Il segreto del successo

di William Wallace


In una malinconica sera di qualche anno fa, mentre facevo la spola tra Ginevra e Bonn per motivi di lavoro, mi capitò per uno strano caso del destino di perdere per una manciata di minuti il mio volo. Chiamai immediatamente casa e spiegai lo spiacevole imprevisto, avvertendo che sarei salito sul primo volo disponibile l'indomani mattina e che, essendo ormai in aeroporto, avrei lì atteso le luci del giorno. Mentre mi preparavo alla bell'e meglio a passare la notte su una scomoda poltrona della sala d'attesa, rassegnato al mal di schiena che mi avrebbe dato amorevolmente il buongiorno il mattino successivo, mi accorsi improvvisamente di essere solo. Mi guardai attorno alla ricerca di qualche altro sfortunato esemplare di uomo d'affari, ma non potei che constatare l'assenza più assoluta del ben che minimo segno di vita. Le serrande dei negozi erano mestamente abbassate e finanche il bar sembrava aver chiuso i battenti: solo le luci al neon rimanevano accese, dandomi la malaugurata impressione, con il loro tremolio, di trovarmi in un reparto d'ospedale d'infimo grado. Stupito della mia condizione di naufrago, ma sopraffatto dalla stanchezza accumulata durante la lunga giornata, mi avvolsi nel cappotto e stringendo bene tra le braccia (non si sa mai) il mio bagaglio a mano mi appisolai.

Quel che successe dopo aleggia nei miei ricordi avvolto da una strana foschia, tanto che non saprei dire se accadde davvero o se soltanto lo immaginai. Fatto sta che, mentre riposavo ospite di Morfeo, mi parve di sentire in lontananza come una musica. Dapprima il suono fu appena percepibile, ma poi prese sempre più forza e vigore ed io mi decisi ad aprire gli occhi. Vidi che il paesaggio intorno a me non era cambiato, eccezion fatta per un tubo al neon che aveva deciso di passare a miglior vita, e diedi un'occhiata assonnata all'orologio: non avevo dormito che per una mezz'ora scarsa, eppure mi sembrava passata un'eternità. Tesi le orecchie rammentando il motivo che mi aveva spinto a lasciare il mondo dei sogni e mi alzai in piedi deciso a scoprirne l'origine. Presi con me il bagaglio, rassettai alla meglio il cappotto cercando di mascherare i maltrattamenti che gratuitamente gli avevo inflitto e, dopo un'ultima occhiata alla poltroncina (non avete idea di quante cose si dimentichino sulle poltrone delle sale d'attesa), mi avviai verso l'ignoto guidato dal mio solo udito. Non feci molta strada che mi resi conto di aver già percorso a perdifiato quel corridoio la sera precedente (o dovrei dire una cinquantina di minuti prima?) nel disperato tentativo di raggiungere il check-in, il quale non tardò a comparire alla mia destra. Sul suo schermo lampeggiava ancora l'identificativo del mio volo, SA 1654 Bonn, accompagnato da un beffardo "Departed": lo guardai per un istante con rinnovato odio prima di proseguire la mia marcia verso quella musica che suonava ora sempre più chiara e, dovetti ammetterlo, sempre più incantevole. Svoltai a destra e poi a sinistra, mentre il rumore sordo dei miei passi rimbombava per i corridoi deserti facendomi assomigliare ad un mediocre ballerino di tip tap, il che, dovetti convenire, contribuiva ad attribuire alla mia figura assonnata un'aria a metà tra il comico e l'assurdo.

Non feci molta strada che mi ritrovai di fronte ad una rampa di scale che indovinai portare ai ristoranti del piano superiore (fast food travestiti da locali di lusso), da dove si poteva godere una suggestiva vista sulle piste di decollo. Immaginai come dovesse sembrare quel luogo alla luce del giorno, i bambini incollati ai vetri e i loro gridolini di giubilo di fronte a un 737 che staccava le ruote dal suolo, la confusione di gambe che si muovevano disordinatamente disegnando sul pavimento lucente le più improbabili traiettorie e le voci, centinaia, che si riunivano in un unico vociare indistinto e mi resi conto della fortuna avuta ad essere lì solo in quel momento, a quell'ora della notte, cullato da quella musica.

Già, la musica. Notai una serranda, in fondo all'immenso salone, che per un qualche motivo aveva deciso di rimanere aperta e avvicinandomi a passi insicuri ebbi in breve la certezza che quella musica, insieme al profumo del caffè appena tostato, provenisse proprio da quel locale. Guardai la mia immagine riflettersi in uno degli specchi che guarnivano una colonna e cercai di darmi un'ultima sistemata prima di mettere piede nel locale: riannodai la cravatta intorno al collo, ravvivai i capelli e mi abbottonai il cappotto cercando di riportare quel mio fisico assonnato agli splendori di un tempo. Presi una boccata d'aria ed infine entrai.

Il posto era un bar di dimensioni normali, con delle grandi vetrate che davano sull'esterno, arredato con gusto alla maniera dei café parigini d'inizio secolo: ovunque era un troneggiare di intrecci e forme svolazzanti in stile liberty e finanche i baffi del barista sembravano essere attratti irresistibilmente da quel tema, tanto che il poveruomo non faceva altro che passarsi le dita sul volto cercando di porre un freno all'intemperanza dei mustacchi. L'uomo, più vicino ai sessanta che ai cinquanta, mi accolse con un caloroso "Buonasera", cui risposi di rimando con un timido sorriso. 

"Cosa posso portarle, signore?"

Lo guardai da capo a piedi, indugiando su una macchia che imbrattava il grembiule, prima di decidermi per un whisky. Lo so, un whisky appena svegli non è roba da poco, ma mi occorreva qualcosa di forte per scansare definitivamente il sonno e riprendere padronanza completa (il che può sembrare un nonsense) delle mie facoltà. Presi il bicchiere e iniziai a sorseggiare quel liquido ambrato, sforzandomi di nascondere le smorfie che mi procuravano i suoi fumi a quell'ora della notte e poi, una volta ristabilitomi, domandai al barista donde provenisse quella musica meravigliosa.

"Oh, ha proprio ragione, è davvero meravigliosa. Di là, vede? Oltre quell'arco c'è un piccolo salottino".

Mi voltai e, seguendo la parabola disegnata nell'aria dal dito del barista, individuai il salottino. Nella penombra mi sembrò di scorgere delle poltroncine di tessuto rosso che, da quella distanza e a quell'ora della notte, mi parve poter essere velluto. Guardai di nuovo in faccia l'uomo con un'aria che dovette sembrargli interrogativa, tanto che si sentì in dovere di invitarmi ad accomodarmi nell'altra stanza. Mi alzai in piedi, raccolsi le mie cose e mi avviai verso l'altro locale. Un odore acre di sigaro mi impregnò le narici ed io ne godetti con avidità (avevo smesso di fumare da poco meno di un anno), apprezzandone l'aroma pungente ma al tempo stesso dolce e la morbidezza con la quale si diffondeva nell'aria disegnando nuvole dalle forme leggere e ovattate. Non c'erano dubbi, si trattava di sigaro e della migliore qualità! Stordito da questa piacevole sorpresa mi dimenticai per un attimo della musica e del motivo che mi aveva spinto fin lì, finché il rumore stridente di una nota fuori luogo mi fece riavere.

"Chiedo scusa", tentennai, "forse la mia presenza la disturba", dissi rivolgendomi ad una figura indistinta che sedeva dietro al piano.

"Niente affatto, è colpa mia. Non mi ero accorto della sua presenza; sa, la musica..." disse interrompendosi di colpo come se stesse per dire qualcosa di scontato. Poi prese tra le dita il sigaro che aveva lasciato riposare sul bordo di un posacenere di vetro e diede una lunga, profonda ed interminabile boccata mentre io, imbarazzato e forse di troppo, me ne stavo in piedi a qualche decina di passi da lui, cappotto in una mano e bagaglio nell'altro.

"Ma prego", aggiunse guardandomi, "si sieda. Venga pure qui vicino, in prima fila se vuole".

Tranquillizzato da quei modi gentili mi feci avanti e mi accomodai su una poltroncina proprio sotto il palchetto dal quale quell'individuo ancora misterioso suonava. Vestiva con un frac nero lucido, di quelli che di solito indossano gli artisti ai loro concerti in teatri di lusso, e un paio di guanti bianchi gli avvolgevano le dita per non contaminare, come mi spiegò in seguito, la poesia di quei tasti con il sudore dell'animo umano. Mi guardò per un lungo, interminabile istante e poi, forse leggendomelo in faccia, mi chiese se non avessi avuto una cattiva giornata. Mi strappò un sorriso che intese come un segno d'assenso e riprese ad accarezzare quei tasti come se non fosse mai stato interrotto. Fu un pezzo breve, di quelli che i pianisti usano per prendere confidenza con lo strumento e, molto probabilmente, con il pubblico prima di iniziare il concerto vero e proprio, ma nonostante ciò l'esecuzione perfetta mi lasciò piacevolmente sorpreso ed io, entusiastico per natura, non potei trattenere un timido applauso.

"Lei è troppo buono, mio caro signore. Ma mi dica, che cosa ci fa a quest'ora della notte in questo posto?"

"Ho perso il volo, poi ho sentito la musica. ed eccomi qui. Ma lei piuttosto, un pianista del suo livello. non mi dirà che suona davvero in questo posto?"

L'uomo rise di gusto di fronte all'ingenuità della mia domanda.

"Voglio rassicurarla", obiettò in tono scherzoso: "sono qui di passaggio. Ho visto il piano e, ahimè, non ho resistito. Deformazione professionale. Molti uomini sono attratti da una bella donna, io preferisco di gran lunga un buon pianoforte."

"Sicuramente ciò le darà meno seccature" convenni.

"Ah, non creda", rispose il pianista ridendo: "il piano sa essere un'amante esigente. E alquanto volubile. A volte litighiamo, ma, devo ammetterlo, poco dopo facciamo la pace. E l'amore, anche. Non mi guardi con quella faccia, dico sul serio." E rise, notando l'aria perplessa che mi aggrottava la fronte.

Poi, dopo aver dato un'altra boccata al suo sigaro, chiamò il barista e chiese una bottiglia di champagne. "Spero vorrà farmi compagnia, mio caro signore." Ed io, prendendo in mano un bicchiere, non potei che brindare alla sua salute.

Sorseggiammo il migliore champagne che io abbia mai bevuto, mentre il mio nuovo amico (chiunque ti offra dello champagne ha diritto ad essere considerato tale) mi scrutava sciogliendosi di tanto in tanto in un sorriso.

Passammo così una buona mezz'ora, prima che il pianista riprendesse a suonare con ritrovato ardore. Dalla mia poltroncina, spettatore privilegiato di uno spettacolo unico, osservavo le dita muoversi con abilità strabiliante, toccando di volta in volta un tasto diverso, movendosi ad una velocità tale che le credetti in grado di racchiudere in un unico tocco tutte le note che quel piano sarebbe stato in grado di produrre. E, devo riconoscerlo, lo vidi con imbarazzo fare l'amore con quello strumento, sentirsi da esso tradito e adirarsi per poi tornare di nuovo tra le braccia di quella sua strana amante. Finì esausto, abbandonandosi privo di fiato allo sgabello che ne aveva assecondato puntigliosamente i movimenti, e solo allora mi rivolse rapido un'altra occhiata.

"Le chiedo scusa, alle volte mi lascio prendere la mano", sospirò. Lo guardai mandare giù due bicchieri di champagne e mi chiesi come potesse mantenere la lucidità necessaria per distinguere ancora i tasti l'uno dall'altro.

"Per stasera basta, credo che il nostro pianoforte, qui, ne abbia avuto abbastanza" aggiunse picchiettando con le nocche della mano sul legno lucido. Poi afferrò svogliatamente il sigaro e lo spense nel posacenere, osservandolo esalare gli ultimi respiri.

Lo guardai perplesso, temendo che la serata fosse giunta ormai al termine e feci per raccogliere le mie cose quando l'uomo mi chiese se non mi andasse di parlare un po'. Mi parve diverso, come se il dovere abbandonare la sua amante anche solo per pochi istanti gli procurasse una pena infinita che, notai, cercava di dissipare attaccandosi alla bottiglia. Rimasi testimone basito di quella strana metamorfosi, mentre l'imbarazzo iniziava a farsi spazio sul mio volto, che immaginai teso in un'espressione ebete di circostanza. L'uomo non parve notarlo e mi rivolse un sorriso spento.

"Lo sa come è iniziato tutto?" chiese come se si aspettasse una mia risposta. "Con una bottiglia, come questa qui."

Mi tirai su, sporgendomi in direzione del palchetto, per poter meglio prestare attenzione a quella che aveva tutti i presupposti per essere una storia che valeva la pena di essere ascoltata e, mandato giù l'ultimo goccio che aveva atteso paziente sul fondo del mio bicchiere, tesi le orecchie in attesa che lo spettacolo continuasse.

"Iniziai a suonare a diciassette anni, tardi per uno che voglia combinare qualcosa di buono con uno strumento tra le mani. Fu chiaro fin dal principio il mio maestro, questo devo riconoscerlo", e mi guardò come se potessi capire, prima di proseguire.

"Dopo poche lezioni capii di amare la musica più di qualsiasi altra cosa. Certo, all'inizio essa mi respinse con foga e il mio strimpellare non faceva che suscitare malcelati mormorii di disapprovazione nel mio insegnante. Ma fui un amante fedele e insistente. Dopo che la mia domanda per entrare al conservatorio fu respinta, lo confesso, mi persi un po' d'animo e, uscito di lì, presi a camminare sconsolato per le strade di Berna finché non inciampai in un gradino che dava l'accesso ad un locale molto simile a questo. Raccolsi da terra il mio berretto e, saliti i due gradini che davano il benvenuto, o il benservito, ai clienti spinsi la porta del bar. Entrai e l'odore del fumo mi avvolse togliendomi l'aria. Mi feci coraggio e, attraversata la cortina di nebbia mi avvicinai al bancone. Ordinai un bicchierino e poi un altro e poi un altro ancora. In breve feci fuori una bottiglia nell'indifferenza più completa del barista e degli altri avventori che affollavano il locale. E fu così che iniziai a suonare. A suonare per davvero. Tornai a casa ubriaco fradicio, sedetti al piano e iniziai a sfiorarne i tasti, dapprima timidamente e poi via via con foga crescente, mentre mia madre mi guardava stupita, incapace di credere che la musica, perché finalmente di musica si trattò, che giungeva alle sue orecchie fosse stata creata dalle mie dita. Non passò molto tempo che compresi il segreto del successo: lasciarsi andare, mio caro signore, sempre ed in ogni situazione."

Lo guardai con crescente interesse e poi gli sorrisi. "Oh, certo. Un artista non è tale se non riesce a comunicare al pubblico i propri sentimenti", dissi.

L'uomo rise di gusto alla mia affermazione e riprese:

"Non ha proprio capito, mio caro amico:" e il suono della parola amico prese una sfumatura sinistra che mi diede i brividi. "Passò qualche settimana, ma la mia abilità al piano non accennava a migliorare. Tornai nel locale e bevvi dio solo sa quanto. Poi, barcollando, tornai a casa e mi diressi il più velocemente possibile al mio strumento, impaziente di mettermi alla prova. Non successe nulla. Per quanto tentassi, per quanta energia sfogassi su quei maledetti tasti, mi resi conto che non una virgola era cambiata. Uscii in preda ad una rabbia crescente, scaraventando a distanza qualsiasi cosa mi capitasse a tiro, prima di trovarmi, esausto e senza nemmeno sapere come, in un piccolo vicolo maleodorante. Mi guardai attorno e rientrai finalmente in me: avevo camminato così a lungo che senza nemmeno rendermene conto mi trovavo ora in un luogo niente affatto familiare. Il sole iniziava a farsi pallido e la paura (o forse era il freddo) mi agitava come un fuscello al vento. A stento riuscii a controllarmi, mi voltai e feci per ritornare sui miei passi quando all'improvviso mi sentii afferrare con forza alle spalle. Non lo vidi in faccia, sentii soltanto il suo lezzo, e il suo fiato condensarsi sul mio collo mentre la mia faccia sbatteva violentemente contro un muro. Prese ad armeggiare con i miei pantaloni mentre io mi dibattevo come un animale in gabbia: avevo deciso che gli avrei reso la cosa quanto più difficile mi fosse stato possibile."

Fece una pausa, come per osservare l'effetto che le sue parole mi avevano fatto, ed io lo guardai con compassione. Seduto sul suo sgabello, rimpianse forse di aver finito lo champagne ed io lo vidi accarezzare malinconico il bordo del bicchiere prima che riprendesse a raccontare.

"Certo non finì come si aspettava. La mia mano, alla disperata ricerca di una via di fuga, incappò in una pietra. La strinsi con forza e colpii dietro le mie spalle, alla cieca, là dove sentivo il respiro rimbombare nelle orecchie. Colpii una, due, tre volte. La stretta si fece lentamente più debole fino a dissolversi con un tonfo sordo. Mi gettai su di lui e continuai a colpire finché i rantoli divennero sempre più sommessi, prima di cessare del tutto. Gettai il sasso e corsi a perdifiato cercando di ritrovare, tra le tante strade che mi si paravano innanzi, la via di casa. Il giorno dopo composi un'aria per pianoforte con la quale ottenni una borsa di studio e l'accesso al più prestigioso conservatorio di Berna".

Lo guardai incredulo. Un brivido mi percorse la schiena, mentre cercavo di nascondere i miei timori mordendomi nervosamente il labbro. E tuttavia, tacqui. Cercai un modo per troncare la conversazione, ma non riuscii a trovare una scusa plausibile. Temetti di innervosirlo e per la prima volta ebbi davvero paura. Distolsi lo sguardo dalla sua figura e lo posai sulle mie mani, che nervosamente stringevano i braccioli della poltroncina di velluto rosso sangue.

"Ero ancora giovane e sprovveduto, ma avevo finalmente compreso il segreto del successo. Studiando mi resi conto che Mozart, Wilde, Goethe, Poe, avevano anch'essi avuto accesso al grande mistero. Da allora la mia vita fu un crescendo di crimini cui si accompagnarono grandiosi trionfi, mio caro. Uccisi ancora, e ben presto persi il conto. Ed era come se ogni vita si incarnasse in quei tasti, bramosa di parlare di sé attraverso la musica, la mia musica. Grazie a loro, grazie a quelle vite, oggi posso dire di aver raggiunto la perfezione."

Sentivo ormai il sudore impregnarmi la fronte ed ero talmente scosso che non mi accorsi del bicchiere che lentamente rotolava sulle mie gambe prima di cadere rovinosamente a terra andando in frantumi, spargendo schegge di vetro tutt'intorno. Cercai il barista chiamandolo a gran voce, ma le parole mi si spezzavano in gola e dalla mia bocca non uscivano che soffocati ed incomprensibili mormorii. Tremai, e a poco a poco la vista mi si fece sempre più offuscata, finché ad un tratto piombai nel buio più totale.

Mi svegliai madido di sudore, accucciato sulla poltroncina della sala d'attesa, il bavero del cappotto alzato a proteggere il collo, il bagaglio stretto fra le braccia e il mal di schiena a darmi il buongiorno. L'aeroporto brulicava di vita e dall'altoparlante lo speaker invitava un certo signor Hans Huber, del volo per Berlino, ad affrettarsi all'imbarco 11. Mi portai una mano d'innanzi alla bocca per mascherare uno sbadiglio, mi lisciai i capelli e accarezzandomi la barba lunga di un giorno iniziai a chiedermi come fossi finito lì, io che probabilmente avrei dovuto giacere ora immobile da qualche parte in quell'aeroporto. Risi di gusto, suscitando lo sguardo ostile di un addetto delle pulizie il quale si risentì a tal punto che neppure il mio excuse moi riuscì a dissiparne l'astio (che potevo farci? Ero felice!). Respirai avidamente come se fosse la prima volta, elargendo sorrisi agli sconosciuti viaggiatori che, senza prestarmi attenzione, proseguivano il loro cammino. Decisi di alzarmi e mi avviai verso la toilette, con l'intenzione di rendermi un tantino più presentabile, cancellando l'esperienza della notte precedente e i segni che essa mi aveva lasciato nell'animo, sotto forma di una inspiegabile inquietudine. L'acqua fresca sembrò lavare via anche gli ultimi segni di agitazione ed io restai a lungo a guardare il mio volto, finalmente tornato ai suoi splendori abituali. Lanciai un sorriso alla mia immagine che rispose di rimando e, afferrato il bagaglio, mi diressi con passo spedito verso la biglietteria.

Erano quasi le dieci e il mio volo sarebbe partito soltanto un'ora dopo. Dunque mi restava ancora una mezz'ora da spendere girovagando per negozi, prima di lasciarmi definitivamente alle spalle Ginevra e rimettere piede in Germania. Mi sembrava già di poter assaporare l'aria di casa, di scorgere la mia casa tra la macchia d'alberi in fondo al viale e, finalmente, mia moglie in trepidazione sulla porta di casa. Mi ero lasciato dolcemente cullare da questi pensieri quando, non so come, mi venne il desiderio incontrollabile di dare un'ultima occhiata al bar dove si era svolta la mia avventura. Non che dubitassi di aver sognato, ma dentro di me si faceva largo il bisogno di averne l'assoluta certezza, per poter catalogare definitivamente quell'esperienza tra gli incubi più reali in cui io avessi mai avuto la sfortuna di imbattermi. E così mi avviai, non senza una punta inspiegabile di nervosismo, verso le grandi scale che portavano al piano superiore. Vidi i bambini incollati ai grandi vetri emettere grida di eccitazione alla vista del susseguirsi dei velivoli sulle piste, osservai smarrito l'ammasso di gambe incrociarsi confusamente e udii il vociare indistinto riempirmi disordinatamente la testa. Fatta salva la vita che animava quel posto, il luogo era perfettamente identico a quello da me sognato quella notte. Certo non ne restai stupido: viaggiavo con cadenza quasi mensile, e sicuramente in uno dei miei tanti viaggi dovevo essere capitato lì, chissà, forse alla ricerca di un ristorante o attratto dalla visuale che le vetrate generosamente concedevano. Gettai lo sguardo in fondo alla sala, ma, complice la calca e la mia altezza non eccelsa, non riuscii a scorgere nulla di più che le teste variopinte di quanti quel giorno sembravano essersi dati appuntamento in quel posto. Mi incamminai così nella direzione verso la quale ero stato irresistibilmente attratto quella notte, cercando di riconoscere ad ogni mio passo i particolari che avevano attirato la mia attenzione nell'oscurità della sera precedente. I negozi di cui avevo indovinato la presenza dietro le serrande abbassate se ne stavano ora lì, aperti, luccicanti di colore e brulicanti di partecipazione umana; ed io, ad ogni passo, sentivo i battiti del mio cuore farsi sempre più vicini e risuonare cupi nel costato.

Mi imbattei nuovamente nella colonna avvolta nella trasparenza illusoria dei suoi specchi e capii di essere arrivato. Notai la mia immagine riflettersi spaurita e guardandola con occhio paterno, cercai di tranquillizzarla. Si era trattato di un sogno. Non poteva che essere stato un sogno. E i sogni, di giorno, lasciano posto alla realtà. Chiusi gli occhi e mi voltai nella direzione in cui ricordavo essere il bar che mi aveva accolto soddisfacendo (anche più del dovuto) la mia curiosità e rimasi così per qualche istante, combattuto tra il timore di veder prendere forma le mie paure e il bisogno di avere la conferma che si fosse trattato di una esperienza frutto della mia troppo fervida immaginazione.

Mi decisi ad aprire gli occhi e con mio immenso sollievo notai che, là dove doveva sorgere il locale, non c'era che una vecchia serranda corrosa dalla ruggine e un cartello in francese con la scritta "Affittasi". Mi voltai cercando la mia immagine nel grande specchio e le sorrisi, come per dirle "Hai visto?", e notai che anche lei rise, visibilmente sollevata.

Quel giorno presi l'aereo con una gioia in più nel cuore. Non era l'avvicinarsi sempre di più a casa, no. Era una sensazione diversa, che in vita mia provai soltanto quella volta. E che, ancora oggi, non so descrivere a parole. Il resto fu tutto come avevo immaginato. Arrivato a Bonn, presi un taxi e mi diressi verso casa, ansioso di riabbracciare mia moglie. Vidi la villa, in fondo al viale, spuntare tra gli alberi e, scendendo dall'auto, incontrai il suo sguardo che in un silenzio amorevole, alla sua maniera, mi dava il bentornato a casa.

Quella notte dormii profondamente per nove ore filate e al mio risveglio, il mattino successivo, trovai lei ad accogliermi in cucina, alle prese con i preparativi per il pranzo. L'abbracciai e lei si schermì, tingendo di rosso le sue gote dorate. Mi invitò a sedere e mi servì la colazione, ed io ubbidii docilmente. Afferrai con una mano la tazza fumante e con l'altra, come mia abitudine, il giornale, lanciando un'occhiata distratta alla prima pagina.

Strabuzzai gli occhi riconoscendo nella foto in prima pagina il pianista che avevo sognato (?) quella notte, e per poco non rovesciai il caffé. Posai la tazza sul tavolo e lessi nervosamente l'articolo. « Uno dei più famosi e controversi pianisti del nostro tempo, Hans Huber, (lo speaker, all'aeroporto, non aveva forse invitato un certo signor Hans Huber ad affrettarsi all'uscita 11?) ha dato ancora una volta, ieri sera, sfoggio della sua abilità e fantasia suscitando negli spettatori del Teatro Grande di Berlino un entusiasmo ed un trasporto che... »

Smisi di leggere. La mia attenzione fu infatti attratta da due brevi righe dell'indice che rimandavano a pagina 13. Aprii il giornale saltando frettolosamente le pagine di politica estera e arrivai finalmente alla cronaca. "Misterioso omicidio, nel pomeriggio di ieri a Berlino. Il corpo senza vita di una ragazza, probabilmente una prostituta dell'est, ritrovato senza vita in Kaiser Karel Straat". Rabbrividii pensando a quanto vicina fosse Kaiser Karel Straat al Teatro Grande e soffocai a stento un gemito. "La polizia sospetta che l'omicidio sia nato all'interno dell'ambiente della prostituzione e della malavita che ne detiene il controllo".

"Il segreto del successo", mormorai.

"Cos'hai detto, caro?" fece lei di rimando.

"Niente, cara", risposi con un sussulto.

William Wallace

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E ora, un racconto noir di Dario Carcano: (il titolo è un riferimento ad Anthony Burgess):

Pompelmo a orologeria

Quante persone conoscete nella vostra vita? Cento, duecento, trecento, forse mille.
E quante persone avete rimosso dalla vostra mente? Quante persone erano talmente piatte, ordinarie, non interessanti, che il vostro cervello le ha completamente cancellate, come un fastidioso rumore di fondo che viene rimosso da una canzone?
Ovviamente non potete saperlo. Non potete sapere quante persone non erano né carne né pesce, né bianche né nere, ma semplicemente grige, talmente grige da mimetizzarsi sullo sfondo della vostra vita, e sparire dai vostri ricordi senza lasciare traccia, come se non fossero mai esistite.

Il nostro protagonista rientra proprio in questa categoria.
Una persona ordinaria, troppo ordinaria. Ogni giorno il nostro protagonista si alza alle ore 5.45, alle ore 6.30 esce di casa dopo essersi lavato, vestito, e aver bevuto un caffè che si è preparato con la moka.
Da casa il nostro protagonista si dirige a piedi verso la stazione della sua cittadina, un paese della provincia lombarda poco distante da Milano, e alle ore 7.00 prende il treno regionale per la stazione di Milano Cadorna. Quasi sempre il nostro protagonista è costretto a viaggiare in piedi, perché tutti i posti a sedere sono già occupati; il treno arriva a Cadorna alle ore 7.25, e da lì il nostro protagonista prende la metro rossa in direzione Bisceglie, trova posto su un sedile vicino ad un finestrino macchiato di vomito, e arriva alle ore 7.53 alla scuola elementare Bettino Ricasoli, dove il nostro protagonista insegna.

A questo punto il nostro protagonista esce momentaneamente dalla scuola per andare al bar di fronte a fare colazione. Il bar di fronte alla scuola elementare Ricasoli un tempo era stato sede della Associazione Nazionale Combattenti e Reduci del quartiere, e ancora oggi l’insegna ricorda questo fatto, noncurante che il bar da almeno quindici anni è stato acquistato da una famiglia cinese che la Grande Guerra l’ha al massimo vista sulle foto di un libro. In questo bar, nel cui frigo le bottiglie di chinotto e tè freddo convivono con strane lattine dai caratteri cinesi, come ogni mattina il nostro protagonista ordina un cappuccino e un cornetto con la marmellata, che sarà un cornetto surgelato della stessa consistenza della carta dei giornali.
Arrivati fin qui potreste chiedervi come si chiama il nostro protagonista. Tutti lo chiamano Gianni, anche se il nome sulla carta d’identità è Gianfelice, ma i bambini della sua classe che alle ore 8.25 entrano a scuola lo chiamano semplicemente Maestro.
Alle 8.30 iniziano le lezioni, e il maestro Gianni passa dagli esercizi sulle sillabe dei bambini di prima elementare agli esercizi sui nomi primitivi e derivati dei bambini di terza.
Alle 12.30 inizia l’intervallo del pomeriggio, e alle 13.00 la classe del nostro protagonista è chiamata in mensa; per molte famiglie povere il pasto della mensa scolastica è l’unico pasto decente che i bambini mangiano nel corso della giornata, ciò però non dovrebbe essere un motivo per abituare i suddetti bambini al cibo delle carceri.
Se il tempo lo consente, dopo la mensa il resto dell’intervallo la classe lo passa nel giardino della scuola, dove il maestro Gianni, mentre sorveglia la sua classe, ascolta i frammenti dei dialoghi dei suoi colleghi, inserendosi ogni tanto.

“Allora guarda, questo è il tipo con cui sono uscita in questo periodo.”
“E cosa fa?”
“Fa il poliziotto, ma l’ho lasciato perché mi stava troppo addosso. Non l’ha presa benissimo ma tanto non fa sul serio.”
“Fai attenzione però, che ne sento già abbastanza di storie di donne ammazzate dagli ex.”
“Ieri hai visto la partita?”
“Sì, io l’ho vista ma i calciatori non sono scesi in campo.”
“Bisogna fare qualcosa per la sicurezza, dove abito io il comune ha speso un bel po’ di soldi per sistemare il centro storico, renderlo pedonale, ma le baby-gang ne hanno preso possesso.”
“Tu hai Instagram?”
“No, mi sono cancellato cinque anni fa, l’unico social che ho è WhatsApp.”
“Cosa stanno facendo i bambini della tua classe?”
“Un due tre stella in coreano, lo hanno visto su Squid Game.”
“Secondo te il governo cade?”
“Anche se cade fanno l’ennesimo governo tecnico per non farci votare.”
“Stasera faccio le lasagne.”
“Mia nonna ci metteva il prosciutto.”
“Con questo tempo ogni mattina scatarro in maniera assurda.”
“Anch’io è da un mese che prendo fluidificanti per il catarro.”
“Io per il reflusso ho dovuto farmi prescrivere il pantoprazolo.”

Ogni tanto il nostro protagonista va a giocare assieme ai bambini, e poi alle 14.30 si torna in classe, per le ultime due ore di lezione, le più sonnacchiose della giornata.
Alle 16.30 c’è l’uscita dei bambini, e quando tutti i bambini sono stati presi dai genitori anche il nostro protagonista può andare.
Alle 17.25 il treno ha riportato il nostro protagonista da Milano alla sua città, e alle 18.00 circa è di nuovo a casa.
Dopo la doccia, alle 19.00 il nostro protagonista consuma la sua cena, di solito un pasto surgelato, mangiato guardando un video su YouTube, e poi alle 22.30 il nostro protagonista si dirige a letto.
Questa è la vita ordinaria del nostro protagonista. Nessuna relazione sentimentale stabile, ogni domenica alle 10.30 va a messa alla locale parrocchia dei santi Pietro e Paolo, prendendo ogni volta la comunione, e poi nel pomeriggio la partita e i post-partita a commento della giornata calcistica.
Queste sono le giornate ordinarie del nostro protagonista, la vita normale di un uomo ordinario, di qualcuno che, se avete incontrato, probabilmente avete subito rimosso dalla vostra memoria.
Eppure, non tutta la vita del nostro protagonista segue questo copione.

Alcune sere, infatti, arriva al nostro protagonista una chiamata sul cellulare, di solito da un numero anonimo.
E quando riceve queste chiamate il nostro risponde:

“Custoza.”
“Pastrengo.”
“Ditemi tutto.”
“Abbiamo un lavoro per te. Vieni al solito posto.”

Il problema è che il solito posto in questione non è esattamente nei pressi di Milano, così il nostro prende una valigia, un trolley che tiene sempre pronto per partire, chiude la casa, si mette in malattia con la scuola, e tira fuori dal garage un automobile che passa gran parte dell’anno sotto un telo antipioggia, e su quest’auto si mette in viaggio fino a Orio al Serio, dove nei pressi dell’aeroporto, in un autosilo, il nostro protagonista cambia automobile ed effettua un primo cambio di abiti. Dopo altri quattro cambi di automobili, il nostro protagonista a notte fonda raggiunge la sua destinazione: il parcheggio dei camion di un autogrill a metà strada tra Fano e Senigallia.
Qui il nostro protagonista viene riconosciuto da alcuni individui, che lo salutano chiamandolo Oscar Washington.

“Sei tu Oscar?”
“Si tratta del nome che uso per questo lavoro.”
“Mi hanno detto che sei il migliore.”
“In questo lavoro se non sei il migliore non duri a lungo. Di chi si tratta?”
“Di lui – gli passa una foto – forse lo hai visto in televisione.”
“Certo che l’ho visto, cosa ha fatto?”
“Mah, il solito. Si è appropriato di una grossa somma di denaro pensando di farla franca, che non ce ne saremmo accorti, e che se ce ne saremmo accorti l’avrebbe fatta franca perché è famoso e ammanicato coi pezzi grossi.”
“Niente di nuovo quindi.”
“Però non possiamo farlo noi questo lavoro, capirebbero subito che è stato uno dei nostri…”
“E per questo vi siete rivolti a un professionista, uno fuori dal giro, un fantasma.”
“Esatto.”
“Questo lavoro lo posso fare senza problemi, ma se sapete che sono i migliore saprete anche che sono il più caro…”
“I soldi non sono un problema, questo nostro amico si è fatto molti nemici, nemici che per toglierlo di mezzo sono disposti a non badare a spese.”
“Se le cose stanno così, vi garantisco che entro una settimana il vostro amico non sarà più un problema, tutto quello che mi dovete fornire è un numero sicuro che possa contattare H24 in caso di emergenza o se avessi bisogno di aiuto, anche se probabilmente non sarà necessario.”
“Tranquillo Oscar, entro domani te lo comunicheremo.”

I due si salutarono con una stretta di mano e il nostro protagonista tornò verso la propria automobile.
Qui recupera la valigia, e si dirige verso un'altra automobile pronta ad aspettarlo. È aperta, le chiavi sono sul sedile, le prende e apre il bagagliaio, dove viene messa la valigia, e Oscar, o Gianni se preferite, si rimette in viaggio fino a Roma, stavolta senza altre soste.
È l’alba quando entra in un affittacamere dove una stanza è stata prenotata a suo nome, qui si lava in fretta, lascia la valigia e si mette al lavoro.

La vittima abita qui, quartiere Prati, in questa via vicino a quest’altra via, farò un sopralluogo di persona. Eccolo lì che porta a passeggio il cane, sembra solo, no, aspetta, dietro ha la guardia del corpo, almeno sembra una guardia del corpo, si muove come se avesse una pistola. Lo seguo, probabilmente col cane fa sempre la stessa strada, che ora è, ok perfetto, a quest’ora torna indietro verso casa, il giro quindi è questo. Ok, ho già un’idea su come procedere.
A questo punto il nostro protagonista torna nella propria stanza, e lì apre la valigia, la svuota, e apre una tasca nascosta, da dove tira fuori un astuccio, che contiene un tubo metallico, dei tubi di gomma, delle parti meccaniche, e delle capsule.
Meglio evitare le armi da fuoco, se agirò all’alba rischio di attirare degli occhi indiscreti anche se usassi un soppressore. Il veleno farà un lavoro molto più pulito e discreto.

Il nostro protagonista, quindi, rimette in ordine l’astuccio, tira fuori dalla valigia una borraccia che in realtà è una bomboletta di aria compressa camuffata da borraccia, si accerta sia carica, la rimette in valigia, e poi esce per andare a pranzo.
Sulla strada del ritorno, nota una libreria e decide di entrare. Si tratta di una libreria commerciale, di una grossa casa editrice, che però proprio per questo sembra essere ben fornita. Il nostro cercò per un po’ i titoli che gli interessavano, non li trovò ma vide molti, moltissimi libri scritti da youtuber e influencer di Instagram, personaggi televisivi, libri di auto-aiuto e libri di supposti guru della finanza.
Alla fine, si rassegnò, e chiese ad un commesso:

“Buongiorno, stavo cercando un libro ma non riesco a trovarlo.”
“Mi dica pure il titolo.”
“I superflui, di Dante Arfelli.”
“Non credo che lo abbiamo nel nostro catalogo.”
“Può controllare? Magari si sbaglia.”

Il commesso andò al computer, cercò il nome in questione, e sentenziò.

“No, non lo abbiamo mi dispiace.”
“Il generale dell'armata morta, di Ismail Kadare.”
“No, mi dispiace ma non abbiamo neanche questo.”
“Il Conte di Carmagnola, del Manzoni.”
“No, non è in catalogo neanche questo.”
“La suora giovane, di Giovanni Arpino.”
“Alpino?”
“Lasciamo perdere. Avete qualcosa di interessante, qualcosa che non sia stato spremuto in ogni modo possibile negli ultimi cinquant’anni, o che non sia stato scritto per monetizzare la popolarità dell’influencer del momento?”
“Non so cosa dire, io sono solo un commesso.”
“Non ti sembra ironico il fatto che sui social ognuno cerca di apparire unico, diverso, insostituibile, e nel farlo si adegua alla mediocrità generale di una società talmente abituata al mediocre da non saper più riconoscere la vera bellezza?”
“Perché mi sta guardando in quel modo?”
“Hai una moneta?”
“Non lo so, adesso guardo.”
Mentre il commesso spaventato cercava una moneta, il nostro protagonista lo guardava con uno sguardo gelido, che non lasciava trasparire alcuna emozione.
“Ecco la moneta.”
“Testa o croce?”
“Come?”
“Ti ho fatto una domanda: testa o croce? Cosa pensi ti porti più fortuna?”
“Ehm… testa.”
“Lancia la moneta.”

Il commesso lanciò la moneta, e mostrò al nostro protagonista l’esito del lancio.

“Testa. Si vede che oggi è il tuo giorno fortunato. No, non mettere via quella moneta, diventerebbe come le altre; tienila da parte, perché quella è la tua moneta fortunata.”

Il nostro protagonista uscì dal negozio, e tornò all’affittacamere dove aveva la stanza, passando lì la serata.
La mattina successiva si alzò presto, alle 5.00, preparò l’arma, se la montò sotto al braccio, sistemò la bomboletta di aria compressa, caricò l’arma con un colpo, che sarebbe bastato a fare il lavoro, poi si vestì da runner, in questo modo non avrebbe dato nell’occhio correndo a quell’ora.

Uscì, e andò verso la strada dove sarebbe passata la vittima, lo trovò proprio dove si aspettava di trovarlo, sempre col cane, esattamente come il giorno prima.
Tutto si svolse in un attimo. La vittima fu urtata accidentalmente da un corridore che si stava allenando, che si scusò per poi allontanarsi, e a casa la vittima notò uno strano buco su un fianco dei pantaloni, nella stessa zona dove sulla pelle aveva una specie di escoriazione.

Un paio di giorni dopo il maestro Gianni, come ogni mattina, stava ascoltando distrattamente il telegiornale mentre si preparava il caffè prima di uscire a prendere il treno. A quanto pare, durante la notte un personaggio noto dello spettacolo, impegnato anche nella politica, era stato ricoverato d’urgenza per un malore improvviso, ed era morto dopo una breve agonia.

Gianni ascoltò la notizia con indifferenza mentre finiva di prepararsi, poi spense il televisore e uscì di casa.

Dario Carcano

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Alessio Mammarella ha risposto con quest'altra sua invenzione:

Un Caso per Due

I turisti in arrivo a Roma credono che sia una città romantica, di tramonti, serenate e profumi inebrianti. Quella dell’affascinante Rugantino, oppure quella che assaporò Julia Roberts in Mangia, prega, ama. Chi ci vive ogni giorno pensa quasi solo al traffico del mattino, alla cacofonia dei clacson e quanto ai profumi… lasciamo perdere.

Anche quella mattina Claudia sfidò il traffico con la sua piccola Toyota. All’apparenza, una modesta utilitaria, non fosse stato per quelle ruote di dimensioni un po’ strane, un tantino sproporzionate. In effetti solo uno attento ai dettagli sarebbe andato a leggere, sul retro della vettura, quelle due letterine “GR” che volevano dire qualcosa a chi le avesse lette. Volevano dire che quella era in realtà un’auto sportiva, con 280 cavalli pronti a scatenarsi al galoppo, sotto le mentite spoglie di una comunissima auto da città.

La piccola giapponese, che la sua proprietaria chiamava “Go-go” come la ragazza sadica del film Kill Bill, si infilò con precisione in un posteggio a breve distanza dal palazzo storico dove si trovava uno dei suoi bar. Beh non esattamente suoi, diciamo di certi amici che avevano qualche risparmio da investire.

Si avviò sul marciapiedi col suo solito passo svelto, tac, tac, tac, tac. I boccoli biondi danzavano qua e là ad ogni passo, gli occhi verdi scrutavano con discrezione la strada, protetti dalle lenti scure dei suoi occhiali Police.

A un certo punto si trovò sulla strada due uomini, abbastanza diversi tra loro, ma in piedi uno di fronte all’altro, come se si conoscessero e fossero insieme di proposito. Sulla sinistra, appoggiato al lampione, c’era un uomo piuttosto giovane, apparentemente sulla trentina, vestito bene con una giacca sportiva, una camicia sartoriale e un paio di jeans griffati. Sulla destra, appoggiato al portone di un palazzo storico, c’era un uomo di mezza età, con un volto scavato, vissuto. Era vestito in modo decisamente più spartano dell’altro, e la sigaretta che stava fumando gli faceva uscire dalle narici fumo come se fosse un toro pronto alla carica.

Claudia pensò che se fosse stata davvero una ragazza sola, anche in pieno giorno, avrebbe avuto un po’ paura di quei due. Ma lei non era mai sola, considerando che aveva tanti amici e tutti nel quartiere sapevano che non dovevano infastidirla. Passò attraverso i due uomini e proseguì oltre.

“Tu la conosci Claudia?”

“Er firme dici? A me Ardo, Giovanni e Giacomo me fanno spanzà…

“No no, non il film. Dico quella biondina che fa la prestanome per Enver Ramadani.”

“Ah, sì, Ramadani… er pegoraro.”

Claudia si fermò, era chiaro che quei due stavano cercando di attirare la sua attenzione. Però non si voltò a guardarli.

“Dice che in realtà se chiama Klodjana. Perché mica è italiana, viene dallo stesso gregge de quelli là.”

“Ma secondo te… può avere bisogno di un avvocato?”

“E secondo te, un investigatore privato je farebbe comodo?”

“Non mi serve niente, non so chi siete e non mi interessa se volete dirmi qualcosa!”

Dopo aver detto queste parole, con tono stizzito, Claudia riprese a camminare. Che cosa doveva pensare? Quei due erano solo due cialtroni che avevano un po’ voglia di provocare oppure doveva fare una telefonata per riferire e chiedere istruzioni?

Continuando a camminare aprì la borsetta, prese il suo i-phone e cominciò a scorrere la rubrica. All’improvviso però il telefono interruppe l’azione cominciando a squillare. Sul display apparve la foto di sua figlia Caterina.

“Cate amore mio, tutto bene, sei entrata a scuola?”

“Mamma è successa una cosa strana stamattina.”

“Che cosa? Oddio non mi fare preoccupare.”

“Non ti preoccupare mamma, non è successo niente, io sono a scuola. Però una signora anziana si è avvicinata stamattina e mi ha detto che dovevo ricordarti che sarebbero venute a prenderti delle persone per andare in un posto. Che cosa vuol dire?”

“Ma niente amore, è una cosa di lavoro. Non ti preoccupare è una cosa che sbrigherò subito. Ciao e mi raccomando, fai la brava.”.

“Allora, gentilissima Claudia, ha ripensato all’utilità di una consulenza legale gratuita?”


La BMW scura procedeva veloce e sicura lungo l’ampio rettilineo alberato. Usciti da Roma, Klodjana e i suoi due accompagnatori si stavano dirigendo da qualche parte nella campagna romana. Lei, seduta sul sedile posteriore, aveva timore di quello che stava accadendo ma no, non aveva paura di morire. Ok, lavorava per una organizzazione criminale, ma in fondo non aveva mai fatto nulla di male. Per qualsiasi motivo l’avessero scelta, era improbabile che volessero assassinarla. O perlomeno, si stava sforzando di pensare che alla fine non sarebbe accaduto nulla di irreparabile, che sarebbe tornata da sua figlia. Certo, poi avrebbe avuto delle cose da spiegare a Enver, e su augurava che lui sarebbe stato comprensivo.

“A Klodjà, tu lo conosci Un caso per due?”

“No, che cos’è?”

“E’ un telefilm, ma non una di quelle cose nuove che si vedono mò in stripping”

“Streaming.”

“Quello che è. Comunque è un telefilme vecchio, ormai lo fanno rivedere solo l’estate, ma è proprio figo”.

“Ma possibile che a ogni persona che ci capita vuoi raccontare la storia di un caso per due?”

“Guarda si vede che sei n’avvocato senza core. La pischella sta preoccupata, nun sa ndo’ la stemo portanno, fa mille pensieri. Io le sento da qua le rotelle che gireno. A’ faccio distrae un po'."

“Se non fossi stata costretta a venire con voi, mi staresti quasi simpatico.”

“Ecco avvoca, tiè. Pure Klodjana preferisce me. E’ inutile che tu te pompi i muscoli, te metti la cremina al faccino e te vesti da Armani… nun ce sai fa cò le femmine..!”

“Claudia, seriamente, non c’è da preoccuparsi. Abbiamo forzato un po’ la mano per farti collaborare ma non ti succederà niente. vogliamo solo delle informazioni.”

“Comunque, Klodjà, Un caso per due è fatto così: in Germania ce sta un avvocato penalista. Bravo, pe’ carità, ma li casi nun li risolverebbe mai se non c’avesse il suo investigatore che se chiama Matula. Un tipo tosto, esperto e simpatico insomma proprio come me.”

“Quindi voi sareste come quelli del telefilm?”

“Me cojoni? Sto damerino c’ha pure la BMW come l’avvocato tedesco…”

Finalmente l’auto lasciò la strada principale, segno che si stava avviando a destinazione. Il percorso si fece più ondulato e tortuoso, ma per poco. Poi la berlina svoltò su una via ghiaiosa, fino al cancello di una villa. Claudia osservò i due leoni rampanti che campeggiavano sulle colonne ai lati del cancello, sembravano davvero feroci.

Si fermarono di fronte all’ingresso della villa. Eccoli lì, i soliti bodyguard in giacca e cravatta che si vedono nei film di gangster. Ma lui dov’era? E soprattutto “chi” era? I due uomini che occupavano i sedili anteriori scesero e poi sbloccarono le porte posteriori per uscire fuori la loro prigioniera.

“Vieni, Claudia, non ci vorrà molto.”


Erano dentro la villa, ma sembrava tutt’altro posto che una casa di lusso. La stanza dove si trovavano, due o forse tre piani sottoterra, era grigia e in penombra. L’uomo seduto di fronte a loro era anziano, ma molto distinto. I suoi capelli bianchi erano tirati all’indietro con cura, e si sentiva un forte profumo di gelsomino, evidentemente il suo dopobarba.

“Come vuoi che ti chiami, Claudia o Klodjana?”

“Claudia. Sono qua da tanti anni, da quando ero una bambina… e poi quell’altro nome mi fa tornare in mente dei brutti ricordi.”

“E che cacchio Klodjà, me lo potevi dì prima… t’ho chiamato due ore così!”

Un’occhiata severa dell’uomo anziano fu sufficiente a far chiudere quella bocca che si era aperta senza il dovuto rispetto del luogo.

“Bene, Claudia, tu sei come mio nipote. Io sono venuto dalla Sicilia, tanti anni fa, e alla fine non sono mai diventato romano. Mio nipote invece sì, e infatti nessuno sospettava che potesse avere origini siciliane. Sui giornali scrivevano che era un pariolino, uno della Roma bene. E io credimi, avevo piacere di questo, non pensavo che lui dovesse restare attaccato alle vecchie tradizioni. Anche i nostri parenti lontani, lì in America, alla fine sono diventati dei bianchi normali. Lo vuoi sapere un paradosso?

Ci fu un attimo di silenzio, poi Claudia capì che doveva dire di sì per farlo proseguire.

“Il paradosso è che cento anni fa gli italiani arrivavano in America e venivano considerati negri e quindi disprezzati. Era così perché l’America è stata fondata da protestanti, e quelli credono che il Papa sia un demonio e che i cattolici siano la stirpe di Cam. Che poi sarebbe lo stesso antenato degli africani, stando a leggere la Bibbia in modo ignorante. Adesso invece gli italiani sono bianchi e quindi vengono presi a pesci in faccia perché la moda è cambiata, i bianchi sono quelli che hanno oppresso i negri e devono essere puniti. Insomma a noi italiani sempre dalla parte sbagliata ci mettono”.

“Eccellenza, mi scusi se mi inserisco ma “la mia cliente” è un po’ sulle spine…”

“Certo avvocato, vengo al punto. Claudia, io sono il nonno di Edoardo, quello che tutti conoscevano come Tetra-Edo.”

“Oddio mi dispiace! Io lo conoscevo, gli volevo bene, le faccio tante condoglianze… ma diceva che suo nonno era…”

“Lo so. Non poteva che dire questo, visto che per la legge e per la storia io sono stato assassinato nel 1994.”

“1995 Eccellenza.”

“Fa lo stesso, avvocato.”

“Ma che cosa vuole da me, perché mi ha fatto portare qua?”

L’uomo anziano si piegò e tirò a sé un cassetto del tavolo, estraendo un foglio scritto a penna. Cominciò a leggere il contenuto.

Nonno caro, sono qui in ospedale e non capisco che cosa sia successo. Neppure i medici sembrano capirlo. Ti scrivo queste poche righe perché ti voglio assicurare che non ho preso nessuna droga, davvero. Sono mesi che sto facendo una vita sana come mi raccomandi tu, bevo pochissimo e faccio ginnastica. Ho paura che se mi succede qualcosa i giornali scriveranno le solite menate sul giovane cantante che ha preso chissà quale porcheria. Me ne frego di quello che scriverebbero su Wikipedia, ma non voglio che tu ci creda, così come non ci crederà nessuno dei miei amici. Mi sento così male… tra una settimana devo esibirmi al Circo Massimo ma per l’affanno che sento non credo che riuscirò a respirare fino ad allora. Vorrei che fossi qui e che mi tenessi tra le braccia come facevi tanti anni fa. In questo momento ho voglia di dormire, ma sento anche di doverti confessare una cosa: sono stato coinvolto in un giro finanziario, una roba di criptovalute, ma credo ci sia stato un malinteso. Mi sono ritrovato sul conto molti più soldi del previsto. Io sono un artista, i soldi me li guadagno onestamente, non voglio che qualcuno si senta derubato. Se dovesse finire male, dì al mio amico Enver che dobbiamo restituire tutto, anche perché ci sono delle persone che sono importanti come lo erano i tuoi soci di una volta, nonno.

“Io adesso devo sapere una cosa. E’ stato davvero un malinteso, come diceva mio nipote, oppure questo Enver ha fatto il furbo e mio nipote ci è andato di mezzo?”

“Ma io… perché dovrei saperlo? Io non sono così importante.”

“Vuoi dirmi che non sai come lavora? L’avvocato, qui di fianco a te, è andato alla Camera di Commercio a dare un’occhiata: Enver ti ha intestato solo nell’ultimo anno quattro bar, un ristorante di lusso, un centro estetico… devo continuare?”

“Enrico era famoso… e quindi il suo nome era di richiamo. E poi, siccome era giovane e inesperto di queste cose, qualcuno ha pensato di poterlo imbrogliare. E invece…”

“In pratica gli avete fatto fare l’esca.”

“Ma io non ho fatto niente però, io non mi occupo di quelle cose là, solo delle cose più normali!”

“Matula che dici, le dovremmo credere?”

“Eccellenza, a me la ragazza stà simpatica ma se la devo interrogà a modo mio o’ faccio.”

“No. Facciamo così. Ti spiego quello che può succedere, Claudia. Ipotesi numero uno. Enver è colpevole per la fine di mio nipote. In quel caso tu mi dirai subito, oppure in un secondo momento se ti devi informare meglio, quali sono quelli che hanno perso soldi.”

“E poi, che succederà?”

“Succederà che io andrò da questi individui e dirò loro da chi possono recuperare i loro soldi. In cambio, mi farò dire chi ha fatto del male a mio nipote. Un equo scambio tra un ladro e un assassino.”

“Ma se scoprirai che Enver è innocente?”

“Quella è l’ipotesi numero due. In tal caso Enver non avrà nulla in contrario a stare dalla nostra parte, e darci tutte le informazioni necessarie”.

Dopo un lungo attimo di silenzio, Claudia deglutì, rivolse uno sguardo a ciascuno dei suoi interlocutori, e rispose alla domanda fondamentale.


Alle 11:00, la BMW dell’avvocato era in vista dell’Istituto Comprensivo “Giulio Carcano”. Si fermò a poca distanza. Claudia, che stavolta era seduta sul sedile anteriore, scese velocemente e si avviò verso l’edificio.

“Ahò, sta scola l’hanno intitolata a n’armaiolo?”

“Ma che cosa stai dicendo Matula…”

“Carcano… non è il fucile dell’esercito di cent’anni fa?”

“Giulio Carcano era un patriota del Risorgimento.”

“Ah un personaggio risorgimentale. Sempre questi, che banale. Io pe’ dispetto ce metterei n’austriaco!”.

“Allora Istituto Comprensivo Arnold Schwarzenegger!”

Si fecero una bella risata liberatoria. Nel frattempo Claudia aveva raggiunto la dirigente scolastica nel suo ufficio e le aveva spiegato che la nonna della bimba, in Albania, aveva avuto un incidente stradale ed era in fin di vita, quindi sarebbero partite subito. Sarebbero state via qualche giorno, forse una settimana, non di più. La bimba pianse quando seppe che la nonna Alketa di cui portava il nome (Caterina non è che la traduzione italiana di Alketa) stava male. Uscendo dalla scuola, comunque, fu rassicurata dalla madre: quello era solo un piccolo scherzo, i nonni stavano benissimo e loro non sarebbero andate esattamente in Albania, ma in un altro posto.

Claudia aprì la porta posteriore della BMW facendo accomodare la piccola Caterina di fianco a Matula.

“Ciao Caterina. Tu lo sai chi so’ io?”

“Ma che domande fai, è normale che non può saperlo, visto che ti vede per la prima volta!”

“Era una domanda retorica! Io sono Matula, e sono un investigatore privato. Invece quello antipatico che sta alla guida è il nuovo avvocato della mamma”.

“E’ vero che andremo in un posto tropicale?”

“Tropicalissimo. C’hai presente quella pubblicità col negrone che sta sulla spiaggia?”

“No.”

“Pazzesco che nun l’hai mai vista. Beh ce sta sto negrone coi capelli lunghi sopra alla sdraio, e sta a giocà con l’aquilone. Ce gioca tipo tre secondi appena e poi se ferma e fa: oggi basta! Tutto questo movimento… mi fa bollire la lingua! E dopo se beve la bibbita a cui fa la pubblicità.”

“Io non voglio stare sulla sdraio, voglio giocare a beach volley”.

“Brava, devi fare movimento. E non studiare troppo sui libri, sennò diventi antipatica come un maestro d’italiano”.

“Che hai contro i maestri d’italiano, Matula? Il mio era bravo.”

“Avvocato, io c’ho una teoria.”

“Sentiamo”.

“Secondo me, dentro ogni insegnante d’italiano ce sta un potenziale serial killer”...

Alessio Mammarella

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Chiudiamo con un altro breve ma suggestivo racconto di Dario Carcano:

La Paura

Cammino di sera su una strada buia per tornare a casa; sono solo, non c’è nessuno. All’improvviso nella luce arancione dei lampioni distinguo una figura che mi viene incontro; abito scuro con impermeabile chiaro. Improbabile sia Humprey Bogart.

Questa visione provoca l’attivazione dell’amigdala, la quale attiva una serie di reazioni fisiologiche comunemente dette paura. E’ a duecento metri e cammina verso di me; la strada è buia, non c’è nessuno, solo lui con l’impermeabile bianco. Sono quei momenti in cui amo la polizia, e se adesso vedessi un agente mi getterei ai suoi piedi, manco fosse Gesù sceso in Terra… purtroppo, in questi momenti la polizia si fa desiderare. Almeno avessi con me una pistola, invece viviamo in una nazione dove c’è il controllo delle armi.

Sono a cento metri. Cosa faccio? Cambio strada? Idea! Mi butto a destra e mi nascondo nel cancello di questa casa, poi aspetto passi… Al tre: Uno; Due; Tre; Ora! Sono nascosto, ora non mi vede, rimango qui finché non lo vedo passare. Quanto ci mette! Proviamo a mettere fuori la testa, così vedo dov’è... non c’è nessuno. Esco fuori allora... esce anche lui. Ha avuto la mia stessa idea! Che fa? Prende pure in giro?

Perché sono uscito di casa? Da domani mi barrico dentro e metto sulla porta un cartello con scritto “qui non c’è niente da rubare”... già, e lo strangolatore solitario? Lo stupratore seriale? A quelli non frega niente dei soldi!

Ho deciso! Lo punto! Tipo incrociatore; così lo costringo a cambiare strada. Ecco! Si sposta! No, mi punta anche lui. Allora faccio così: metto mano al portafogli, così quando arrivo lì, lo lascio cadere. Poi corro via senza voltarmi indietro. E’ deciso, farò così. Lo vedo: ha la barba, un libro tra le mani; un terrorista islamico! Sicuramente ha un pugnale nascosto da qualche parte.

E’ a un metro. Oddio, spero di uscire vivo da qui… l’ho toccato, adesso via senza voltarsi...

Aspetta! Ha buttato anche lui il portafogli... e adesso corre via senza voltarsi indietro! Che fifone!

Dario Carcano


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