Li segni bui

Ma ditemi: che son li segni bui
di questo corpo, che là giuso in terra
fan di Cain favoleggiare altrui?

(Par. II, 49-51)

 

Dato che nella lezione precedente abbiamo parlato dei Pianeti, in questa mi sembra giusto parlare della Luna, l'unico satellite naturale della Terra, che per Dante era anche il primo dei Pianeti. Il termine latino "Luna" deriva presumibilmente dalla radice indoeuropea "leuk-", "luminosa", così come il greco σελήνη deriva da σέλας,"splendore". La Luna ha un raggio equatoriale di 1738 Km (un quarto di quello terrestre), una superficie inferiore a quella dell'Asia, una massa pari a 1/81 di quella terrestre e una gravità pari a un sesto della nostra. A causa della bassa gravità, non può trattenere un'atmosfera, e quindi la sua superficie appare brulla, arida e fortemente craterizzata. Nel Medioevo fiorirono numerose leggende circa le immagini visibili sulla superficie lunare, tanto che nella Quarta Bolgia, quella degli Indovini, Dante usa una strana perifrasi per riferirsi al satellite della Terra:

« Ma vienne omai, ché già tiene 'l confine
d'amendue li emisperi e tocca l'onda
sotto Sobilia Caino e le spine
e già iernotte fu la luna tonda » (Inf. XX, 124-127)

Il nostro Poeta vuol dire che la Luna già lambisce il confine che divide il nostro emisfero (quello di Gerusalemme) dall'altro (quello del Purgatorio), e si tuffa in mare presso Siviglia ("Sobilia"), considerata allora la città più occidentale d'Europa; e poiché ci troviamo nel plenilunio ("la luna tonda"), ciò significa che sono circa le sei del mattino. Ma che c'entra Caino? Il fatto è che, secondo una leggenda popolare, nelle macchie lunari sarebbe ravvisabile l'immagine del fratricida Caino, esiliato sulla Luna e condannato a portare in eterno sulle spalle un fascio di spine.

Rispetto agli altri satelliti del sistema solare, la Luna è eccezionalmente grande rispetto al pianeta attorno a cui orbita: il massimo dei satelliti di Giove, Ganimede, che pure è più grande di Mercurio, non arriva a un decimillesimo della massa gioviana. Appare logico che un satellite così enorme abbia influenzato in maniera profonda la comprensione dell'universo da parte di tutte le culture umane. Tanto per fare un esempio, secondo un'antica leggenda ebraica, un tempo il Sole e la Luna avevano uguale splendore e brillavano insieme nel cielo, ma la Luna, tronfia del suo fulgore, si lamentò con l'Onnipotente che un luminare solo per per volta nel cielo poteva bastare. Per questo il Signore Iddio le ridusse notevolmente lo splendore e la spedì a illuminare la notte; ma, per compensare la sua perdita di luminosità, ordinò che fosse accompagnata da una corte numerosissima di stelle.

L'origine della Luna è oggetto di un dibattito scientifico molto acceso. Le teorie che si confrontano sono tre:

Le prime due teorie furono in voga fino agli anni novanta; in seguito esse furono in larga parte accantonate per via dell'inclinazione dell'orbita della Luna sul piano equatoriale terrestre ed in seguito all'osservazione del fatto che la composizione della Luna è pressoché identica a quella del mantello terrestre privato degli elementi più leggeri, evaporati per la mancanza di una gravità necessaria per trattenerli. Oggi perciò l'ipotesi più accreditata è quella secondo cui essa si formò in seguito alla collisione con la Terra di un planetoide chiamato Teia (la mitologica madre della Luna) avente le dimensioni di Marte, quando il nostro pianeta era ancora caldo e semifuso: il materiale scaturito dall'impatto rimase in orbita intorno alla Terra e si aggregò formando la Luna.

La Luna compie un'orbita completa intorno alla Terra ogni 27 giorni, 7 ore, 43 minuti e 11 secondi, ma un osservatore sulla Terra conta circa 29,5 giorni tra una luna nuova e la successiva, a causa del contemporaneo movimento di rivoluzione terrestre. In un'ora la Luna si muove nel cielo di una distanza vicina alla sua dimensione apparente, circa mezzo grado. Essa inoltre ruota intorno a se stessa nello stesso tempo impiegato per girare attorno alla Terra (una volta non era così, ma l'attrazione terrestre ha finito per frenare la Luna finché il periodo di rotazione e quello di rivoluzione non si sono sincronizzati tra di loro). Di conseguenza, la Luna rivolge alla Terra sempre la stessa faccia. Quando si volge indietro a contemplare il suo cammino dall'alto delle Stelle Fisse, come visto nel capitolo precedente, Dante ha l'occasione di dare una sbirciata proprio all'altra faccia della Luna:

Vidi la figlia di Latona incensa
sanza quell'ombra che mi fu cagione
per che già la credetti rara e densa » ( Par. XXII, 139-141)

(il terzo verso lo spiegheremo tra poco). In realtà, contrariamente a quanto si crede normalmente, dalla Terra non si vede il 50 %, ma circa il 59% della superficie lunare, per via dei cosiddetti moti di librazione, visibili nell'animazione sottostante. In pratica, in base alla Seconda Legge di Keplero la Luna si muove lungo la sua orbita ellittica non con velocità angolare costante, ma con velocità areolare costante (cioè la congiungente Terra-Luna spazza aree uguali in tempi uguali), come conseguenza della conservazione del momento della quantità di moto. Ciò significa che, lunga la sua orbita mensile, la Luna accelera presso il perigeo (il punto più prossimo alla Terra, a 363.104 km da essa) e rallenta presso l'apogeo (il punto più lontano dalla Terra, a 405.696 km da essa). Invece il moto di rotazione attorno al suo asse avviene con velocità angolare costante. Ne consegue che per un tratto della sua orbita la Luna sembra oscillare verso est, e per un altro tratto verso ovest, così come una bilancia (in latino "libra") che oscilla intorno al suo punto di equilibrio: da qui il nome di librazione, moto che rende possibile vedere una parte della faccia nascosta. A ciò si aggiunge la librazione polare: la Luna pare oscillare anche in direzione nord-sud, perchè il suo asse è inclinato di 5° 8' 43" sul piano di rivoluzione, e quindi per metà dell'orbita il Polo Nord è diretto verso la Terra, e per l'altra metà in direzione opposta, come si vede in questa animazione:

Le librazioni lunari (immagini di António Cidadão)

La faccia nascosta della Luna rimase assolutamente misteriosa fino al 10 ottobre 1959, quando la sonda sovietica Luna 3 la fotografò per la prima volta. I primi uomini a vederla con i loro occhi furono gli astronauti americani William Anders, Frank Borman e Jim Lovell, membri dell'equipaggio dell'Apollo 8, che orbitarono attorno al satellite il 24 dicembre 1968. Nell'ipotesi di una futura colonizzazione umana della Luna, si è pensato di allestire una base sulla faccia nascosta, in modo da consentire una migliore osservazione dell'universo senza l'influenza della Terra.

Come si è detto, l'attrito gravitazionale, detto anche forza di marea, ha rallentato la rotazione della Luna fino a far coincidere i periodi di rotazione e rivoluzione, ma a causa delle forze mareali anche la rotazione della Terra viene gradualmente rallentata, e la conservazione del momento della quantità di moto impone che la Luna si allontani lentamente dalla Terra mentre essa rallenta. A titolo di esempio, 400 milioni di anni fa il giorno terrestre durava 21,8 ore circa, e la distanza tra i due corpi era di circa 320.000 km, contro i 384.000 medi attuali. Le forze di marea causano anche il periodico spostamento delle masse d'acqua terrestri, che si innalzano e si abbassano anche di 10-15 metri, dando vita rispettivamente all'alta e alla bassa marea, con frequenza giornaliera. Poteva Dante evitare di descrivere anche questo fenomeno? Certamente no:

« E come 'l volger del ciel de la luna
cuopre e discuopre i liti sanza posa,
così fa di Fiorenza la Fortuna » (Par. XVI, 82-84)

In questo caso, le maree sono prese a simbolo delle alterne fortune del Comune di Firenze. Il piano dell'orbita della Luna è inclinato di 5° 19' rispetto a quello dell'orbita della Terra intorno al Sole, chiamato il piano dell'eclittica, e i punti in cui l'orbita lunare interseca l'eclittica sono chiamati nodi lunari. Le eclissi solari hanno luogo quando un nodo coincide con una luna nuova, le eclissi lunari quando un nodo coincide con una luna piena.

La faccia visibile della Luna è costellata da circa 30 000 crateri con almeno un chilometro di diametro. Il cratere lunare più grande è il cratere Schickard, con un diametro di 227 Km, che supera di poco il cratere Campbell, posto sulla faccia nascosta, con 219 Km di diametro. Una delle caratteristiche più notevoli della faccia visibile è poi costituita dai mari, così chiamati quando ancora si pensava che contenessero acqua come i mari della Terra. Si tratta in realtà di regioni pianeggianti di colore scuro, costituite essenzialmente di basalti, originatesi da antichissime eruzioni di magma seguite all'impatto con asteroidi particolarmente massicci. Il 31,2% della faccia visibile è ricoperta da mari, di cui i più famosi portano nomi esotici: Oceano delle Tempeste, Mare della Tranquillità (dove sbarcò la missione Apollo 11), Mare delle Nubi, Mare delle Piogge, Mare dei Vapori, Mare della Fecondità. Le montagne lunari, formate da rocce più antiche dei basalti, sono invece assai più brillanti, a causa della presenza di una roccia chiamata regolite, formatasi in seguito all'impatto di innumerevoli micrometeoriti nel corso di centinaia di milioni di anni di storia geologica lunare.

La faccia nascosta invece ha una morfologia molto più accidentata, ricca di crateri e praticamente priva di mari lunari, probabilmente perché, non essendo "protetta" dalla presenza del pianeta Terra, può essere più facilmente raggiunta da meteoriti. Il mare più grande è il Mare di Mosca (i toponimi della faccia nascosta sono quasi tutti di origine russa, essendo essa stata esplorata per prima dai sovietici).

La presenza di macchie, dovute ai mari e ai crateri, sulla faccia della Luna ha ispirato poeti e mitografi di tutte le epoche: l'idea base era che queste macchie fossero segni di vecchiaia, lasciati dai secoli sulla faccia del nostro satellite, inizialmente candida e perfetta. Basti per tutti l'incipit di una celeberrima canzone inserita da John R.R. Tolkien (1892-1973) nel suo "Signore degli Anelli":

The world was young, the mountains green,
No stain yet on the Moon was seen,
No words were laid on stream or stone,
When Durin woke and walked alone.
[Giovane era il mondo e le montagne verdi,
ancora sulla Luna non era macchia da vedersi,
nessuna parola su fiume o rupe eretta in aria,
quando Durin destatosi camminò in terra solitaria.]
("La Compagnia dell'Anello", Libro II, Capitolo IV)

Ai lettori più attenti non sfuggirà certo il fatto che l'esistenza delle macchie lunari sollevò parecchi problemi, visto che nella concezione cosmologica aristotelica e tolemaica, da noi esposta in quel che precede, il mondo celeste doveva essere costituito esclusivamente da sfere perfette di etere, senza difetti di sorta. Del problema infatti si è occupato anche il nostro poeta quando, salito nel Cielo della Luna, ha chiesto a Beatrice il suo parere in proposito:

« Ma ditemi: che son li segni bui
di questo corpo, che là giuso in terra
fan di Cain favoleggiare altrui? » (Par. II, 49-51)

Vale la pena di riportare tale dialogo in questa sede, perchè è particolarmente esemplificativa di come avveniva una discussione di argomento scientifico ai tempi di Dante. Questa è la struttura del ragionamento, riportato nel Canto II del Paradiso:

1) Proposta mitologica e suo rifiuto (vv. 50-51)
2) Tesi materialistico-scientifica e sua confutazione:
2.1) per reductio ad absurdum (vv.64-72)
2.2) per experimentum (vv. 73-82)
2.3) per analogia (argumenta exemplorum) e per experimentum (vv. 82-105)
3. La spiegazione metafisica: la dimostrazione:
3.1 per deduzione sillogistica (vv. 112-124)
3.2 per analogia (argumenta exemplorum) (vv. 127-144)

« Ma dimmi quel che tu da te ne pensi » (Par. II, 58), inizia Beatrice, invitando il suo amato ad esporre la sua ipotesi in merito. L'Alighieri risponde con la soluzione del problema proposta da Averroè ("De Substantia Orbis, II): la colorazione scura sarebbe dovuta a zone in cui la materia, immaginata pur sempre perfetta e incorruttibile, è più rarefatta:

« E io: "Ciò che n'appar qua sù diverso
credo che fanno i corpi rari e densi". » (Par. II, 59-60)

Questa teoria era sta accettata per buona da Dante nel Convivio:

« Dico che ’l cielo de la Luna con la Gramatica si somiglia [per due proprietadi], per che ad esso si può comparare. Che se la Luna si guarda bene, due cose si veggiono in essa proprie, che non si veggiono ne l’altre stelle: l’una si è l’ombra che è in essa, la quale non è altro che raritade del suo corpo, a la quale non possono terminare li raggi del sole e ripercuotersi così come ne l’altre parti; l’altra sì è la variazione de la sua luminositade, che ora luce da uno lato, e ora luce da un altro, secondo che lo sole la vede. » (Convivio II, XIII, 9)

Tutto il resto del canto è occupato dalla confutazione logica di tale congettura. Tanto per cominciare, una confutazione per assurdo: se accogliessimo la proposta di Averroè, dovremmo supporre che nelle stelle, innumerevoli e diversamente luminose, dell'Ottavo Cielo, vi sia un'unica ed identica virtù; ed invece la differenziazione delle specie del mondo sublunare, dove quelle stelle sono chiamate ad operare con le loro influenze, postula una molteplicità di virtù, di principi formali distinti:

« Se raro e denso ciò facesser tanto,
una sola virtù sarebbe in tutti,
più e men distributa e altrettanto.
Virtù diverse esser convegnon frutti
di princìpi formali, e quei, for ch'uno,
seguiterìeno a tua ragion distrutti. » (Par. II, 67-72)

Beatrice propone, in coerenza con l'ipotesi di Dante, di costruire un modello della luna, non dissimile dalle modellizzazioni della scienza contemporanea. Se la luna è composta da materiali di due diverse densità, i casi sono due:

« Ancor, se raro fosse di quel bruno
cagion che tu dimandi, o d'oltre in parte
fora di sua materia sì digiuno
esto pianeto, o, sì come comparte
lo grasso e 'l magro un corpo, così questo
nel suo volume cangerebbe carte. » (Par. II, 74-78)

In altre parole: se la rarefazione fosse la causa di quelle macchie scure di cui tu mi hai chiesto conto, o questo pianeta sarebbe così scarso della sua materia da parte a parte o, come il corpo distribuisce le parti grasse e magre, così la luna alternerebbe gli strati nel suo spessore. Da notare che quell'"ancor" è la traduzione di quell'adhuc con cui gli Scolastici passano ad un nuovo argomento!

Dopo aver proposto con logica inoppugnabile i due modelli, Beatrice propone due esperimenti che mostreranno quanto sia errata l'ipotesi iniziale. Il primo caso è falsificabile in modo semplice:

« Se 'l primo fosse, fora manifesto
ne l'eclissi del sol, per trasparere
lo lume come in altro raro ingesto. » (Par. II, 79-81)

Cioè: se fosse valido il primo modello, sarebbe evidente durante l'eclissi di sole, perché la luce trasparirebbe come in ogni altro corpo rarefatto che si interponesse tra noi e l'astro. Insomma, osservando le eclissi di sole, in cui la luna si interpone tra il Sole e la Terra, non si osserva nessuna trasparenza di luce dal disco lunare, e quindi la prima ipotesi è giudicata scorretta "per experimentum".

Il secondo modello invece è più complesso da confutare. Se vi sono zone di minore densità, quando la luce colpisce la superficie lunare, viene riflessa immediatamente dalle zone più dense e assorbita da quelle più rarefatte che la rifletteranno quando, sul fondo, la luce raggiungerà la zona a maggior densità. Si potrebbe allora pensare che, quando il raggio viene riflesso più in profondità, l'effetto sulla superficie lunare sia una perdita di intensità luminosa, e quindi zone più scure.

« Or dirai tu ch'el si dimostra tetro
ivi lo raggio più che in altre parti,
per esser lì refratto più a retro.
Da questa instanza può deliberarti
esperïenza, se già mai la provi,
ch'esser suol fonte ai rivi di vostr'arti. » (Par. II, 91-96)

Importantissime queste parole di Beatrice, le quali dimostrano come la scienza medioevale non fosse affatto basata unicamente sul principio d'autorità. Per sconfessato anche il secondo modello, propone un esperimento che chiunque di noi può ripetere. Consiste nel prendere tre specchi, due più vicini e uno più lontano, accendervi una candela davanti e osservarne l'immagine riflessa.

« Tre specchi prenderai; e i due rimovi
da te d'un modo, e l'altro, più rimosso,
tr'ambo li primi li occhi tuoi ritrovi.
Rivolto ad essi, fa che dopo il dosso
ti stea un lume che i tre specchi accenda
e torni a te da tutti ripercosso » (Par. II, 97-102)

Benché l'estensione della fiammella riflessa nello specchio più lontano sia più piccola, la sua luminosità è la stessa, come si vede nella simulazione sottostante!

« Ben che nel quanto tanto non si stenda
la vista più lontana, lì vedrai
come convien ch'igualmente risplenda. » (Par. II, 103-105)

Si tratta di un principio fisico importantissimo, utilizzato nella moderna astrofisica: la brillanza superficiale di un corpo non dipende dalla distanza, ed è per questo utilizzata per determinare la distanza di oggetti lontani. La brillanza, o magnitudine, si misura in termini di flusso luminoso ricevuto, cioè la quantità totale di energia luminosa che attraversa un'unità di area nell'unità di tempo. Viene definita magnitudine assoluta la magnitudine di una stella posta a dieci parsec da noi (cioè a 32,6 anni luce). Conoscendo il colore e l'emissione spettrale di una stella è possibile risalire alla sua magnitudine assoluta; e, confrontandola con la magnitudine apparente, cioè quella che effettivamente osserviamo, è facile risalire alla distanza della stella. La scala con cui sono misurate le magnitudini la dobbiamo ad Ipparco di Nicea (190-120 a.C.), ma fu resa popolare da Tolomeo nel suo "Almagesto": in pratica, essi divisero le stelle visibili ad occhio nudo in sei classi, chiamate magnitudini. Le stelle più luminose erano dette di prima magnitudine (M = +1), quelle brillanti la metà di queste erano di seconda magnitudine, e così via fino alla sesta magnitudine (M = +6), al limite della visione umana senza strumenti ottici come il telescopio.

Questo metodo era piuttosto rozzo, ma fu perfezionato nel 1856 dall'astronomo britannico Norman Robert Pogson (1829–1891): egli definì di prima magnitudine una stella che fosse 100 volte più luminosa di una stella di sesta magnitudine. Perciò, una stella di prima magnitudine si trova ad essere 2,512 volte più luminosa di una stella di seconda, essendo 2,512 la radice quinta di 100. La scala di Pogson fu resa assoluta assegnando alla Stella Polare una magnitudine pari a + 2, anche se in seguito è stato appurato che la Stella Polare è leggermente variabile, e così oggi come stella di riferimento viene usata Vega. In base a tale scala, il Sole ha una magnitudine apparente di – 26,8, la Luna piena di  – 12,6, Venere al suo massimo di – 4,4; Marte al suo massimo di – 2,8; Sirio, la stella più luminosa dei cieli, di – 1,5; Canopo, la seconda stella più luminosa, di – 0,7; la Galassia di Andromeda di + 4,5; Urano, al limite dell'osservabilità umana, di + 5,6; Nettuno di + 7,8; il quasar più luminoso di +12,6; Plutone di + 14,5; gli oggetti più deboli osservabili dal Telescopio Spaziale Hubble hanno magnitudo + 30, e quindi, distando 57 magnitudini dal Sole, essi appaiono ben 1023 volte meno luminose della nostra stella!

Tornando alla nostra discussione, Beatrice conclude la sua argomentazione ricordando a Dante come tutte le realtà terrene sono determinate da influenze celesti. Dentro l'Empireo, il Cielo Immobile formato dallo Splendore della Prima Mente, si muove un corpo, il Primo Mobile, nella cui virtù, come abbiamo visto nella lezione precedente, ha fondamento l'essere di tutto ciò che da essa è sostenuto, e cioè la vita dell'universo. Il Cielo successivo ripartisce l'essere, la virtù universale e indistinta che riceve dal Primo Mobile, distribuendola in diverse essenze, nella moltitudine delle stelle di cui si adorna. Nel Cielo Stellato dunque si attua la prima differenziazione dall'uno al molteplice. I sette Cieli dei Pianeti dispongono in differenti modi le distinte virtù, così che esse possano attuare i loro influssi quaggiù sulla Terra e tra gli uomini. Come dice la "Quaestio de Aqua et Terra", 46:

«Cum omnes formae, quae sunt in potenzia materiae, idealiter sint in actu in Motore Caeli... si omnes istae formae non esser semper in actu, Motor Caeli deficeret ab integritate diffusionis suae bonitatis »
[Poiché tutte le forme, che sono in potenza nella materia, sono in atto come idea nel Motore del Cielo, se tutte queste forme non fossero sempre in atto, il Motore del Cielo cesserebbe di diffondere integralmente la sua perfezione]

Ma i movimenti e gli influssi degli astri procedono di necessità dalle intelligenze angeliche; i Cieli sono soltanto lo strumento degli effetti che ne derivano, mentre gli Angeli ne sono la causa efficiente. La virtù angelica, mista e compenetrata con la stella, a causa della natura lieta da cui procede, risplende attraverso il corpo planetario. Da questa virtù, che così variamente si mescola con i corpi celesti e fa con essi diversa lega, deriva la loro luminosità, differente da stella a stella, e da una parte all'altra di uno stesso astro. La letizia degli angeli si esprime negli astri come la luce: a una maggiore o minore letizia corrisponde nella stella, o nelle sue parti, un maggiore o minore grado di luminosità. Le macchie scure, cioè la minore luminosità della Luna, sono dunque indice del grado di imperfezione della Luna, che orbita nel Cielo più basso.

« E come l'alma dentro a vostra polve
per differenti membra e conformate
a diverse potenze si risolve,
così l'intelligenza sua bontate
multiplicata per le stelle spiega,
girando sé sovra sua unitate.
Virtù diversa fa diversa lega
col prezïoso corpo ch'ella avviva,
nel qual, sì come vita in voi, si lega.
Per la natura lieta onde deriva,
la virtù mista per lo corpo luce
come letizia per pupilla viva.
Da essa vien ciò che da luce a luce
par differente, non da denso e raro;
essa è formal principio che produce,
conforme a sua bontà, lo turbo e 'l chiaro». (Par. II, 133-148)

Qui Dante sembra avvicinarsi alla dottrina dei neoplatonici e dei filosofi arabi; la fonte inoltre è questo passo del "De Consolatione Philosophiae" di Severino Boezio:

« Tu triplicis mediam naturae cuncta moventem
Conectens animam per consona membra resolvis;
Quae cum secta duos motum glomeravit in orbes,
In semet reditura meat mentemque profundam
Circuit et simili convertit imagine caelum. »
[Tu, ponendo al centro del mondo un'anima dalla triplice essenza, che tutto muove, la diffondi attraverso le membra armoniose dell'universo; e quando, dopo essersi divisa, essa ha compiuto il ciclo dei suoi due movimenti, ritornando su se stessa, si addentra nello spirito ,profondo e lo ripercorre e sigilla il cielo secondo la propria immagine] (De Consolatione Philosophiae III, IX, 13-17)

Questo discorso di Beatrice rappresenta il tipico esempio di logica scolastica: nella spiegazione di un qualunque fenomeno si parte da un assunto e da questo si deduce, attraverso rigorosi passaggi logici, l'unica vera risposta possibile con tutte le sue conseguenze, confutando man mano tutte le obiezioni. Certamente l'ipotesi delle influenze celesti, qui "dimostrata" come vera a partire dai "postulati" aristotelici, oggi può farci sorridere, dopo che noi abbiamo ammirato le immagini dei crateri lunari ripresi da distanza ravvicinata, e ci siamo emozionati per le epiche scarpinate spaziali dei nostri astronauti in mezzo alle pianure di regolite. Tuttavia, al di là della verità scientifica o meno degli assunti, dal II Canto del Paradiso emerge un Dante nel quale il gusto alla razionalità è tale, da approntare un esperimento per dimostrare il proprio assunto, in questo caso il fatto che nell'universo ogni cosa ha un significato. La passione per la conoscenza dantesca è tutta in questa tensione ad andare a fondo del mistero che ha dato vita a tutte le cose.

Dante e Beatrice salgono al Quinto Cielo visti da Doré

Dante e Beatrice salgono al Quinto Cielo visti da Doré

Dato che abbiamo dedicato un po' di spazio alla Luna, sembra giusto fare altrettanto per il Cielo del Sole, nel quale Dante si addentra nel Canto X del Paradiso:

« Lo ministro maggior de la natura,
che del valor del ciel lo mondo imprenta
e col suo lume il tempo ne misura,
con quella parte che sù si rammenta
congiunto, si girava per le spire
in che più tosto ognora s'appresenta » (Par. X, 28-33)

Come visto nel capitolo precedente, da Dante il Sole era considerato il quarto pianeta, non il centro del Sistema Solare; tuttavia, una caratteristica lo differenzia immediatamente da tutti gli altri: la luce sfolgorante che esso emana. Per questo il Sole è definito dall'Alighieri come il maggior rappresentante di Dio nell'universo materiale: tutti i pianeti sono "ministri della natura", ma il Sole illumina tutte le cose, imprime sul nostro mondo la sua ineguagliabile influenza, e ci permette di misurare il tempo. Viene in mente in proposito il celeberrimo "Cantico delle Creature" di San Francesco d'Assisi:

« Laudato sì, mi' Signore, cum tucte le Tue creature,
spetialmente messer lo frate Sole,
lo qual è iorno, et allumeni noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
de Te, Altissimo, porta significatione »

Una delle migliori descrizioni del corso del Sole, tuttavia, lo troviamo nel IV Canto del Purgatorio, in cui Dante sta faticosamente ascendendo al primo balzo dell'Antipurgatorio, dove si trovano i negligenti, che tardarono a pentirsi fino alla fine della loro esistenza, e prima di entrare nel Purgatorio propriamente detto debbono aspettare tanto tempo quanto vissero. Dante compie la seconda grande osservazione astronomica di questa Cantica, dopo quella di Venere in congiunzione con i Pesci, da lui vista appena sbucati fuori "a riveder le stelle": il nostro pellegrino osserva i "bassi liti", cioè la spiaggia dell'Isola del Purgatorio, quindi alza gli occhi verso il Sole, e scopre che esso si alza in cielo alla sua sinistra, fra lui e il settentrione ("Aquilone"):

« Li occhi prima drizzai ai bassi liti;
poscia li alzai al sole, e ammirava
che da sinistra n'eravam feriti. » (Purg, IV, 55-57)

Virgilio si rende conto che il suo discepolo se me resta tutto stupito ad osservare « il carro de la luce, ove tra noi e Aquilone intrava » (Purg. IV, 59-60), e gli risponde con una delle migliori spiegazioni astronomiche dell'intero Poema:

« Se Castore e Poluce
fossero in compagnia di quello specchio
che sù e giù del suo lume conduce,
tu vedresti il Zodïaco rubecchio
ancora a l'Orse più stretto rotare,
se non uscisse fuor del cammin vecchio. » (Par. IV, 66-75)

Castore e Polluce sono le stelle più luminose della Costellazione dei Gemelli: la prima, il cui nome scientifico è α Geminorum, è di colore bianco, ha una magnitudine apparente di 1,58, distanza da noi 52 anni luce, ed è in realtà un sistema multiplo formato da ben sei componenti; Polluce invece, nota come β Geminorum, è di colore arancione, ha magnitudine 1,16 (è la diciassettesima stella più brillante del cielo) e dista da noi 34 anni luce; attorno ad essa è stato recentemente scoperto un pianeta. Questo è dunque il significato della dotta disquisizione virgiliana, che nulla ha da invidiare alla lezione di Beatrice sulle macchie lunari e le influenze celesti: se la Costellazione dei Gemelli (indicata con la locuzione "Castore e Polluce" con una figura retorica chiamata sineddoche: la parte per il tutto) si trovasse in congiunzione con il Sole, cioè se fossero vicini al solstizio d'estate, Dante vedrebbe la parte "rubecchia" ("rosseggiante", toscanismo) dello Zodiaco, che è quella dove si trova il Sole con il suo calore, ruotare ancora più vicina alle due Orse, cioè più a nord, e quindi ancora più a sinistra, a meno che non abbandonasse il suo cammino consueto, il che è manifestamente assurdo. Da notare che il Sole qui è chiamato "specchio" in quanto corpo luminoso, in cui gli altri corpi celesti si rispecchiano; e l'emistichio "che sù e giù del suo lume conduce", esso significa che l'astro diurno illumina alternativamente l'emisfero boreale e quello australe, a seconda del corso delle stagioni. Ma continuiamo la lettura:

« Come ciò sia, se 'l vuoi poter pensare,
dentro raccolto, imagina Sïòn
con questo monte in su la terra stare
sì, ch'amendue hanno un solo orizzòn
e diversi emisperi; onde la strada
che mal non seppe carreggiar Fetòn,
vedrai come a costui convien che vada
da l'un, quando a colui da l'altro fianco,
se lo 'ntelletto tuo ben chiaro bada. » (Par. IV, 67-75)

Se Dante vuole comprendere come ciò possa accadere, Dante deve raccogliersi in meditazione e immaginare Gerusalemme ("Sïòn" è il monte alto circa 700 metri su cui sorge la città di Gerusalemme, da cui il moderno termine "sionismo") e il Purgatorio collocati sulla Terra in modo da avere un medesimo orizzonte astronomico, trovandosi in diversi emisferi. Ciò può accadere solo se il Paradiso si trova agli antipodi esatti di Gerusalemme, cioè a 31° 47′ latitudine Sud e 35° 13′ longitudine Ovest, e quindi Sion e la montagna del Purgatorio si trovano proprio nel mezzo di due emisferi opposti. Ciò posto, la strada che il Sole percorre nel suo moto diurno, e che il mitologico Fetonte, figlio di Elio, non fu in grado di percorrere quando gli fu affidato il carro del Sole, rispetto a "costui" (al Purgatorio), deve procedere da destra a sinistra, e rispetto a "colui" (al monte Sion) da sinistra a destra. Perciò chi, trovandosi a Gerusalemme, guarda verso est, ha il sole alla sua destra; chi sta nel Purgatorio, con gli occhi rivolti a levante, è illuminato a sinistra.

Per dimostrare che ha capito bene, il Ghibellin Fuggiasco vuole mettersi in mostra agli occhi di Virgilio, imbastendo a sua volta una deduzione:

« 'l mezzo cerchio del moto superno,
che si chiama Equatore in alcun'arte,
e che sempre riman tra 'l sole e 'l verno,
per la ragion che di', quinci si parte
verso settentrïon, quanto li Ebrei
vedevan lui verso la calda parte. » (Purg. IV, 79-84)

In altre parole: "il mezzo cerchio del moto superno", cioè il cerchio mediano della rotazione celeste, che in Astronomia ("in alcun'arte") è chiamato Equatore, il quale resta sempre tra la latitudine dove si trova il Sole e quella dove è inverno (infatti è inverno per l'emisfero australe quando il sole si trova in quello boreale, e viceversa), per essere Gerusalemme e il Purgatorio antipodi fra loro, dista tanto dal Purgatorio verso nord, di quanto gli Ebrei lo vedevano verso sud ("la calda parte"). Subito dopo, Belacqua, vecchio amico di Dante e proverbiale per la sua pigrizia, lo prenderà in giro con queste parole:

« Hai ben veduto come 'l sole
da l'omero sinistro il carro mena? » (Purg. IV, 119-120)

Il Sole, la stella più vicina alla Terra, nonostante le grandi dimensioni apparenti (32' d'arco), è in realtà un piccolo astro se raffrontata a molti altri che popolano la nostra Galassia. Questa stella gialla ha una temperatura superficiale di circa 5780 K, un raggio equatoriale di 696.000 Km (109 volte quello della Terra) e una massa pari a 333.000 volte quella del nostro pianeta: essa costituisce da solo il 99,8 % della massa del Sistema Solare. È costituita essenzialmente per il 74 % della sua massa da idrogeno e per il 25 % da elio, e funziona grazie ad un processo di fusione nucleare che comporta la trasformazione di materia in energia; si calcola che questo processo potrà funzionare ancora per cinque miliardi di anni, dopo di che si trasformerà in una gigante rossa e quindi si spegnerà lentamente sotto forma di nana bianca; è escluso invece che possa trasformarsi in una Nova, avendo una massa insufficiente. L'energia prodotta nel nucleo del Sole viene irraggiata nello spazio sotto forma di luce visibile, di raggi infrarossi e di vento solare; la luce solare è quella che consente la vita sulla Terra. Il Sole è collocato all'interno del Braccio di Orione della Via Lattea, attorno al centro della quale orbita in circa 250 milioni di anni ("anno galattico").

L'uomo ha venerato il Sole come un dio fin dai tempi preistorici, e i primi monumenti megalitici, come il cerchio di pietre di Stonehenge in Inghilterra e la grande Piramide di Cheope, erano orientati secondo il corso dell'astro diurno. Il moto apparente del Sole sullo sfondo delle stelle fisse e dell'orizzonte fu utilizzato per redigere i primi calendari, necessari per regolare le attività agricole. Gli antichi pensavano al Sole come una divinità che percorreva la volta celeste su un carro infuocato; secondo la mitologia egizia il Sole (Ra) muore ogni sera ed ogni mattina è partorito di nuovo dalla dea del Cielo Nut. Una delle prime ipotesi scientifiche sul Sole fu avanzata dal filosofo greco Anassagora di Clazomene (496-428 a.C.), che lo immaginò come una grande sfera di metallo infiammato più grande del Peloponneso. Eratostene di Cirene fu il primo a stimare la sua distanza dalla Terra, ed Aristarco di Samo fu il primo a pensarlo al centro del Sistema Solare, modello ripreso poi da Niccolò Copernico, Giovanni Keplero e Galileo Galilei. Quest'ultimo fu anche il pioniere dell'osservazione del nostro sole, avendo scoperto nel 1610 le macchie solari. William Thomson (1824-1907), meglio noto come Lord Kelvin, ipotizzò che il Sole fosse un corpo in graduale raffreddamento, che emetteva nello spazio la sua riserva interna di calore: mediante questo modello l'età del Sole sarebbe risultata di 20 milioni di anni, un valore nettamente inferiore alle centinaia di milioni di anni suggeriti dagli studi geologici per l'età della Terra. Il paradosso di un Sole più giovane della Terra fu risolto solo dallo scienziato ebreo tedesco Hans Bethe (1906-2005), che nel 1940 propose che il Sole brillasse grazie alla fusione di atomi di idrogeno in elio. I primi satelliti progettati per osservare il Sole furono i Pioneer 5, 6, 7, 8 e 9 della NASA, lanciati tra il 1959 e il 1968. La sonda Ulysses, lanciata nel 1990, fu la prima progettata per studiare le regioni polari del Sole, misurando anche il vento solare e l'intensità del suo campo magnetico. Nel 2006 è stata infine lanciata la missione STEREO (Solar Terrestrial Relations Observatory), che consiste di due navicelle identiche poste in orbite tali da permetterci di avere una visione stereoscopica della nostra stella.

Un fenomeno che coinvolge sia la Luna che il Sole è quello dell'eclisse, reso possibile dalla fortunata coincidenza per cui il diametro apparente del Sole e della Luna visti da Terra sono pressoché coincidenti (in altre parole, il Sole è circa 400 volte più grande della Luna, ma è anche circa 400 volte più lontano). Tale fenomeno era ben conosciuto, ai tempi di Dante. Lo nominano tra gli altri Guittone d'Arezzo (1230-1294) nelle sue "Rime":

« La planeta mi pare oscurata
de lo chiar sole, che riluce a pena;
similemente nel cielo è cangiata,
turbata l’aere, che stava serena.
Luna e stella mi par tenebrata,
salvandone una, che già non s’allena
e per vertute nel cielo è formata;
per lei lo sole si commove e mena. » (Sonetti d'amore, CXXVIII)

lo storico Giovanni Villani (1280-1348):

« Dissesi che l'eclissi del sole, che fue del mese di maggio l'anno dinanzi, significò la morte di papa Giovanni [XXII, 1316-1334] dovere esere quando il sole verrebbe a l'opposizione del suo mezzo corso; e così parve che fosse. De la morte del detto papa se ne fece in Firenze l'osequio a dì XVI di dicembre ne la chiesa di Santo Giovanni con grande e ricca luminaria, e grande solennità e celebrazione d'oficio per lo chericato e per tutti i cittadini. » (Nuova cronica XII, 20)

e Giovanni Boccaccio (1313-1375), che di Dante fu grande ammiratore:

« E, ben che spesso semplice paura
solare eclisse o squarciar nuvolette
faccia, chi 'l sente poco se ne cura.
Quel che morì per trarne di servaggio
mercé n'avrà per lo cammin selvaggio » (Rime I, 79)

E poteva il nostro poeta evitare di parlarne, nelle sue opere? Naturalmente no. Egli lo fa già nel Convivio:

« Secondo quello che si tiene in astrologia ed in filosofia [...], sono nove cieli mobili; lo sito de li quali è manifesto e diterminato, secondo che per un’arte che si chiama perspettiva, e [per] arismetrica e geometria, sensibilmente e ragionevolmente è veduto, e per altre esperienze sensibili: sì come ne lo eclipsi del sole appare sensibilmente la luna essere sotto lo sole, e sì come per testimonianza d’Aristotile, che vide con li occhi (secondo che dice nel secondo De Celo et Mundo) la luna, essendo nuova, entrare sotto a Marte da la parte non lucente, e Marte stare celato tanto che rapparve da l’altra parte lucente de la luna, ch’era verso occidente. » (Convivio II, III, 6)

Abbiamo visto sopra che Dante accenna a tale fenomeno in Par. II, 80 nella disquisizione a proposito delle macchie lunari. Ma c'è un'altra sede in cui questo fenomeno viene trattato con ampiezza, e precisamente il canto XXIX del Paradiso, in cui Beatrice mette in guardia l'amato nei confronti di quei teologi che sostengono in buona o in cattiva fede dottrine mal ragionate, per pura smania di apparire ingegnosi e originali, e peggio ancora di quei predicatori che dal pulpito spacciano favole per parola di Dio, tacendo invece i precetti del Vangelo. Di queste "favole" Beatrice fa un esempio:

« Per apparer ciascun s'ingegna e face
sue invenzioni; e quelle son trascorse
da' predicanti e 'l Vangelio si tace.
Un dice che la luna si ritorse
ne la passion di Cristo e s'interpuose,
per che 'l lume del sol giù non si porse;
e mente, ché la luce si nascose
da sé: però a li Spani e a l'Indi
come a' Giudei tale eclissi rispuose. » (Par. XXIX, 94-102)

Dante qui riferisce l'opinione di quanti, trattando dell'oscuramento del Sole alla morte di Gesù (Mt 27, 45; Mc 25, 33; Lc 23, 44), si sforzavano di darne a tutti i costi una spiegazione scientifica, supponendo che la Luna fosse uscita dalla sua orbita per interporsi fra il Sole e la Terra. Questa proposta era stata avanzata per la prima volta in un'epistola dello Psudo-Dionigi l'Aeropagita e presa per buona anche da San Tommaso (Summa Theologica III, XLIX, 2) Ipotesi assurda, controbatte Beatrice, perché in tal caso l'eclissi avrebbe interessato solo alcune regioni del pianeta, e non si sarebbe estesa su tutta la Terra, come dicono gli evangelisti, mostrandosi non solo ai Giudei, ma anche agli abitanti della Spagna e dell'India, cioè a coloro che vivevano rispettivamente all'estremo confine occidentale e orientale del mondo abitato. L'ipotesi di San Gerolamo, qui sposata da Dante, afferma invece che il Sole offuscò da sé il proprio splendore, senza alcun mutamento nel moto dei corpi celesti: un prodigio dunque, come quello del Sole a Fatima il 13 ottobre 1917, senza bisogno di cercare per forza una spiegazione scientifica a un fenomeno interpretabile solo alla luce della Fede.

Tale questione si ricollega indirettamente ad un'altra, con la quale vorrei chiudere questa lezione. Non dobbiamo dimenticare che, quando Beatrice pronuncia queste parole, lei e Dante si trovano nel Primo Mobile e, di conseguenza, possono abbracciare dall'alto la Giudea, la Spagna e l'India con un unico sguardo. Il tema della visione della Terra dallo spazio è abituale per noi uomini degli anni duemila, cui non fanno più impressione i viaggi astrali, abituati come siamo alle foto e ai filmati speditici dalle missioni Apollo e Soyuz, dallo Space Shuttle, dalla Stazione Russa Myr, dalla Stazione Spaziale Internazionale, dai robottini su marte, dalle missioni Pioneer, Voyager, Galileo e Cassini. Ben diverso il discorso per gli uomini del Trecento, sicuramente impressionati dai versi con cui Dante descrive il nostro pianeta, scorgendolo dall'alto della Costellazione dei Gemelli:

« L'aiuola che ci fa tanto feroci,
volgendom'io con li etterni Gemelli,
tutta m'apparve da' colli a le foci;
poscia rivolsi li occhi a li occhi belli » (Par. XXII, 151-154)

Il concetto della Terra come "aiuola" viene a Dante da Boezio, che chiama il nostro pianeta « angustissima area » (De Consolatione Philosophiae II, 7) "Da' colli alle foci" è stato variamente interpretato dai commentatori. L'anonimo autore trecentesco dell'"Ottimo Commento alla Divina Commedia" legge: "tutta, quanto alle montagne e quanto alli  piani e alli mari", seguendo quindi il corso dei fiumi. Secondo il Torraca, intende dire dalle cime più alte alle due foci estreme, quella del Gange ad oriente e « quella foce stretta dov'Ercule segnò li suoi riguardi » (Inf. XXVI, 107-108), cioè lo stretto di Gibilterra che, come ora vedremo, segnavano i punti estremi della Terra abitata dall'uomo; il Porena pensa invece: dai colli di Abila e Calpe (le Colonne d'Ercole) al delta del Gange. Da notare che le parole di Dante richiamano in modo incredibile quelle che Jurij Gagarin (1934-1968), primo uomo a rientrare incolume da una missione spaziale, avrebbe pronunciato durante l'orbita percorsa il 12 aprile 1961 a bordo della capsula Vostok ("Oriente"):

« Il cielo appare molto, molto scuro, e la Terra è azzurrognola! »

Una seconda volta Dante si ritrova ad osservare la Terra dallo spazio, così come fece Gagarin. Subito dopo la feroce invettiva di San Pietro contro i Papi corrotti, Dante vede i Beati tornare all'Empireo (mentre nella sua ascesa al Cielo gli si erano presentati distribuiti tra i vari Cieli), e Beatrice invita il suo amato ad abbassare ("adima") lo sguardo per rendersi conto di quale arco ha percorso nel firmamento, mentre si trovava in compagnia di San Pietro, San Giacomo il Maggiore e San Giovanni Evangelista nella Costellazione dei Gemelli:

« Onde la donna, che mi vide assolto
de l'attendere in sù, mi disse: "Adima
il viso e guarda come tu se' vòlto." » (Par. XXVII, 76-78)

Dante obbedisce, ed ecco ciò che vede:

« Da l'ora ch'ïo avea guardato prima
i' vidi mosso me per tutto l'arco
che fa dal mezzo al fine il primo clima;
sì ch'io vedea di là da Gade il varco
folle d'Ulisse, e di qua presso il lito
nel qual si fece Europa dolce carco.
E più mi fora discoverto il sito
di questa aiuola; ma 'l sol procedea
sotto i mie' piedi un segno e più partito. » (Par. XXVII, 79-87)

In altre parole: da quando aveva guardato per la prima volta verso la Terra (Par. XXII, 127-154), il poeta si accorge di aver percorso tutto l'arco celeste corrispondente, sulla Terra, allo spazio che va dal mezzo all'estremità occidentale ("il fine") del "primo clima". Gli antichi geografi distinguevano la Terra abitata in "sette climi", ossia in sette fasce orizzontali, a cominciare dall'equatore verso nord. Dante, quando si era voltato per guardare in giù la prima volta, si trovava, con la Costellazione dei Gemelli, sopra il meridiano di Gerusalemme, e quindi contemplava un panorama simile a questo:

La Terra secondo Dante, vista dal meridiano di Gerusalemme, in rosso

La Terra secondo Dante, vista dal meridiano di Gerusalemme, in rosso
(grazie alla prof.ssa Rosita Rioda per la cortesia)

Ora sono passate sei ore e, avendo percorso in cielo un arco di 90 gradi, si trova a perpendicolo sul meridiano di Gade (cioè di Cadice), considerata la città più occidentale d'Europa e di tutto il mondo abitato. In realtà Cadice si trova a 6° 16' di longitudine ovest, mentre Lisbona si trova a 9° 11' W, e quindi si trova oltre 250 Km più ad ovest. Tralee, cittadina sulla costa occidentale dell'Irlanda, nella contea di Kerry, è situata ancora più ad ovest, a 9° 43' W; senza citare ovviamente Reykjavík, la capitale dell'Islanda (già ben nota ai tempi di Dante), che si trova a 21° 56' W. La geografia di Dante è assai diversa da quella a noi nota: il punto più orientale da lui conosciuto è il delta del Gange, a circa 90° di longitudine Est, come rilevabile da parecchi versi della Commedia, ed inoltre il nostro poeta ritiene tutte le terre emerse concentrate nell'emisfero boreale, essendo l'altro quello "oceanico". Se ne deduce che tutte le terre sono in effetti concentrate dentro un quarto della superficie terrestre, quello compreso tra il Polo Nord e l'Equatore, e tra il meridiano di Gade e quello del delta del Gange; il meridiano di Gerusalemme si trova esattamente a metà tra questi due, sulla scorta di quanto scrive il profeta Ezechiele:

« Così dice il Signore Dio: Questa è Gerusalemme! Io l'avevo collocata in mezzo alle genti e circondata di paesi stranieri » (Ezechiele 5, 5)

In altre parole, se Dante assume come meridiano fondamentale quello di Gerusalemme (0° di Longitudine) come noi facciamo con Greenwich, Cadice si trova a una longitudine di 90° W e il delta del Gange a 90° E. Tutto questo è esposto in maniera chiarissima nella "Quaestio de Aqua et Terra":

« Nam, ut comuniter ab omnibus habetur, hec habitabilis extenditur per lineam longitudinis a Gadibus, que supra terminos occidentales ab Hercule positos ponitur, usque ad hostia fluminis Ganges, ut scribit Orosius. Que quidem longitudo tanta est, ut occidente sole in equinoctiali existente illis qui sunt in altero terminorum, oritur illis qui sunt in altero, sicut per eclipsim lune compertum est ab astrologis. Igitur oportet terminos predicte longitudinis distare per clxxx gradus, que est dimidia distantia totius circumferentie »
[Infatti, come comunemente si ritiene, questa terra abitabile si estende in longitudine da Gade, posta sui confini occidentali segnati da Ercole, sino al delta del Gange, come scrive Orosio. La quale longitudine invero è tanta che, quando il sole è sulla linea degli equinozi, tramonta per coloro che sono in uno dei due punti estremi, sorge per coloro che sono nell'altro, come hanno riscontrato gli astronomi osservando le eclissi della luna. È dunque necessario che i predetti estremi distino in longitudine 180 gradi, ch'è la metà dell'intiera circonferenza] (Quaestio, 54)

In effetti, come detto sopra, tra Cadice e l'India orientale ci sono circa 96° di longitudine, non 180°, e Gerusalemme ha una longitudine di 35° 12' E, dunque non è a mezza strada tra i due suddetti meridiani: la scarsa conoscenza dell'Asia da parte di Dante gli ha tirato un brutto scherzo. Eppure ai suoi tempi l'Estremo Oriente non era più del tutto ignoto agli europei: il francescano Giovanni da Pian del Carpine (1180–1252) nel 1245 era stato incaricato da Papa Innocenzo IV di un'ambasceria presso il nuovo Gran Khan dei Mongoli, fino alla sua remotissima capitale Karakorum, e dal 1271 al 1292 il veneziano Marco Polo (1254-1324), dietro incarico del governo della Serenissima e di Papa Gregorio IX, aveva viaggiato in lungo e in largo per tutta l'Asia, al servizio del Gran Khan Qubilay. Queste conoscenze geografiche appaiono però sconosciute all'Alighieri, che preferisce attenersi alla geografia dei classici come Plinio e Isidoro. Ipotizzando dunque che la distanza in longitudine tra Cadice e Gerusalemme corrisponda a 90°, tramite semplici calcoli si giunge a un risultato stupefacente: secondo Dante Alighieri, la Terra ha un raggio equatoriale di soli 2900 Km circa, contro i 6378 effettivi, e quindi il meridiano misurerebbe solo 18.230 Km, contro i reali 40.000, cifra ben nota peraltro al greco Eratostene e a molti geografi arabi. Quello di Dante è dunque un pianeta Terra piccolo e in gran parte occupato dalle acque: i tre continenti, estremamente addensati l'uno accanto all'altro, occuperebbero meno di 25 milioni di Km2 (oggi sappiamo che la sola Africa ha una superficie di 30.227.467 Km2, e rappresenta solo il 20 % dell'effettiva superficie delle terre emerse).

C'è pero da dire che, in un altro passo della sua Commedia, Dante sembra contraddire il calcolo appena svolto. Infatti il Trentesimo Canto del Paradiso così inizia:

« Forse semilia miglia di lontano
ci ferve l'ora sesta, e questo mondo
china già l'ombra quasi al letto piano,
quando 'l mezzo del cielo, a noi profondo,
comincia a farsi tal, ch'alcuna stella
perde il parere infino a questo fondo » (Par. XXX, 1-6)

In pratica, il Sommo Vate vuole indicare l'ora dell'alba, in cui le prime stelle cominciano ad offuscarsi, e lo fa a modo suo, affermando che a seimila miglia di distanza è l'ora sesta, cioè il mezzogiorno, e il cono d'ombra della Terra si proietta sul piano dell'orizzonte. Sarebbe come se noi affermassimo che "a New York sono le diciotto" a chi ci chiede l'ora in Italia, ma l'Alighieri ci ha abituato a queste incredibili indicazioni orarie e spaziali. Qui vorrei attirare l'attenzione su quelle famose "semilia miglia". Come afferma giustamente Natalino Sapegno, questo riferimento ci risulta assai incerto e vago, giacché il calcolo di una distanza temporale in rapporto a una distanza spaziale varia secondo la latitudine del luogo di osservazione, e a parità di ora secondo le stagioni. Tuttavia, se qui da noi albeggia, il luogo dove il sole culmina a mezzogiorno dovrebbe distare circa 90° di latitudine; le 6000 miglia potrebbero essere misurate sull'equatore, ed allora la circonferenza terrestre valutata da Dante risulterebbe di circa 24.000 miglia. Siccome (secondo il "Piccolo dizionario di metrologia generale" di Alfredo Ferrario) il miglio toscano corrispondeva a 1653,61 metri, questo porta il meridiano terrestre ad una misura di circa 39.687 Km, molto vicina a quella che è la "reale" circonferenza terrestre. A complicare la questione, nel Convivio il nostro Poeta riporta una terza misura:

« Con ciò sia cosa che la terra per lo diametro suo sia semilia cinquecento miglia » (Convivio IV, VIII, 7)

Questo valore, in accordo con quello fornito dal "Libro dell' aggregazione delle stelle" dell'astronomo persiano Alfragano (Abu al-Abbas Ahmad ibn Muhammad ibn Kathir al-Farghani, X secolo), conduce ad un meridiano terrestre lungo circa 20.400 miglia, ovvero 33.734 Km, poco più dell'80 % della misura reale. Ciò porta ad una contraddizione insanabile con la geografia descritta nel XXVII Canto del Paradiso, a meno che Dante non ritenesse che Cadice e Gerusalemme distassero tra loro 7000 Km, cioè quasi il doppio di quanto non sia in realtà; il che appare quantomeno improbabile, dato che le coste del Mediterraneo erano conosciute benissimo dai navigatori e dai commercianti del Trecento! Evidentemente le misure riportate dal Convivio, oltre ad essere in accordo con i dati osservativi dei più grandi astronomi arabi, presuppongono un'Asia assai più estesa in longitudine di quanto l'Alighieri non credesse, e una Gerusalemme non fisicamente al centro del Vecchio Mondo; perciò le misure ricavabili da quanto Dante dice di aver visto dall'alto della Costellazione dei Gemelli andranno considerate come l'ennesima licenza poetica del nostro Autore.

Tornando alla "vista dallo spazio" di Dante, nel Canto XXII il nostro "astronauta" aveva potuto abbracciare con lo sguardo tutte le terre emerse, dal Gange alle Colonne d'Ercole, mentre nel Canto XXVII può spingere lo sguardo ad ovest oltre Cadice, sull'Oceano Atlantico, qui definito "il varco folle d'Ulisse", cioè le acque che Ulisse tentò follemente di navigare come raccontato nel Canto XXVI dell'Inferno; ma verso est egli può vedere solo fino al litorale della Fenicia, la terra dove Zeus, mutatosi in toro, rapì Europa, montatagli ignara sul dorso, come spiegheremo meglio nel capitolo seguente. Ecco dunque come ora Dante vede il nostro pianeta (è segnato anche l'itinerario di Ulisse):

La Terra secondo Dante, vista dal meridiano di Gade, in rosso

La Terra secondo Dante, vista dal meridiano di Gade, in rosso
(grazie alla prof.ssa Rosita Rioda per la cortesia)

Le immagini soprastanti sono state ottenute fotografando un planisfero dantesco realizzato dagli studenti del Liceo Scientifico "L. da Vinci" di Gallarate, in occasione di una mostra dedicata proprio a Dante, per gentile concessione della bibliotecaria del Liceo, prof.ssa Rosita Rioda, cui va il mio più sincero ringraziamento.

Da tutto quanto abbiamo detto in questa lezione e nella precedente, indubbiamente Dante descrive se stesso come un astronauta ante litteram! Vorrei dunque chiudere la lezione proprio con una breve carrellata su come gli uomini hanno percepito la conquista dello spazio, e come finalmente negli ultimi 60 anni sono riusciti a porla in essere.

Sicuramente gli "antenati" più remoti delle moderne navicelle spaziali sono i Vimana (dal sanscrito "vi", "volante", e "mana", "abitato"), veicoli in grado di volare nell'aria, nello spazio e persino di immergersi sott'acqua, descritti nei poemi epici indù Mahabharata ("La grande storia dei figli di Bharata", summa della mitologia indù composta dal saggio Vyasa intorno al 1400 a.C.) e Ramayana ("il viaggio di Rama", opera del bramino Valmiki, del II secolo d.C.). Così li descrive quest'ultimo poema:

« La nave splendente irradiava un bagliore fiammeggiante. Fiammeggiando come un fuoco rosso vivo, volava il carro alato di Ravana. Era come una cometa nel cielo. »

Alcuni hanno ipotizzato che gli antenati degli indiani moderni possedessero davvero ordigni del genere, la cui costruzione fu insegnata loro da razze aliene, ma questa teoria esoterica è destituita di ogni fondamento dagli studiosi della civiltà indiana. Anche secondo la religione zoroastriana il dio Ahura Mazda viaggiava per i cieli sopra un trono volante. Ma queste fonti erano evidentemente sconosciute a Dante, il quale invece conosceva a perfezione le metamorfosi di Ovidio. E proprio nell'ottavo libro di esse è descritto il primo "volo spaziale" della cultura occidentale, quello di Dedalo e di suo figlio Icaro per fuggire dal Labirinto di Cnosso, in cui l'adirato dio Minosse li aveva fatti rinchiudere:

« ...Postquam manus ultima coepto
inposita est, geminas opifex libravit in alas
ipse suum corpus motaque pependit in aura;
instruit et natum 'medio' que 'ut limite curras,
Icare,' ait 'moneo, ne, si demissior ibis,
unda gravet pennas, si celsior, ignis adurat:
inter utrumque vola. nec te spectare Booten
aut Helicen iubeo strictumque Orionis ensem:
me duce carpe viam!' pariter praecepta volandi
tradit et ignotas umeris accommodat alas. »
[...Quando all'opera fu data
l'ultima mano, l'artefice provò lui stesso a librarsi
con due di queste ali e battendole rimase sospeso in aria.
Le diede allora anche al figlio, dicendogli: "Vola a mezza altezza,
mi raccomando, in modo che abbassandoti troppo l'umidità
non appesantisca le penne o troppo in alto non le bruci il sole.
Vola tra l'una e l'altro e, ti avverto, non distrarti a guardare
Boòte o Èlice e neppure la spada sguainata di Orìone:
vienimi dietro, ti farò da guida". E mentre l'istruiva al volo,
alle braccia gli applicava quelle ali mai viste.]
(Metamorfosi VIII, 200-209)

Parliamo di volo spaziale, e non di semplice avventura in parapendio, proprio grazie alle citazioni di quelle costellazioni (Boote e l'Orsa Maggiore), e al fatto che Icaro si avvicina troppo al Sole, il quale con il suo calore scioglie la cera di cui sono fatte le sue ali, e lo sventurato precipita in mare. Dante poteva leggere questo mito anche nell'opera del suo amato Virgilio:

« Daedalus, ut fama est, fugiens minoia regna, 
Praepetibus pinnis ausus se credere caelo,
Insuetum per iter gelidas enavit ad arctos,
Chalcidicaque levis tandem super adstitit arce. »
[Dedalo, questa è la fama, fuggendo il regno minoico,
su rapide penne osò librarsi nel cielo,
per cammino insueto navigò all'Orse gelide,
e in vetta ai colli calcidici posò finalmente, leggero.] (Eneide VI, 14-17)

L'Alighieri conosceva benissimo questo passo di Ovidio, avendolo inserito nel Canto XVII dell'Inferno per descrivere il già descritto volo di Gerione:

« ...quando Icaro misero le reni
sentì spennar per la scaldata cera,
gridando il padre a lui "Mala via tieni!" » (Inf. XVII, 109-111)

Jacob Peter Gowy, "La caduta di Icaro", 1636-37, Madrid, Museo del Prado

Certamente però l'antesignano di tutte le esplorazioni spaziali che punteggiano la fantascienza è Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.) nella maggiore di tutte le sue opere filosofiche, il "De Re Publica", composto sotto forma di dialogo tra il 55 e il 51 a.C., secondo il modello della "Repubblica" di Platone. L'opera integrale non era nota nel Medioevo (i primi tre libri furono scoperti in età umanistica, gli altri tre ci sono noti solo per frammenti); ma Dante conosceva certamente il "Somnium Scipionis", una sezione del sesto libro che fu scorporata dal resto del dialogo, e ci è pervenuta integra grazie ad Ambrosio Teodosio Macrobio, erudito romano del V secolo, che ne scrisse un commento dedicato al figlio Eustachio. Questo dialogo, considerato uno degli esiti più felici della letteratura dell'antichità, e ammirato e celebrato dagli studiosi di ogni epoca e di ogni nazione, racconta di Publio Cornelio Scipione Emiliano (185-129 a.C.), il distruttore di Cartagine, che si reca in visita in Africa presso l'amico Massinissa, re di Numidia e alleato di Roma, e trascorre tutta la serata con lui a rievocare la grandezza del nonno, Publio Cornelio Scipione Africano (235-183 a.C.), eroe ed effettivo vincitore della Seconda Guerra Punica. Ritiratosi per dormire, all'Emiliano compare in sogni proprio il famoso nonno, il quale gli descrive con dovizia di particolari la struttura dei cieli, che come in Dante rappresentano la dimora dei buoni e degli eroi dopo la loro morte. Il tema dell'opera, come di tutto il sesto libro del "De Re Publica" cui apparteneva, è l'immortalità dell'anima, il premio ultraterreno destinato ai benefattori della patria, l'esistenza di un aldilà così come insegnato da Platone. Ben presto però il racconto si fa "fantascientifico", attraverso la descrizione dell'aspetto dei corpi celesti, visti da un punto non posizionato sulla superficie terrestre. L'Africano dice al nipote che "l'adunanza dei buoni" abita in un « luogo elevatissimo e pieno di stelle, luminoso e nitido », il quale luogo altro non è che ciò che noi chiamiamo Via Lattea:

« Ma allo stesso modo, Scipione, sull'esempio di questo tuo avo e come me che ti ho generato, coltiva la giustizia e il rispetto, valori che, già grandi se nutriti verso i genitori e i parenti, giungono al vertice quando riguardano la patria; una vita simile è la via che conduce al cielo e a questa adunanza di uomini che hanno già terminato la propria esistenza terrena e che, liberatisi del corpo, abitano il luogo che vedi» - si trattava, appunto, di una fascia risplendente tra le fiamme, dal candore abbagliante -, «che voi, come avete appreso dai Greci, denominate Via Lattea». Da qui, a me che contemplavo l'universo, tutto pareva magnifico e meraviglioso. C'erano, tra l'altro, stelle che non vediamo mai dalle nostre regioni terrene; inoltre, le dimensioni di tutti i corpi celesti erano maggiori di quanto avessimo mai creduto; tra di essi, il più piccolo era l'astro che, essendo il più lontano dalla volta celeste e il più vicino alla terra, brillava di luce riflessa. I volumi delle stelle, poi, superavano nettamente le dimensioni della terra. Anzi, a dire il vero, perfino la terra mi sembrò così piccola, che provai vergogna del nostro dominio, con il quale occupiamo, per così dire, solo un punto del globo. » (III, 16)

Tutto ciò ci ricorda qualcosa: il Canto XXII del Paradiso, e il « vil sembiante » di questo nostro pianeta, con tutte le sue guerre e la pretenziosa piccineria dei suoi abitanti! Ora sappiamo da dove Dante ha tratto la sua visione di una Terra piccolissima ed insignificante:

« Io, pur osservando stupito tali meraviglie, volgevo tuttavia a più riprese gli occhi verso la terra. Allora l'Africano disse: "Mi accorgo che contempli ancora la sede e la dimora degli uomini; ma se davvero ti sembra così piccola, quale in effetti è, non smettere mai di tenere il tuo sguardo fisso sul mondo celeste e non dar conto alle vicende umane. Tu infatti quale celebrità puoi mai raggiungere nei discorsi della gente, quale gloria che valga la pena di essere ricercata? Vedi che sulla terra si abita in zone sparse e ristrette e che questa sorta di macchie in cui si risiede è inframmezzata da enormi deserti; inoltre, gli abitanti della terra non solo sono separati al punto che, tra di loro, nulla può diffondersi dagli uni agli altri, ma alcuni sono disposti, rispetto a voi, in senso obliquo, altri trasversalmente, altri ancora si trovano addirittura agli antipodi. Da essi, gloria non potete di certo attendervene." » (V, 20)

Tra le fonti di Dante che hanno compiuto una sorta di "viaggio spaziale" c'è anche San Paolo di Tarso (8-67 d.C) fu assunto fino al Terzo Cielo, episodio narrato da lui stesso nella Seconda Lettera ai Corinzi:

« Conosco un uomo in Cristo che, quattordici anni fa - se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio - fu rapito fino al terzo cielo. E so che quest'uomo - se con il corpo o senza corpo non lo so, lo sa Dio - fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunziare » (2 Corinzi 12, 2-4)

Dante, da ottimo conoscitore del Nuovo Testamento, rievoca l'episodio all'inizio del suo viaggio ultraterreno:

« Andovvi poi lo Vas d'elezïone,
per recarne conforto a quella fede
ch'è principio a la via di salvazione. » (Inf. II, 28-30)

Dante più avanti chiamerà ancora l'Apostolo delle Genti « il gran vasello de lo Spirito Santo » (Par. XXI, 127-128), espressione tolta dagli Atti degli Apostoli quando, in seguito alla sua improvvisa conversione sulla via di Damasco, così il Signore convince Anania a battezzare Paolo, nonostante i suoi trascorsi da fanatico persecutore della Chiesa:

« Egli è per Me uno strumento eletto per portare il Mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli di Israele; e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il Mio nome» (At 9, 15-16)

Anche il retore siriano Luciano di Samosata (circa 120-190 d.C.) scrisse in greco nel II secolo quello che si può ritenere un "racconto di fantascienza ante litteram", intitolato "Una Storia Vera" (il titolo ovviamente è ironico, trattandosi manifestamente di una mera invenzione). In esso una nave con cinquanta persone a bordo è sollevata da un ciclone di inaudita violenza e trasportata nientemeno che sulla Luna. Qui regna Endimione, antico amante della dea Selene, che parlando in un greco perfetto racconta ai suoi ospiti terrestri la grande battaglia combattuta dai Lunari contro i Solari per la conquista del pianeta Giove: la prima delle numerose "Guerre Stellari" della fantascienza! In un altro racconto, l'"Icaromemippo", un filosofo che vuole dimostrare la sfericità della Terra compie un avventuroso volo verso la Luna, usando un'ala d'aquila e una di avvoltoio. Certamente però Dante era all'oscuro di questa fonte.

Dopo Dante, immagineranno l'esistenza di alieni o viaggi nello spazio:

"Mercurio passa davanti il Sole" di Giacomo Balla

Qui sopra potete vedere l'opera "Mercurio passa davanti il Sole", olio su carta zigrinata di Giacomo Balla (1871-1958), oggi al Centro Pompidou di Parigi. Esso rappresenta il passaggio di Mercurio sul Sole avvenuto il 7 novembre 1914 a partire dalle ore 12.02. Il fenomeno è assai raro, e si verifica poche volte in un secolo. Appassionato di astronomia e possessore di un telescopio, Balla osservò il fenomeno e ne trasse un quadro. Sua figlia ha commentato così quell'evento:

« Le linee danno la sensazione del movimento dell’osservatore al cannocchiale, il quale si sposta guardando fuori e dentro di esso. Queste linee si compenetrano con lo strumento e il sole. Il sole bianco, che fuori dall’oculare viene a ferire l’occhio, contrasta con il colore arancione del globo infuocato attraverso il vetro nero. Forme e colori costituiscono un complesso pittorico nuovo: non è più il piccolo misero strumento ma è l’occhio più potente di quello dell’uomo, che carpisce nel suo cerchio visivo il piccolissimo pianeta, mentre passa davanti al disco giallo del sole. »

Venendo invece ad una breve storia dell'astronautica, essa può cominciare già nel 300 a.C. circa, con i primi razzi realizzati dai cinesi utilizzando polvere nera, lanciati come forma di intrattenimento (erano i precursori degli odierni fuochi d'artificio). In seguito, a partire dal 1000, tali razzi cominciarono ad essere usati come arma contro gli eserciti nemici. Nel 1706 l'ingegnere francese Amédée François Frézier (1682–1773) scrisse il "Trattato sui fuochi d'artificio", il primo studio scientifico sulla propulsione dei razzi. Ma bisognò aspettare il 1895 perché il maestro elementare russo Konstantin Eduardovic Ziolkovskij (1857-1935) pubblicasse a Mosca il saggio "Sogno della Terra e del cielo", in cui proponeva per la prima volta di mettere in orbita un satellite artificiale spinto da un razzo fuori dalla gravità terrestre.

Nel 1923 l'ingegnere rumeno naturalizzato tedesco Hermann Oberth (1894-1989) pubblicò il saggio "Il razzo verso gli spazi interplanetari", nel quale, senza conoscere il lavoro di Ziolkovskij, ipotizzava un razzo a due stadi a combustibile liquido, in grado di sfuggire al campo gravitazionale terrestre. Ma il vero pioniere della missilistica fu l'ingegnere americano Robert Goddard (1882-1945), che il 16 marzo 1926 lanciò il primo razzo a propellente liquido ad Auburn, nel Massachusetts, e propose l'uso di questo mezzo per raggiungere la Luna. Naturalmente nessuno prese in considerazione il suo lavoro, ed egli fu deriso come un visionario. Ma fu proprio ispirandosi al lavoro di Goddard che il 7 settembre 1944 lo scienziato tedesco Wernher von Braun (1912-1977), già assistente di Hermann Oberth, dalla base di Peenemünde lanciò verso l'Inghilterra il primo razzo V2 (dal tedesco Vergeltungswaffe, "arma di rappresaglia"), nome inventato dal criminale nazista Joseph Goebbels. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, per non cadere in mano dei sovietici, von Braun si consegnò agli americani, che lo internarono a Fort Bliss, nel Texas. Dopo alcuni anni egli riprese gli esperimenti sui razzi, con il permesso del governo statunitense, e cercò di ottenere fondi per riuscire a lanciare un satellite artificiale nello spazio prima che lo facesse l'URSS. Ottenne solo derisioni: "Il tedesco fa della fantascienza", ridevano a Washington. Ma la fantascienza divenne realtà il 4 ottobre 1957, quando l'URSS stupì il mondo lanciando in orbita lo Sputnik 1, il primo satellite artificiale della storia dell'uomo. Il Ministro della Difesa americano telefonò sconsolato a Von Braun: « Come possiamo rispondere a queste prodezze dei russi? » E Von Braun: « Datemi 60 giorni di tempo e faremo altrettanto! » « Posso dargliene anche 90 », sorrise il Ministro. Infatti tre mesi dopo, il 1 febbraio 1958, gli USA mettevano in orbita il loro primo satellite artificiale, l'Explorer 1. Il 3 novembre 1957 però l'URSS era già riuscita ad assicurarsi un altro primato, lanciando  lo Sputnik 2, con a bordo il primo essere vivente mai lanciato nello spazio, la cagnolina Laika, che non fece mai più ritorno, "cotta viva" durante il rientro nell'atmosfera terrestre.

Il 29 luglio 1958 il presidente USA Dwight David Eisenhower decise la fondazione della NASA (National Aeronautics and Space Administration), per rispondere colpo su colpo ai sovietici. Questi ultimi però il 12 aprile 1961 batterono di nuovo sul tempo gli americani, lanciando nello spazio Jurij Gagarin, il primo uomo a far ritorno vivo dopo aver compiuto un'orbita intorno alla Terra a bordo della capsula Vostok I ("oriente"). Resta il dubbio che egli non fosse il primo uomo lanciato in orbita dai russi, giacché i fratelli radioamatori torinesi Achille (1933-) e Giovanni Battista Judica Cordiglia (1939-) registrarono delle voci disperate in russo provenienti dallo spazio: probabilmente il governo sovietico tenne segreti precedenti insuccessi. La NASA comunque rispose inviando nello spazio John Glenn (1921-) a bordo della Friendhip 7; a sua volta il 16 giugno 1963 Mosca mandò in orbita la prima donna, Valentina Vladimirovna Tereshkova (1937-). Questo però fu l'ultimo successo dei sovietici. Infatti nel frattempo era diventato Presidente USA John Fitzgerald Kennedy, il quale aveva lanciato un ambizioso programma: un americano sulla Luna entro il 1970. E così, l'ex criminale di guerra tedesco Wernher von Braun fu posto a capo di un esercito di 500 ingegneri con un budget astronomico di cinque miliardi di dollari da spendere. L'investimento però si rivelò oculato, perchè nella notte tra il 20 e il 21 luglio 1969 gli astronauti statunitensi Neil Armstrong ed Edwin "Buzz" Aldrin a bordo dell'Apollo 11 furono i primi uomini a mettere piede sul nostro satellite, coronando un sogno millenario.

L'impresa che emozionò i nostri padri negli anni sessanta non ebbe purtroppo seguito: dopo i successivi sbarchi delle navicelle Apollo 12, 14, 15, 16 e 17 (quest'ultima nel dicembre 1972), il programma lunare fu abbandonato per sempre. Wernher Von Braun provò a convincere il Congresso degli Stati Uniti d'America a finanziare la prosecuzione del programma Apollo, sostenendo che, persino con i fondi limitati dell'epoca, la NASA avrebbe potuto volare quattro volte all'anno in orbita bassa, espandendo la stazione Skylab (messa effettivamente in orbita il 14 maggio 1973), e di sbarcare due volte all'anno sulla Luna. Implementando successivamente il programma, secondo Von Braun sarebbe stato possibile impiantare una base lunare stabile e portare l'uomo su Marte entro il 1990. Ma Kennedy era morto, e il nuovo Presidente USA Richard Nixon ritenne una priorità usare quei fondi per vincere la "Sporca Guerra" in Vietnam (che poi venne comunque perduta). E così Von Braun si licenziò dalla NASA; i nuovi vertici di essa decisero di puntare su una nuova tecnologia, quella delle navette recuperabili (i famosi Space Shuttle), la prima delle quali, il Columbia, volò nello spazio per la prima volta il 12 aprile 1981. I più però ritengono che la cancellazione del programma Apollo sia stato un errore molto costoso per gli Stati Uniti. La NASA ottenne nuovi successi mediante l'esplorazione dei pianeti del Sistema Solare e delle loro lune attraverso il lancio di sonde automatiche, come descritto nel capitolo precedente (i programmi Mariner, Pioneer, Voyager, Viking, Magellano, Galileo, Cassini, New Horizons), con l'esplorazione del suolo marziano attraverso robottini semoventi e con la messa in orbita del grande Hubble Space Telescope, che ci ha regalato splendide immagini del cosmo. Ed intanto l'Europa, il Giappone e la Cina si sono inseriti nella corsa allo spazio, collaborando con la NASA per la realizzazione della grande Stazione Spaziale Internazionale. Ma il sogno umano di lasciare l'orbita terrestre, tornando sulla Luna e poi esplorando i mondi vicini, a partire da Marte, è destinato a rimanere tale ancora per vari decenni. Tuttavia non cessiamo di sperare che l'avventura spaziale ricominci, convinti che, come diceva il filosofo Michel de Montaigne, « i nostri sogni sono più importanti dei nostri discorsi »; e che l'uomo senta di nuovo l'urgenza dell'ammonimento dell'Ulisse dantesco a non cessare mai l'esplorazione dell'universo:

« Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza! » (Inf. XXVI, 118-120)

 

In questa pagina e nella precedente ci siamo dedicati fondamentalmente alla Luna, al Sole ed ai Pianeti del Sistema Solare; è ora di volgere il nostro sguardo alle stelle. Perciò, se avete gradito questa lezione, cliccate qui e passate con me alla successiva.