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1.2  Il "vento d'etere" non esiste!


Il primo problema che ci si pone é: c'é un punto di riferimento invariante per tutti i sistemi? Sì, uno c'é: é la velocità della luce c. La teoria classica dei campi elettromagnetici imperniata sulle equazioni di Maxwell fornisce per essa il valore di:

    (1.3)

Dove ε0 e µ0  rappresentano rispettivamente la costante dielettrica e la permeabilità magnetica del vuoto. Si tratta di due costanti universali, invarianti in tutti i sistemi, indipendentemente dal sistema di misura. In unità S.I. esse valgono infatti:

  Farad m–1 ( m–3 Kg–1 s4 A2  )

  Henry m–1 ( m Kg s–2 A–2 )

Introducendo questi valori nella (1.3) si ottiene:

c = 299.792.456,2  m s–1

Quindi ci si aspetterebbe che c rappresenti la tanto sospirata VELOCITÀ ASSOLUTA. Ed invece la legge di composizione delle velocità (0.2) contraddice questa speranza! Immaginiamo di viaggiare sul cosiddetto "treno di Einstein" (cui faremo più volte cenno da qui in avanti), un ipotetico treno futuribile che si muove a 240.000 Km/s; accendendo i fari, la loro luce dovrebbe viaggiare a:

300.000 + 240.000 = 540.000 Km/s

in palese disaccordo con l'affermazione (1.3), la quale non si vede perché dovrebbe valereUn treno superveloce dovunque,  fuorché sul treno di Einstein. Il perché di questa apparente inconciliabilità verrà trovato proprio da Einstein, come vedremo nell'unità 3.

Le prime prove a favore dell'invariabilità della velocità della luce nel vuoto furono date dall'esperienza di Michelson e Morley (1887), che ora descriverò in succinto, lasciandone l'analisi quantitativa agli studenti interessati (vedi Approfondimento). Nel paragrafo precedente abbiamo spiegato in che modo andò in voga la teoria dell'etere: la credenza che ogni perturbazione deve trasmettersi in un mezzo materiale, e non nel vuoto, condusse all'ipotesi dell'esistenza di una sostanza imponderabile che tutto permea. La velocità della luce risulterebbe così costante rispetto all'etere, salvaguardando la (1.3) e tutta la teoria elettromagnetica. Ora, la Terra nel suo cammino attorno al sole si dovrebbe muovere nel mare d'etere grande quanto tutto l'universo, se è vero che questo mare è fermo, come si compete ad ogni riferimento che ha la pretesa di essere assoluto; dunque, dal punto di vista degli osservatori terrestri, l'etere si dovrebbe muovere in direzione opposta al moto del nostro pianeta. Ne consegue che, misurando la velocità della luce nella direzione del moto orbitale terrestre, si dovrebbe riscontrare un risultato maggiore di quello ottenuto nel caso in cui la si misuri in direzione opposta, perché nel primo caso la velocità orbitale – pari all'incirca a 33 Km/s – si somma al risultato della (1.3), nel secondo caso si sottrae.

Ebbene, Albert Michelson ed Edward Morley pensarono di effettuare una doppia misurazione della velocità della luce, nella direzione del moto terrestre ed in direzione opposta, con lo scopo di confrontare i due risultati e di provare il moto della Terra attraverso l'etere. Ma una simile misura era più facile a dirsi che a farsi, poiché la velocità orbitale del nostro pianeta poteva incidere sulla velocità della luce al massimo per una parte su diecimila. I due scienziati ebbero allora l'idea di utilizzare un complesso apparato di specchi (INTERFEROMETRO), che sfruttasse proprio il fenomeno dell'interferenza tra raggi di luce che hanno percorso cammini ottici differenti. Il loro interferometro aveva più o meno quest'aspetto:

  L'esperienza di Michlson-Morley

(l'immagine è ricavata dall'Enciclopedia Multimediale Encarta 2000). Vediamo come funziona.

In esso, un raggio di luce colpisce uno specchio semiargentato, e quindi semirilettente (al centro della figura): in parte esso é riflesso su di uno specchio (in alto), che lo riflette nuovamente, in parte lo attraversa ed é riflesso su un altro specchio. Il primo di questi raggi attraversa lo specchio semiargentato, il secondo è da questo riflesso in direzione ortogonale, cosicché i due raggi si sovrappongono prima di giungere ad uno schermo (in basso). Essendo derivati da un'unica sorgente luminosa, i due raggi sono tra loro coerenti (cioè hanno stessa intensità, stessa ampiezza e stessa lunghezza d'onda); avendo percorso cammini ottici di uguale lunghezza, essi giungono sullo schermo in fase, e quindi la luminosità totale sarà raddoppiata. In effetti, Michelson e Morley inclinarono gli specchi in modo che i raggi risultanti non fossero esattamente paralleli, ma formassero l'uno rispetto all'altro un angolo piccolissimo. Questo è sufficiente perché i cammini ottici non siano più identici, e quindi sullo schermo si formano delle frange di interferenza, come quelle visibili in figura:

  Come dovrebbero apparire le frange di interferenza se l'etere esistesse

Se però ruoto l'interferometro di 90°, anziché al raggio orizzontale la velocità orbitale della Terra si sommerà al raggio verticale, e dunque la differenza di cammino ottico fra i due raggi varierà; si dovrà quindi avere uno spostamento nelle frange di interferenza. Se L è la lunghezza del braccio dell'interferometro e v è la presunta velocità della Terra rispetto all'etere, la differenza tra i cammini ottici dovrebbe essere dato dalla formula:

  (1.4)

Lo spostamento così ottenuto dovrebbe equivalere a circa mezza lunghezza d'onda della luce gialla, e quindi dovrebbe essere tale da portare le frange scure sulle frange chiare e viceversa, proprio come illustrato nella figura qui sopra. Nel suo primo esperimento di questo genere, condotto da solo nel 1881, Michelson non notò nulla ma, siccome l'apparecchiatura era piccola, pensò che la differenza di cammino ottico si confondesse con gli errori sperimentali. Per questo nel 1887 egli ritentò, assieme a Morley, usando un'apparecchiatura molto più grande, tale che il percorso totale dei raggi di luce misurasse almeno 11 metri; stavolta la differenza dei cammini ottici nei due casi doveva uguagliare esattamente mezza lunghezza d'onda della luce utilizzata, e quindi lo spostamento delle frange di interferenza doveva essere evidente. Ma, a sorpresa, nemmeno stavolta si notò nulla, ed alla stessa conclusione giunsero tutti coloro che, con tecniche più o meno perfezionate, ripeterono lo stesso esperimento.

Ci fu chi, per salvare la Teoria Classica dei Campi, azzardò l'ipotesi che la Terra trascinasse con sé l'etere nel proprio moto, così come trascina con sé l'atmosfera; ma allora dove andrebbe a finire l'impalpabilità e l'infinita elasticità della quintessenza di aristotelica memoria? E che razza di sistema di riferimento assoluto esso rappresenterebbe, se si muovesse di moto relativo assieme a tutti i corpi che incontra?

Conclusioni: l'esperienza di Michelson e Morley era stata concepita per dimostrare che la luce può avere velocità diverse per diversi osservatori in moto relativo rispetto all'etere, attraverso la dimostrazione dell'esistenza di una sorta di « vento d'etere », dovuto in realtà all'immobilità in senso assoluto della quintessenza, ed al moto relativo rispetto ad esso della Terra lungo la propria orbita, sulla scorta della presunta validità della composizione galileiana delle velocità. Il fatto che l'esperimento sia clamorosamente fallito non poteva far altro che smentire gli assunti di partenza, mostrando una volta per tutte che la luce ha sempre la stessa velocità per tutti gli osservatori, come suggerito dalla (1.3), e che evidentemente le trasformazioni di Galileo (0.1) NON sono valide per tutti i sistemi di riferimento in moto relativo l'uno rispetto all'altro. Anziché cementare la crepa che minava la solidità del castello della Fisica, Michelson e Morley la allargarono ulteriormente, mostrando che la meccanica galileo-newtoniana e la teoria elettromagnetica di Maxwell erano intimamente inconciliabili.

In realtà, come abbiamo già detto nel paragrafo precedente, i fisici sapevano già che le equazioni di Maxwell sono invarianti rispetto alle trasformazioni di Lorentz, non rispetto a quelle di Galileo, e questo ben prima che il genio di Ulm pubblicasse le sue mirabolanti teorie. Già si sapeva insomma che, se si vuole conservare la forma delle quattro equazioni dell'elettromagnetismo, la somma delle velocità non può più consistere nella semplice somma vettoriale (vedi paragrafo 3.2), e questo, come vedremo, implica proprio che deve giocoforza esistere una velocità maggiore di tutte le altre. Nessuna teoria fisica però giustificava quelle trasformazioni, che restavano un giochetto matematico e niente più; e così, tutti erano impegnati alla ricerca del fantomatico etere, come novelli Parsifal alla caccia del Sacro Graal, e Michelson continuava a perfezionare i suoi interferometri, sperando di osservare l'inesistente spostamento delle frange d'interferenza... finché non arrivò quell'apparentemente modesto scienziato ebreo che cambiò la Fisica moderna. E nell'unità 2 vedremo come. Ma prima vi consiglio caldamente di affrontare i test relativi a quest'unità.


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