Luci e ombre del Medioevo

24 – IL POSTO DI PIETRO: DALLE ORIGINI AL VI SECOLO

« Disse Gesù: "Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. E Io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli interi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del Regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli , e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli." » (Mt 16, 17-19)

Pochi passi nel N.T. hanno provocato tante discussioni come questi tre versetti. Il detto, in particolare il versetto diciotto, è uno dei testi principali della dottrina cattolica a favore del papato.

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24.A – La situazione del brano

Questo brano, di grande importanza teologica, è proprio di Matteo, ed è assente negli altri Vangeli; d'altra parte la tonalità semitica è molto evidente (basti pensare ai binomi: carne - sangue; legare - sciogliere; ma anche al concetto di porte degli Inferi, ecc.) e porta a concludere che lo scrittore sia di madrelingua ebraica, e probabilmente che il testo originario fosse stato scritto in aramaico e non in greco.

Questi particolari testano a favore di un'estrema antichità del brano.

Occorre notare, innanzi tutto, che queste parole sono la logica conclusione di un percorso iniziato almeno nel capitolo 15. I discepoli, a differenza degli scribi e dei farisei, devono essere in grado di discernere i segni dei tempi. Come sono in grado di capire che sarà bel tempo perché il cielo rosseggia (16,2), così, a seguito della moltiplicazione dei pani e dei pesci (15,29 ss, da intendere in chiave eucaristica), devono essere in grado di riconoscere il Figlio di Dio che si dona.

 La pericope riceve dunque un senso molto particolare, alla luce del situazione in cui è posta: Pietro riconosce il Cristo e per questo riceve da Gesù l'investitura. Che ruolo ha allora Pietro in Matteo e negli altri Vangeli?

Fin dai primi momenti della vita pubblica di Gesù la sua figura emerge in modo singolare nel ristretto gruppo dei discepoli che circondano il Cristo. Nella lista dei Dodici occupa il primo posto, ed è indicato espressamente come "pròtos", primo (Mt 10,2).

Al primo posto è anche nel gruppetto dei più vicini al Maestro: sul Tabor, testimone della Sua Trasfigurazione (Mt 17,1); nella casa di Giairo (Mc 5,37); nell'orto degli Ulivi, testimone dell'agonia (Mt 26,38). Quando Gesù lascia Nazaret la casa di Pietro a Cafarnao diventa la sua nuova dimora e il paese la sua seconda patria (Mt 4,13). Nei momenti più importanti Pietro fa da portavoce degli altri discepoli: a Cesarea di Filippo (Mt 16,16), a Cafarnao in risposta al "duro discorso" del pane vivo (Gv 6,68); Cristo parla della navicella di Pietro (= la Chiesa) in Lc 5,3; paga per sé e per lui il tributo al Tempio (Mt 17,27); lo esorta a confermare i suoi fratelli dopo il suo ravvedimento (Lc 22,32); si manifesta da risorto prima a Pietro poi agli altri (Lc 24,34; 1 Co 15,5).
Il motivo di questa preminenza non è da ricercare nelle doti della sua natura, impetuosa fino alla temerarietà e generosa fino alla presunzione, ma nella libera elezione di Cristo. Solo questa elezione gratuita (non i suoi meriti) ha conferito a Pietro una grandezza che si misura con l'altissima missione che Cristo gli ha affidato, e che egli dovrà compiere nella pienezza dell'amore (Gv 21,15-17). Pietro è la roccia su cui Cristo intende innalzare l'edificio della sua Chiesa; roccia che reca con sé la saldezza e la forza di Yahwè, "rupe di salvezza" (Salmo 18,3).

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24.B - Il particolare

Sappiamo che l'apostolo Simone, figlio di Giovanni, ricevette da Gesù un soprannome: non sappiamo se per scherzo o seriamente. Allo stesso modo il soprannome "figli del tuono" dato a Giacomo e a Giovanni sembra più scherzoso che serio, un dolce rimprovero al loro carattere impetuoso. Non è nemmeno da escludere che Gesù abbia chiamato così Simone quasi in analogo dolce rimprovero all'instabilità di questo apostolo, o, metaforicamente, in relazione alla durezza della sua cervice.

L'imposizione di un nome nuovo da parte di Dio è, nella tradizione biblica, simbolo ed espressione della particolare missione a cui l'uomo è chiamato; tale il caso di Abramo (Gen 17,5), di Giacobbe (Gen 32,29), di Gedeone (Gdc 6,7), di Maria (Lc 1,28).

Che cosa è allora la roccia sulla quale va edificata la Chiesa? Possiamo portare una prima argomentazione di tipo filologico. Il testo dice:

« Σύ εί Πέτρος, καί έπι ταύτη τη πέτρα οικοδομήνω μου τήν έκκληςιαν »

Molte correnti in seno alla Riforma hanno sollevato la seguente obiezione: Pietro è indicato chiaramente con il proprio nome proprio: "Πέτρος", che è di genere maschile, mentre la "pietra" sulla quale va edificata la Chiesa è di genere neutro, quindi non si fa riferimento alla persona, ma alla pietra angolare di cui parla, ad esempio, Mt 21,42, che è Cristo.

Obiezione sicuramente pertinente, se non fosse per un banale particolare: Gesù non parlava in greco, ma in aramaico, dove non esiste il nome proprio di persona "Πέτρος", ma il neutro "Kefa" (come, d'altra parte, ben testato in Gv 1,42: « Ti chiamerai Kefa, che vuol dire Pietro ».

Si può, quindi, facilmente cogliere il senso delle parole di Gesù: "Tu sei kefa (= pietra), e su questa pietra..." e risolvere in questo senso tutta la diatriba.

Una seconda argomentazione potremmo definirla "logica". "Tu sei Kefa e su questa pietra…": il soggetto è solo Kefa, non avrebbe esegeticamente senso pensare che Gesù dopo aver nominato Kefa pensasse a se stesso come "luogo" di fondazione della Chiesa, anche perché "edificherò" è già una forma verbale in prima persona singolare, quindi: "Io per l'autorità che mi è stata data dal Padre edificherò la mia chiesa su questa pietra che sei tu, Kefa".

Sono state suggerite altre interpretazioni: la roccia è la confessione di Pietro, la roccia è il Cristo stesso, o altre ancora più fantasiose che come queste forzano notevolmente il testo; esse sì basano sull'introduzione di un'altra roccia e ignorano che essa si trova già nelle parole "Tu sei Kefa", che mostrano come l'unico destinatario sia Kefa, l'Apostolo. Diversamente avrebbe più semplicemente potuto dire "Io sono Gesù, e su di me, pietra angolare edificherò…"

Tralasciando, in ogni caso, questo versetto, anche il seguito del brano è chiaro:

« A te darò le chiavi del regno »

con questo si conferma il primato!

In Ap 1,18, infatti, le chiavi del Regno appartengono al Figlio stesso, che qui le consegna liberamente a Kefa, non ad un altro Apostolo, e nemmeno le tiene per sé.

Se anche fosse andato perduto il v. 18, avremmo dunque lo stesso una parola sul primato, grazie al v. 19, ancora più chiaro. Su questa roccia, su Pietro stesso, dunque, va edificata la Chiesa.

L'immagine dell'edificio spirituale costruito sulla roccia ricorre anche in un inno della comunità di Qumran (lQH 6,26-27), in cui si legge:

« Tu, o Dio, porrai la fondazione sulla roccia... per costruirvi un edificio solido che non possa crollare. E nessuno di quelli che vi abitano vacillerà, perché nessun estraneo vi potrà entrare. »

Questo passo conforta coloro che pensano che Gesù abbia avuto contatti con gli Esseni di Qumran, durante la sua permanenza nel deserto, ma questo è un altro problema.

L'uso figurato del verbo edificare è caratteristico di Geremia nell'A.T., e ha il senso di stabilire, mantenere. In questi casi l'oggetto del verbo è Israele.

Qui e in 1 Co 2,10-17 viene usata la stessa immagine, e l'oggetto del verbo è la Chiesa.

Paolo è chiarissimo: il fondamento è Cristo e non Kefa. Vi è tuttavia un senso nel quale si può sostenere che la Chiesa è edificata su Kefa, quando si assicura che egli è il primo testimone della resurrezione, e quindi dev'essere il primo ambasciatore (in greco "μάρτυς") di quest'annuncio. In questo senso egli è il primo membro della Chiesa, il primo testimone di Gesù, fatto Signore e Cristo e dichiarato Figlio di Dio, con potenza, mediante la resurrezione dalla morte. Ciò spiega perché le porte degli inferi non possono prevalere contro la Chiesa. Essa è la Chiesa di un Messia che ha trionfato sulla morte.

Dire che le porte degli inferi non prevarranno contro la Chiesa equivale a ricordare che la morte non avrà nessun potere su di essa. Così come la morte non ha più alcun potere su Cristo (Rom 6,9), così non avrà più alcuna autorità sulla Chiesa. Tutto il versetto, appartenendo al periodo successivo alla resurrezione, esprime le convinzioni, basate sulle apparizioni del Cristo risorto, di cui Pietro è il primo testimone, è il primo inviato, è il primo ambasciatore.

Dopo l'Ascensione, tra l'altro, Pietro esercita realmente il suo primato. Nella comunità primitiva è pacifico che egli sia il detentore di una singolare posizione: dirige la scelta di Mattia (At 1,15), annuncia per primo, nella festa della Pentecoste, il messaggio di Cristo (4,8); accoglie nella Chiesa il primo pagano, il centurione Cornelio (10,1); parla per primo al Concilio di Gerusalemme (15,7); Paolo, nonostante quanto detto sopra, si reca a Gerusalemme per consultarsi proprio con « Kefa... altro degli Apostoli non vidi, se non Giacomo » (Gal 1,18-19).

Avendo provato, dunque, che il primato di Kefa è di diritto divino, il Concilio Ecumenico Vaticano I conclude con le seguenti parole:

« Chi afferma che il Beato Pietro Apostolo non fu costituito da Cristo Signore principe di tutti gli Apostoli e capo visibile di tutta la chiesa militante; oppure che egli ricevette dal medesimo Signore Nostro Gesù Cristo direttamente ed immediatamente un primato solamente di onore, ma non di vera e propria giurisdizione, sia scomunicato. » (D.1823).

Miracolo di San Clemente, Basilica di San Clemente, Roma

Miracolo di San Clemente, Basilica di San Clemente, Roma

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24.C - Dal primato alla successione

È stato detto e scritto che almeno fino al VI secolo nella Chiesa nessuno riconosceva alcun potere primaziale, giurisdizionale e spirituale al Papa. Scorrendo i testi degli antichi autori ecclesiastici scopriamo che non è vero.

Clemente romano

Terzo successore di Pietro, governò la Chiesa fra il 92 e il 101, conobbe Paolo ed è citato in Fil 4,3. È pure detto martire, ma anche questo è incerto. È l'autore di una lettera indirizzata ai Corinti nel 95..

Clemente Romano, in nome della Chiesa di Roma, spedì una lettera alla comunità di Corinto intorno al 95 d.C., quindi circa sessant'anni dopo la morte di Gesù, venticinque dopo quella di Pietro: in ogni caso una lettera più antica, o tutt'al più contemporanea, della stessa Apocalisse di Giovanni! In questa lettera il suo autore era consapevole di essere responsabile dell'intera Chiesa, ed esortava con autorità i renitenti ad ascoltare i presbiteri e a fare penitenza (c. 57). Pur riconoscendo che la lettera non contiene un esplicito insegnamento sul primato, è lecito domandarsi: perché mai il vescovo della città di Roma si sentì in dovere di scrivere ai Corinti, nella certezza di essere ascoltato? Perché mai ai sediziosi Corinti scrisse il vescovo di Roma e non il più prossimo patriarca di Antiochia o di Gerusalemme? Come mai i Corinti conservarono gelosamente questa lettera, tanto che è giunta fino a noi, se non furono certi che con Clemente parlò Pietro, e con Pietro Cristo?

Ignazio di Antiochia, successore proprio di Pietro nella sede vescovile di Antiochia e condannato ad essere sbranato dalle belve sotto il regno di Traiano (98-117), innalzò, con la forma solenne del saluto a lei rivolto, la comunità di Roma al di sopra delle altre. In quel saluto egli annunciò due volte che essa ha la presidenza, termine questo che esprime rapporto di superiore ad inferiore (cfr. Magn. 61). Scrivendo ai Romani aggiunse:

« Non vi darà ordini come Pietro e Paolo » (Rom. 4,3)

e riferendosi alla lettera di Clemente più sopra citata, disse:

« Voi ammaestrate gli altri » (Rom. 3,1).

Ireneo di Lione (130-202) definì la chiesa di Roma come « la più grande, la più antica e la più conosciuta di tutte le Chiese », attribuendole esplicitamente la preminenza su tutte le altre. Se si vuol conoscere la vera fede, disse, è sufficiente individuare la dottrina di questa sola Chiesa com'è stata tramandata dalla successione dei suoi vescovi:

« Ma poiché sarebbe troppo lungo in un volume come questo, enumerare le successioni di tutte le chiese, prenderemo la chiesa più grande, più antica e nota a tutti, fondata e stabilita in Roma dai due gloriosissimi Apostoli Pietro e Paolo; mostreremo che la tradizione che essa ha ricevuto dagli apostoli e l'insegnamento che ha annunciato agli uomini sono pervenuti fino a noi attraverso la successione dei vescovi. E ciò sarà a confusione di tutti coloro che, in qualsiasi maniera, sia per compiacenza verso se stessi, sia per vana gloria, sia per accecamento o per falso giudizio, costituiscono dei raggruppamenti illegittimi. Poiché è con questa chiesa a causa appunto dell'alta sua preminenza (propter potentiorem principalitatem) che deve stare d'accordo ogni Chiesa, vale a dire tutti i fedeli che sono nell'universo, poiché in essa è stata conservata sempre la tradizione apostolica dai fedeli che sono ovunque. » (Adv. haer. III,3,2)

È decisivo che a questo punto Ireneo enumeri tutti i vescovi romani che si sono succeduti dopo Pietro e fino ai suoi giorni, quindi fino ad Eleuterio (175-189), e concluda con queste parole:

« In questo ordine e attraverso questa successione sono pervenute fino a noi la tradizione che è nella Chiesa a partire dagli Apostoli, e la predicazione della verità. »

Di fatto basterebbe già questa citazione per confutare la tesi di cui parlavamo sopra, ma non si tratta della presa di posizione di un unico vescovo, bensì della fede di tutta una chiesa in questo stesso periodo.

Fra il 154 e il 165 venne a Roma Policarpo di Smirne per trattare con Papa Aniceto (154-167) sulla data di Pasqua (Eusebio di Cesarea, H. E., IV, 14, 1). Il vescovo Policrate di Efeso trattò per la stessa questione con il Papa Vittore I (189-199), che minacciò di scomunicare le comunità dell'Asia Minore perché si attenevano alla pratica quartodecimana (ivi V,24,1-9). Egisippo giunse a Roma sotto papa Aniceto per conoscere la vera tradizione della fede (ivi, IV, 22,3). Da notare che queste ultime tre citazioni sono tratte da Eusebio di Cesarea, simpatizzante del movimento ariano, che non aveva alcun interesse a queste sottolineature, se non fosse che in questo periodo era pacifico il ruolo del Pontefice romano.

Tertulliano è da molti citano come antiromano, ma essi dimenticano che divenne tale nel vivo della polemica montanista (De pud. 21); subito dopo la conversione, invece, era un deciso sostenitore del primato:

« Se stai in Italia, tu hai Roma da cui anche a noi (in Africa) viene l'autorità » (De praescr. 36)

Cipriano di Cartagine, martire nel 258, che come il suo precedente collega è indicato come nemico di Roma, arrivò a riconoscere la Chiesa romana come « madre e radice della Chiesa cattolica » (Ep. 48,3), « locus Petri » (Ep. 55,8), « cathedra Petri » ed « ecclesia principalis, unde unitas sacerdotalis exorta est » (Ep. 59,14).

La verità è che nella controversia sul battesimo agli eretici entrò in pesante polemica con Roma, ed in particolare con papa Stefano I (254-257): qui trovano sistemazione le sue affermazioni antiromane. Papa Stefano I, nella detta controversia, affermò, secondo la testimonianza del vescovo Firmiliano di Cesarea, di « possedere la successione di Pietro sul quale poggiano le fondamenta della Chiesa » (in Cipriano – sic! – Ep.75,17)

Sant'Ambrogio (337-397) disse poi:

« Dov'è Pietro, ivi è la Chiesa » (Enarr. in Ps. 40,30)

San Girolamo (che morì novantenne nel 419) scrisse a papa Damaso:

« Io so che la Chiesa è fondata su questa roccia », cioè Pietro (Ep. 15,2)

Sant'Agostino asserì della Chiesa romana che in essa:

« semper apostolicae cathedrae viguit principatus » (Ep. 43,3,7)

In altri frangenti ritenne decisivo l'intervento del papa Innocenzo I nella controversia pelagiana:

« Su questo argomento furono già inviati gli atti di due concili alla Sede Apostolica, di cui abbiamo già pure ricevuto i responsi. La causa e finita (causa finita est). Possa così aver fine l'errore » (Sermo 131, I, 10)

Papa Leone I (440-461) volle che nella sua persona fosse scorto e venerato colui « nel quale continua la cura di tutti i pastori con la protezione delle pecore che gli sono affidate » (Sermo 3,4), e in altro luogo:

« Come sussiste per sempre ciò che Pietro ha creduto in Cristo, così sussiste per sempre quello che Cristo ha istituito in Pietro » (Sermo 3,2)

Il legato pontificio Filippo davanti al Concilio di Efeso (449) fece una chiara dichiarazione circa il primato del papa:

« Questi, Pietro, vive ed opera fino ad oggi e per sempre nei suoi successori » (D. 112, 1824)

I Padri del Concilio di Calcedonia (451) risposero al "Tomus Leonis" con l'acclamazione:

« Pietro ha parlato per bocca di Leone! »

Pietro Crisologo, arcivescovo di Ravenna prima del 431, in una lettera ad Eutiche disse del vescovo di Roma:

« Il beato Pietro, che continua a vivere e continua a presiedere sulla sua cattedra episcopale, offre, a chi la cerca, la vera fede » (in Leone, Ep. 25,2).

Il primato dottrinale del papa emerse sin dall'antichità nella lotta e nella condanna di dottrine eretiche. Vittore I (189-199) e Zefirino (199-217) condannarono il montanismo. Callisto I (217-222) scomunicò Sabellio. Cornelio (251-253) condannò il novazianismo. Stefano I (254-257) respinse la ripetizione del battesimo agli eretici. Dionisio (259-268) scrisse contro le idee subordinazioniste del vescovo Dionigi di Alessandria. Innocenzo I (401-417) combatté il pelagianesimo. Celestino I (422-432), il nestorianesimo. Leone I (440-461), il monofisismo. Agatone (678-681), il monotelismo.

È evidente che in questo studio ci siamo soffermati solo sugli autori precedenti il VI secolo, per dimostrare che già dal periodo apostolico la Chiesa ha sempre visto in Pietro e nei suoi successori i vicari di Gesù Cristo. Ciò non toglie che anche dopo il VI secolo esistano prove di questa certezza della Chiesa. I dubbi al contrario sono molto recenti, appartengono all'età della Riforma, e non poteva essere altrimenti. Le affermazioni dei Padri e la Scrittura, cioè la Parola di Dio e non degli uomini, confortano invece la nostra fede nel primato petrino.

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24.D – L'argomento della ragione

Se l'autorità apostolica si fosse esaurita nella persona di Pietro e degli Apostoli, non potremmo neppure battezzare e la Chiesa sarebbe già morta.

Chi nega la successione non solo romana, ma anche solo episcopale, non dà valore al battesimo e agli altri sacramenti. Chi nega l'apostolicità nega la Chiesa, e chi nega la chiesa nega Cristo che l'ha fondata e l'ha voluta.

Ben lo sapevano le comunità riformate che dal XVI secolo si preoccuparono di possedere questa successione, anche solo spirituale, per il tramite di qualche vescovo cattolico convertito.

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25 – IL PRIMO SCISMA

25.A - Il concetto di ortodossia

Questo concetto etimologicamente significa autenticità di fede, e nella lingua greca assume questo contenuto semantico: fede diritta, fede vera, fede autentica. Si può dire, allora, che ogni comunità cristiana presume di essere ortodossa, compresa quella cattolica d'occidente. Parlando di ortodossi si intende altra cosa rispetto al significato etimologico del termine, proprio perché con cristiani ortodossi abitualmente si allude a cristiani orientali non cattolici.

Moneta di Diocleziano e MassimianoA questo proposito va fatta un'altra precisazione: l'espressione "chiese orientali" di solito porta a pensare alla cosiddetta ortodossia bizantina o greca. Vi sono tuttavia molte altre chiese orientali, non tutte unite a Costantinopoli.

Quando nascono le chiese orientali? Quando comincia a differenziarsi il pensiero orientale da quello occidentale?

Una prima distinzione è di carattere amministrativo riguardante la storia romana, ed è un fatto sistematico.

Nel 286 d.C. l'imperatore romano Diocleziano (284-305) compì una riforma amministrativa che ebbe una notevole portata anche dal punto di vista politico: divise l'Impero romano in due parti. Da questo momento le due anime furono affidate a due Augusti (imperatori). È rilevante come la coesione di questi due segmenti dell'impero o la loro diversificazione dipese dalle singole persone degli imperatori. L'imperatore d'Oriente ebbe talora un certo prestigio anche sull'Occidente, come fu il caso di Teodosio (379-396), perciò non si vide una profonda differenziazione neanche dal punto di vista religioso e teologico.

È possibile stabilire con la morte di Teodosio (396 d.C.) il carattere definitivo della divisione dell'Impero. Si assistette in questi frangenti ad uno sviluppo teologico ed ecclesiale sempre più articolato, che aiuta a capire i particolari successivi della divisione.

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25.B - L'inizio: una diversificazione di tipo culturale

È importante ora vedere alcuni momenti della storia della prima comunità cristiana in cui si trova presente tutta la Chiesa, e, osservando i testi che ci rimangono, notare la diversificazione che diventa inesorabile. Sono due mondi che diventano reciprocamente difficili l'uno all'altro.

a) Canone VI del Concilio di Nicea.

I testi relativi a questo Concilio oltre al Simbolo ci trasmettono alcuni canoni molto importanti; fra questi il più significativo per il nostro studio è il VI.

Con la promulgazione di questo canone incominciarono ad emergere alcune città, che poi avranno il nome di patriarcati, intorno alle quali si coagularono le chiese orientali.

« In Egitto, nella Libia e nella Pentapoli siano mantenute le antiche consuetudini per cui il vescovo di Alessandria abbia autorità su tutte queste province. Anche al vescovo di Roma, intatti, è riconosciuta una simile autorità. Ugualmente ad Antiochia e nelle altre province siano conservati alle chiese gli antichi privilegi. »

b) Costituzione di Teodosio "Cunctos populos"

« Noi vogliamo che tutti i popoli i quali il temperamento della nostra clemenza regge, prendano questa religione che il divino apostolo Pietro ha trasmesso ai romani. La religione, del divino apostolo Pietro, non è mai solo la religione del vescovo di Roma; è la religione del vescovo di Roma e di Alessandria. »

c) Canoni II e III del Concilio di Costantinopoli

« I vescovi preposti ad una diocesi non si occupino delle chiese che sono fuori dei confini loro assegnati né le gettino nel disordine; ma, conforme ai canoni, il vescovo di Alessandria amministri solo ciò che riguarda l'Egitto, i vescovi dell'Oriente, solo l'oriente, salvi i privilegi della chiesa di Antiochia, contenuti nei canoni di Nicea; i vescovi della diocesi dell'Asia, amministrino solo l'Asia, quelli del Ponto, solo il Ponto, e quelli della Tracia, la Tracia.
A meno che siano chiamati, i vescovi non si rechino oltre i confini della propria diocesi, per qualche ordinazione e per qualche altro atto del loro ministero. Secondo le norme relative all'amministrazione delle diocesi, è chiaro che questioni riguardanti una provincia dovrà regolarle il sinodo della stessa provincia, secondo le direttive di Nicea. Quanto poi alle chiese di Dio fondate nelle regioni dei barbari, sarà bene che siano governate secondo le consuetudini introdotte ai tempi dei nostri padri. »

Ambrogio †

Nacque a Treviri nel 335. Studiò diritto a Roma, fu nominato “Consularis Liguriae et Aemiliae” nel 370 e, allo scopo di riportare la pace fra cattolici e ariani, vescovo di Milano nel 374. Mantenne difficili rapporti con la sede imperiale, come dimostrano i famosi episodi che fecero seguito all’eccidio di Tessalonica. Soprannominato “il martello degli ariani” fu autore di numerose opere esegetiche, dogmatiche e morali. Morì a Milano il 4 aprile 397.

« Il vescovo di Costantinopoli avrà il primato di onore dopo il vescovo di Roma perché tale città è la nuova Roma. »

Quando arrivò a Milano il testo di questi canoni, Sant'Ambrogio scrisse all'imperatore Teodosio una lettera nella quale manifestò il rammarico perché il canone III introduceva la separazione tra Oriente e Occidente (Ep. 14,1). Un'altra attestazione ci proviene dal Concilio di Aquileia, in cui si disse:

« È con dolore che sono stati interrotti i consorzi delle sante comunioni fra Oriente e Occidente. »

d) Papa Gelasio (492-496)

La prima differenza legata ad una persona si ha per opera di questo Papa, che introdusse un'interpretazione del Papato che il mondo orientale non poté accogliere. Innanzi tutto negli atti da lui promulgati ripropose, richiamandosi al suo predecessore Leone I, il primato di giurisdizione del vescovo romano. Per suggellare questo primato che comprendeva il potere di confermare, ratificare o annullare le delibera dei sinodi, la prima cosa che fece fu quella di annullare il Canone 23 del Concilio di Calcedonia (451).

Il 21 ottobre del 451, senza l'assenso del legato Papale, i vescovi riuniti in Concilio a Calcedonia promulgarono questo canone che dava al primato della sede di Costantinopoli un consolidamento ulteriore di quanto si era avuto nel Concilio Costantinopolitano I:

« Seguendo in tutto le disposizioni dei santi padri, preso atto del canone or ora letto, dei 150 vescovi cari a Dio, che sotto Teodosio il Grande, di pia memoria, allora imperatore si riunirono nella città imperiale di Costantinopoli, nuova Roma, stabiliamo anche noi e decretiamo le stesse cose riguardo ai privilegi della stessa santissima chiesa di Costantinopoli, nuova Roma. Giustamente i padri concessero privilegi alla sede dell'antica Roma, perché la città era città imperiale. Per lo stesso motivo, i 150 vescovi diletti da Dio concessero alla sede della santissima nuova Roma, onorata di avere l'imperatore e il senato, e che gode di privilegi uguali a quelli dell'antica città imperiale di Roma, eguali privilegi anche nel campo ecclesiastico e che fosse seconda dopo di quella. Di conseguenza, i soli metropoliti delle diocesi del Ponto, dell'Asia, della Tracia, ed inoltre i vescovi delle parti di queste diocesi poste in territorio barbaro saranno consacrati dalla saccentissima sede della santissima chiesa di Costantinopoli. »

Disinteressandosi di una lettera diplomatica  ricevuta dai padri conciliari, Leone Magno si fece l'idea che il Canone pregiudicasse i diritti di Antiochia ed Alessandria, già sanciti nel VI canone di Nicea, e cercò quindi di mobilitare questi patriarcati.

Questo suo passo non ebbe però esito positivo: le due auguste sedi pensarono di poter imporre le loro pretese autonomamente, ed il Papa dovette rivolgersi sostanzialmente al Patriarca di Costantinopoli, Anatolio (451-458).

Per via di questi problemi di ordine gerarchico, il Papa differì troppo a lungo il prendere una posizione ufficiale e netta a favore delle decisioni di Calcedonia, e a quel punto non era più possibile recuperare il tempo perduto.

Cinquant'anni dopo Papa Gelasio pensò di poter risolvere la vertenza con un semplice colpo di spugna. È importante una lettera che questo Papa scrisse nel 494 all'imperatore d'Oriente di quel tempo, Anastasio (491-518). Questa lettera ruota intorno a tre principi che avranno influenza su tutta la teologia papale del Medioevo:

Scrive Gelasio:

« L'imperatore è figlio della Chiesa, ma non vescovo della Chiesa. Egli ha solo da imparare nelle cose della fede, e non da insegnare. Tutta quanta questa chiesa sulla terra sa che la sede di s. Pietro ha il diritto di sciogliere ciò che è legato in base al pronunciamento di qualche vescovo, ha il diritto di giudicare sull'intera chiesa, mentre nessuno può permettersi di interferire nel suo giudizio. »

e) Formula di Papa Ormisda.

Dopo il Concilio di Calcedonia, nonostante la condanna, i monofisiti continuarono ad operare formando una chiesa non calcedonese. Il patriarca di Costantinopoli Acacio intervenne allora presso l'imperatore perché emanasse un nuovo simbolo di fede in grado di aggregare calcedonesi e non. L'imperatore nel 482 pubblicò l'Henotìkon (= documento d'unione), che finì per scontentare tutti.

Il problema, però, era un altro. Quando, causa vacanza della sede, il patriarca di Costantinopoli inviò ad Alessandria Pietro Mongo come nuovo patriarca, costui adottò la formula dell'Henotikon.

A questo punto Roma reagì, prima di tutto perché il vescovo di Costantinopoli aveva nominato "motu proprio" il patriarca di Alessandria, contrariamente a quanto disposto da Papa Gelasio, ed in secondo luogo perché professare la fede nell'Henotikon non significava professare la fede della Chiesa, quella fede scaturita da Calcedonia attraverso l'intervento di Leone.

Per ricomporre lo strappo Papa Ormisda (514-523) propose questa formula che venne accettata anche in Oriente e che sottintendeva la "damnatio memorie" di Acacio. La formula, che più correttamente si chiama "Libellus fidei", conteneva i seguenti passi:

« Spero che io possa meritare di essere in una sola comunione con voi, quella comunione che la sede apostolica predica, nella quale (sede ap.) è integra e verace la solidità. »

Ormisda promise quindi che i nomi di coloro che erano divisi dalla comunione della chiesa cattolica non andassero menzionati durante i sacri misteri (Eucarestia).

f) La crisi foziana

Docente di filosofia e teologia, Fozio venne consacrato patriarca di Costantinopoli per ordine del "Basileus" Michele III l'Ubriaco nel 858, in luogo del deposto patriarca Ignazio. Papa Niccolò I Magno (858-867) condannò duramente questa sostituzione, e fece condannare il nuovo arcivescovo e l'imperatore da un sinodo celebratosi a Roma nell'863.

Icona ortodossa rappresentante Fozio di CostantinopoliIl conflitto fra le due sedi patriarcali si acuì a seguito dell'invio di missionari latini in Bulgaria. In questa occasione gli uomini di Fozio scoprirono che la chiesa romana insegnava che lo Spirito Santo procedeva non solo dal Padre, ma anche dal Figlio ("a Patre Filioque"), e la accusarono d'eresia. Il Papa, offeso da tanta sfrontatezza, inviò legati alla corte costantinopolitana per notificare una scomunica nei confronti di Fozio, ma questi furono arrestati lungo la frontiera bulgara- bizantina.

Nell'867 Fozio, in preda a un delirio d'onnipotenza, pubblicò un'enciclica in cui dichiarava deposto e scomunicato niente meno che il Pontefice.

Il nuovo imperatore, Basilio I il Macedone (867-886), depose Fozio e ristabilì il vecchio patriarca Ignazio, il quale consacrò senza il consenso di Roma un nuovo primate per la Bulgaria. Di lì a poco, in ogni modo, morì e fu sostituito nuovamente da Fozio. In questa seconda ascesa al potere, pare che il Patriarca abbia ricevuto il consenso anche da Roma. Deposto definitivamente dall'imperatore Leone VI il Filosofo (886-912), morì a Costantinopoli nell'895.

g) La definitiva rottura fra Michele Cerulario e Roma

Nel 1043 Michele Cerulario fu consacrato Patriarca di Costantinopoli. Nato da famiglia senatoriale, nel 1040 fu coinvolto in un complotto organizzato contro l'imperatore Michele IV (1034-1041); il candidato alla successione sarebbe stato proprio lui. Il piano fallì e tutti i cospiratori furono arrestati e imprigionati. Per evitare il carcere Michele Cerulario chiese di entrare in convento. Anche in ambiente ecclesiale dimostrò di puntare molto in alto, divenne consigliere particolare del Patriarca Alessio, e alla sua morte riuscì a succedergli. Da uomo presuntuoso qual era, non volendo riconoscere sopra di sé alcuna altra personalità, si guardò bene dall'inviare 

Leone IX

Brunone dei conti di Egisheim-Dagsburg. Nato in Alsazia nel 1052, eletto Papa nel 1049. Condannò l’eresia di Berengario di Tours; tentò d’arginare, con impegno, la simonia e il concubinato del clero. Intervenne di persona nella guerra fra tedeschi e normanni, catturato a Civitate di Puglia, fu prigioniero a Benevento dal giugno al dicembre del 1053. Morì a Roma nell’aprile del 1054.

al Papa, Benedetto IX, la consueta dichiarazione di presa di possesso, e finì per rovinare i rapporti diplomatici con la sede apostolica ordinando ai suoi vescovi e sacerdoti di non nominare nelle celebrazioni il nome del Papa.

Poco dopo il 1052, costatando che nel territorio del suo patriarcato i romani celebravano i loro riti in lingua latina, fece chiudere le loro chiese. Scoppiarono disordini, i sacerdoti romani furono picchiati e le ostie calpestate, in quanto non regolarmente consacrate (gli orientali usavano infatti pane lievitato e non azzimo).

Nei due seguenti anni ci fu un intenso carteggio fra Costantinopoli e Roma, con accuse reciproche che sfiorarono la vera e propria dichiarazione di guerra, e altrettanto repentini riavvicinamenti. L'imperatore, Costantino IX Monomaco (1042-1055) fece dei tentativi di mediazione, inviando alcune lettere al Papa Leone IX (1049-1054). Queste lettere indussero il Papa ad inviare una delegazione diplomatica a Costantinopoli, sotto la guida di Umberto di Moyenmoutier, cardinale vescovo di Silva Candida, personaggio ben poco affidabile a causa del carattere impetuoso e combattivo, proprio come quello del Cerulario.

Gli inizi della missione si dimostrarono tutt'altro che promettenti. La legazione romana, giunta alla meta, ignorò platealmente il Patriarca rivolgendo la propria attenzione solo al "Basileus". Dopo aver lasciato passare alcuni giorni, si presentarono anche al Cerulario, ma con lo scopo dichiarato di raccogliere il suo pentimento per aver offeso la Santa Sede. Il Patriarca da parte sua non voleva un semplice Cardinale come interlocutore, ma voleva trattare con Roma da pari a pari. Non si trattenne, ovviamente, dal notificarlo al Cardinale Umberto. I suoi piani furono agevolati dalla morte del Papa, il 19 aprile.

Il clima si avvelenò ulteriormente quando il cardinale Umberto si trovò nella condizione di doversi difendere dalle feroci polemiche avanzate da un monaco del monastero di Studion, Niceta Stetato, il quale aveva opposto al trattato "Adversus Graecorum calumnias" un libello sugli azzimi, sul digiuno del sabato e sul celibato ecclesiastico. Il cardinale reagì a modo suo e coprì il rivale di ingiurie, al punto che l'Imperatore stesso intervenne e in sua presenza, il 24 giugno, lo Studita fece ammenda.

Il Patriarca, che aveva abilmente orchestrato questi fatti, si rifiutò di ascoltare la delegazione, a suo avviso assolutamente priva di poteri, in quanto rappresentativa di una persona morta. Indispettito, sabato 16 luglio il cardinale Umberto entrò nella cattedrale di santa Sofia durante il solenne pontificale, e depose sull'altare la bolla di scomunica, non senza aver scosso la polvere di sotto i piedi all'uscita dalla chiesa (secondo le parole di Gesù: Mt 10,14).

« Richiamato all'ordine per tutti questi errori e per parecchi atti colpevoli, da lettere del Signor nostro il Papa Leone, Michele ha ricusato di venire a resipiscenza; indi ha rifiutato di dare udienza a noi, legati; ci ha vietato di celebrare la Messa nelle chiese, a quel modo che già aveva chiuso le chiese dei Latini chiamandoli azzimiti e perseguitandoli con parole e vie di fatto, giungendo fino ad anatematizzare la Sede Apostolica nei suoi figli, osando fregiarsi di fronte alla Santa Sede del titolo di patriarca ecumenico. Noi pertanto, non potendo più oltre sopportare queste inaudite ingiurie e questi oltraggi, recati alla Santa Sede, rilevando essere in tutto questo palesemente colpita la fede cattolica, per l'autorità della santa ed indivisa Trinità, della Sede Apostolica, di cui noi siamo gli incaricati, di tutti i Padri ortodossi dei sette concili, in una parola di tutta la Chiesa cattolica, firmiamo l'anatema contro Michele ed i suoi fautori, anatema già pronunziato contro di essi dal reverendissimo Papa se non venivano a resipiscenza. Per il che Michele, che falsamente si dice patriarca, ma in realtà è un neofito che ha preso l'abito unicamente per timore, essendo fatto segno alle più gravi accuse, e con lui Leone, sedicente vescovo di Ochrida, ed il sacellario di Michele, Costantino, il quale sacrilegamente ha calpestato il sacrificio dei Latini, e tutti coloro che ad essi vanno dietro nei loro errori sopraddetti, siano tutti "anathema maranatha", unitamente con i simoniaci, valesiani, ariani, donatisti, nicolaiti, severiani, pneumatomachi, manichei, nazarei e tutti gli eretici; di più, anzi, col diavolo ed i suoi angeli decaduti, se non vengono a resipiscenza. Amen, Amen, Amen! » (P.L. 143, col. 1002-1003)

Papa Leone IX (1049-1054)Poteva un semplice Cardinale scomunicare tutta una Chiesa, o era necessaria la pronuncia di un Papa? Il Papa era morto e non aveva dato alcun mandato in questo senso al Cardinale Umberto. Da questo gesto, in ogni modo, derivarono vari contenziosi giuridici che hanno attraversato tutta la storia.

Il Basileus, tenuto all'oscuro di quanto accaduto, accolse la delegazione pontificia prima della partenza, avvenuta il 18 luglio. Dopo aver percorso poche decine di chilometri l'ambasceria fu però richiamata d'urgenza: l'imperatore, venuto a conoscenza dei fatti, voleva tentare un'ultima impossibile mediazione.

Questa mossa non piacque per niente al Patriarca, che aizzò il popolo contro i romani. La folla in tumulto impedì alla delegazione il semplice rientro; anzi, non riuscendo la guardia imperiale ad arginare le violenze, fu chiesto ai romani di tornarsene al più presto a casa onde evitare gravi fatti di sangue.

La domenica seguente, il 24 luglio, il sinodo permanente della Chiesa bizantina si riunì in santa Sofia sotto la presidenza del Patriarca ed emanò un editto di condanna dell'operato dei legati. Si faceva distinzione fra la delegazione e la Santa Sede, ma evidentemente si voleva prendere di mira tutta la chiesa di Roma. All'editto con allegata la bolla di controscomunica fu data ampia pubblicità in tutto l'Oriente, e da quel momento le due chiese vissero polemizzando fra loro testardamente separate, fino al 7 dicembre 1965, in occasione della conclusione del Concilio Ecumenico Vaticano II. Una delegazione pontificia, guidata dal cardinale di Baltimora Lawrence Joseph Shehan, fu inviata a Istanbul per assistere al Pontificale solenne celebrato dal Patriarca, nel corso del quale fu letta una dichiarazione nella quale la scomunica di novecento anni prima veniva ritrattata. La stessa comunicazione era fatta contemporaneamente a Roma, al cospetto del Papa, da parte della delegazione ortodossa guidata dal metropolita Melitone. Oggi, dunque, la Chiesa può finalmente ritornare a "respirare con entrambi i polmoni", quello orientale e quello occidentale, secondo la felice espressione di Papa Giovanni Paolo II, anche se la piena comunione non è ancora stata ritrovata e molte questioni teologiche restano ancora da appianare.

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25.C - Le differenze

Vi sono delle differenze originarie che non possono essere cancellate, che dipendono da una storia, da una sensibilità e da un modo di concepire la preghiera e la teologia: differenze che non implicano di per sé una divisione; e vi sono delle differenze successive, che esasperano le precedenti rendendole così motivo di divisione e di contrasto.

a) Le differenze originarie.

Fino al III secolo la lingua ufficiale della Chiesa era il greco e la parte che trainava l'approfondimento cristologico e trinitario era la parte orientale; infatti, a parte Ilario di Poitiers che scrisse il "De Trinitate" (tra 

l'altro dopo essere stato in Oriente), in occidente bisognò attendere il V secolo e la riflessione di Agostino, riflessione che si diversificava molto da quella orientale. Si nota quindi una grande, originaria differenza per quanto attiene alla mentalità delle due chiese, basti un semplice esempio.

Tertulliano fu un grande teologo occidentale che visse a cavallo fra il II e il III secolo: giurista convertito, scrisse parecchie opere, le prime in greco (andate perdute), altre in latino (che possediamo). Queste ultime furono fondamentali per il lessico teologico occidentale. Evidenziano un concreto e inequivocabile linguaggio giuridico, una mentalità votata alla prassi. Quando si leggono i suoi testi sulla cosmologia si nota subito che è prevalente il mondo concreto, concepito com'effetto dell'agire di Dio, e quando si passa alla considerazione antropologica si vede che per lui l'esistenza umana è concepita come un cammino dell'uomo verso Dio.

I greci, al contrario, sin dagli inizi denotano un maggior orientamento verso la "theoria", cioè la contemplazione di Dio, a cui si arriva adorando le icone.

L'orientale ha quest'atteggiamento teoretico, contemplativo, e quando si leggono per esempio i testi di un loro 

grande maestro quale fu Origene, nel cogliervi le peculiarità si vede che questo modo di pensare è molto dinamico, fluido, poco riconducibile a categorie in un certo senso congelate dal diritto. Stessa cosa accade per gli aspetti cosmologici: il mondo per l'orientale non è il prodotto dell'agire di Dio, ma è la manifestazione stessa di Dio, e quando l'orientale fa una riflessione antropologica, fa emergere l'uomo, inteso come riflesso, tratto, icona di Dio. La salvezza è, di conseguenza, spiegata come progressiva trasfigurazione dell'uomo.

Già all'inizio dal III secolo, quindi, ci sono modi diversi, anche se non contrastanti, riconducibili ad una matrice culturale diversa.

Vi sono, poi, delle differenze in ordine all'organizzazione ecclesiastica.

In oriente la Chiesa si comprende come realtà che gravita intorno a sedi diverse. Il Patriarcato è una struttura organizzativa che nasce dal basso; per questo la concezione del primato orientale non si fonda sul diritto divino come per l'occidente. Gli orientali sono consapevoli che il Patriarcato non esiste per volontà di Cristo, ma per esigenze umane, e questa prassi umana, di articolare delle regioni geografiche come regioni ecclesiali, da poi luogo al diritto consuetudinario.

Da ciò deriva una diversa interpretazione della Chiesa. In oriente la chiesa è più imperiale, non si sente molto la tensione universale, il punto di partenza è la chiesa locale. La molteplicità delle chiese singole forma un'unica cristianità. Dal V secolo in poi questa molteplicità di chiese singole è tenuta insieme da un unico impero, il cui vertice è l'Imperatore; questo spiega anche la mentalità tipicamente bizantina di considerare l'imperatore come un rappresentante divino.

In occidente dopo il 476 il Vescovo di Roma è quasi costretto a colmare il vuoto della scomparsa dell'Impero; ne deriva che la concezione ecclesiale è più legata alla figura del Papa perché le funzioni del vescovo di Roma esorbitano rispetto al ministero del vescovo stesso, ed esorbitano a tal punto che già nel 492, come abbiamo visto con Papa Gelasio, si elaborerà la dottrina della duplice potestà di cui la più importante è quella spirituale.

In occidente, dunque, il punto di partenza è l'unità a livello universale, che si manifesta nell'unione con il successore di Pietro.

b) Le differenze che portarono alla divisione.

Uno dei motivi che finirono per scatenare la divisione è la questione del "Filioque", sicuramente molto enfatizzata dagli orientali. Per comprendere la portata di questa polemica fra le due chiese è necessario far riferimento alla diversa teologia trinitaria.

Mentre per il mondo greco si parte da quella che ancora oggi chiamano la "Monarchia", cioè il "Primo Principio" che è rappresentato dal Padre, al quale sono in riferimento il Figlio e lo Spirito Santo, per la concezione occidentale, elaborata da Agostino e rivista in epoca carolingia, si avrebbe a fondamento una realtà chiamata Essenza, Sostanza, da cui vengono sia il Padre sia il Figlio e da questi due lo Spirito Santo. In sostanza, accusano gli orientali, c'è il rischio di una "quaternitas".

Nella riflessione orientale, lo Spirito è presentato secondo la lezione di Gv 15,16, dove si usa il verbo greco "εκπορεύω", vale a dire "procedere".

Questo termine fu introdotto nel Simbolo niceno-costantinopolitano a tutela della priorità logica del Padre, secondo la concezione personalista orientale. È facile immaginare, allora, la reazione che fece seguito all'introduzione unilaterale della chiesa latina della formula "a Patre Filioque".

Salvador Dalì, "Le Tentazioni di Sant'Antonio", 1946, olio su tela, Museo Royaux des Beaux-Arts del Belgio, Bruxelles

Salvador Dalì, "Le Tentazioni di Sant'Antonio", 1946, olio su tela, Museo Royaux des Beaux-Arts del Belgio, Bruxelles

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26 – STORIA DEGLI ORDINI RELIGIOSI

26.A - Gli inizi

Il monachesimo iniziò a fiorire intorno al 250 d.C.

Nell'ebraismo l'esperienza degli esseni aveva portato buoni frutti, anche se brutalmente soffocata e interrotta dalla conquista romana prima, e dalla persecuzione di Bar Kokba' poi. Assistiamo così all'affermazione, nell'alto Egitto, di questo modello di vita inizialmente eremitico. La ricerca di una completa purificazione personale, di un contatto più diretto ed immediato con Dio, portò gli uomini di questa generazione ad allontanarsi dalla civiltà per vivere in luoghi aspri e deserti.

Paolo e Antonio sono due nomi che rappresentarono altrettante pietre miliari nella storia degli inizi del monachesimo, in quanto dettarono per primi delle regole, anche se orali, di vita anacoretica (da anachoresis: ritiro).

Anni dopo personaggi come Ammonio, Macario il Vecchio e Ilarione, ripensando all'esperienza eremitica, decisero di prendere sotto la loro tutela dei giovani, desiderosi di iniziare quest'esperienza. Nacque così l'esperienza semi-anacoretica, dove i monaci facevano vita solitaria, ma in momenti determinati della giornata si ritrovavano per lavorare insieme, pregare o celebrare gli uffici sacri. Monaci più anziani, con tanto di barba, vestiti con pelli di capra fungevano da maestri di giovani che intendevano seguire Cristo integralmente.

L'esperienza cenobitica fu introdotta invece intorno al 320 da Pacomio, che nella Tebaide (sempre in Egitto) fondò un vero e proprio monastero dove convivevano monaci giovani e anziani sottoposti ad una vera e propria "regola". Questa "istruzione" dell'abate non fungeva tanto da regola giuridica per la pacifica convivenza, quanto da guida spirituale per tutti i monaci, a cominciare dall'abate, ai cui compiti erano dedicate ampie sezioni della regola stessa.

Nel monachesimo in primo luogo si determinano gli spazi discrezionali d'azione di chi comanda, più che di chi obbedisce.

Vivere insieme aiutava a superare le tentazioni (il desiderio di ritorno alla civiltà o la durezza della solitudine, più che desideri della carne), ma implicava un'enorme disponibilità all'obbedienza, nella consapevolezza che solo chi era capace di obbedire sarebbe stato in grado, un giorno, di comandare. Alla morte di Pacomio esistevano nove monasteri maschili e due femminili.

Fin dagli inizi la Chiesa ebbe grande stima nei confronti di questi nuovi modelli di vita, tanto da propagandarli fra la popolazione giovanile. Si oppose, invece con decisione, e a ragione, alla pratica dei "syneisaktoi" o delle "virgines subintroductae", vale a dire la promiscuità di monaci e monache sotto lo stesso tetto. Netta separazione dunque, come troviamo già ben testimoniato nell'opera dei primi Padri apostolici, in particolare Clemente Romano.

Nello stesso periodo in cui operò Pacomio, dobbiamo segnalare la decisa azione di Basilio di Cesarea, che pubblicò ad uso dei monaci una "Regula major" ed una "Regula minor", dirette debitrici delle regole formulate in precedenza. Due i principi cardini ai quali i monaci dovevano osservanza assoluta: obbedienza totale, al limite dell'annullamento della volontà individuale, verso l'abate, vero rappresentante di Gesù Cristo, e senso dell'appartenenza ad un gruppo cementato dalla carità individuale e dalla guida dell'abate.

Martino di Tours e Agostino di Ippona furono i primi ad importare queste nuove idee in Occidente alla fine del IV secolo, dove, in ogni modo, dobbiamo aspettare più di un secolo per trovare il vero padre del monachesimo latino, Benedetto.

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26.B - Il monachesimo benedettino

Nato a Norcia nel 480, da famiglia agiata, Benedetto ricevette una solita formazione di base, basata sugli studi di retorica e diritto. Avendo da subito manifestato l'intenzione di dedicarsi alla vita eremitica, si trasferì ad Enfida, e in seguito nella campagna romana, dove Nerone aveva fatto costruire una villa vicino a tre laghetti. Per questo motivo il posto era detto "Sublaqueum", oggi Subiaco.

Visse tre anni in quest'eremo, tra preghiera e lavoro, quindi ricevette l'invito dei religiosi del monastero di Vicovaro (presso Tivoli) a far loro da abate, e dopo molto tergiversare Benedetto accettò.

L'esperienza fallì perché questi monaci non accettarono di buon grado le asprezze dell'obbedienza, per questo Benedetto ripiegò su Montecassino dove eresse l'omonimo monastero e due oratori. Nel 530 in questo luogo passò definitivamente all'esperienza cenobitica redigendo, fra l'altro, la Regola.

Guida del monastero è l'abate, il padre dei monaci:

« L'abate che è giudicato degno di stare a capo del monastero, deve sempre ricordare come viene chiamato, e al nome di superiore rendere conformi le sue azioni. Si sa, infatti, per fede che egli nel monastero fa le veci di Cristo, poiché viene chiamato col suo stesso nome, secondo ciò che dice l'Apostolo: "Avete ricevuto lo spirito dell'adozione di figli, per il quale gridiamo: Abba, Padre."  Niente perciò l'abate deve insegnare o stabilire o comandare che sia contro il precetto del Signore; anzi il comando e l'insegnamento suo penetrino dolcemente nell'animo dei discepoli come fermento dì divina giustizia. (…) Quando uno dunque prende il nome di abate, deve governare i suoi discepoli con duplice insegnamento, deve cioè tutto quello ch'è buono e santo, mostrarlo con i fatti più che con le parole; sicché ai discepoli capaci d'intendere proporrà i comandamenti del Signore con le parole, ma a quelli di tardo intelletto e di animo rude dovrà insegnare i divini precetti con le proprie azioni (…) Eviti verso i suoi monaci ogni parzialità. Non abbia preferenza d'amore se non per colui che egli avrà sperimentato migliore nella buona condotta e nell'obbedienza. A chi è venuto nel monastero dalla condizione servile non sia anteposto chi è nato libero (…) Nel suo magistero poi l'abate deve sempre osservare quella norma dell'Apostolo che dice: «Ammonisci, esorta, rimprovera» avvicendando cioè i modi secondo le circostanze, alternando il rigore e la dolcezza, sappia dimostrare la severità del maestro e l'indulgente affetto del padre. In altre parole, deve fortemente ammonire gl'indocili e gl'irrequieti; gli obbedienti invece e i miti e i pazienti scongiurarli a progredire sempre più; ma i negligenti e gli spregiatori della disciplina vogliamo che li rimproveri e li punisca. Né chiuda gli occhi sui vizi dei trasgressori, ma appena cominciano a sorgere, li strappi dalle radici con tutte le forze che può (…) L'abate deve sempre ricordare ciò che è, ricordare quel che importa il suo nome, e sapere che a chi più viene dato, più anche si richiede. »

I monaci devono a lui totale obbedienza:

« Il principale contrassegno dell'umiltà è l'obbedienza senza indugio. Essa è propria di coloro che niente hanno di più caro che Cristo; e sia per il servizio santo cui si sono votati, sia anche per il timore dell'inferno e per la gloria dell'eterna vita, appena dal superiore è stato dato un comando, quasi fosse un comando divino, sono insofferenti d'ogni ritardo nell'eseguirlo. È di loro che il Signore dice: "Ha udito appena e già mi ha obbedito". Similmente dice ai maestri: "Chi ascolta voi, ascolta me". Tali monaci dunque abbandonano subito le cose loro e rinunziano alla propria volontà, e liberandosi sull'istante di quanto avevano tra mano e lasciando incompiuto ciò che stavano facendo, con piede prontissimo all'obbedienza, seguono con i fatti la voce del superiore che comanda. Sicché, quasi nel medesimo momento, il comando comunicato dal maestro e l'opera eseguita dal discepolo si compiono insieme ambedue prestissimo, per quella celerità che è frutto del timore di Dio: è l'amore di avanzare alla vita eterna che li preme. »

Il monaco deve dimostrare di non essere attaccato a questo mondo, non può dunque possedere nulla, nemmeno il corpo e la volontà:

« Nel monastero bisogna soprattutto strappare fin dalle radici questo vizio: nessuno ardisca dare o ricevere qualcosa senza licenza dell'abate, né avere alcunché di proprio, assolutamente nulla: né libro, né tavolette, né stilo, proprio niente insomma; perché i monaci non sono ormai più padroni del loro corpo né della loro volontà. Invece tutte le cose necessarie devono sperarle dal padre del monastero. Né sia lecito avere alcuna cosa che l'abate non abbia data o permessa. Tutto sia comune a tutti, com'è scritto; e nessuno dica o consideri qualche cosa come sua. Se si scoprirà che qualcuno è incline a questo tristissimo vizio, sia ripreso una prima ed una seconda volta; se non si emenderà, soggiaccia al castigo. »

San Benedetto da Norcia, affresco nella Basilica di FarfaI discepoli che affluirono a Montecassino divennero ben presto tanto numerosi da rendersi necessaria la fondazione di un altro monastero a Terracina. Nella tranquillità delle fondazioni vivevano oblati, novizi e monaci. I primi erano i fanciulli che erano allevati e educati dai monaci per volere dei loro genitori, in qualsiasi momento potevano lasciare l'abbazia, diversamente s'integravano in essa.

I novizi erano coloro che per libera scelta si preparavano alla vita del cenobio o dell'eremo. Il noviziato durava un anno ed era diretto da un anziano che aveva il compito di « osservare se il novizio cerchi davvero Dio, se sia fervoroso per l'Opera di Dio, per l'obbedienza, per la tolleranza delle umiliazioni. Gli si prospetti tutto ciò che di duro e di penoso ha la strada che conduce a Dio. Se prometterà d'essere perseverante nella sua stabilità, dopo che sono passati due mesi gli si legga per ordine questa Regola, e gli si dica: Ecco la legge sotto la quale vuol militare; se puoi osservarla, entra, se non puoi, va' pure via liberamente. Se ancora persisterà, venga condotto nel suddetto locale del noviziato e di nuovo sia provato in ogni esercizio di pazienza. Dopo il corso di sei mesi gli si legga la Regola, perché sappia quale vita intende abbracciare. E se ancora sta fermo, dopo quattro mesi gli si rilegga ancora una volta la medesima Regola. Se poi dopo matura riflessione prometterà di esser fedele in tutto e di eseguire ogni prescrizione, allora sia accolto nella comunità. »

I monaci erano coloro che avevano pronunciato i voti di povertà, castità ed obbedienza.

« Il novizio che deve essere ammesso prometta nell'oratorio alla presenza di tutti la sua stabilità, la conversione dei suoi costumi e l'obbedienza, dinanzi a Dio e ai suoi Santi, perché, se dovesse un giorno far diversamente, sappia che ne sarà condannato da Colui del quale si burla. Di tale promessa rediga una carta di petizione nel nome dei Santi di cui si conservano lì le reliquie, e dell'abate presente. Questa carta la scriva lui di sua mano, oppure, se egli è ignaro di lettere, la scriva a sua richiesta un altro, e quel novizio vi apponga un segno; di sua mano poi la collochi sull'altare. »

Benedetto morì a Montecassino nel 547.

Nei secoli VII–IX il monachesimo benedettino progredì in tutta l'Europa occidentale, mentre già dal X secolo ci si rese conto che l'autentico spirito benedettino si era inesorabilmente affievolito, nonostante vari tentativi di riforma. Tra queste prime esperienze di ritorno alla purezza originaria della Regola va ricordato lo sforzo di Benedetto di Aniane.

Tra i tentativi che riuscirono certamente ci fu quello di Cluny, che portò il monastero omonimo a diventare la fondazione medievale più importante e più ricca.

Fondato nel settembre 909 da Guglielmo, duca di Aquitania, ha conservato gelosamente nella sua biblioteca la "carta di fondazione" dalla quale attingiamo i seguenti brani:

« È evidente a tutti coloro che hanno retto discernimento che, se la divina Provvidenza ha voluto che ci fossero persone ricche, lo ha voluto perché esse facessero buon uso dei beni provvisoriamente posseduti e cioè li usassero per meritare una ricompensa eterna. E la divina parola ci dice infatti che questo è possibile e anzi a questo ci esorta esplicitamente quando dice: la ricchezza di un uomo è il riscatto della sua anima. Ecco allora che io, Guglielmo, conte e duca per grazia di Dio, ho attentamente meditato su queste cose e, desideroso di provvedere alla mia salvezza finché me ne resta il tempo, ho pensato che fosse cosa saggia, anzi necessaria, e che tornasse a vantaggio della mia anima donare una piccola parte dei beni temporali che mi sono stati concessi...
Sappiano dunque tutti coloro che vivono nell'unità della fede e nella speranza della misericordia di Cristo che, per amor di Dio e del nostro salvatore Gesù Cristo, dono agli apostoli Pietro e Paolo la proprietà delle terre di Cluny con tutte le loro dipendenze. Questi beni sono nella contea di Màcon.
(…) Abbiamo voluto inserire in questo atto una clausola in forza della quale i monaci qui riuniti non saranno soggetti al giogo di nessun potere terreno, neppure al nostro, né a quello dei nostri congiunti, né a quello della regia maestà. Nessun principe secolare, nessun conte, nessun vescovo e neppure il pontefice che siede nella Sede Romana potrà mai impadronirsi dei beni spettanti ai suddetti servi di Dio, né sottrarne una parte, né diminuirli, né permutarli, né darli in beneficio.
Vi supplico, dunque, o santi apostoli e gloriosi principi della terra Pietro e Paolo e supplico voi, pontefice dei pontefici, che sedete sul trono della Sede Apostolica, di escludere dalla comunione della santa Chiesa di Dio e dalla vita eterna, in virtù dell'autorità canonica e apostolica che avete ricevuto, quanti osassero rapinare, invadere, frazionare questi beni che vi concedo con gaudio e spontanea volontà. Siate i tutori e i difensori di questo luogo di Cluny e dei servi di Dio che lo abitano. »

Così nacque Cluny.

Pianta dell'abbazia di Cluny

La riforma che prenderà il nome da quest'abbazia si fonderà su un principio in particolare: il ritorno all'autentico ed originario spirito benedettino.

Gli abati che si successero in questo periodo insistettero soprattutto nel dare pieno valore spirituale alla preghiera, all'Ufficio divino, ma anche ad una maggiore valutazione del lavoro, specie degli studi. Tutti i monaci della vasta fondazione cluniacense dovevano cogliere queste novità e metterle in pratica. Le abbazie di Corbie, Fulda, Gorze, Saint Denis, Aniane divennero i veri centri della nuova cultura europea, e i monaci ne erano i principali fautori. Ogni abbazia sentì come un dovere evangelico aprire una biblioteca e iniziare a raccogliere i libri più importanti, non solo della letteratura latina e greca, ma anche ebraica e araba. Filosofi saraceni come Avicenna, Averroè, al-Kindi furono studiati ed apprezzati senza alcuna preclusione ideologica, nel nome della cultura e dell'amore per il sapere.

Accanto alle biblioteche sorsero gli "scriptoria", per la copiatura dei manoscritti. L'umanità che doveva venire non poteva essere privata di questi monumenti della cultura.

Per quanto concerne la vita spirituale, si cercò di dedicare più spazio all'incontro con Dio, attraverso la preghiera, specie quelle per i defunti, abati, monaci o benefattori i cui nomi erano contenuti negli "obituari", o attraverso il "raccoglimento". A Cluny si assiste al passaggio dal monaco penitente al monaco orante, passaggio che rappresentò principalmente un salto culturale e come tale un salto "epocale".

Ogni monaco all'origine era anche sacerdote, e aveva diritto a celebrare la propria messa ogni giorno. Ciò comportò delle conseguenze sul piano architettonico: ai lati delle navate o nel presbiterio delle basiliche cluniacensi furono edificate cappelle o altari adibiti a questa funzione. Solo più tardi comparvero nei monasteri i frati "conversi", che non potevano diventare sacerdoti, priori o abati, e non pronunciavano voti.

Nel suo quotidiano, il monaco vestiva un abito marrone, era vegetariano (regola che permase fino al XIV secolo), beveva vino aromatizzato con miele o pepe o, a scelta, la birra prodotta nella stessa sua abbazia, dormiva in una propria cella, dove poteva meglio meditare e pregare.

Tutto ciò comportò delle conseguenze sul piano sociale: il monaco che dedicava gran parte della sua giornata alla preghiera e alla copiatura delle opere, aveva ben poco tempo per il lavoro manuale: da qui la necessità di avvalersi di manodopera esterna. Intorno ad ogni monastero si insidiarono così contadini e allevatori, in genere povera gente che però, non avendo altre possibilità lavorative, potevano sopravvivere grazie al monastero, e comunque conducevano una vita di pari tenore rispetto a quello dei monaci.

Alla storia di questo glorioso movimento di Riforma in seno al monachesimo benedettino è strettamente legato anche un glorioso capitolo della Storia dell'arte: il "romanico", che in questo ambiente trova una sua grand'espressione.

La basilica del monastero di Cluny, dopo i rifacimenti del 1088, divenne il più grande monumento della cristianità: un edificio tre volte più alto che largo, con arcate e finestre che si aprivano a trenta metri d'altezza. Tutte le dimensioni erano multiple per tre, cinque, sette, nove ecc., mentre le misure erano multipli di sette. In sette giorni Dio aveva creato il mondo, lo aveva portato a compimento, Cluny si elevava, nella presunzione, ad essere l'edificio sacro, integro per antonomasia.

Accanto a questa grande attenzione verso la spiritualità, la cultura e l'estetica, a Cluny, nel corso dei secoli, si forgiò un nuovo tipo di organizzazione politica monastica. La maggior parte dei monasteri che facevano parte della grande famiglia cluniacense non aveva un abate, ma riconoscevano come loro guida quello della casa madre; di fatto questa scelta favorì nei decenni successivi la nascita del "priorato", di un'istituzione, cioè, di comando rispetto alla comunità, ma sottoposta a quella dell'abate.

Per volere del suo fondatore, come visto, Cluny godeva poi di totale "romana libertas", ossia non doveva soggiacere ad alcuna autorità ecclesiastica o politica periferica o locale.

Papa Gregorio VII (1073-1085) ribadì questo privilegio:

« Vogliamo e ordiniamo in virtù della nostra autorità apostolica che mai nessuno, piccolo o grande, e che nessun potere e cioè nessun arcivescovo, vescovo, re, duca, marchese, conte e neppure nessuno dei nostri stessi legati osi profferire parola contro questo monastero o esercitare su di esso la sua autorità. Vogliamo invece che, in conformità con la lettera del nostro privilegio e dell'autorità dei nostri predecessori, tale monastero goda in modo assoluto, pieno e per sempre, dell'immunità e della libertà che gli sono state concesse dalla Sede Apostolica. »

Questo valse per Cluny, ma quasi mai per i monasteri a lei affiliati.

L'abbazia madre aveva il controllo sui priorati, monasteri vincolati completamente, come il monaco al suo abate. Attorno a questa organizzazione gravitavano altri monasteri più o meno indipendenti.

Il priorato era un monastero in cui il capo, eletto dai monaci, era detto "priore" ed era sottoposto all'abate di Cluny. La gerarchia dava risalto a cinque priorati: Souvigny, donata a Cluny nel 920; Sauxillanges, in Alvernia; La Charité-sur-Loire, congiunta a Cluny nel 1059; Saint-Martin-des Champs, a Parigi, assegnata a Cluny nel 1079; Lewes, in Inghilterra, nella contea del Sussex, fondata nel 1077. Ognuno di questi priorati aveva a sua volta proprie fondazioni, 52 nel solo priorato di La Charité-sur-Loire.

Principali centri cluniacensi in Francia alla fine dell'XI secolo

Nel XII secolo Pietro il Venerabile, nono abate di Cluny, istituì il capitolo generale, assemblea di tutti i priori e dei superiori della vasta famiglia cluniacense (anche abati dei monasteri più autonomi), sotto la sua stessa guida.

L'organizzazione capillare di Cluny rappresentò però anche il suo principale problema. Le grandi proprietà terriere, frutto di donazioni e prebende, necessitavano di continua amministrazione. Per curare gli interessi delle fondazioni, i monaci dovettero limitare maggiormente il tempo della preghiera e dello studio.

Un anelito nuovo, un desiderio di spiritualità e contemplazione pervase per questo motivo il movimento. Si sentì il bisogno di una seconda radicale riforma.

Nel 1030 a Colonia nasceva San Brunone, che sarebbe diventato il fondatore dei Certosini. Nel 1084 iniziò i lavori della sua casa madre in località "La Chartreuse". Da cui il nome del movimento.

Nel convento certosino convivevano monaci e conversi. I primi furono chierici o sacerdoti, vestivano l'abito bianco. Vivevano come eremiti in celle su due piani. Al piano terra c'era un piccolo laboratorio di falegnameria, selleria... al primo piano la stanza da letto, di fronte e ben cintato un piccolo orto. Le celle erano collegate al chiostro e attraverso questo alla Chiesa. Erano vegetariani, e dediti alla preghiera. I conversi, invece, essenzialmente laici, vivevano in comunità, come cenobiti, pregavano e lavoravano insieme. L'istituto dei conversi rappresentò un po' la proposta della Chiesa verso i laici che non avevano le capacità né la voglia di studiare per diventare sacerdoti. Si sarebbe potuta rivelare un'esperienza preziosa nei periodi successivi, in cui la Chiesa fu travagliata dalle eresie.

Il superiore era detto "priore" e non abate, per questioni legate all'umiltà, ed era eletto dai monaci, nella migliore tradizione benedettina. I monaci si riunivano periodicamente in un "Capitolo", dove oltre ad organizzare la comunità ascoltavano i consigli e le esortazioni del priore.

Le varie "Certose" erano tutte federate e guidate a loro volta da un Capitolo Generale, dove i priori riportavano i problemi più scottanti delle loro comunità.

Coeva all'esperienza certosina fu quella cistercense. Il tentativo, in questo caso, non fu tanto retto dal nobile desiderio di rivalutazione dello spirito eremitico, quanto piuttosto della nuova riforma del movimento benedettino. A Citeaux, San Roberto di Molesmes (1028-1111) fondò la casa madre di quella che sarà considerata la "nuova Cluny".

Il desiderio era rappresentato dal ritorno alle origini e rispondeva anche alle aspirazioni del tempo. Il monastero si trasformò da centro di preghiera e cultura, qual era Cluny, a ricettacolo di genuina spiritualità. Il monaco non doveva più essere occupato in attività "comuni", doveva solo ed esclusivamente dedicarsi alla preghiera e alla meditazione. I problemi concreti furono demandati ai conversi. La separazione dal mondo, già professata dai certosini con il ricorso ad uno stile eremitico, fu accolta anche dai cistercensi, ma in altro senso. Il monastero andava costruito in luoghi isolati e lontani dalle città.

Il desiderio di distacco dal mondo comportò pratiche ascetiche anche molto dure: il ricorso alla più rigida povertà, il digiuno periodico, anche se mai esageratamente prolungato, il silenzio, perché solo in questo stato "si può sentir parlare Dio". Queste pratiche rappresentavano altrettante vie nel raggiungimento di determinate virtù, già indicate da Benedetto nella sua Regola: umiltà, obbedienza e disprezzo di sé, in quanto uomini, in ogni caso, peccatori.

Grazie all'opera di grandi Abati, come Bernardo di Chiaravalle (1090-1153), la congregazione si sviluppò rapidamente e prepotentemente. Nel 1200 le abbazie erano già 530.

Ogni monastero era autonomo ed era rappresentato nel Capitolo Generale dal proprio abate. Il capitolo aveva competenza per quanto riguardava la Regola, si deliberava a maggioranza, ma quando questa era molto risicata grande importanza acquistava il parere dell'abate della casa madre, Citeaux, cui spettava sempre la Presidenza. Ogni monastero subiva annualmente un'ispezione da parte dell'abate di Citeaux, mentre questo monastero era ispezionato dagli abati delle prime quattro fondazioni (Clairveax, Morimond, Pontigny e La Ferté).

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26.C - Il monachesimo mendicante

1) L'ordine dei Frati Predicatori.

L'ordine dei Frati Predicatori fu fondato nel 1215 dallo spagnolo San Domenico di Guzman (1170-1221), e dal quale prese anche l'improprio nome di "ordine domenicano".

Nato in Castiglia da una nobile famiglia, fece studi di biblica, di teologia ed esperienze monastiche, ma ciò che più lo attirava fu la predicazione della salvezza presso le popolazioni pagane ed eretiche. Operò per questo nella Linguadoca, dove ottenne dal vescovo di Tolosa di poter creare una congregazione diocesana di monaci predicatori. Per il fatto che il IV Concilio Lateranense aveva sancito il divieto di pubblicare nuove Regole per nuovi Ordini, Domenico rivisitò e corresse la Regola Agostiniana.

Nel novembre del 1216 Papa Onorio III promulgò due bolle successive che riconobbero ufficialmente l'Ordine. In queste bolle, fra l'altro si legge:

« Ringraziamo Iddio, che ha fatto di voi dei predicatori, dei veri atleti della fede, e Noi vi comandiamo, imponendovelo in remissione dei vostri peccati, di continuare a predicare. »

Nasceva, così, uno dei più gloriosi ordini della cristianità cattolica.

Solo un anno più tardo Domenico fondò conventi a Bologna e a Parigi, a loro volta queste prime due case madri si preoccuparono di fondare nuovi monasteri un po' in tutta Europa.

Secondo la Regola agostiniana, il novizio doveva studiare teologia e fare esperienza claustrale, al termine della quale professava i voti. Era, quindi, destinato ad un nuovo convento dove riceveva l'ordinazione diaconale e presbiterale.

Il frate durante la giornata aveva il dovere di recitare l'Ufficio divino, meditare, celebrare Messa. In diversi periodi dell'anno era tenuto a digiunare e a mortificare il proprio corpo con privazioni di varia natura. Durante tutta la sua vita doveva vivere la povertà integrale, e per questo fu fatto espresso divieto di svolgere lavori manuali, dai quali avrebbe potuto ricevere proventi.

Al vertice dell'Ordine stava il Capitolo Generale, guidato dal Superiore Generale coadiuvato dai rappresentati dei vari conventi, non necessariamente priori. Il Superiore Generale riceveva l'incarico a vita, ma poteva essere deposto. Alla guida del convento era nominato un priore.

Dal 1221 l'Europa domenicana fu divisa in otto province: Roma, Lombardia, Francia, Inghilterra, Germania, Ungheria, Provenza e Spagna. Contestualmente all'espansione dell'Ordine furono aumentate le province.

Dal 1231 al 1235, Papa Gregorio IX (1227-1241) promulgò delle norme relative alla soppressione dell'eresia, e i tribunali furono affidati ai domenicani.

2) L'Ordine dei Frati Minori.

Impropriamente definiti francescano, L'Ordine dei Frati Minori fu fondato da Francesco d'Assisi (1181-1226), la cui Regola fu approvata oralmente da Innocenzo III (1198-1216) prima del Concilio Lateranense IV, e per questo non rientrò nei termini del divieto espresso dalla stessa assise di cui dicevamo sopra. In occasione di questa santa assemblea, Francesco ottenne il riconoscimento ufficiale della Chiesa, che per parte sua riteneva di aver trovato la giusta "arma" per proporre il Vangelo all'umanità più povera e tentata dalle sirene dell'eresia.

I frati minori ben si prestavano a quest'opera, lo stesso Francesco aveva posto come principio costitutivo della congregazione la povertà assoluta.

« Si guardino bene i Frati dall'accettare chiese, abitazioni e quanto viene costruito per loro, se non sono conformi alla santa povertà che abbiamo promesso nella Regola, e vi dimorino sempre come forestieri e pellegrini. Comando fermamente per obbedienza a tutti i frati che, ovunque sono, non osino chiedere lettera alcuna alla Curia Romana direttamente o per mezzo di interposta persona, né per le chiese né per altri luoghi, né ancor più con il pretesto di garantire la predicazione o di proteggersi contro una persecuzione, ma, dove non saranno ricevuti, fuggano in altra terra a far penitenza con la benedizione di Dio (…) E che non stiano a Cimabue, "San Francesco", Basilica Inferiore di Assisi dire, i frati, che questa è un'altra Regola, poiché questa è un ricordo, un'ammonizione, una esortazione e il mio testamento che io, frate Francesco, poverello, faccio a voi, fratelli miei benedetti, perché osserviamo più cattolicamente la Regola che abbiamo promesso al Signore. E il ministro generale e tutti gli altri ministri e custodi per obbedienza siano tenuti a non aggiungere e a non togliere niente a queste parole. E sempre tengano con sé questo scritto insieme con la Regola. E in tutti i capitoli, quando leggono la regola, leggano anche queste parole. » (Francesco d'Assisi, Testamento)

In seguito a polemiche intestine scoppiate in occasione del Capitolo Generale del 1227, Papa Gregorio IX dichiarò, disattendendo spudoratamente la volontà del Fondatore, che il Testamento non aveva valore di Regola. Negli ultimi anni infatti tutto l'Ordine, nell'intento di propagandare il messaggio di povertà, aveva assunto posizioni polemiche contro la ricchezza romana. Per ordine dello stesso Papa i frati potevano accettare elemosine e creare fondi per ogni necessità!

Il rischio di snaturare completamente la congregazione provocò una profonda lacerazione: da una parte frate Elia, fautore del Papa, dall'altro Giovanni Parenti, esecutore fino allora integerrimo dell'eredità spirituale francescana. Per volere del potere papale, il controllo del movimento passò, ovviamente, nelle mani di frate Elia, che ottenne diversi privilegi per l'Ordine. Fece anche costruire ad Assisi una basilica sopra la tomba di Francesco. Frate Elia però cadde in disgrazia presso lo stesso Papa, e a partire dal 1231 il controllo dell'Ordine passò nelle mani degli Zelanti guidati da Giovanni Parenti, che aveva trovato un buon compromesso con un terzo gruppo nel frattempo formatosi, con lo scopo di mediare, detto dei "Conventuali". Il valore della povertà fu ripristinato.

Bonaventura da Bagnoregio

Santo, Dottore della Chiesa.
Soprannominato “Doctor seraphicus” era figlio di un medico. Entrò nell'Ordine dei Frati Minori nel 1243 e solo cinque anni dopo insegnava teologia. Dal 1257 fu professore a Parigi e Generale dell’Ordine.
È autore di opere eccelse come: De reductione artium ad theologiam; De triplici via e la più celebre: "Itinerarium mentis in Deum."
La Chiesa celebra la sua festa il 14 luglio.

San Bonaventura da Bagnoregio (1220-1274), nuovo Ministro Generale, trovò una buona soluzione per tamponare la disputa. I frati potevano fare uso di oggetti e beni per la predicazione, ma la proprietà degli stessi era da ascrivere alla Chiesa di Roma; coniò per tutto ciò il principio giuridico dell'usus pauper.

Nel 1245 però, attraverso una bolla, Papa Innocenzo IV nominò in una provincia francescana un procuratore finanziario, con lo scopo di amministrare i beni che Roma aveva messo a disposizione dell'Ordine. Questo equivaleva, per gli Zelanti, a riconoscere la proprietà privata nell'Ordine e a vanificare gli sforzi diplomatici di Bonaventura. Alla sua morte, lo Zelante Giovanni da Parma riuscì a farsi nominare Ministro Generale, e per prima cosa ripudiò la bolla papale. Questo fu motivo di scontro aperto con la Santa Sede, il che provocò un reale rischio di scomunica per tutto l'Ordine, anche perché gli Zelanti non cessavano di criticare apertamente le ricchezze e i lussi della Chiesa romana.

Dietro la disputa su "Cristo possedeva o no gli abiti che indossava?" si nascondevano gli stessi aneliti, la medesima ricerca di coerenza evangelica che già stava animando molte sette eterodosse. Per questo, personaggi come Giovanni da Parma, Ubertino da Casale, Angelo Clareno, Pier Giovanni Olivi rischiarono veramente di essere processati e di trascinare con sé tutto l'Ordine.

Ubertino da Casale

Nato nel 1259 a Casale Monferrato, predicò a Firenze e a Parigi. In feroce polemica con Bonifacio VIII, pubblicò l'opera "Arbor vitae crucifixae Jesu" nel 1308. Giovanni XXII, con l’intento di punire la sua intransigenza verso le ricchezze della Chiesa, lo relegò nel monastero di Gembloux, in Belgio, nel 1317. Avendo ancora partecipato alle controversie sulla povertà di Cristo, venne accusato d’eresia e ribellione, ma, nonostante tutto, riuscì a morire serenamente nel suo letto, nel 1328.

Solo nel 1312 Papa Clemente V (1305-1314), il giustiziere dei Templari, istituì una commissione teologica le cui decisioni furono fatte sue con la bolla "Exivit de Paradiso". In questo documento fu lodato lo spirito pauperistico del movimento, riconosciuta l'ortodossia degli Zelanti e dei loro seguaci e fatto proprio il principio dell'usus pauper di Bonaventura. Questa bolla rappresentò la fine della disputa.

Secondo la Regola, l'Ordine comprendeva chierici e laici. Per entrare il postulante doveva conoscere il Credo, non essere sposato e rinunciare a tutti i beni personali e familiari. Dopo un anno di preghiera e studio, professava i voti e viveva in un convento, che normalmente era guidato da un Custode, eletto dai frati.

A capo della congregazione c'era il "Ministro Generale", eletto dal "Capitolo Generale" che operava sotto la guida di un Cardinale "governatore" nominato direttamente dal Papa. Era una forma di "esenzione", per evitare di dover essere sottoposti alle autorità locali. Il capitolo del 1217 creò undici Province, sei in Italia, una in Francia, Spagna, Germania, Palestina e Provenza.

3) Carmelitani e Agostiniani.

Bertoldo di Calabria (morto nel 1195) nel 1185 fondò in Palestina, presso il monte Carmelo, l'Ordine dei frati della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo. La regola fu approvata nel 1226 da Papa Onorio III (1216-1227). Fin dall'origine era un ordine cenobita che si dedicò all'apostolato. L'organizzazione dell'Ordine era uguale a quella degli altri mendicanti, ed il movimento si espanse rapidamente nell'Europa mediterranea.

La nascita degli agostiniani la si deve a Papa Innocenzo IV, che nel 1243 riunì in un'unica congregazione tutti gli eremiti della Toscana. Il movimento si ingrossò ulteriormente grazie alla fusione di altri gruppi minori. La Regola agostiniana fu utilizzata, come visto, da Domenico di Guzman per dar vita all'Ordine dei Frati predicatori.

I quattro ordini mendicanti (domenicani, francescani, carmelitani e agostiniani) si fecero promotori di grandi iniziative culturali in tutta l'Europa, con la fondazioni di numerose Università e centri di studio.

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27 - GLI ORDINI RELIGIOSI MILITARI: I TEMPLARI

Per comprendere l'origine degli ordini militari occorre, percorrendo a ritroso la storia, partire dall'istituzione delle "assemblee di pace" che realizzarono varie forme di difesa e protezione diretta della Chiesa. Intorno all'anno mille, specie in Francia, il potere regio non era più in grado di controllare debitamente i "milites", che spesso si abbandonavano a saccheggi, rapine, violenze e soprusi di ogni genere verso la popolazione. Per garantire il diritto e la pace, la Chiesa si impegnò ad organizzare delle assemblee pubbliche dette "di pace", in cui costoro si impegnavano, con solenne giuramento, a non attaccare le chiese e la popolazione civile inerme. Alcuni Sinodi (Limoges e Narbonne) sanzionarono la scomunica per gli spergiuri.

Certamente l'interesse principale, difeso da questa nuova istituzione, era quello della Chiesa, che tentava di affrancarsi sempre più dal potere dei signori nel tentativo di difendere dalle mire egoistiche "laiche", tasse e proventi percepiti. Rimane, in ogni modo, il fatto che, una categoria difesa da queste assemblee erano gli "hinermes", in altre parole il popolo, in particolare i mercanti. Il canone 4 del Sinodo di Verdun sur le Doubs recita:

« Io non mi impadronirò del contadino, della contadina, dei servitori e dei mercanti. Io non prenderò il loro denaro, non chiederò per loro riscatti, non mi impadronirò dei loro beni né li sperpererò, e non li frusterò. »

E ancora:

« Io non incendierò e non distruggerò le case a meno che non vi trovi all'interno un cavaliere che sia mio nemico e armato, o ladro, o che siano adiacenti ad un castello che risponda al nome di castello. »

Questi interventi della Chiesa sui "milites", in particolare cavalieri, avevano anche lo scopo di introdurre nella società feudale un minimo di deontologia professionale, di regolamentazione dei fatti d'arme.

Alla stessa stregua va valutata l'istituzione della "tregua di Dio", il divieto cioè di combattere durante i giorni sacri dell'anno liturgico, estendendo spesso questo divieto anche a tutto il periodo di Avvento e di Quaresima.

Da questi giuramenti che sottintendevano un comportamento passivo da parte dei "milites" si passò a forme attive di difesa diretta della Chiesa, anche queste sancite da forme svariate di giuramento. Il vescovo Aimone di Bourges, organizzando una "milizia di pace" che aveva il compito di difendere le chiese e la popolazione dai saccheggiatori e violenti, impone un giuramento chiaro:

Sigillo dell'Ordine dei Templari« Io sottometterò tutti gli invasori di beni ecclesiastici, gli istigatori di saccheggi, gli oppressori dei monaci, delle monache e dei chierici e tutti coloro che attaccano la nostra santa madre Chiesa, finché non si siano ravveduti. »

Nasce in questo ambiente l'idea dell'esercito ecclesiastico al servizio degli interessi della cristianità in generale e della Chiesa in particolare. Carlo Magno pretese da vescovi ed abati contingenti di soldati: era un fatto che costoro potessero disporre di piccoli eserciti, spesso formati da ragazzi, che combattevano sotto il vessillo del santo patrono di quella chiesa piuttosto che di quel monastero. Furono chiamati i "milites ecclesiae".

A maggior ragione si trovarono ben presto difensori anche per la Chiesa romana, in particolari gli Imperatori stessi; ciò non esclude l'esistenza di eserciti privati. I soldati erano reclutati a Roma dall'arcidiacono che li doveva anche pagare per conto di Sua Santità. Papa Leone IX (1049-1054) si avvalse di questi eserciti nella battaglia di Civitate, che lo vide sconfitto nel 1053. Intorno al 1070, Gregorio VII arruolò dei mercenari nella "militia sancti Petri".

Nell'850 Papa Leone IV (847-855) aveva promesso il paradiso ai cavalieri franchi morti nella difesa di Roma, come anche Alessandro II (1061-1073) estese la promessa a quelli morti nella lotta alla pataria.

Tipico caso fu quello del cavalier Erlembaudo che, morto sul campo, fu dichiarato martire e beato da Urbano II (1088-1099), non a caso propugnatore, in occasione del Concilio di Clermont-Ferrand (novembre 1095), della Prima Crociata. Veniamo così al punto.

Nel predicare la Crociata, Urbano II tentò di radunare sotto l'autorità della Chiesa una nuova cristianità formata da cavalieri audaci e invincibili. Fu proprio quest'approccio che segnò la sconfitta della Chiesa, perché il cavaliere, nonostante la dirompente propaganda, si mosse su differenti posizioni. La gloria personale, i beni saccheggiati, rappresentavano, sì un'allettante opportunità di arricchimento personale, ma sarebbe banale e riduttivo credere che tutto si risolse su questo semplice piano materiale. Il cavaliere, inizialmente laico, scoprì la possibilità di riscattare se stesso ed ottenere il paradiso espletando questo "dovere" religioso, come il contadino tentava di riabilitarsi con i pellegrinaggi. La crociata dai più fu, dunque, vissuta come un momento di conversione e purificazione, al fine di ottenere il Regno di Dio e la sua giustizia. La crociata intesa come pellegrinaggio armato è prescritta a chiare lettere da Papa Urbano II.

Il pellegrino, un tempo inerme e alla mercè del prossimo in terra straniera, si trasformò in guerriero per ottenere le stesse grazie. Si può quindi concludere che lo spirito che animò il monaco combattente fu genuino ed esemplare, in relazione evidentemente alla cultura medievale, al contrario degli obiettivi reali che spinsero i papi a farle predicare. Mentre i pontefici mirarono a creare un esercito papale, naturalmente senza ricorrere all'uso dei simboli pontifici, dall'altro i monaci guerrieri si riconoscevano essenzialmente sotto il segno di Cristo, cioè la croce, credendo fermamente in ciò che facevano.

Le ragioni che produssero il fenomeno crociato furono molteplici e seriamente connesse. Escludendo per principio l'interesse economico, fin troppo evidente, possiamo soffermarci su quello sociale. Due riflessioni tratte dalla letteratura del tempo, sono rivelatrici di una mentalità cui corrispose per converso, da parte dei monaci, una notevole sensibilità.

La prima è tratta da un'opera di Fulcherio di Chartres, "Historia Hierosolymitana", dove questo cronista francese sintetizza bene i sentimenti collettivi:

« Che marcino, dunque in battaglia contro gli infedeli (…)quelli che finora si abbandonavano a guerre private e crimini contro i fedeli! Che si facciano cavalieri di Cristo, quelli che finora non erano che briganti! Che attacchino adesso con buon diritto i barbari, quelli che attaccavano i loro fratelli e i loro parenti! Guadagneranno, così, ricompense eterne, quelli che si facevano mercenari per qualche miserabile soldo. »

L'intento, della Chiesa fu quello di purgare l'Occidente cristiano di tutti i mali che lo affliggevano, e perciò essa vide nelle crociate un'opportunità indiscussa. Richiamando tanti Principi, rissosi o dissidenti, ai loro doveri religiosi, si poté ottenere anche la loro fisica eliminazione, risolvendo in questo senso più di un problema sociale da loro stessi sollevato. Per converso, gli stessi protagonisti credettero fermamente a questa opportunità e la vissero come un momento di purificazione personale, provocando di fatto la sconfitta della politica utilitaristica del Papato.

Le guerre intestine alla cristianità, per l'alto clero del tempo, vennero considerate pericolose e colpevoli: tanto valeva giustificare una guerra giusta e persino "santa" contro i pagani. La pace di Dio sottintende, in questo senso, la crociata, l'eliminazione "dell'universalismo degli altri".

La seconda riflessione, in tal senso, ci è trasmessa nientemeno che da Bernardo di Chiaravalle, che nel "De laude novae militiae" esprime candidamente la medesima convinzione:

« In questa moltitudine che accorre a Gerusalemme, sono relativamente in pochi coloro che non siano stati criminali ed empi, razziatori e sacrileghi, omicidi, spergiuri e adulteri. Così la loro partenza suscita una doppia gioia, che corrisponde ad un doppio vantaggio: i loro vicini sono felici di vederli andar via, proprio come sono felici coloro che li vedono accorrere in loro aiuto. »

La creazione degli ordini religiosi armati, rappresentò così la prova vivente che le illusioni volute da Roma non avevano incantato nessuno, ma le crociate erano accolte solo come anelito alla vera fede con la quale la prova spirituale e i rischi erano parte integrante.

Tra gli ordini più celebri che in questi anni si andavano formando, certamente quello che colpì maggiormente l'immaginario collettivo, date anche le risultanze storiche, fu quello dei "Cavalieri del Tempio", fondato nel 1119 a Gerusalemme da Ugo di Payens (1070-1136).

La prima comunità formata da dieci monaci ebbe sede a Gerusalemme in quello che si credeva il Tempio di Salomone. A quest'edificio furono debitori del loro nome.

Fin dai primi anni il piccolo ordine ricevette prebende e donazioni, sia in denaro sia in beni mobili, con lo scopo di fungere da supporto all'organizzazione delle crociate e di proteggere coloro che attraversavano la Terrasanta per recarsi in pellegrinaggio a Gerusalemme. Il ruolo militare si affermò lentamente, con il passare dei decenni, fino a diventare quel potente caposaldo della cristianità, contro i mori nel vicino Oriente.

L'incremento numerico dei Templari nei primi anni di vita dell'Ordine fu molto modesto; e questo spiega le motivazioni per la quale Ugo di Payens si recò nel 1127 in Francia, appellandosi al sostegno di San Bernardo di Chiaravalle, padre del monachesimo cistercense, che per loro compose il già citato "De laude novae Militiae". Fin da subito il successo in occidente del nuovo Ordine fu evidente: molti giovani europei aderirono in massa ai voti monastici pur di far parte di questa "milizia di Cristo".

L'amministrazione delle proprietà e l'organizzazione politica dell'Ordine rappresentavano la vera forza del movimento. Esistevano tre livelli amministrativi: la Commanderia (o convento), la Provincia e la Sede Centrale dell'Ordine.

La Commanderia rappresentava l'unità base amministrativa, ed era retta dal Precettore; nel caso essa si trovasse in zone di confine, poteva assumere una struttura prettamente militare. All'interno della stessa il numero di Templari era spesso ridotto, e gestiva esclusivamente gli aspetti amministrativi. Il Precettore, assieme a quattro o più colleghi, deteneva anche il potere giudiziario.

Le Province raccoglievano le Commanderie, ed i loro confini corrispondevano a quelli dei regni. La gestione della Provincia era affidata ad un Maestro Provinciale che nominava i superiori delle Commanderie, ricevendo in cambio delle rendite annuali. Le decisioni riguardanti, la compravendita di proprietà erano in ogni modo riservate alla Sede centrale, che provvedeva regolarmente a visitare le Province.

La Sede Centrale dell'Ordine era gestita dal Gran Maestro (23, dal 1119 al 1307) cui era affidato, congiuntamente ad altri membri, il governo ordinario. Il Gran Maestro era coadiuvato da un Siniscalco (fino al XII secolo), un Gran Commendatore, un Maresciallo, un Tesoriere, un Drappiere ed un Turcopolo (mercenario arruolato sul posto, esperto conoscitore del territorio e delle strategie nemiche).

Il capitolo generale rappresentava l'altro organo di governo, e comprendeva i Templari scelti in rappresentanza delle Province a formare l'Assemblea dell'Ordine, che si riuniva mediamente con cadenza annuale, probabilmente emanando le variazioni della Regola.

A fronte di questi diritti riconosciuti, i Templari si impegnarono a difendere gli interessi di tutti i paesi latini nel Vicino Oriente, responsabilità alla quale mai si sottrassero e che affrontarono anche con gravi perdite umane. Solo nella battaglia di Le Forbie nel 1244 persero la vita ben 312 monaci.

L'organizzazione militare era molto complessa. Di norma i Templari fornivano supporto logistico ed organizzativo all'intero esercito crociato, fungendo da guida e coprendo i punti deboli dello schieramento. Va registrata la presenza di Cavalieri, Sergenti inizialmente monaci, quindi laici, e Turcopoli.

L'uso della croce rossa su abito bianco era riservata esclusivamente ai Cavalieri, sempre monaci; mentre i Sergenti indossavano abiti scuri.

Un'organizzazione di questo tipo necessitava di grandi disponibilità finanziarie; per questo fu permesso ai Templari di acquisire proprietà. Questa soluzione era prevista anche per gli altri ordini militari, quindi non rappresentava un'eccezione nella Chiesa; anzi, era prassi riconoscere determinati diritti a chi aveva devoluto denaro a favore dell'Ordine (esenzione di un settimo della penitenza e diritto di essere seppelliti nei cimiteri templari).

Queste entrate furono incrementate da ulteriori privilegi fiscali: l'esenzione ad esempio dalle tasse ecclesiastiche e, fatto del tutto eccezionale per quei tempi, l'esenzione giurisdizionale dal vescovo. Questi diritti finirono, poi, per avere un peso decisivo nella condanna dell'Ordine, poiché troppi interessi economici circondavano l'organizzazione.

Jacques de Molay interpretato da Gérard DepardieuLe grandi disponibilità economiche dell'Ordine fecero gola al Re di Francia Filippo IV il Bello (1285-1314) che, incapace di gestire la situazione finanziaria della Francia, organizzò contro i Templari uno dei più ingiusti e disgustosi processi della storia dell'umanità, ma anche della storia della Chiesa e del diritto. Accusando i monaci di pedofilia, satanismo, corruzione e bestemmia, riuscì ad ottenere da Papa Clemente V, a lui del tutto sottomesso, l'incriminazione di Jacques de Molay, allora gran Maestro dell'Ordine, la sua incarcerazione e la certificazione che contro i Templari si sarebbe istituito un regolare (sic!) processo. Il 13 ottobre 1307, dunque, dopo aver proditoriamente atteso l'arrivo in Francia del Gran Maestro, l'inquisitore di Francia Guglielmo Imbert ordinò alle milizie guidate dal consigliere del re, Filippo Nogaret, di arrestare tutti i Templari.

Nonostante falsi testimoni accusassero l'Ordine, non si trovarono prove schiaccianti, ma solo testimonianze estorte con la tortura.

Il 3 aprile 1312, in occasione del Concilio di Vienne, Filippo il Bello ottenne la condanna dell'Ordine con la promulgazione della bolla "Vox clamantis in excelso" da parte di Clemente V.

Il 18 marzo 1314, per aver ritrattato le confessioni dei presunti crimini commessi dall'Ordine, Jacques de Molay e Geoffroy de Charnay furono arsi vivi a Parigi. La maledizione scagliata dal Gran Maestro in punto di morte segnerà la fine della vicenda. Clemente V morirà pochi mesi dopo, e Filippo il Bello non sopravvivrà abbastanza per assistere al primo anniversario di quest'indegna messinscena. C'è per di più da annotare che il Re di Francia non riuscirà comunque ad entrare in possesso dell'immenso tesoro dei Templari, perché il Papa (con la Bolla "Ad Providam" del 2 maggio 1312) lo metterà a disposizione dei Cavalieri di Rodi, detti poi di Malta (che ebbero comunque difficoltà a recuperare i beni).

Secondo un'antica leggenda, parte di questo tesoro sarebbe stato nascosto in una piccola chiesa di provincia e mai più recuperato. Secondo alcuni a questo tesoro sarebbero legate le vicende che videro protagonista nel 1892 il parroco di Rennes le Chateau, François Berenger Saunière.


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