Il Giudizio Universale

Amen, Alleluia!
Nel capitolo 19 dell'Apocalisse ritroviamo i ventiquattro vegliardi, i quattro esseri viventi e l'Assemblea dei Santi che abbiamo già incontrato nella descrizione della Corte Celeste, nel capitolo 4; ed allora non possiamo che ritrovare anche il protagonista del libro, cioè l'Agnello, del quale si celebrano con inni le mistiche Nozze con la Chiesa Sua sposa:

« Udii poi come una voce di una immensa folla simile a fragore di grandi acque e a rombo di tuoni possenti, che gridavano: "Alleluia. Ha preso possesso del suo regno il Signore, il nostro Dio, l'Onnipotente. Rallegriamoci ed esultiamo, rendiamo a lui gloria, perché sono giunte le nozze dell'Agnello; la sua sposa è pronta, le hanno dato una veste di lino puro splendente." La veste di lino sono le opere giuste dei santi. » (19,6-8)

Queste nozze rappresentano l'instaurarsi definitivo del Regno di Dio, che subentra all'impero terreno di Roma/Babilonia, e il compimento ultimo e definitivo dell'Alleanza tra Dio e l'Umanità. La sposa, cioè la Chiesa, è abbigliata con una veste di lino splendente, analoga a quella dei centoquarantaquattromila di Ap 7,4, che rappresenta le opere giuste compiute dai Santi, come specifica un versetto che probabilmente rappresenta l'interpolazione di un copista zelante, desideroso di rendere esplicito quel simbolo per lui così importante. Il simbolismo nuziale, poi, ricorre spessissimo nella Bibbia, per esprimere il legame tutto particolare che si instaura tra Dio ed il suo popolo, Israele. JHWH si presenta in genere come lo Sposo, e Israele come la Sposa: un ruolo che qui è attribuito naturalmente alla Chiesa di Cristo. Le fonti sono Isaia 54,5-6, Osea 2,16-18 e, naturalmente, il Cantico dei Cantici.

Subito Giovanni si prostra davanti all'Angelo, che abbiamo già incontrato in 17,1 e che ritroveremo in 21,9-15, ma questi lo ammonisce e lo invita a non farlo. Questo fatto è analogo al dialogo tra l'Angelo e Manoach, padre di Sansone, nel capitolo 13 del Libro dei Giudici:

« Manoach disse all'angelo del Signore: "Permettici di trattenerti e di prepararti un capretto!" L'angelo del Signore rispose a Manoach: "Anche se tu mi trattenessi, non mangerei il tuo cibo; ma se vuoi fare un olocausto, offrilo al Signore." » (Giudici 13,15-16)

« Allora mi prostrai ai suoi piedi per adorarlo, ma egli mi disse: "Non farlo! Io sono servo come te e i tuoi fratelli, che custodiscono la testimonianza di Gesù. È Dio che devi adorare." La testimonianza di Gesù è lo spirito di profezia » (19,10)

In questi passi si trova l'esplicita dichiarazione che gli Angeli sono creature di Dio, non déi essi stessi. Se ciò appare indispensabile da ricordare in un momento storico in cui Israele è l'unico popolo monoteista in mezzo a milioni di abitanti del Medio Oriente tutti politeisti o al più enoteisti, questo richiamo nell'Apocalisse probabilmente evoca la polemica contro il culto delle potenze celesti, già condannato da San Paolo nella Lettera ai Colossesi:

« Nessuno v'impedisca di conseguire il premio, compiacendosi in pratiche di poco conto e nella venerazione degli angeli... » (Colossesi 2,18)

e il Primato di Cristo su tutte le gerarchie angeliche, come sottolinea la Lettera agli Ebrei, in realtà un'omelia della fine del I secolo, di poco posteriore all'Apocalisse (essa rappresenta dunque l'ultimo libro in ordine cronologico del Nuovo Testamento):

« Non certo a degli angeli egli ha assoggettato il mondo futuro, del quale parliamo. Anzi, qualcuno in un passo ha testimoniato: "Che cos'è l'uomo perché ti ricordi di lui o il figlio dell'uomo perché tu te ne curi? Di poco l'hai fatto inferiore agli angeli, di gloria e di onore l'hai coronato e hai posto ogni cosa sotto i suoi piedi." Avendogli assoggettato ogni cosa, nulla ha lasciato che non gli fosse sottomesso » (Ebrei 2,5-8)

Troviamo qui, mescolati al testo greco dell'Apocalisse, due termini ebraici: « Amen » e « Alleluia » (19,4), che ritornano con grande frequenza nell'Apocalisse, e che la liturgia e le preghiere hanno conservato fino al giorno d'oggi. "Amen" deriva dalla radice ebraica "aman", che indica la certezza, la solidità, l'immutabilità: non è un caso se da essa derivano anche i termini emuna, "fede", ed emet, "fedeltà". Per questo Cristo nell'Apocalisse viene chiamato "l'Amen" (3,14) e "il fedele" (19,11). Invece "alleluia" deriva dal verbo ebraico halal, "lodare", e da Jah, abbreviazione del nome divino JHWH, e significa "lodate JHWH": si tratta di un'acclamazione di gioia e di lode molto frequente nei Salmi.

Coppo di Marcovaldo, Giudizio Universale (1260-70), Battistero di San Giovanni, Firenze

Coppo di Marcovaldo, Giudizio Universale (1260-70), Battistero di San Giovanni, Firenze

 

Il Verbo Invincibile
Ed ecco il protagonista apparire sulla scena in una serie di meravigliosi affreschi, uno più grandioso dell'altro, che hanno ispirato artisti di ogni tempo. Si tratta sempre di visioni, come sottolinea lo stesso Giovanni ripetendo tre volte il verbo "vidi", nei versetti 11, 17 e 19.

Nella prima domina un cavaliere su un cavallo bianco; il nome di chi lo cavalca è Fedele e Veritiero, che come si è visto sono traduzioni dell'ebraico "aman", da cui "Amen":

« Poi vidi il cielo aperto, ed ecco un cavallo bianco; colui che lo cavalcava si chiamava «Fedele» e «Verace»: egli giudica e combatte con giustizia. I suoi occhi sono come una fiamma di fuoco, ha sul suo capo molti diademi; porta scritto un nome che nessuno conosce all'infuori di lui. È avvolto in un mantello intriso di sangue e il suo nome è Verbo di Dio.
Gli eserciti del cielo lo seguono su cavalli bianchi, vestiti di lino bianco e puro. Dalla bocca gli esce una spada affilata per colpire con essa le genti. Egli le governerà con scettro di ferro e pigerà nel tino il vino dell'ira furiosa del Dio onnipotente. Un nome porta scritto sul mantello e sul femore: Re dei re e Signore dei signori. » (19,11-16)

Qui ritroviamo una sintesi di molti dei simboli già incontrati nell'Apocalisse: i suoi occhi sono come fiamma di fuoco, veste di bianco e dalla bocca gli esce una spada affilata, esattamente come il Primo, l'Ultimo e il Vivente apparso a Giovanni nella visione inaugurale dell'Apocalisse, quindi è evidente che si tratta della stessa persona. Egli reca i simboli della Passione (il mantello insanguinato), ma anche della sua regalità eterna: ha in capo infatti molti diademi, confermando il titolo di Re dei Re, ma anche in chiara opposizione ai diademi portati in capo dalle varie Bestie da noi incontrate durante la nostra lettura ragionata dell'Apocalisse, a partire dal Dragone Rosso e dalla Bestia del Mare. Il nome che nessuno conosce se non lui solo richiama l'impronunciabile nome di Dio, e quindi la Divinità del cavaliere; infine, per togliere ogni dubbio, viene specificato un altro suo nome: il Verbo di Dio. Forse quest'ultima è l'aggiunta di un discepolo per sgombrare ogni dubbio circa il fatto che questo cavaliere sia Cristo, ricollegandosi direttamente al Prologo del Vangelo di Giovanni. Egli è l'artefice del Giudizio di Dio, raffigurato come una vendemmia, così come era già stato fatto in 14,19-20, ed appare a noi circondato dal corteo dei Suoi angeli e dei Suoi santi: una raffigurazione, come si vede qui sopra, molto diffusa nelle chiese di ogni tempo e di ogni stile (con termine greco il Cristo viene definto Pantocrator, cioè "Colui che tutto domina").

Questa è l'ultima delle descrizioni simboliche della persona di Cristo che incontriamo nell'Apocalisse. Riepiloghiamo le principali. Egli è visto:

Tra queste visioni e impossibile scegliere quale sia la più bella; tutte contengono diverse sfaccettature della nostra fede nella persona di Gesù Cristo Vero Dio e Vero Uomo, ma l'ultima è l'unica in cui il Redentore è chiamato con il nome assegnatogli dal Prologo del Vangelo di Giovanni, come se la sinfonia apocalittica in un continuo crescendo avesse qui raggiunto il suo culmine più alto e definitivo.

La disfatta e la condanna delle due Bestie
Ed ecco aprirsi ai nostri occhi un'altra scena di straordinaria potenza, che evoca gli affreschi di Michelangelo nella Cappella Sistina:

« Vidi poi un angelo, ritto sul sole, che gridava a gran voce a tutti gli uccelli che volano in mezzo al cielo: "Venite, radunatevi al grande banchetto di Dio. Mangiate le carni dei re, le carni dei capitani, le carni degli eroi, le carni dei cavalli e dei cavalieri e le carni di tutti gli uomini, liberi e schiavi, piccoli e grandi." Vidi allora la Bestia e i re della terra con i loro eserciti radunati per muover guerra contro colui che era seduto sul cavallo e contro il suo esercito. Ma la Bestia fu catturata, e con essa il Falso Profeta che alla sua presenza aveva operato quei portenti con i quali aveva sedotto quanti avevano ricevuto il marchio della Bestia e ne avevano adorato la statua. Ambedue furono gettati vivi nello stagno di fuoco, ardente di zolfo. Tutti gli altri furono uccisi dalla spada che usciva di bocca al Cavaliere; e tutti gli uccelli si saziarono delle loro carni » (19,17-21)

Lo scontro escatologico tra Cristo e la Bestia-Satana è solo evocato, non narrato, attraverso l'affrontarsi dei due titanici personaggi, la cattura della Bestia e del Falso Profeta (cioè la Bestia della Terra) ed il loro sommergimento nello stagno di zolfo e fuoco, da noi già incontrato in Ap 14,10.

Come e facile capire, questa simbolica descrizione non indica più UN giudizio di Dio che sopravviene durante il corso della storia, bensì IL supremo giudizio di Dio al termine della storia stessa: lo «stagno di fuoco e di zolfo » indica infatti la dannazione eterna dell'Inferno, e da questo stagno non si torna mai più alla ribalta della vita e della storia.

Può fare un po' di meraviglia che Giovanni parli della condanna eterna a proposito di due personaggi fantastici e simbolici come sono le due Bestie, ma ogni perplessità sparirà appena si penserà a quanto abbiamo imparato sinora circa il simbolismo giovanneo. Quei due personaggi sono simbolici, ma incarnano persone in carne ed ossa, vale a dire tutti i tiranni, i dittatori, i potenti della storia che hanno vissuto unicamente per il proprio egoismo e per la propria grandezza terrena, magari formalmente facendo sfoggio di pratica religiosa, ma in realtà disprezzando bellamente la Parola di Dio e i dettami della propria coscienza. La loro sorte (battaglia perduta e condanna eterna) è ben rappresentata dal destino delle due immaginarie Bestie che li rappresentano tutti nelle loro astratte ma vivide figure.

Da notare come la Bestia del Mare, simbolo di ogni potenza politica ostile a Cristo ed alla sua Chiesa, si è espressa, al tempo di San Giovanni, nell'impero della Roma pagana; ma essa non si identifica con Roma. Dopo la fine dell'impero romano, infatti, quella Bestia politica continuerà ad esprimersi attraverso altri imperi ed altre superpotenze, fino al termine della storia. Lo dimostra il fatto che il giudizio di Dio sulla Roma pagana è ben distinto e separato da quello sulla Bestia del Mare, come quest'ultimo è separato da quello che riguarda il Dragone-Satana. Inoltre, ad eseguire la condanna della Roma pagana sono i sette Angeli di cui si è parlato in quel che precede, mentre ad eseguire quella della Bestia del Mare è Gesù Cristo in persona, poiché, come si è detto, la Bestia del Mare rappresenta, nella scimmiottatura diabolica della Trinità, il rovescio speculare del Verbo di Dio. Tutti i conti tornano!

A questo proposito, probabilmente vi sarete già resi conto del fatto che tutte le immagini diaboliche descritte nell'Apocalisse, ipostasi di tutte le malvagità e tutte le perversioni di questo mondo e dell'altro, vengono giudicate e scompaiono dalla scena in ordine inverso a quello della loro comparsa. L'ordine di comparsa e stato, come si ricorderà, il seguente: il Dragone-Satana, le due Bestie, Babilonia/Roma. L'ordine del loro giudizio e della loro condanna è invece il seguente: Babilonia/Roma, le due Bestie, il Dragone-Satana. Perciò è logico aspettarci, dopo la liquidazione delle due Bestie, quello del Dragone, di cui le Bestie erano come l'emanazione e lo strumento nella lotta contro Gesù Cristo e contro la Chiesa cristiana (analogamente agli Angeli, emanazione di Dio). Ed infatti, subito dopo il giudizio della Bestia e del Falso Profeta, ecco arrivare quello di Satana in persona.

Dies Irae, spettacolare dipinto su fondo stradale dell'inglese Julian Beever

Dies Irae, spettacolare dipinto su fondo stradale dell'inglese Julian Beever

 

La sconfitta del Nemico
Se questa pagina dell'Apocalisse contenesse soltanto la descrizione della disfatta e della maledizione eterna del Dragone, non presenterebbe difficoltà di sorta a noi lettori. Invece, il capitolo 20 del libro è probabilmente il più difficile di tutti, come ora vedremo, a causa del mistero dei Mille Anni che esso contiene. Anzitutto, ricorre ancora per tre volte (20,1.4.11) il verbo "vidi" com'era accaduto nel capitolo precedente, segno del fatto che davanti agli occhi ci si presenta un nuovo trittico simbolico. Ed ecco la prima visione:

« Vidi poi un angelo che scendeva dal cielo con la chiave dell'Abisso e una gran catena in mano. Afferrò il Dragone, il Serpente antico, cioè il diavolo, Satana, e lo incatenò per mille anni; lo gettò nell'Abisso, ve lo rinchiuse e ne sigillò la porta sopra di lui, perché non seducesse più le nazioni, fino al compimento dei mille anni. Dopo questi dovrà essere sciolto per un po' di tempo.
Poi vidi alcuni troni e a quelli che vi si sedettero fu dato il potere di giudicare. Vidi anche le anime dei decapitati a causa della testimonianza di Gesù e della parola di Dio, e quanti non avevano adorato la Bestia e la sua statua e non ne avevano ricevuto il marchio sulla fronte e sulla mano. Essi ripresero vita e regnarono con Cristo per mille anni; gli altri morti invece non tornarono in vita fino al compimento dei mille anni. Questa è la prima risurrezione.
Beati e Santi coloro che prendono parte alla prima risurrezione. Su di loro non ha potere la seconda morte, ma saranno sacerdoti di Dio e del Cristo, e regneranno con lui per mille anni » (20,1-6)

La « chiave dall'Abisso » qui citata richiama la « chiave del pozzo dell'Abisso » che è stata data alla stella Assenzio in Ap 9,1. La chiave è un simbolo del potere decisionale: nella Bibbia, possedere la chiave di qualcosa significa esserne il padrone, come testimonia questo passo di Isaia:

« Gli porrò sulla spalla la chiave della casa di Davide; se egli apre, nessuno chiuderà; se egli chiude, nessuno potrà aprire » (Isaia 22,22)

(all'epoca le chiavi erano grossi bastoni di legno e venivano portate appoggiate alla spalla, come un fucile o un'accetta) e questo notissimo passo evangelico:

« E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli. » (Matteo 16,18-19)

Del resto, già al principio dell'Apocalisse il Primo, l'Ultimo e il Vivente aveva detto a Giovanni:

« Io ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi » (Ap 1,18)

Come si vede, Cristo solo può disporre dell'Abisso, evidentemente inteso come luogo di castigo perenne; in altre parole, Lui solo possiede il supremo Potere Giudiziario sul genere umano. Il Drago, che qui è identificato con il Serpente dell'Eden e con il supremo Avversario di Dio (forse la precisazione è del solito copista scrupoloso, che non voleva malintesi), viene incatenato per mille anni.

Il Regno dei Mille Anni
Questa cifra, forse la più misteriosa di tutta l'Apocalisse, ha dato adito, in venti secoli di esegesi, alle interpretazioni più svariate. Fin dalla più remota antichità cristiana questo testo venne interpretato alla lettera, dando vita alla cosiddetta eresia millenarista o chiliasta (dal greco chilioi, "mille"), da sempre condannata dalla Chiesa Cattolica: secondo i suoi adepti, prima della fine della storia umana si instaurerà sulla Terra un regno di Cristo della durata di mille anni, senza che il diavolo possa più infierire contro di esso, come ha fatto nei secoli precedenti. Per questo è nata la tradizione del "mille e non più mille!", secondo cui il compiersi del primo millennio cristiano avrebbe visto il ritorno di Cristo sulla Terra. L'opinione secondo cui l'intera popolazione europea il 31 dicembre 999 era sconvolta dal terrore è niente più che una leggenda: i millenaristi furono sempre un'esigua minoranza all'interno della cristianità e, se ebbero una certa eco, è solo perchè i loro predicatori gridavano forte i propri slogan nelle piazze (si sa che chi urla più forte viene sempre creduto), e perchè la mente umana si è sempre fatta suggestionare dai numeri tondi come i multipli di 1000. In realtà il 1 gennaio dell'anno mille la vita continuò come prima, senza sorprese né delusioni; ma i chiliasti trovarono subito una risposta a chi li derideva tacciandoli di aver sbagliato i calcoli, poiché affermarono che i mille anni non andavano contati dalla nascita di Cristo, bensì da altri eventi, a partire dalla Sua morte e  resurrezione. Ovviamente anche il 1033 è passato senza troppi scossoni, ma i millenaristi non hanno mai gettato la spugna, ed infatti nel già citato "Nome della Rosa" di Umberto Eco ne compare uno che annuncia la fine del mondo per il millesimo anniversario della presunta "donazione di Costantino", cioè proprio per il 1327 in cui il romanzo è ambientato. Ancora negli anni recenti si sentiva ripetere "duemila e non più duemila!", ed infatti alcuni hanno esultato alla notizia dell'attentato alle Twin Towers dell'11 settembre 2001, speranzosi circa il fatto che le trombe dell'Apocalisse stessero per suonare. Ma il Cielo ha rimandato tutto un'altra volta a data da destinarsi. Così come sono andate frustrate finora tutte le previsioni dei Testimoni di Geova, eredi in certo qual modo del chiliasmo medioevale, i quali da un secolo a questa parte ormai fissano presunte date "certe" della fine del mondo, salvo far sparire ogni traccia delle previsioni sballate appena quella data è trascorsa. A tutti questi adoratori del numero mille bisogna rammentare le significative parole di Cristo:

« Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. Quanto poi a quel giorno o a quell'ora, nessuno li conosce, neanche gli Angeli nel cielo, e neppure il Figlio, ma solo il Padre » (Marco 13,31-32)

Sicuramente 1000 è un altro numero simbolico, come 666 e 144.000; anzi, da questo punto di vista è il più facile da riconoscere, essendo la terza potenza di 10, e sia 10 che 3 sono considerati numeri perfetti. Si tratta dunque di un tempo, compiuto, perfetto, assolutamente completo: è presumibile che in questa cifra Giovanni intenda racchiudere la vita stessa della Chiesa Militante, cioè la storia terrena della comunità rinnovata dalla Pasqua di Cristo, che avrà sempre la vittoria sul peccato e sulle forze del Male.

Un altro grosso problema presentato da questo capitolo 20 è il concetto di Prima Risurrezione. Secondo la maggior parte dei commentatori, quest'ultima va intesa come il Battesimo, ovvero come la Vita nuova ricevuta da Cristo, che comporta il vivere e il regnare con Lui. Su questa vita ha potere la "prima morte", cioè quella corporale, ma non la "seconda morte", quella spirituale, vale a dire la condanna eterna e la privazione della gioia della comunione con Dio. A questo passo si è ispirato certamente il mio santo protettore, San Francesco d'Assisi (1182-1226), in questo celebre passo del suo Cantico delle Creature:

« Laudato sì, mi Signore, per sora nostra Morte corporale,
da la quale nullu homo vivente pò skappare:
guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no 'l farrà male. »

Beato Angelico, Il Giudizio Universale (1432-1435), tempera su tavola, Museo Nazionale di San Marco, Firenze 

 

Gog e Magog
Il versetto 20,7 indica invece la fine del tempo storico della Chiesa, e l'inizio del racconto degli Ultimi Tempi con lo scontro finale tra Bene e Male:

« Quando i mille anni saranno compiuti, satana verrà liberato dal suo carcere e uscirà per sedurre le nazioni ai quattro punti della terra, Gog e Magog, per adunarli per la guerra: il loro numero sarà come la sabbia del mare. Marciarono su tutta la superficie della terra e cinsero d'assedio l'accampamento dei santi e la città diletta. Ma un fuoco scese dal cielo e li divorò. E il diavolo, che li aveva sedotti, fu gettato nello stagno di fuoco e zolfo, dove sono anche la bestia e il falso profeta: saranno tormentati giorno e notte per i secoli dei secoli. » (20,7-10)

Lo scontro escatologico, il "Crepuscolo degli Dei" per dirla con la mitologia scandinava, è narrato in poche ma efficaci battute, simili a colpi di scalpello di un genio della scultura contro un blocco di marmo. Per illustrarlo, Giovanni utilizza immagini tolte dal capitoli 38 del profeta Ezechiele, in cui si parla di una coalizione immensa di popoli che muoverà guerra all'indifeso popolo d'Israele:

« Mi fu rivolta questa parola del Signore: "Figlio dell'uomo, volgiti verso Gog nel paese di Magog, principe capo di Mesech e Tubal, e profetizza contro di lui. Annunzierai: Dice il Signore Dio: Eccomi contro di te Gog, principe capo di Mesech e Tubal, io ti aggirerò, ti metterò ganci alle mascelle e ti farò uscire con tutto il tuo esercito, cavalli e cavalieri tutti ben equipaggiati, truppa immensa con scudi grandi e piccoli, e tutti muniti di spada. La Persia, l'Etiopia e Put sono con loro, tutti con scudi ed elmi. Gomer e tutte le sue schiere, la gente di Togarma, le estreme regioni del settentrione e tutte le loro forze, popoli numerosi sono con te. (...) In quel giorno, quando il mio popolo Israele dimorerà del tutto sicuro, tu ti leverai, verrai dalla tua dimora, dagli estremi confini del settentrione, tu e i popoli numerosi che sono con te, tutti su cavalli, una turba grande, un esercito potente. Verrai contro il mio popolo Israele, come un nembo per coprire la terra. Sul finire dei giorni io ti manderò sulla mia terra perché le genti mi conoscano quando per mezzo tuo, o Gog, manifesterò la mia santità davanti ai loro occhi » (Ezechiele 38,1-6.14-16)

Come si vede, anche in questa pagina ricorrono accoppiati i nomi di due personaggi, Gog e Magog, che nei secoli suggestionarono i credenti, spinti ad identificarli di volta in volta con Alarico, Attila, Alboino, Gengis Khan, i Turchi Ottomani, Stalin, insomma genericamente con possenti nemici di Cristo e della Chiesa, che arrivano armati fino ai denti dal cuore dell'Asia. Ma chi erano costoro?

Il termine Magog è citato per la prima volta nel capitolo 10 del libro della Genesi, nella cosiddetta Tavola delle Genti, per la quale rimando al mio Ipertesto su Genesi 1-11. Tale capitolo elenca tutti i popoli conosciuti dall’autore biblico del VI secolo a.C., identificandoli con i loro fondatori eponimi, figli o nipoti dei tre figli di Noè: Sem, Cam e Jafet. Gog non è citato nella Tavola, ma Magog sì, tra i figli di Jafet, insieme a Mesech, Tubal, Gomer e al figlio di questi Togarma:

« I figli di Iafet: Gomer, Magog, Madai, Iavan, Tubal, Mesech e Tiras. I figli di Gomer: Askenaz, Rifat e Togarma. » (Genesi 10,2-3) 

Siccome ogni nome della Tavola corrisponde ad un popolo dell'antichità, è ovvio che questo deve valere anche per il nostro Magog. Alcuni studiosi hanno avanzato l'ipotesi che si tratti di un popolo chiamato Sahi, stanziato a ovest dell’Armenia, noto ai Greci con il nome di Saci: si tratta infatti di una popolazione affine agli Sciti, i cui principi portavano spesso il nome di Gag (Gagu nelle iscrizioni assire). Mat-Gagu in assiro significherebbe "Paese di Gagu", dal quale si spiegherebbe in una volta sola sia il significato di Gog che quello di Magog.

Le cronache assire fanno esplicito riferimento anche a Mesech e a Tubal, indicando questi due popoli indoeuropei con il nome di Mushki e Tabal: come i Germani per l'Impero Romano, entrambi rappresentavano una continua minaccia per l'Impero Assiro, che spese parecchie energie per scacciarli fuori dai propri domini, e addirittura per inseguirli fin sulle coste del Mar Nero. I regni di Frigia e di Cilicia in Asia Minore sono stati probabilmente fondati da loro, ma la loro patria originaria, come per tutti gli indoeuropei, va ricercata oltre il Caucaso. Pertanto non è del tutto azzardato identificare la regione di Magog con le steppe russe ed ucraine: non a caso Ezechiele 38,15 colloca la loro patria negli « estremi confini del settentrione ». Quanto agli altri popoli che compongono questa coalizione sciagurata e diabolica, Gomer va identificato con i Cimmeri, popolo proveniente da oltre il Caucaso menzionato nelle cronache assire con il nome di Gimirrai, che nel VII secolo a.C. invase l’Asia Minore, annientando il regno frigio dei Mushki. Togarma, altro alleato di Gog, è poi presente come Tilgarimmu nelle iscrizioni assire e Tegarama in quelle ittite, ed andrebbe identificato con gli antenati degli Armeni. Dell'orda intravista da Ezechiele poi fanno parte tutti i popoli più remoti, e quindi considerati feroci, mostruosi ed assetati di sangue e di bottino, tra cui i persiani, gli etiopi ed addirittura gli abitanti di Put, nome che gli antichi egizi davano al Corno d'Africa, estremo avamposto verso sud raggiunto dalle navi faraoniche. In ogni caso, la lista di Ezechiele, poi condensata da Giovanni nei soli nomi di Gog e Magog, intende indicare tutte le grandi potenze pagane e nemiche del popolo di Dio, che si daranno convegno per cercare di impedire la vittoria dell'Agnello, un po' come una micidiale coalizione composta da Ramses II, Alessandro Magno, Giulio Cesare, Gengis Khan, Napoleone e Hitler!!

Secondo alcuni studiosi, tuttavia, in Gog sarebbe da identificare Gige, re di Lidia tra il 716 e il 678 a.C. e fondatore della dinastia dei Mermnadi. Secondo la leggenda, egli possedeva un anello donatogli da Zeus, che gli consentiva di diventare invisibile. Egli spostò la capitale lida a Sardi, che guarda caso era una delle Sette Chiese d'Asia, e ciò contribuisce all'identificazione.

Il Giudizio Finale
Naturalmente, nonostante le micidiali armi messe in campo da questa congrega di tiranni, l'esito della lotta è scontato: il fuoco divino, analogo a quello di Sodoma e Gomorra, li consuma e li annienta. Anche gli apostoli Giacomo e Giovanni, di fronte al rifiuto da parte dei Samaritani di accogliere Gesù, rispondono domandando:

« Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi? » (Luca 9,54)

« Ma Gesù si voltò e li rimproverò ». Infatti, come insegna la parabola della zizzania (Matteo 13,24-30), non bisogna cercare di annientare il Male che alberga nella storia attraverso armi fantascientifiche di distruzione di massa, altrimenti si colpiranno anche i buoni. Lapidaria è la conclusione della parabola:

« Lasciate che [il buon grano e la zizzania] crescano insieme fino alla mietitura, e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Cogliete prima la zizzania e legatela in fastelli per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio » (Matteo 24,30)

Si tratta di un evidente annuncio di quello che ora Giovanni sta descrivendo nel suo Libro: il tempo della mietitura è venuto, ora la zizzania sarà separata dal buon grano. E così si apre la terza scena grandiosa di questo capitolo:

« Vidi poi un grande trono bianco e Colui che sedeva su di esso. Dalla sua presenza erano scomparsi la terra e il cielo senza lasciar traccia di sé.
Poi vidi i morti, grandi e piccoli, ritti davanti al trono. Furono aperti dei libri. Fu aperto anche un altro libro, quello della vita. I morti vennero giudicati in base a ciò che era scritto in quei libri, ciascuno secondo le sue opere. Il mare restituì i morti che esso custodiva e la morte e gli inferi resero i morti da loro custoditi e ciascuno venne giudicato secondo le sue opere.
Poi la morte e gli inferi furono gettati nello stagno di fuoco. Questa è la seconda morte, lo stagno di fuoco.  E chi non era scritto nel libro della vita fu gettato nello stagno di fuoco. » (Apocalisse 20,11-15)

Questa scena è stata rappresentata mille volte nella storia dell'arte, senza mai dimenticare il "libro della vita" che abbiamo già incontrato nel capitolo 5 dell'Apocalisse: la summa cioè di tutte le vicende umane, contenente tutte le azioni compiute da ciascuno, così da poter giudicare « i vivi e i morti », ovvero quelli scampati e quelli travolti dalla Seconda Morte, quella dell'anima: le pecore ed i capri, insomma, tanto per usare l'efficacissima metafora di Matteo 25,32. Assistiamo alla risurrezione dei morti, già annunciata in Daniele 12,2 e ben rappresentata dal Beato Angelico (vedi l'immagine soprastante) nella sua versione del Giudizio con quei sepolcri scoperchiati che occupano il centro prospettico della scena. La Vita Beata del Paradiso, consistente nell'essere con Dio per 1'eternità, non è assolutamente da concepirsi, secondo Daniele e San Giovanni, alla maniera platonica: essa non è soltanto il regno delle anime e degli spiriti come lo pensavano gli Gnostici, rifiutando tutto ciò che è legato al corpo e alla materia; al contrario, come vedremo meglio nel capitolo successivo, è una Creazione Nuova, nella quale l'uomo partecipa alla gloria di Dio anche con il suo corpo, nel contesto di una realtà resa affatto nuova dalla potenza di Dio.

Da notare che il mare restituisce i morti da esso custoditi: il mare, come ricorderemo, è simbolo del Male, della Rovina e della Morte, e ciò spiega come mai non siano citati i morti inumati nella terra. Gli Inferi qui citati sono lo Sheol ebraico, cioè il luogo indistinto dell'attesa delle anime, pensato dagli autori veterotestamentari prima che nell'ebraismo entrassero i concetti di Inferno e Paradiso, che ora restituisce i suoi morti affinché vadano alla beatitudine o alla dannazione eterna. Alla fine, la stessa Morte e lo stesso Sheol sono gettati nello stagno di fuoco, cioè distrutti per sempre. Sembra qui di cogliere un'eco di un'epistola paolina che probabilmente l'autore dell'Apocalisse conosceva:

« Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza. Bisogna infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L'ultimo nemico ad essere annientato sarà la Morte » (1 Corinzi 15,24-26)

Dies Irae
Un'opera che meglio di ogni altra ha colto la carica profetica ed anche l'alta dignità letteraria di questo passo è il « Dies Irae », attribuito al francescano fra Tommaso da Celano (1200-1270) e considerato una delle composizioni poetiche più riuscite di tutto il Medioevo. Ispirato al testo di Sofonia 1,15-16, quest'inno è scritto in latino, ma abbandona il tradizionale metro quantitativo per passare a una metrica accentuativa basata sulle rime, sconosciute al mondo classico. Le sue terzine, soprattutto quelle iniziali, martellano le orecchie di chi lo legge con un ritmo davvero paragonabile a quello delle sette trombe dell'Apocalisse. Ecco alcune strofe:

Dies Irae, dies illa:
solvet saeclum in favilla,
teste David cum Sybilla.

Quantus tremor est futurus,
Quando judex est venturus,
Cuncta stricte discussurus.

Tuba, mirum spargens sonum
per sepulcra regionum,
coget omnes ante thronum.

Mors stupebit et natura,
cum resurget creatura,
judicanti responsura.

Liber scriptus proferetur
in quo totum continetur,
unde mundus judicetur.

Judex ergo cum sedebit,
quidquid latet, apparebit:
nil inultum remanebit. (...)

Preces meae non sunt dignae,
sed tu bonus fac benigne,
ne perenni cremer igne!

Inter oves locum praesta,
et ab haedis me sequestra,
statuens in parte dextra. (...)

Giorno di collera, quel giorno:
struggerà il mondo in scintille,
lo attestano re Davide e la Sibilla.

Quanto terrore arriverà
quando giungerà il giudice,
per giudicare severamente ogni cosa!

La tromba, emettendo un suono
stupefacente sui sepolcri del mondo,
spingerà tutti davanti al trono.

Stupiranno la morte e la natura
quando ogni creatura risorgerà
per rispondere al giudice!

Sarà presentato un libro scritto
in cui tutto è contenuto,
con cui il mondo sarà giudicato.

E così, quando il Giudice siederà
tutto ciò che è nascosto sarà manifesto,
nulla nascosto resterà. (...)

Le mie preghiere non son degne,
ma tu, o buono, fai benignamente sì
che io non sia arso nel fuoco eterno!

Fammi posto tra le pecore,
e dai capri tienimi lontano,
ponendomi alla Tua destra. (...)

Ogni ulteriore commento sull'innegabile potenza di questo testo è assolutamente superfluo. Non è certo un caso se esso è diventato una delle parti più note del requiem, e quindi del rito della messa esequiale previsto dalla liturgia tridentina; e proprio come tale è stato messo in musica da innumerevoli musicisti, da Mozart (Requiem en ré menor, KV626) a Berlioz (Grande Messe des Morts, Op. 5) fino al capolavoro di Giuseppe Verdi, la Messa da Requiem composta nel 1874 in memoria di Alessandro Manzoni, un brano del quale potete ascoltare da Youtube cliccando sul link qui sopra. Invece cliccate qui per ascoltarne una versione in Canto Gregoriano.

L'Ultima Battaglia
Ma una rappresentazione letteraria dell'Ultimo Giorno non meno scultorea di quella di fra Tommaso da Celano è stata data dal poeta romanesco Giuseppe Gioacchino Belli (1791-1863) nel suo sonetto intitolato « Er giorno der giudizzio », gia citato in precedenza
:

« Quattro angioloni co le tromme in bocca
se metteranno uno per ccantone
a ssonà: poi co ttanto de vocione
cominceranno a ddì: Ffora a chi ttocca.

Allora vierà ssù una filastrocca
de schertri da la terra a ppecorone,
pe' rripijà ffigura de perzone,
come purcini attorno de la bbiocca.

E sta bbiocca sarà Ddio bbenedetto,
che ne farà du' parte, bianca e nera:
una pe anna' in cantina, una sur tetto.

All'urtimo uscirà 'na sonajjera
d'angioli, e, come si ss'annassi a lletto,
smorzeranno li lumi, e bbona sera. » (25 novembre 1831)

Qui c'è tutta l'Apocalisse concentrata in quattrordici versi, filtrata attraverso le suggestioni del barocco romano; come scrisse il commentatore Giorgio Vigolo, questo è un sonetto surreale nella sua rivisitazione delle verità di fede attraverso la sensibilità del popolino della Roma dell'ottocento, e sarebbe un errore d'interpretazione vedere il sarcasmo nelle immagini della "bbiocca", cioè della chioccia, della cantina, del tetto, della sonagliera degli "angioli" e dello spegnersi dei lumi. La "bbiocca" viene dal Vangelo (Matteo 23,37), ed in quella "sonajjera" d'angeli, parola dal connotato fonico intraducibile che evoca un senso di frastuono e di rumorosità, tipica di una strada romana supertrafficata, c'è una sinestesia degna di Dante. Ma c'è anche il senso pessimistico di uno spazio escatologico ulteriore, al di là del premio o del castigo, sul tetto o in cantina, nel regno delle ombre, della notte perenne, in cui i lumi sono "smorzati" per sempre, e l'unico perenne augurio è quel triste "bbona sera": un'inquietudine sorda che anticipa le angosce del Novecento.

Infine, un chiaro riferimento alle pagine dell'Apocalisse che abbiamo letto in queste pagine si trova nel grande ciclo fantasy delle "Cronache di Narnia" dello scrittore irlandese Clive Staples Lewis (1898–1963), uscite tra il 1950 e il 1956, che si chiude con "L'Ultima Battaglia". In questo romanzo conclusivo della serie lo stesso universo di Narnia va distrutto dopo una battaglia escatologica tra Tash, il demone adorato dai nemici Calormeniani, ed Aslan, il leone protettore dei narniani che impersona un chiaro simbolo cristologico. Infatti esso rimanda al Leone di Giuda di Genesi 49,9 (ancor oggi simbolo dell'Etiopia), ed inoltre secondo una leggenda medioevale la leonessa partorisce leoncini morti e il leone dà vita ad essi con il proprio fiato, come Dio soffiò la vita in Adamo: anche Aslan ne "Il leone, la strega, l'armadio" restituisce la vita ai narniani trasformati in statue dalla Strega Bianca alitando su di esse con il proprio fiato. Del resto il demone Tash è descritto né più e né meno come la Bestia dalle molte teste e dalle molte corna dell'Apocalisse. Dopo la fine di Narnia, devastata da mostri orrendi e il cui sole è stato spento da Padre Tempo, i personaggi vedono tutti gli abitanti mai vissuti su Narnia dividersi in due schiere, una delle quali scende tra le tenebre, l'altra entra nella dimora di Aslan, descritta come un'immensa prateria fiorita dalla quale tutto è visibile: una vera e propria "Narnia Celeste"!

Maestro di Brunello, i Dannati, particolare del Giudizio Universale, affresco del 1470 circa nella Chiesa di Santa Maria Annunciata, Brunello, Varese (foto dell'autore di questo sito)

Maestro di Brunello, i Dannati, particolare del Giudizio Universale, affresco del 1470 circa
nella Chiesa di Santa Maria Annunciata, Brunello, Varese (foto dell'autore di questo sito)

 

Siamo così giunti al culmine supremo della vicenda umana, l'Ultimo Giudizio, la cui sacra rappresentazione qui tratteggiata con parole cosi scarne eppure così efficaci non vuole costringere l'umanità a vivere nel terrore di una condanna imminente, come la si viveva nei secoli più difficili del Medioevo, scarnificati da guerre, scorribande, carestie e pestilenze. Ai Cristiani della fine del primo secolo, vessati dalle persecuzioni delle sinagoghe e delle autorità statali, l'Apocalisse addita come meta della Storia la definitiva sconfitta del Male, il severo giudizio di Dio sulla condotta dei malvagi, la glorificazione dei martiri e dei perseguitati per causa di Cristo, l'Inferno e il Paradiso, lo Stagno di Fuoco e la Gerusalemme Celeste, che vedremo risplendere nel prossimo capitolo. Nessun messaggio può essere più chiaro e più palese di questo. Chi invece, considerando erroneamente il libro dell'Apocalisse alla stregua di una raccolta di enigmi e di rebus da decifrare per conoscere il futuro, sul modello delle centurie di Nostradamus, cercherà una fantasiosa risoluzione dei difficili simbolismi come quelli classici del Numero della Bestia e del Millennio, è destinato a finire inevitabilmente fuori strada. A questo proposito è bene ricordare le parole di Vittorio Messori, ripetute innumerevoli volte nei suoi libri: la Bibbia ha in serbo tanta luce per chi si trova nelle tenebre e cerca la verità, quanta oscurità contiene per chi non si arrende alla semplicità del messaggio e cerca significati nascosti, piani segreti, complotti cosmici alla Dan Brown. L'utopistica e comoda interpretazione del Regno dei Mille Anni come un'età dell'oro che sarà vissuta dai cristiani su questa terra prima della fine del mondo, così come i tentativi della gematria di scoprire l'assassino di John Fitzgerald Kennedy in mezzo alla foresta di simboli e di numeri magici dell'Apocalisse, si scontra e si scontrerà per sempre con l'essenziale trasparenza del capitolo 20 del nostro libro: nella lotta eterna tra il Bene e il Male, anche se al momento sembra trionfare quest'ultimo, sarà il primo ad avere l'ultima parola:

« Io lo so che il mio Vendicatore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! » (Giobbe 19,25)

Non ci resta oramai che l'ultima, splendida, fantasmagorica visione dell'Apocalisse, degno coronamento dell'intero volume. Per leggerla insieme a me, cliccate qui.