Il Primo, l'Ultimo e il Vivente

Il Prologo (1, 1-8)
Dopo il titolo del libro, rappresentato dalla sua prima parola (ricordiamo che « Apocalisse » vuol dire « Rivelazione »), viene proclamata una beatitudine  iniziale, il cui senso è chiaro: ai Cristiani è affidato il compito di interpretare e di vivere la propria storia non in vista di una prossima fine, ma cercando il fine a cui Dio la guida (ne seguiranno altre cinque in Ap 14,13; 16,15; 19,9; 20,6 e 22,7):

« Beato chi legge e beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia e mettono in pratica le cose che vi sono scritte, perché il tempo è vicino » (1,3)

Questo motivo del giudizio di Dio a noi così vicino ritorna spesso nell'Apocalisse; ormai la storia dell'umanità è, dal punto di vista di Dio, nella fase finale, negli « ultimi tempi »; la redenzione è avvenuta, Gesù Cristo ha rivelato a noi il Padre ed il Suo disegno sul mondo, ormai non ci resta che aderire al progetto del Signore e vivere nell'attesa del suo ritorno.

L'intera Apocalisse si configura come una lettera, indirizzata anzitutto alle Sette Chiese dell'Asia (Efeso, Smirne, Pergamo, Tiatira, Sardi, Filadelfia e Laodicea), e poi per estensione a tutti i cristiani di tutti i tempi, perchè il sette, in tutta l'opera, è numero di pienezza (tanti erano i corpi celesti conosciuti e tanti i Giorni della Creazione necessari a realizzare tutte le cose). I Cristiani sono definiti "sacerdoti", cioè consacrati a Dio (cfr. 1 Pietro 2,9), e la stessa Chiesa è definita "regno", evocando quello di Davide e la profezia del Sacerdozio Eterno cfr. 2 Samuele 7), trasmesso a Gesù Cristo e quindi, per estensione, a tutti noi. Nel suo saluto epistolare Giovanni proclama ad alta voce la propria fede nel ritorno di Gesù, citando Daniele 7,13 e Zaccaria 12,10: 

« Ecco, viene sulle nubi e ognuno lo vedrà; anche quelli che lo trafissero e tutte le nazioni della terra si batteranno per lui il petto. Sì, Amen! Io sono l'Alfa e l'Omega, dice il Signore Dio, Colui che è, che era e che viene, l'Onnipotente! » (1,7)

Qui vediamo all'opera la cosiddetta figura retorica dell'inclusione, usatissima in ebraico (e ciò testimonia l'origine dell'Autore). Quando l'Antico Testamento usa l'espressione "Da Dan a Bersabea", indica tutta quanta la Terra Promessa racchiudendola tra la sua estremità settentrionale (Dan) e la sua estremità meridionale (Bersabea). Allo stesso modo, dire "l'Alfa e l'Omega", cioè la prima e l'ultima lettera dell'alfabeto greco, significa affermare che Cristo rappresenta la totalità di tutto ciò che è, la sintesi dell'intero cosmo dal principio alla fine, sia nel tempo che nello spazio: non a caso in 1,17 lo stesso Cristo si definisce « il Primo e l'Ultimo »: Colui che è all'inizio della Creazione, e Colui che ne suggellerà il termine.

Veduta della baia dell'isola di Patmos, foto di Marco Bono

 

Il Primo, l'Ultimo e il Vivente (1, 9-20)
Subito dopo, si entra nel vivo. Triplice è l'ambientazione di questo racconto: spaziale, temporale e spirituale. Spaziale: Giovanni si trova relegato nell'isola di Patmos, una colonia penale della quale diremo sotto, « a causa del Vangelo di Dio e della testimonianza » resa a Gesù: parole che lasciano pochi dubbi sul perchè l'Apostolo fosse stato inviato sull'isola, al tempo della grande persecuzione di Domiziano. Temporale: siamo « nel giorno del Signore », cioè la domenica, quando già i primi cristiani si radunavano per ricordare la Pasqua di Cristo. Spirituale: Giovanni è improvvisamente « rapito in estasi », e quindi quanto scrive non è frutto della sua fantasia, ma gli viene rivelato direttamente da Dio. Ed ecco che davanti gli compare il Protagonista stesso dell'opera, descritto con una simbologia di matrice veterotestamentaria, densa di rimandi allegorici che ora cercheremo di spiegare uno per uno:

« Udii dietro di me una voce potente, come di tromba » (1,10) [Allusione al suono di tromba di Esodo 19,19, cui viene paragonata la potentissima voce di JHWH sul Monte Sinai, durante la teofania collettiva che coinvolge l'intero popolo d'Israele]
« Ora, come mi voltai per vedere chi fosse colui che mi parlava, vidi sette candelabri d'oro » (1,12) [la simbologia è spiegata dallo stesso Autore più sotto, al versetto 20]
« E in mezzo ai candelabri c'era uno simile a figlio di uomo » (1,13) [Evidente riferimento al Figlio dell'Uomo visto da Daniele nelle sue visioni notturne, titolo che Gesù ha applicato a se stesso. Gesù appare qui in una duplice veste,
nella sua trascendenza e nella sua umanità]
« Con un abito lungo fino ai piedi » (1,13) [Paramenti Sacerdotali]
« E cinto al petto con una fascia d'oro » (1,13)
[Paramenti Regali: come Melchisedec, Cristo è Re e Sacerdote]
« I capelli della testa erano candidi, simili a lana candida, come neve » (1,14)
[simbolo di eternità: l'immagine rimanda a Daniele 7,9]
« Aveva gli occhi fiammeggianti come fuoco » (1,14)
[simbolo di onniscienza]
« I piedi avevano l'aspetto del bronzo splendente purificato nel crogiuolo » (1,15)
[il suo dominio è saldo e non può essere distrutto]
« La voce era simile al fragore di grandi acque » (1,15)
[la voce di Dio sovrasta ogni altra voce: l'immagine rimanda ad Ezechiele 1,24]
« Nella destra teneva sette stelle » (1,16)
[anche questo rimanda al versetto 20]
« Dalla bocca gli usciva una spada affilata a doppio taglio » (1,16)
[con la Sua Parola, Cristo giudica il mondo in modo infallibile: l'immagine rimanda ad Isaia 11,4]
« E il suo volto somigliava al sole quando splende in tutta la sua forza » (1,16)
[Quest'immagine riprende potentemente l'episodio evangelico della Trasfigurazione, del quale Giovanni fu testimone oculare]
« Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto » (1,17)
[La reazione è la stessa del profeta Ezechiele di fronte alla visione inaugurale del suo mandato presso il canale Kebar: « Quando la vidi, caddi con la faccia a terra » (Ez 1,28)]
« Ma egli, posando su di me la destra, mi disse » (1,17) [Anche Cristo risponde a Giovanni come JHWH ad Ezechiele: « Mi disse: "Figlio dell'uomo, alzati, ti voglio parlare". Ciò detto, uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi e io ascoltai Colui che mi parlava » (Ez 2,1-2)]
« Non temere! Io sono il Primo e l'Ultimo e il Vivente. Io ero morto, ma ora vivo per sempre e tengo le chiavi della morte e degli inferi » (1,17-18) [Nel linguaggio veterotestamentario, che l'Autore conosce benissimo, "possedere le chiavi" di qualcosa significa averne in pugno il completo controllo. Qui il riferimento è ad Isaia 22,22: « Metterò sulla sua spalla la chiave della casa di Davide; egli aprirà, e nessuno chiuderà; egli chiuderà, e nessuno aprirà. »]
« Scrivi dunque le cose che hai visto, quelle che sono e quelle che accadranno dopo. Questo è il senso recondito delle sette stelle che hai visto nella mia destra e dei sette candelabri d'oro, eccolo: le sette stelle sono gli angeli delle sette Chiese e le sette lampade sono le sette Chiese »
(1,19-20) [Ecco dunque la spiegazione dei candelabri e delle stelle: sono i destinatari della missione universale affidata da Cristo a Giovanni. Gli Angeli sono personificazioni della protezione divina sulle Sue comunità]

Le Sette Chiese d'Asia

Le Sette Chiese d'Asia, disegno dell'autore del sito

 

Le Lettere alle Sette Chiese
Subito Cristo ordina a Giovanni di scrivere alle Sette Chiese altrettante lettere, che occupano la prima parte dell'Apocalisse (1,9 - 3,22) e seguono uno schema fisso:

Queste lettere trattano la situazione della cristianità dell'Asia Proconsolare Romana, con i loro splendori e le loro miserie, e rappresentano quindi un prezioso resoconto dei problemi che la Cristianità nascente doveva affrontare. Due Chiese, quelle di Smirne e di Filadelfia, sono soltanto elogiate; altre due, quelle di Sardi e di Laodicea, sono solo biasimate; le altre tre, di Efeso, di Pergamo e di Tiatira, sono in parte elogiate ed in parte biasimate. Le severe ammonizioni rivolte alle Chiese ci mostrano ciò che sta più a cuore all'apostolo Giovanni: la fede in Dio e nel Signore Gesù in esse sta perdendo di forza, e viene insidiata dalla diffusione di dottrine eretiche; la carità verso Dio e verso il prossimo; segno distintivo del cristiano in mezzo ai pagani, va spegnendosi come una candela; la fermezza della speranza cristiana nell'avvento del Regno si è fatta stanca e vacillante. Alla fine di ogni epistola Giovanni chiama il cristiano con il nome di « vittorioso », ed insiste nel mostrare la grandiosa ricompensa che Dio darà a tutti quelli che hanno combattuto e vinto, anticipando il tema dei beati in vesti candide che tornerà più avanti nel corso del libro.

La prima Chiesa cui è indirizzata una lettera è quella di Efeso, la città principale dell'Asia Proconsolare, il cui porto era uno dei principali dell'Impero Romano, mentre oggi non ne rimangono che rovine. Verso l'anno 50 d.C. San Paolo vi predicò il Vangelo e vi fondò una Chiesa (cfr. Atti 19); qui, sempre secondo la tradizione, prese stabile dimora l'Apostolo Giovanni con Maria, la Madre di Cristo, da quest'ultimo affidatagli dall'alto della croce. Il suo principale problema è la freddezza nell'impegno d'amore, probabilmente a causa della ricchezza che vi circola: ha dunque bisogno di una rinascita spirituale per ottenere la Vita Eterna. Tuttavia agli efesini è ascritto a merito il rifiuto dei Nicolaiti, un gruppo non meglio conosciuto, presumibilmente eretico, presente anche a Pergamo e da alcuni esegeti ricollegato al proselito Nicola di Antiochia che viene citato in Atti 6,5.

Facciata della Biblioteca di Celso a Efeso (foto di Anna Elena Galli)

Facciata della Biblioteca di Celso a Efeso (foto di Anna Elena Galli)

 

La seconda Chiesa interpellata è quella di Smirne, conosciuta a quel tempo come « l'Incanto dell'Asia », ed oggi coincidente con la turca Izmir, sulla costa del Mar Egeo, città di oltre tre milioni di abitanti. Essa è dominata dallo scontro tra la Chiesa locale e la « Sinagoga di Satana » cioè la locale comunità giudaica, fatto che non doveva certo essere raro ai tempi. Cristo le annuncia « una tribolazione di dieci giorni »: se sarà fedele, riceverà « la corona della vita ».

La terza lettera è indirizzata alla Chiesa di Pergamo, 100 chilometri a nord di Smirne, importantissima nell'antichità perchè capitale del regno ellenistico degli Attalidi; furono questi, alleati di Roma, a chiamare in loro soccorso la Città Eterna contro le pretese di Antioco III il Grande, dando così inizio all'espansione romana in Oriente. Questa città era famosa per il grande tempio dedicato a Zeus, ed è per questo che Cristo attacca con le parole « So che abiti dove Satana ha il suo trono » (2,13). Seguendo un motivo costante in tutta l'opera, la venerazione nei confronti dei martiri, la lettera cita Antipa, messo a morte per la sua testimonianza e preso come esempio da imitare per tutti i cittadini di Pergamo; subito dopo però rimprovera alla Chiesa l'acquiescenza nei confronti di dottrine eretiche, come i Nicolaiti già citati poco sopra, e nominati a quanto ne sappiamo solo nell'Apocalisse, ed i « seguaci della dottrina di Balaam » (2,14). Anche di questi nulla sappiamo; Balaam era un mago mandato a chiamare da Balac, re di Moab, affinché maledicesse il popolo d'Israele che si avvicinava ai suoi confini, secondo il racconto di Numeri 22-24. L'Antico Testamento (Numeri 31,16) descrive Balaam come il responsabile delle infedeltà del Popolo Eletto ai Dieci Comandamenti, ed anche il Nuovo Testamento lo prende come esempio decisamente negativo (2 Pietro 2,15 e Giuda 11); si può dunque avanzare l'ipotesi che questi eretici ammettessero la partecipazione dei cristiani a feste pagane e forse addirittura alla prostituzione sacra, piuttosto diffusa in Oriente. Solo allontanandosi da queste perversioni la Chiesa di Pergamo potrà ottenere da Gesù la manna, simbolo dell'abbondanza della Grazia divina, ed una pietruzza bianca, segno di riconoscimento per i giusti (altro tema che vedremo ricomparire più avanti nel testo), con riferimento al fatto che i romani sul calendario usavano indicare i giorni fausti con un sassolino bianco e quelli infausti con uno nero.

La quarta Chiesa è quella di Tiatira, un piccolo centro situato tra Pergamo e Sardi, e viene rimproverata perchè « lasci fare a Gezabele, la donna che si spaccia per profetessa e insegna e seduce i miei servi inducendoli a darsi alla fornicazione e a mangiare carni immolate agli idoli » (2,20). Naturalmente si tratta di una falsa profetessa, celata nel testo dietro il nome della regina d'Israele che tentò di imporre al suo popolo il culto idolatrico di Baal (1 Re 16,31), a cui è stato concesso il tempo di pentirsi; ma, siccome si rifiuta di farlo, su di lei e sui suoi seguaci a Tiatira si addensa l'ombra di un grave castigo. Invece chi rimarrà saldo nella fede sarà premiato con la partecipazione al potere regale di Cristo, tema che anticipa il capitolo 20 dell'Apocalisse, e che qui è illustrato con le parole del Salmo 2,8-9: « pascolerà [le nazioni] con bastone di ferro e le frantumerà come vasi di terracotta ».

Segue la lettera alla Chiesa di Sardi, già capitale del Regno di Lidia prima dell'avvento dell'Impero Persiano (il proverbiale re Creso regnò da qui), posta 80 chilometri a sudest di Tiatira. Ad essa Cristo si presenta come « Colui che possiede i sette spiriti di Dio e le sette stelle » (3,1), cioè la signoria assoluta e piena sull'universo e sulla Chiesa universale sparsa su tutta la Terra (solita simbologia del numero sette). Il giudizio è nettissimo: « ti si crede vivo e invece sei morto ». Il Signore minaccia di venire « come un ladro », nell'ora in cui meno lo si aspetta, usando una ben nota immagine evangelica, ma come al solito i Giusti saranno preservati ed otterranno in cambio della loro fedeltà una veste bianca, simbolo della loro purezza ripreso nel capitolo 7 dell'Apocalisse, e vedranno i loro nomi iscritti « nel Libro della Vita », immagine tolta dal Libro dei Salmi (69,29) che sarà ripresa più avanti in vari passi (13,8; 17,8; 20,12.15; 21,27), e da innumerevoli mistici cristiani. Lo cita anche Tommaso da Celano nel suo celebre Dies Irae, cu dedicheremo più spazio verso la fine dell'ipertesto:

« Liber scriptus proferetur,
in quo totum continetur,
unde mundus iudicetur »
[Sarà mostrato il libro scritto
nel quale è contenuto tutto,
con cui il mondo sarà giudicato]

La sesta lettera è indirizzata a Filadelfia, 60 chilometri a sudest di Sardi, che deve il suo nome a re Attalo II Filadelfo; proprio ispirandosi al suo nome il quacchero William Penn (1644-1718) fondò nel 1681 la città statunitense di Philadelphia, in Pennsylvania, la sesta città degli USA per popolazione. Cristo si presenta come "Alethinòs", cioé "il Veritiero", e come « Colui che ha la chiave di Davide: quando Egli apre nessuno chiude, e quando chiude nessuno apre » (3,7), cioè Colui che ha in pugno il potere assoluto sulla Gerusalemme Celeste, con riferimento ad Isaia 22,22 e alle "chiavi del Regno dei Cieli" consegnate da Gesù a Pietro (Matteo 16,19). A Filadelfia è aperta una porta che nessuno può chiudere, quella del Regno Celeste, segno dell'afflato missionario di questa Chiesa nella regione circostante: infatti subito dopo alla Chiesa sono consegnati dei Giudei che si prostrano ai suoi piedi. Anche in questo caso un occhio di riguardo è riservato a chi rimarrà fedele, e verrà posto « come una colonna nel tempio del mio Dio » (3,12), simbolo di stabilità perenne e quindi di beatitudine che nessuno potrà togliergli mai più.

Se la Chiesa di Filadelfia è unicamente lodata, ben diverso è il tono della settima ed ultima lettera, secondo molti  la più bella ed appassionata di tutte, indirizzata alla cristianità di Laodicea, città non molto grande ma ricchissima, tutta presa dalle attività industriali e commerciali: una città rigurgitante di banche, di industrie tessili e famosa in tutto il mondo romano per le sue fabbriche di collirio e per la sua scuola medica di oculistica. La Chiesa di Laodicea, sopraffatta da questo benessere economico, sembra ignorare la propria povertà spirituale, che la rende ignava e amorfa; e così Cristo, che si definisce « l'Amen », cioè la Verità assoluta che ignora i compromessi, e « il Principio della creazione di Dio » (cfr. Gv 1,3), sbotta:

« Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca. Tu dici: "Sono ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno di nulla", ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo. Ti consiglio di comperare da me oro purificato dal fuoco per diventare ricco, vesti bianche per coprirti e nascondere la vergognosa tua nudità e collirio per ungerti gli occhi e ricuperare la vista. » (3,15-18)

Questi tre consigli non sono certo casuali, ma si riferiscono alla reale situazione economica della città. Centro di commerci e di ricchezze, Laodicea deve abbandonare il vile oro materiale per scoprire il vero oro che salva; centro tessile assai rinomato, dovrà vestirsi con vesti bianche, che rimandano alla purificazione del Battesimo; sede di una famosa scuola di oftalmologia, dovrà purificarsi la vista non con il collirio medico ma con un collirio spirituale, che le permetterà di vedere lo stato di desolazione in cui versa. È divenuta proverbiale nei secoli l'immagine potente che chiude la lettera:

« Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me » (3,20)

Simone de Beauvoir (1908-1986), la famosa scrittrice francese compagna di Jean-Paul Sartre, dichiarò una volta che spesso aveva atteso che Dio aprisse la porta di casa sua ed entrasse, ma non lo aveva mai fatto. Queste parole sono una chiara risposta al suo atteggiamento: avrebbe dovuto lei per prima aprire la porta e lasciar entrare Colui che ha detto: « Io tutti quelli che amo li rimprovero e li castigo », una chiara risposta al dilemma del dolore innocente, che ha impedito a molti di questi esistenzialisti moderni di scoprire la luce della Fede.

L'isola di Patmos
Patmos è la più settentrionale delle isole del Dodecaneso, arcipelago che come dice il nome è formato da dodici isole vicine alla costa sudoccidentale dell'odierna Turchia. Di piccole dimensioni, un giorno basta per percorrerla tutta quanta: misura meno di 34 chilometri quadrati, ma ha un contorno estremamente frastagliato ed un istmo molto stretto separa la parte nord da quella sud, dividendo quasi l'isola in due parti distinte. Questo grosso isolotto dal terreno in gran parte arido e roccioso era già noto allo storico Tucidide (460-400 a.C.), al geografo Strabone (58 a.C.-25 d.C.) e al naturalista Plinio il Vecchio (23-79 d.C.). In epoca imperiale romana divenne luogo di residenza per alcuni notabili, in genere esiliati politici. È certo che verso la fine del primo secolo Patmos era una piazzaforte avanzata di Mileto, città sua dirimpettaia sulla costa dell'Asia Minore, che se ne serviva come fortezza per difendere l'accesso al proprio porto, e vi relegava in soggiorno obbligato le persone indesiderabili, come probabilmente doveva essere considerato lo stesso Giovanni, visto che proprio nella provincia d'Asia, a causa della diffusione del culto della persona dell'imperatore, i cristiani dovettero maggiormente soffrire a causa della crudeltà di Tito Flavio Domiziano.

Mappa satellitare dell'isola di Patmos (da Google Earth)

Mappa satellitare dell'isola di Patmos (da Google Earth)

 

Il ricordo dell'esilio di Giovanni a Patmos, per diretta disposizione dell'imperatore Domiziano o (più probabilmente) del governatore di Mileto, risale ad una tradizione antichissima ed altrettanto diffusa. Secondo tale tradizione, l'Apostolo sarebbe rimasto sedici mesi a Patmos, avrebbe scritto il libro dell'Apocalisse, distrutto il culto della dea Artemide e convertito gli abitanti alla fede cristiana. Tornato poi ad Efeso per decreto dell'imperatore Nerva, dopo l'assassinio di Domiziano, vi avrebbe composto il suo Vangelo.

« Poiché questa terra ai limiti del mondo era priva di abitanti, il soggiorno senza rumore, e navi pacifiche non vi attraccavano mai, io ardevo dal desiderio di acquistare questa piccola isola », scrisse San Cristodulo, morto nel 1093; e proprio a questo monaco asceta nel 1088 fu donata l'isola di Patmos da parte dell'imperatore bizantino Alessio Comneno (1081-1118), affinché vi stabilisca (sono sue parole) « un laboratorio di virtù ». Cento anni più tardi il monastero contava già 150 monaci, una ricca biblioteca, varie proprietà nelle isole vicine e a Creta, navi commerciali esonerate dalle imposte imperiali. Fu per resistere agli attacchi dai pirati turchi, saraceni e normanni che il monastero decise di proteggersi con le alte muraglie visibili tuttora.

Dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453, mediante tributi agli Ottomani, l'isola di Patmos accolse rifugiati bizantini e conobbe un periodo di prosperità, per via della vicinanza di Creta, divenuta possesso veneziano, dove l'attività culturale era assai intensa. I pittori di icone, di affreschi, gli scultori vi attingevano le loro tecniche, e la decorazione interna del monastero si fece più ricca, mentre gli abitanti dell'isola vivevano di pesca e della costruzione di navi.

Le guerre turco-veneziane (dal 1645 al 1669) aprirono però una grave crisi: Patmos venne gravata di tasse, il commercio crollò, gli stessi Veneziani la saccheggiarono nel 1659. Ma i privilegi ecclesiastici, la protezione e le sovvenzioni dei sovrani dei paesi ortodossi assicurarono la sopravvivenza del monastero. Nel XVIII secolo l'isola visse un nuovo periodo di prosperità marittima e commerciale: i monaci, numerosi e influenti, fondarono una scuola di teologia e filosofia, la Scuola di Patmos. Al momento del primo censimento oggi noto, risalente al 1773, Patmos possedeva 2000 anime, 124 « soggetti spirituali », 500 case, una quarantina di mulini e 150 chiese.

Nel XIX secolo anche Patmos contribuì alla guerra d'indipendenza greca contro l'occupazione turca, ma restò nelle mani della Sublime Porta fino al 1912 quando, in seguito alla guerra italo-turca (meglio nota come Guerra di Libia), venne occupata dagli italiani assieme a tutto il Dodecaneso. Iniziò così il declino commerciale e, con esso, l'emigrazione, fino a che non fu restituita alla Grecia nel 1946.

Il Monastero di San Giovanni il Teologo
L'isola non dispone di un aeroporto, ad essa si accede solamente per mezzo di un traghetto, ma i collegamenti marittimi sono frequenti, e quasi tutte le crociere sull'Egeo con partenza dal porto del Pireo fanno uno scalo di qualche ora a Patmos. Il moderno turista sbarca sul molo di Skala e poi, via autobus, taxi o addirittura a dorso d'asino può salire lungo una strada moderna sino al grosso villaggio di Chora, dalle bianche case a forma di cubo, anche se molto più suggestiva risulta la salita a piedi lungo la via antica, lunga quattro o cinque chilometri, dalla quale può essere ammirato in tutta la sua bellezza il paesaggio mediterraneo, fatto solo di montagne e di mare. Un doppio filare di cipressi conduce al ciclopico monastero-fortezza di San Giovanni il Teologo (Hagios Ioannis Theologos), eretto nel XVII secolo, che domina l'isola come un gigante addormentato, e che nel 2000 contava 33 monaci; il grigio delle sue possenti muraglie si staglia sul biancore delle case e ne fa emergere il carattere di fortezza medioevale. Ma non è questo il centro nevralgico di Patmos. A mezza costa, vicino al bianco monastero della Haghia Anna (Sant'Anna), il lato orientale del monastero protegge il luogo più venerato dell'isola: la grotta nella quale Giovanni visse e dettò il libro al suo fedele discepolo Procoro, stando al racconto degli Atti Apocrifi di Giovanni (composti verso il 180 d.C.). Viene mostrato anche una specie di pulpito in roccia, che gli sarebbe servito da scrittoio, mentre una griglia moderna protegge una pietra che sarebbe servita da cuscino all'Apostolo. Trasformata in una piccola cappella decorata con icone, con due porte sul lato, questa grotta deve apparire oggi un po' meno scura che in origine.

Il Monastero di San Giovanni il Teologo a Patmos, foto di Marco Bono

Il Monastero di San Giovanni il Teologo a Patmos, foto di Marco Bono

 

Il monastero, inserito nel 1999 dall'UNESCO nella lista dei Patrimoni dell'Umanità, è stato costruito sul sito di un antico altare di Artemide, evidentemente riflesso del grande culto che a questa dea si tributava ad Efeso, città distante solo mezza giornata di navigazione. Per un caso fortunato ci è noto l'epigramma onorifico per la sacerdotessa di Artemide, l'idrofora Vera, risalente al secondo secolo dopo Cristo, che fu ritrovato inciso su una pietra riutilizzata nel pavimento del monastero. Il monastero attuale è stato costruito nell'undicesimo secolo, ma rimaneggiato e ingrandito nel XV secolo al tempo dell'invasione turca, e poi restaurato negli anni settanta del secolo scorso: a dispetto dei successivi rifacimenti, conserva il suo aspetto di fortezza medioevale, la cui originale architettura mescola lo stile orientale e quello gotico. Il pianterreno è un labirinto di piccoli cortili, corridoi, celle. Alla sinistra dell'ingresso si trova la chiesa conventuale, il katholikon del XVII secolo. Il nartece, dalle colonne non decorate e dalle ogive rialzate, è ricoperto di affreschi bizantini piuttosto recenti, che illustrano scene della vita degli evangelisti ed evocano il Giudizio Universale, decisamente in tema con l'Apocalisse. Gli affreschi all'interno della chiesa realizzati su fondo dorato ripercorrono la vita di San Giovanni. Al piano superiore si trova invece la biblioteca, che racchiude un'eccezionale collezione di preziose pergamene, papiri, palinsesti, più di 3000 volumi a stampa e migliaia di documenti d'archivio sulla storia del monastero, per conservare meglio i quali è stato recentemente installato un impianto di aria condizionata. I primi risalirebbero a San Cristodulo, ma c'è addirittura una copia incompleta del Vangelo secondo Marco, risalente al VI secolo, forse proveniente dal Monte Athos; essa è stata riscoperta solo al momento del restauro, durante un inventario. Il Tesoro, esposto accanto alla biblioteca, comprende moltissimi oggetti preziosi, reliquie, icone, mitrie di imperatori e patriarchi, antiche stole, pastorali vescovili, croci, calici, e molto altro.

Una scala conduce alle numerose terrazze pavimentate in lastre e contornate di merlature. Collocate a differenti livelli, interrotte dalle cupole, sono collegate fra loro da piccole scale bianche. Dalla terrazza occidentale, la più alta del monastero, la vista spazia su buona parte dei sessanta chilometri di coste di Patmos, una successione di baie, capi, promontori, penisole, istmi e piccolissime isole, e naturalmente sul Mar Egeo: all'orizzonte orientale appaiono le piccole isole di Arki, Lipsi, Leros e Kalimnos; a nord, Samo e Ikaria; più lontano ad ovest, Nasso, l'isola dove Teseo avrebbe abbandonato Arianna (piantandola appunto "in Nasso", da cui il nostro "piantare in asso"). Non stupisce, avendo negli occhi tutte queste isole e queste coste, che Giovanni nell'Apocalisse abbia scritto versetti come questi:

« Tutti i monti e le isole furono smossi dal loro posto» (6,14)

« Ogni isola scomparve e i monti si dileguarono » (16,20)

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