gemette il po­ver'uomo, visibilmente sconvolto.

Donata si fece seria, apprensiva. "Ti hanno accusato di furto?" interrogò allarmata. "Ti hanno depredato? Qual­cuno ti ha minacciato?"

L'uomo scosse il capo sconsolato e, tutto d'un fiato, riferì alla figlia l'assur­da richiesta del re. La ragazza rifletté un istante, poi, rasserenata dall'intui­zione di una possibile soluzione, esor­tò il padre a consumare il suo frugale pasto ed a recuperare almeno in parte il sonno perduto.

Impiegò l'intera giornata nella ricerca di una robusta capra e di una rete da pescatore, quindi, serbata una casta­gna nel pugno, si denudò, si avvolse nalla rete e, montata in groppa alla capra, parti alla volta della città che annottava.

Raggiunse la reggia che l'aurora schia­riva l'orizzonte. Le guardie, sebbene insonnolite, non potettero che apprez­zare l'insolita apparizione e, tutte, le si fecero intorno, ammiccando, ammi­randola, interrogandola premurose, ma alla richiesta di ammetterla alla presenza del re decisamente si opposero. "Ho assoluta urgenza di vederlo", so­stenne lei caparbia, alzando il tono della voce.

"Sua maestà sta riposando e non può essere disturbata", tentavano di spie­gare gli armigeri; ma la ragazza non intendeva ragioni.

"Debbo conferire col re", cominciò ad urlare con voce stridula, spronan­do la capra nell'intento di aprirsi un varco.

"Zitta, sciagurata", raccomandavano quelli. "Ci rincrescerebbe che una siffatta figliola finisse ad invecchiare nei sotterranei del castello".

"Lasciatemi passare", continuava ad insistere lei. "E' di vitale importanza che conferisca subito col re".

Dei lumi si accesero nella reggia. Scalpiccii e voci concitate fiorirono ovunque. Tutto quel trambusto finì col destare il sovrano che, furente, venne alla finestra. Come lo vide, Do­nata gli si rivolse direttamente:

"Sono Donata, sire", gli gridò, "la fi­glia del villico che vi ha fatto dono del mortaio d'oro".

Alla vista delle fattezze armoniche del­la ragazza, che la rete da pescatore mal celava, l'ira del re sbollì per cedere il posto all'ammirazione. Tuttavia il tono della voce si conservò autoritario: "Ti avevo fatto chiedere di comparire al mio cospetto non di giorno, ma nep­pure di notte", le ricordò.

"Vi pare che sia già giorno, sire?" domandò lei di rimando, per nulla intimidita.

"No, non posso affermare che sia già giorno", convenne il re.

"E ritenete che sia ancora notte?" in­calzò lei.

"No, neppure questo posso afferma­re", ammise il re. "Comunque avevo chiesto che venissi non a piedi, ma neppure a cavallo".

"Come potete vedere, sire, sono in groppa ad una capra; ma non si può dire chela cavalchi in quanto ho i piedi al suolo, né che cammini, in quanto mi lascio portare da essa", argomentò Donata.

"Può darsi che tu abbia ragione", concesse il re; "ma ti vedo coperta, e l'ordine era di presentarti non vestita né nuda".

"Vostra maestà ritiene una rete da pescatore sufficiente a vestire un corpo?" interrogò Donata.

"In effetti non basta", concordò il re. "E nel contempo dovete ammettere che nuda non sono in quanto indosso questo seppur singolare vestito".

Il monarca annuì. Donata dischiuse il pugno e si affrettò a mangiare la castagna che aveva serbato sino ad allora. "E dell'ultima condizione cosa puoi dirmi?" domandò il re che, smesso l'iniziale piglio austero, appariva ormai divertito.

"Come vostra maestà ha potuto costatare", fece notare Donata, "ho appena finito di mangiare una castagna, quindi digiuna non sono. Peraltro, sebbene la povera gente come me sia avvezza a contentarsi del poco cibo lasciato da censi e gabelle, non può bastare una sola castagna a saziarmi". Il re, sedotto dall'arguzia oltre che dalla bellezza di Donata, ordinò alle guardie di introdurla al proprio cospetto. "Sei saggia ed astuta", riconobbe ammirato, "pertanto sarai la mia sposa. Però", avvertì, "ricorda che mai, e per nessuna ragione, dovrai interferire col mio operato".

Le nozze furono solenni e fastose, e per Donata ebbe inizio una vita da favola.

Passarono i mesi e venne il tempo della vendemmia. Un povero contadino, venuto in città per la fiera col suo carico d'uva, nell'intento di arrotondare i suoi miseri proventi, dette a nolo la propria asina incinta ad un commerciante del luogo perché ne trainasse il carro fino ad un paese vicino. Il caso volle che durante il tragitto l'asina partorisse ed il commerciante, adducendo a pretesto la circostanza che l'evento si fosse verificato fra le stanghe del suo carro, rivendicò il possesso del puledro. La questione fu sottoposta al giudizio del re il quale, ascoltate le ragioni dell'uno e dell'altro, ritenne valida la tesi del commerciante.

Il contadino era disperato. Tutta la giornata si aggirò, dolente, nei pressi della reggia. Non riusciva a rassegnarsi all'ingiustizia patita, né aveva il coraggio di tornare al suo villaggio dove la moglie non avrebbe inteso ragioni. Fu così che Donata, durante la sua passeggiata vespertina, lo sorprese in lacrime ai margini del parco ed apprese quanto era accaduto. Sebbene memore dell'impegno assunto col proprio sposo, impietosita, non potette esimersi dal consigliargli un espediente che forse gli avrebbe consentito di rientrare in possesso del puledro, raccomandandogli però di non rivelare ad alcuno l'origine del suggerimento. Rincuorato, il contadino, fece solenne promessa e, il mattino successivo, come dettogli, si portò nel giardino del re e prese a trascinare nel prato una lunga rete da pesca.

Quando, poco più tardi, il monarca si destò e venne alla finestra, scorgendo lo impegnato in tale strana attività, lo interpellò incuriosito: "Cos'è che stai facendo, villano?"

"Come vostra maestà illustrissima può vedere, sto pescando", rispose il con­tadino senza fermarsi.

"Da quando il prato dà pesci?" inter­rogò il re divertito.

"Da quando i carri mettono al mondo asinelli", fu la pronta risposta.

Il re ne fu irritato. Chi poteva aver suggerito a quel rozzo villico ignoran­te una tale messinscena allo scopo di contestare il giudizio con cui, il giorno innanzi, aveva chiuso la vertenza che lo aveva visto contrapposto ad un onesto e rispettato commerciante del luo­go? Qualcuno osava criticare la sua imparzialità, screditare l'amministra­zione della giustizia, seminare il dubbio e lo scontento fra i sudditi. Tali dissensi andavano stroncati sul nasce­re se non si voleva incorrere nel peri­colo dell'anarchia.

In preda a queste tumultuose conside­razioni, non esitò ad ordinare alle guar­die di trascinare l'uomo al suo cospetto. "Son disposto a perdonare la tua arroganza", promise, "ed anche a farti rendere il puledro, purché tu mi faccia il nome di colui che ti ha consigliato un tale stratagemma".

"Nessuno mi ha consigliato, maestà", farfugliò il contadino, tremante.

"Se ti ostini a tacere", minacciò il re, "ti farò decapitare e confischerò tutti i tuoi beni".

Il contadino sbiancò in viso. Nono­stante il terrore gli fiaccasse le mem­bra, non intendeva mancare alla promessa fatta. "Lo giuro, maestà; nessu­no mi ha consigliato", insistette.

Il re si levò in piedi, furente. "Conse­gnatelo all'inquisitore perché lo faccia confessare", urlò. "E se nonostante le torture si ostina a tacere, affidatelo al boia affinché venga giustiziato sulla pubblica piazza a mo' di esempio per tutti".

Il pover'uomo si senti venir meno. Le guardie lo afferrarono per le braccia, pronte a trascinarlo via. "Pietà", egli supplicò fra le lacrime, ma la rude inflessibilità degli armigeri lo convin­se che sarebbe stato inutile invocare clemenza. "Il consiglio mi è stato dato dalla regina, vostra consorte", confes­sò allora tutto d'un fiato.

Il re fu profondamente turbato da tale rivelazione. Fedele alla parola data, dispose che l'uomo fosse liberato e che il puledro gli venisse restituito, quindi ordinò che si convocasse d'urgenza la regina.

Donata non si mostrò affatto sorpresa dell'insolito invito a comparire dinan­zi al suo sposo nella sala delle udienze. Era consapevole di aver contravvenu­to alle regole, ma non ne era affatto pentita. Aveva agito di istinto, obbedendo al proprio senso di giustizia, ed era pronta a subirne le conseguenze. Il re appariva sinceramente rammaricato. Era innamorato della sua sposa, ma non poteva permettere che i senti­menti personali ostacolassero i suoi doveri di sovrano. Evitò di incrociarne lo sguardo. "Hai dimostrato di non essere alfine tanto saggia", esordì. "Sei venuta meno all'impegno di non interferire nel governo del regno, e ciò ti impone di lasciare la mia dimora. Comunque, pur se ti ho sposata senza che possedessi un abito da mettere in dosso, a riprova della mia magnanimità, ti consento di portare con te ciò che di più prezioso ritieni contenga questo palazzo".

"Non posso darvi torto, sire", convenne Donata. "Permettetemi solo di restare qui ancora una notte, in modo che possa vagliare, fra le tante cose a me care, ciò che maggiormente potrebbe consolarmi della perdita della mia privilegiata condizione".

II re annuì. "Ti concedo di pernottare a palazzo, ma esigo che alle prime luci dell'alba tu ne sia lontana".

Quella sera, a cena, Donata nascostamente versò una fiala di sonnifero nella coppa del vino del re e questi, dopo averne bevuto solo pochi sorsi, cadde in un sonno profondo. Lei dispose che si approntasse in tutta fretta un cocchio e vi fece caricare il re addormentato. Quindi salì a cassetta e, senza scorta, spronò i cavalli alla volta del villaggio natio, diretta alla casa paterna.

Qui giunta, con l'aiuto dell'anziano genitore, trasportò il suo sposo in quella che era stata la sua camera e ve lo adagiò sul letto.

Al mattino il monarca fu destato dal canto dei galli e dall'operoso risveglio della campagna. Sorpreso, disorientato, si rizzò a sedere sul misero letto di spoglie. "Dove sono?" interrogò.

Dalla penombra venne fuori Donata che lo aveva vegliato l'intera notte. "In casa mia", gli rispose. "In casa tua!?" si stupì il re. "E cosa ci faccio io in casa tua?"

"Perdonatemi, maestà", gli disse Donata. "Siete stato voi ad autorizzarmi a portare con me quanto di più prezioso ritenessi fosse a palazzo. E la cosa più preziosa, per me, siete voi".

Il re, commosso, l'abbracciò. "Donata", le disse, "sei una cara, saggia ragazza e qualsiasi uomo al mondo, persino il più potente dei re, non potrebbe che considerarsi fortunato di averti come sposa. Ti prometto che da oggi mai più prenderò una decisione senza averti prima interpellata."

aNoNimo

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La palla passa a Dario Carcano:

Il Libro del Profeta Colin

(Versione attualizzata del Libro di Giona)

Fu rivolta a Colum Vero questa parola del Signore: "Alzati, va' a Mosca, la grande metropoli, e in essa proclama che la loro malvagità è salita fino a me".

Colum, detto Colin, era un sacerdote cattolico di Boston. Nato nel 1905 da padre italiano e madre irlandese, non era diventato sacerdote per vocazione. Terzo di undici fratelli, Colin era il meno adatto al lavoro fisico, e il più cagionevole di salute; i suoi genitori lo avevano spedito in seminario semplicemente perché volevano togliersi di dosso una bocca da sfamare di troppo.

Colin non aveva mai realmente creduto in Dio, e la sua condotta era tutt’altro che integerrima: beveva, scommetteva sui cavalli e giocava d’azzardo, e aveva anche avuto delle amanti. Per padre Vero l’abito sacerdotale era solo un modo come un altro per ricevere uno stipendio, e per questo disprezzava coloro che al contrario mostravano una sincera fede.

Nel momento in Colin sentì la parola del Signore, egli seppe immediatamente cosa fare: si imbarcò sulla prima nave diretta verso l’Australia, fuggendo da Dio e dal suo comando.

Ma Dio scatenò un fortissimo uragano contro la nave, che dopo poche ore di tempesta rischiava di affondare. Colin non si era accorto di nulla, ed era sottocoperta a dormire; uno dei passeggeri, un indiano kannadiga e induista, trovò Colin addormentato e lo svegliò, dicendogli:

"Che cosa fai così addormentato? Alzati, invoca il tuo Dio! Forse si darà pensiero di noi e non periremo".

Colin e l’indiano si avvicinarono ad un gruppo di cinesi che stavano tirando a sorte per trovare il responsabile dell’uragano, e dai dadi venne fuori che il colpevole era proprio padre Vero; l’indiano chiese:

“Chi sei dunque? Da dove vieni? Qual è il tuo mestiere?

E Colin raccontò la sua storia: “Sono un sacerdote americano, e prego l’unico vero Dio che ha creato il Cielo e la Terra e si è incarnato in Gesù Cristo.”

“Che cosa hai fatto per causare questa sciagura?” gli venne chiesto, e Colin raccontò di come Dio gli avesse parlato, dicendogli di andare a Mosca, ma lui avesse disobbedito. Disse poi che, se avessero voluto salvarsi, avrebbero dovuto gettarlo in mare, e questo avrebbe fatto cessare l’uragano.

Così, il gruppo di cinesi e indiani si raccolse in preghiera, rivolgendo a Dio la seguente invocazione: "Signore, fa' che noi non periamo a causa della vita di quest'uomo e non imputarci il sangue innocente, poiché tu, Signore, agisci secondo il tuo volere". Poi presero Colin e lo gettarono in mare, e immediatamente il vento si placò e tornò a splendere il sole; da quel giorno quegli uomini ebbero grande timore di Dio, e tutti cercarono il battesimo.

Nel frattempo, Colin si era messo a nuotare nelle acque dell’oceano, ma dopo alcune bracciate si accorse che l’oceano era più solido di quanto gli avessero insegnato a scuola. Realizzò solo allora che un sottomarino era emerso sotto di lui, e che un gruppo di marinai lo stavano tenendo sotto tiro. Dal fatto che parlavano russo si accorse che era un sottomarino sovietico, e che lo avevano scambiato per una spia.

Messo agli arresti in una cella dentro al sottomarino, Colin rivolse al Signore la seguente preghiera:

"Nella mia angoscia ho invocato il Signore
ed egli mi ha risposto;
dal profondo degli inferi ho gridato
e tu hai ascoltato la mia voce.

Mi hai gettato nell'abisso, nel cuore del mare,
e le correnti mi hanno circondato;
tutti i tuoi flutti e le tue onde
sopra di me sono passati.

Io dicevo: "Sono scacciato
lontano dai tuoi occhi;
eppure tornerò a guardare il tuo santo tempio".

Le acque mi hanno sommerso fino alla gola,
l'abisso mi ha avvolto,
l'alga si è avvinta al mio capo.

Sono sceso alle radici dei monti,
la terra ha chiuso le sue spranghe
dietro a me per sempre.

Ma tu hai fatto risalire dalla fossa la mia vita,
Signore, mio Dio.
Quando in me sentivo venir meno la vita,
ho ricordato il Signore.

La mia preghiera è giunta fino a te,
fino al tuo santo tempio.
Quelli che servono idoli falsi
abbandonano il loro amore.

Ma io con voce di lode
offrirò a te un sacrificio
e adempirò il voto che ho fatto;
la salvezza viene dal Signore."


Quando il sottomarino era in vista della costa russa, Colin approfittò di un momento di distrazione delle guardie e, infilatosi in un tubo lanciasiluri, si lanciò fuori dal sottomarino. Il Signore comandò il mare di depositare Colin sulla spiaggia.

Per la seconda volta, a Colin fu rivolta questa parola dal Signore: "Alzati, va’ a Mosca, la grande metropoli, e annuncia loro quanto ti dico". Colin si alzò e andò a Mosca secondo la parola del Signore.

Mosca era grande molte giornate di cammino, e padre Vero la percorse in lungo e in largo predicando: "Ancora quaranta giorni e Mosca sarà stravolta".

I cittadini di Mosca credettero a Dio, e bandirono un digiuno penitenziale cui parteciparono adulti e bambini. Giunta la notizia fino a Stalin, anch’egli si coprì il capo di cenere e vestì di sacco; per ordine del Partito e del compagno Stalin, venne emanato il seguente decreto: "Uomini e animali, armenti e greggi non gustino nulla, non pascolino, non bevano acqua. Uomini e animali si coprano di sacco, e Dio sia invocato con tutte le forze; chi non è battezzato riceva il battesimo, e ognuno si converta dalla sua condotta malvagia e dalla violenza che è nelle sue mani. Chissà che Dio non cambi, si ravveda, e deponga il suo ardente sdegno, cosicché noi non abbiamo a perire!".

Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia, e Dio si ravvide riguardo al male che aveva minacciato di fare loro, e non lo fece.

Ma Colin fu sdegnato dalla misericordia di Dio, e disse al Signore: “Signore, questa è la ragione per cui non volevo venire in Russia, e ho invece tentato di fuggire in Australia. Perché so che tu sei un Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira, di grande amore e che ti ravvedi riguardo al male minacciato. Sapevo che appena i russi si fossero convertiti, essi ai tuoi occhi avrebbero avuto la stessa considerazione che abbiamo noi americani, il popolo più cristiano del mondo. Dunque, Signore, toglimi la vita, perché preferisco morire piuttosto che vivere in un mondo in cui i comunisti sono nostri pari nel tuo amore.”

Ma il Signore gli rispose: "Ti sembra giusto essere sdegnato così?".

Colin allora uscì dalla città e sostò a oriente di essa. Si fece lì una capanna e vi si sedette dentro, all'ombra, in attesa di vedere ciò che sarebbe avvenuto nella città. Allora il Signore Dio fece crescere un nocciòlo al di sopra di Colin, per fare ombra sulla sua testa e liberarlo dal suo male. Colin provò una grande gioia per quel nocciòlo.

Ma il giorno dopo, allo spuntare dell'alba, Dio mandò un verme a rodere la pianta e questa si seccò. Quando il sole si fu alzato, Dio fece soffiare un vento afoso. Il sole colpì la testa di Colin, che si sentì venire meno e chiese di morire, dicendo: "Meglio per me morire che vivere".

Dio disse a Colin: "Ti sembra giusto essere così sdegnato per questo nocciòlo?". Egli rispose: "Sì, è giusto; ne sono sdegnato da morire!". Ma il Signore gli rispose: "Tu hai pietà per quella pianta per cui non hai fatto nessuna fatica e che tu non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta e in una notte è perita! E io non dovrei avere pietà di Mosca, quella grande città, nella quale vi sono milioni di persone? Devo forse avere il tuo permesso per amare i tuoi nemici, ed essere disposto a perdonarli?"

Dario Carcano

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E ora, la parola a Tommaso Mazzoni:

La Pulce d'Acqua

Una piccola fiaba ispirata a questa canzone:

C'era una volta tanto tempo fa, in un piccolo villaggio un giovane di nome Angiolino, un pastorello dalla belissima voce, che viveva con la nonna vicino ad un ruscello; sua nonna gli diceva sempre "Angiolino, il ruscello è un posto dove vige una tregua magica; nessun animale può essere ucciso sulle sue sponde."

Ma un giorno d'autunno Angiolino mentre beveva senti ronzare una mosca. Agitò la mano per scacciarla, e la schiacciò. Allora dalla roccia dove la mosca era morta usci una serpe verde con gli occhi dorati che ammonì Angiolino: "Quel che hai fatto non è giusto, chiedi scusa!!"

Ma Angiolino diede un pestone alla serpe che fuggi via.

Angiolino riprese a bere, e ad un certo punto sentì un morso sul naso. Il pastorello imprecò, e poi tornò a casa. Quella sera si sentì male, gli salì la febbre e non riusciva a dormire. Allora sua nonna vide il rossore sul suo naso, e chiese al nipote cosa fosse successo.

Angiolino raccontò quello che aveva fatto. La nonna sospirò, fece alzare il nipote eaccese la lanterna. Meraviglia! Angiolino non aveva l'ombra.

"Ti avevo avvisato, ragazzo mio", spiegò la nonna "La pulce d'Acqua, che vigila sulla tregua del ruscello, ti ha rubato l'ombra, per punirti di aver ucciso la mosca e scacciato in malo modo la serpe verde."

Angiolino fu stupito e andò in cerca della sua ombra, ma per quanto la chiamasse l'ombra non tornava.

Allora, disperato, Angiolino chiese alla nonna" cosa posso fare?"

La nonna rispose " Devi cantare, figliolo. Canta tutta la notte con la tua bella voce, per chiedere scusa alla serpe e alla mosca."

E Angiolino cantò, tutta la notte fino all'alba, senza stancarsi; dalla roccia emerse la serpe verde e man mano che Angiolino cantava diventava più grande. Poi, all'improvviso, mutò la pelle e si trasformò in una bellissima ragazza con gli occhi verdi come la pelle della serpe e i capelli dorati come i suoi occhi.

"Io sono Scitale, regina dei serpenti" spiegò. "E con il tuo canto, ti mi hai fatto innamorare di te!"

Angiolino la guardò, e anche lui fu perdutamente innamorato. "Se vuoi sposarmi, prendi la mia pelle, e gettala nel ruscello."

Lui lo fece ed ecco che la Pulce d'Acqua balzo fuori, la mangiò e divenne grande come un uomo.

"Angiolino, accetto il tuo grazioso dono", disse. "Ecco la tua ombra", e la sputò fuori.

Angiolino sentì la febbre lasciarlo e ringraziò la pulce d'acqua, che, tornata piccola, scomparve nel ruscello.

Angiolino portò Scitale a casa, e la sposò con la benedizione della nonna e i due vissero per sempre felici e contenti.

Larga è la foglia, stretta è la via scrivete la vostra, che ho scritto la mia.

Tommaso Mazzoni

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Lasciamo ora spazio al racconto di Sandro Degiani, scritto nel marzo 2004:

Ritorno al passato

Supponete di trovare parcheggiata sotto casa la DeLorean con cui nel 1985 Marty McFly tornò indietro di 30 anni in "Ritorno al Futuro".  Nella vostra buca delle lettere un mazzo di chiavi ed un bigliettino:  “E’ tua per un giorno - BUON DIVERTIMENTO!”
Qui c’è un po’ di “copiatura” e di presa in prestito di un mezzo da un film… ma è solo una scusa per rendere possibile un confronto tra un futuro desiderato nel passato ed un presente che non è il futuro sognato. È chiaro.. ? No? Allora leggetevi il racconto!

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DESTINAZIONE.... Marzo 1973. Qui non incontrate vostra madre e vostro padre, non c'è da cambiare la vostra vita secondo la legge del successo e del sogno americano. Supponiamo invece che incontriate una persona vostra coetanea, che so, una ragazza, a cui siete ansiosi di raccontare come cambierà la sua vita nei futuri 30 anni: il suo futuro, il vostro passato.

Prima le domande storiche, le più importanti: niente guerra mondiale nucleare, la fine della guerra in Vietnam, l’invasione dell’Afghanistan da parte dell’URSS con il conseguente boicottaggio delle Olimpiadi , un nuovo Vietnam per la Russia e il conseguente crollo del sistema socialista, i paesi ex-comunisti entrati nella NATO, l’Europa dei 22 dalla Spagna alla Turchia, L’Euro e la scomparsa del Franco, del Marco,  della Peseta della Dracma, la ex-Jugoslavia, il Kossovo e dintorni, il Kuwait nel 1992 e la futura annuciata guerra, forzata e inutile, in Iraq. E ancora Bin Laden, le twin towers. e l’11 Settembre,  In Italia, il sequestro Moro, le Brigate Rosse, il PSI di Craxi, Tangentopoli, l’esilo di Craxi ad Hammamed e l'ascesa di Berlusconi politico.

Ma la vostra amica è ansiosa di conoscere, e voi friggete dalla voglia di raccontarglielo, i meravigliosi progressi della tecnologia da allora a oggi.

Ragazza: - Si può andare in gita sulla Luna?-

Voi: -Beh, no... veramente dopo il programma Apollo non ci siamo più andati…!

R.: - Ma su Marte ci siamo andati vero?

V.: - Beh, ogni tanto si fa’ un progetto ma poi tutto finisce li. ci vuole troppo tempo, troppi soldi…

R.: - Ma c’è una Stazione Spaziale in orbita?

V.: - Beh, c’era quella Russa degli anni ’70 ma era vecchia ed venuta giù, adesso ne stiamo facendo una nuova ma due Shuttle sono esplosi e ne restano solo due e non riusciamo più a rifarne altri,  non ce la facciamo a mandare su tutti i pezzi che servono ma forse tra dieci anni riusciamo a finirla senza la parte Europea.

R.: -Abbiamo trovato un combustibile alternativo al petrolio?-

V.: -No, credo di no…

R.: - Fusione nucleare?

V.: -Non ne parla più nessuno...

R: - Ma almeno non muore più nessuno di fame... vero?

V.: - Solo qualche milione di bambini all'anno... e quasi solo in Africa! In India sono riusciti ad essere autosufficienti come cibo e muoiono solo più per i monsoni, i terremoti, le malattie, l’AIDS e le guerra strisciante con il Pakistan.

R.: - Possiamo volare, spostarci velocemente?

V.: - Beh non proprio, usiamo ancora i Jumbo Jet.... e il Concorde non vola più! Ma il prossimo Airbus porterà 800 passeggeri e costa di meno andare a Londra in aereo che in treno.

R.: - E  i trasporti pubblici? Quanto ci vuole per attraversare il centro di Milano? Torino ha la Metropolitana?

Anche qui, nessuna buona notizia....

R.: - Ma le auto vanno ad idrogeno vero? Sono sicure, guidate elettronicamente, hanno il radar e non ci sono più incidenti per la nebbia…

V.: - Veramente solo Sabato scorso per la nebbia si sono tamponati in 200 e ne sono morti 18 sulla Milano Venezia... però le auto sono tutte catalizzate!

R.: -Beh, allora sarà calato l'inquinamento nelle città?-

V.: -No...

R.: -...nel mondo?-

V.: -No, ma il buco nell'ozono dicono che si sta richiudendo, per il 2050 forse tutto tornera come prima e potremo prendere il sole senza paura di prenderci un cancro alla pelle!

R.: -Dimmi tu, allora, cosa è cambiato in meglio?

V.: -I telefonini...-

R.: -Cosa c'entrano? Quelli ci sono anche adesso.-

V.: -No, da noi sono... portatili, e più piccoli, e poi ce l'hanno tutti, anche i bambini-

R.: -Che necessità c'è che tutti (anche i bambini?) abbiano un telefono portatile?-

V.: -La comodità, la reperibilità...-

R.: -Senti, per noi la reperibilità è un problema, ci sono aziende che pagano cospicui extra per averla temporaneamente dai propri dipendenti, e voi la considerate un vantaggio?-

V.: -... ma poi ci sono gli SMS, i GSM, gli UMTS, puoi fare delle fotografie digitali e trasmetterle via IRSA o anche via MMS, poi c'è anche il WCDMA, il GPRS -

Dal suo sguardo un po' schifato capite che butta male, e cambiate discorso:

V.: -I computer! Ce ne sono di potentissimi!-

R.: -Alludi alle macchine per fare i calcoli, che usano i militari, o che alcune aziende usano per fare contabilità e paghe a altre aziende?-

V.: -Sì, quelli. Ma da noi sono molto più potenti. E costano poco! Pensa, ce n'è praticamente uno in ogni casa!-

R.: -Interessante, ma a che cosa vi servono?-

V.: -Per giocare a solitario! ... ma anche per scrivere, mandare messaggi-

R.: -Anche noi facciamo queste cose, senza le vostre macchine "potentissime"-

Un'improvvisa illuminazione:

V.: -Ci colleghiamo a Internet!-

R.: -Che cos'è?-

V.: -Una rete che collega i computer: università, biblioteche, centri di ricerca...-

R.: -Beh, una cosa del genere credo che esista anche ora.-

V.: -Ma fra trent'anni tutti i computer del mondo saranno connessi tra loro.-

R.: -Tutti?-

V. (barando un po'): -Tutti!-

R.: -Ma cosa potremmo farci io, mio fratello e, soprattutto, mia mamma con una connessione di calcolatori in rete?-

V.: -Potreste scaricare le suonerie ed i loghi per il cellulare, gli aggiornamenti agli antivirus, sai, per la sicurezza. E poi inoltrare le catene di S. Antonio via mail... quello che fanno tutti.-

R.: -No, calma. Ora mi spieghi tutto quello che hai detto, antivirus, sicurezza-.

V.: -Lascia perdere...

In preda ad una cocente umiliazione riprendete posto sulla DeLorean, digitate marzo 2003 e partite scomparendo nel nulla, lasciando solo due scie di fuoco, sperando che almeno quelle facciano colpo.

Solo a viaggio ormai irreversibile, vi viene in mente che avreste potuto citare i progressi della medicina, il fatto che che oggi dal cancro si può guarire. Ma lei, con quello sguardo strafottente, avrebbe sicuramente trovato di che ridire anche su questo. Già, lei. Dove l'abbiamo lasciata?

Non l'avevate notata, parcheggiata nella viuzza laterale, una DeLorean simile alla vostra.

Lei sale, impugna un microfono, dice: -Operazione "un altro mondo è possibile": forse ne ho convinto un altro. Torno alla base.

La ragazza digita "Marzo 2033" e scompare tra due scie di fuoco.

Sandro Degiani

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Dopo 5 anni l’ho riletto e non riesco ad aggiungere molto alla lista delle conquiste della nostra Civiltà rispetto al 2002… c’è stata la Seconda Guerra del Golfo, il prezzo del petrolio è aumentato, l’Effetto Serra anche, da Messina a Reggio Calabria si va ancora in vaporetto… la nuova Alfa Romeo che stiamo progettando per il 2009 avrà un nuovo motore FIAT… un turbo a benzina di 1400 cc.
Ragazza mia, ritorna indietro che ne hai ancora da convincere!

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Illustrazione della brillante disegnatrice Virna Raimondi

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La palla passa a Spartaco Mencaroni:

Prezzo di Mercato

Vi do volentieri in pasto questo breve racconto distopico sulla Guerra di ndipendenza Americana, che nasce da un concetto forse interessante per il gruppo: l'intera campagna è stata segnata, per i coloni, da un'impressionante numero di sconfitte sul campo e da una quasi costante inferiorità strategica e tattica. Alla fine, si può dire che più che i cannoni, a vincere la guerra per gli USA furono la presenza di alleati ingombranti, in primis la Francia, e le ripercussioni della guerra sulla scena politica internazionale (oltre che i costi e la crisi economica dell'Inghilterra pre-industriale).

Ma cosa accade se uno soltanto di questi fattori viene meno, lasciando un equilibrio sospeso? Se la Francia non scende in campo a fianco delle Colonie e la situazione si cristallizza, con le Colonie battute e formalmente legate alla madrepatria, ma percosse da una inesauribile fibrillazione di rivolta e malcontento?

Qui, l'esito di un possibile scenario in cui questo stato di cose si protrae per 300 anni. Nella Timeline propedeutica a questo racconto, la Dichiarazione di Indipendenza non è mai stata firmata e i signori Washington, Jefferson e Adams non sono nati nel XVIII secolo...

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- Un’altra pinta, ragazza!

In risposta al suo sguardo eloquente, faccio comparire sul tavolo un mucchietto di talleri. Diavolo, me la posso permettere: gli inglesi sono dei gran bastardi, ma pagano bene.

Sono entrato nella bettola poco prima del tramonto, seguendo una rotta confusa fra le baracche lungo il fiume. La luce metallica del cielo sopra l’Atlantico punteggiava di riflessi inquieti la distesa di tetti bassi, che digradano verso il basso corso del Charles River, tingendosi di toni ad ogni istante più cupi. Ho scelto questo tavolo, vicino alla finestra, e attraverso i vetri bisunti osservo morire il giorno: mi fa compagnia un boccale pieno di piscio chiaro e schiumoso che qui nelle Colonie si ostinano a chiamare birra. Un uomo potrebbe affogare in un barile di questa roba, prima di riuscire ad ubriacarsi come si deve.

I seni della cameriera si allontanano ballonzolando. La ragazza si gira e io rimango a fissare i suoi fianchi generosi che ondeggiano fra i tavoli, fino a scomparire nei meandri fumosi del locale, come uno vecchio veliero fra le nebbie della baia. In un istante, l’assalto dei ricordi mi piega lo stomaco in una morsa crudele: mentre cerco di non crollare dalla sedia, penso per l’ennesima volta che tornare a Boston sia stato un errore.

Nel buio galleggiano gli occhi di Elize; il ricordo di quelle gemme di cobalto, scure come l’oceano furioso di burrasca, mi ha dannato. Mi inseguono da dentro, spingendomi verso un destino di cui non conosco l’esito e che non posso evitare. È successo tre notti fa, mentre gli uomini della guarnigione sfondavano le paratie del Perroquet, verso poppa, sorprendendo tutti gli altri nei loro letti; in quell'attimo la mia anima era dentro di lei, più di quanto lo fosse il mio corpo; al culmine della passione inestricabile, che ci aggrovigliava sulle lenzuola sudate, quegli occhi li avevo visti brillare, selvaggi di vita, scintillanti di un’estasi che – lo capii solo in un istante – non avrei mai più ritrovato.

Distolsi lo sguardo dal suo corpo candido, che si dibatteva come una farfalla fra le mani ruvide dei soldati, mentre la trascinavano fuori. La vidi poco dopo, tremante sul molo, avvolta in un telo lacero che le avevano gettato addosso. Era incatenata con gli altri ragazzi. Tom e John stavano in piedi con l’aria intontita, strappati al sonno della vigilia di quel giorno fatto per una gloriosa battaglia, a lungo preparata. Sul mare aleggiava già l’alba che li avrebbe visti invece penzolare della forca. Quando passai davanti a loro, scortato da due gendarmi, tutti loro mi fissarono una sola volta, per poi distogliere gli occhi con disprezzo. Tutti tranne lei: Liz mi tenne lo sguardo addosso per tutto il tempo nel quale percorsi la banchina, aprii le mani per ricevere il prezzo del mio tradimento, e infine mi inoltrai nell’ultima ora della notte. Sentivo le sue pupille grigie che mi trapassavano l’anima, sapendo già che non era rimorso, quel che provavo, ma rimpianto per averla perduta.

- Ehi! Sveglia!

Lame di luce si conficcano nel cervello; sono le urla e il tocco della mano rude del locandiere. Ondeggio, mi alzo. Metto a fuoco un volto tozzo e ottuso, chiazzato di grasso.

- Se vuoi dormire, affitta una stanza.

Con un miracoloso palpito di lucidità, indovino la direzione del suo sguardo avido e allungo la mano sul portamonete, che giace invitante sopra al tavolo.

- Un’altra volta, amico.

Stento a riconoscere la mia stessa voce, impastata di alcool e rammarico. Pochi istanti dopo l’aria della notte mi schiude nuovamente le braccia. Dio, perché sono rimasto qui? A cosa può servire? Qualunque cosa faccia non la riporterà in vita, e nemmeno i ragazzi. Ma una parte di me finge di credere che non sia inutile, che le loro vite ne risparmieranno molte altre.

Scivolo per le strade di periferia, affondando nella foschia e nella penombra, lontano i viali illuminati e le sontuose passerelle in stile europeo della nuova Boston. Ben presto riconosco i luoghi; sento con l’anima l’atmosfera dei miei giorni più folli; nel naso, l’odore di coperte bruciate e salsedine dei dock. Quaggiù l’umida fragranza del legno si mescola al sapore metallico della libertà, sempre più intrisa di sangue. Per un attimo sento riaffiorare l’antico palpito, che mi fece imbracciare le armi e correre dietro a tutte quelle panzane, buone per gli idealisti con conversano al caldo dei salotti scintillanti di Philadelphia, o fra i fruscii di gonnelle a Parigi.

Fuochi sui bidoni e cumuli di immondizia punteggiano il familiare orizzonte; due file di vecchie facciate, corrose dal mare e dal fumo, che scendono verso il mare come i bordi infetti di una tortuosa ferita. In mezzo alle case, stravaccata sulle rovine fangose del marciapiede, brulica un’accozzaglia di corpi senza speranza, che ipocritamente, dopo una lercia carneficina, definiamo “liberi”.

Ed eccoli qui, i figli della libertà! Donne lacerate nei bordelli, uomini stroncati nei campi di battaglia, bambini cenciosi, ridotti a contendersi il cibo con i topi. Ecco un popolo piegato dall’umiliazione e spinto con la faccia a terra; i suoi soldati, perennemente sconfitti, non sanno più guardare in faccia i loro figli e giacciono accanto ai commercianti falliti, strangolati dalle tasse dell’impero. Sono i rifiuti dell’indipendenza, l’aborto di un Paese che è rimasto seduto troppo a lungo al tavolo verde della Storia, consapevole di non avere buone carte da giocare.

Questa irrimediabile agonia è l’unico risultato di una guerra schifosa che si trascina inutilmente da tre secoli. Un cicalio sommesso e una vibrazione dietro al collo mi avvertono di essere giunto a destinazione. Un anonimo portone scrostato maschera perfettamente una lastra di vetrocemento e titanio, dalla quale spuntano i tasti di una pulsantiera a sensore biometrico. Fisso negli occhi il meccanismo che mi schiude l’accesso alla caserma della Polizia Imperiale.

Un volto ottuso di mercenario tedesco si schiude in un sorriso sbilenco mentre lo scanner retinico gli comunica chi sono.

- Herr Washington… - sussurra, con il sordo disprezzo che anche i vincitori riservano ai voltagabbana.

Mentre scivolo dentro, il microdisco della Dichiarazione di Indipendenza mi pesa contro il fianco: non riesco a tenere fuori dalla mente il pensiero della cifra che mi daranno in cambio… Gli occhi di Liz mi costringono a pensare a Jefferson e Adams: rivedo i loro volti, mentre il boia li preparava per l’iniezione letale. Sembravano più perplessi che spaventati, incapaci di comprendere cosa fosse andato storto, quella mattina del 4 luglio 2076, e perché mai la Rivolta di Boston fosse fallita.

Spartaco Mencaroni

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Così commenta Enrico Pellerito:

Complimenti. Ti dirò che se non ci fosse stata la tua spiegazione iniziale sul contesto temporale, ho percepito all'inizio come se la storia avvenisse nel 18° secolo, mentre siamo ben dentro il 21°, e questa impressione è magistralmente esposta.

Un solo appunto, trattasi non già di una mancata guerra di secessione, altrimenti conosciuta come guerra civile, bensì di una mancata guerra d'indipendenza, che negli USA è conosciuta anche come rivoluzione americana.

Ma su quali basi far si che ancora esista un impero britannico dopo tutti i sommovimenti che hanno "sconvolto" il mondo, compresi la corona e il governo di Sua Maestà, durante l'800 e dopo due conflitti mondiali?

Tutto ciò che ha scosso il panorama globale in termini di lotte sociali, presa di coscienza popolare, ottenimento di diritti civili, potrebbe mantenere ancora un controllo sulle "colonie" a meno che non venga applicata una politica dittatoriale?

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Gli risponde l'autore:

Il bello della narrativa fantastica è che non si deve spiegare tutto  ;-)  Scherzi a parte, l'idea alla base di questa distopia è che gli Inglesi abbiano mantenuto appunto un controllo dittatoriale sulle loro colonie. Senza la presenza degli USA sulla scena mondiale, e con la Corona britannica che mantiene i propri domini d'oltreoceano, anche gli imperi sovranazionali europei potrebbero superare lo sconvolgimento del Risorgimento. Magari non avverrebbe nemmeno la Rivoluzione Francese, scoraggiata dal destino dei patrioti Americani. E in realtà nel racconto l'accenno ai salotti parigini vuole suggerire proprio questo. Nnon venendo mai messo in crisi il "sistema", poiché non si verificano eventi che comportano il definitivo successo di coloro che subiscono un dominio, la situazione mondiale si cristallizza senza che si concretizzi alcun Illuminismo in campo sociale e politico. Senza la rivoluzione americana, però, il timore è che la democratizzazione dei poteri assoluti possa non avvenire affatto, e che i governi rimangano di stampo settecentesco.

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Novelle di Sandro Degiani

Il Console Pharaon Ulysses Kursk 1943 Capoverde 1944 New York 1946 Jevah Ritorno al Passato La minaccia del Krang Il Bianco muove e dà matto in tre mosse Gatto di Bordo Pilota Anche gli Dei devono morire Il Valore di un giorno Viaggio di un secondo Briciole Breve Storia del primo McDonald su Marte Volpiano Sud

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