PRIMA DELLE ERE GEOLOGICHE...  

All'origine dell'universo: il Big Bang

Come nacque l'Universo? Da secoli ormai i fisici si pongono questa domanda, ma solo negli ultimi tempi sono riusciti a fornire per essa una risposta soddisfacente. Nonostante alcuni restino ancora scettici, tutto sembra convergere verso l'ipotesi che il cosmo sia nato in seguito ad una immensa esplosione di energia chiamata Big Bang ("grande scoppio"), che risalirebbe a 13,82 miliardi di anni fa, secondo le misure effettuate dal satellite europeo Planck. Le nostre conoscenze su quell'esplosione primordiale non riescono però a risalire fino all'istante "zero", bensì fino ad un istante successivo detto "tempo di Planck", 10-43 secondi dopo il Big Bang. All'istante zero infatti l'universo primitivo è completamente inaccessibile per la nostra fisica, perché tutta la materia e l'energia che lo componevano erano così concentrate da costituire una "singolarità": uno stato estremo non indagabile della fisica che conosciamo. Ed anche per sapere cosa successe prima del tempo di Planck sarebbe necessaria una teoria quantistica della gravitazione, che invece finora nessuno è riuscito ad elaborare (c'è ancora un premio Nobel che aspetta...).

Al tempo di Planck, invece, l'Universo era caldissimo (addirittura 1032 gradi) ed aveva una dimensione di soli 10-33 cm. Successivamente si formarono le prime particelle, i quark, dai quali nacquero poi neutroni e protoni, con le relative antiparticelle. Materia ed antimateria infatti sono state presenti nell'Universo primigenio in quantità equivalenti. Dopo 10-23 secondi, l'Universo era ancora piccolissimo, delle dimensioni di un protone. Da questo momento fino a 10-26 secondi dopo il Big Bang, protoni e antiprotoni si annichilarono, cioè si scontrarono trasformando le intere loro masse in energia secondo la celeberrima equazione di Einstein E = m c2, dove c è la velocità della luce nel vuoto. In seguito comparvero elettroni ed antielettroni, che si annichilarono anch'essi.

Queste annichilazioni produssero enormi quantità di energia, sotto forma di radiazione elettromagnetica. L'Universo era dominato dalla radiazione e perciò questo periodo prende il nome di "era radiativa"

Ad 1 minuto di età si formarono i primi nuclei atomici di deuterio, elio e litio: la temperatura dell'Universo era scesa sotto i 10 miliardi di gradi, così i protoni e i neutroni rimasti cominciarono ad urtarsi con violenza minore ed a dar luogo alle prime reazioni di fusione nucleare. Dopo qualche migliaio di anni, l'Universo non era più dominato dalla radiazione, ma dalla materia; questa era però ancora immersa in una radiazione molto intensa ed energetica. La temperatura era ancora molto alta, quindi materia ed energia erano accoppiate, cioè si trasformavano continuamente l'una nell'altra. Si dovette attendere fino a 300 mila anni dopo il Big Bang perché la temperatura scendesse ancora ed esse si disaccoppiassero: da quel momento l'Universo diventò trasparente alla radiazione. Nel frattempo gli elettroni si unirono ai nuclei per formare gli atomi.

La galassia M31 in Andromeda (foto NASA)Dopo qualche centinaio di milioni di anni, la temperatura era scesa sotto i 4000 gradi; gli elettroni si combinarono con i nuclei: la materia divenne in gran parte elettricamente neutra e la sua interazione con la radiazione diventò molto meno frequente. La materia poté quindi cominciare ad aggregarsi ed in seguito si formarono le prime protogalassie: gigantesche nubi di gas freddissimo (-220°C) che, per collasso gravitazionale, nel miliardo di anni successivo diedero origine alle galassie. Tra queste vi era la Via Lattea (dal greco galactos, "latte", poiché i Greci la spiegavano come una poppata di latte scappata dalle labbra di Zeus appena nato): un'immensa spirale del diametro di 100.000 anni luce, il cui spessore massimo misura circa 16.000 anni luce, e formata da almeno 100 miliardi di stelle. Essa è l'enorme sistema di stelle di cui la Terra fa parte: un vero e proprio "universo-isola"! Dopo circa 2 o 3 miliardi di anni dal Big Bang le galassie cominciarono a riunirsi in ammassi, e a 4 miliardi di anni sembra si siano formate le prime stelle. L'Universo nel frattempo si era espanso e raffreddato e la radiazione era diventata molto meno energetica, cioè si era spostata su lunghezze d'onda maggiori: ciò dipende dal fatto che l'energia E della radiazione è legata alla sua frequenza f dalla formula E = h f, dove h è la costante di Planck (pari a 6,626 x 10-34 J s, e che la lunghezza d'onda è inversamente proporzionale alla frequenza (il loro prodotto dà la velocità dell'onda): al crescere della lunghezza d'onda decresce dunque la frequenza, e con essa l'energia.

Ma... perché la materia ordinaria è molto più abbondante dell'antimateria? È una delle domande fondamentali della fisica ancora senza risposta, ed una delle spiegazioni più accreditate per questa asimmetria fatica a trovare una conferma sperimentale. I termini della questione si comprendono considerando il quadro teorico che da circa una quarantina di anni descrive la fisica delle particelle elementari, ovvero il cosiddetto Modello Standard. Nonostante le numerose conferme sperimentali, questo modello non spiega perché l'universo sia composto in prevalenza da materia ordinaria: in altre parole, ovunque si guardi la materia è infinitamente più abbondante dell'antimateria. Alcuni fisici teorici hanno cercato di colmare questa lacuna "ampliando" il Modello Standard con teorie accessorie che risolvono la questione prevedendo che il neutrino, una delle particelle elementari più leggere ed elusive, abbia la particolarità di coincidere con la propria antiparticella, l'antineutrino. Se effettivamente fosse così, però, dovrebbe esistere una forma di decadimento radioattivo, chiamato decadimento doppio beta senza emissione di neutrini. In questo decadimento, due neutroni di un nucleo atomico si trasformano in due protoni, con l'emissione di due elettroni. Misurando l'energia cinetica degli elettroni emessi, dovrebbe essere possibile determinare con precisione la differenza di massa tra nucleo originario e quello finale, grazie alle equazioni di equivalenza tra massa ed energia.

In realtà il decadimento doppio beta senza neutrini è un processo estremamente raro ed elusivo. Può avvenire solo in pochi elementi chimici, come il germanio-76, il tellurio-130 e lo xenon-136. Inoltre le difficoltà sperimentali per rilevarlo non mancano, dato che occorre ridurre a zero qualunque tipo di rumore di fondo che possa interferire con la rilevazione. L'esperimento GERDA ai Laboratori nazionali del Gran Sasso dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare ha usato 35,6 chilogrammi di germanio-76 e ridotto praticamente a zero il rumore di fondo. Eppure non ha mai trovato traccia del segnale del decadimento doppio beta senza neutrini. Ne consegue che o i neutrini non sono la soluzione dell'enigma della prevalenza della materia sull'antimateria, oppure che gli sforzi sperimentali fatti finora non sono sufficienti a rilevare il segnale del doppio beta senza neutrini. Per il futuro, i ricercatori della collaborazione GERDA intendono effettuare misurazioni ancora più accurate con strumenti più sensibili. E non saranno da soli. Faranno loro compagnia gli esperimenti Enriched Xenon Observatory, negli Stati Uniti, KamLAND-Zen, in Giappone, e soprattutto Cryogenic Underground Observatory for Rare Events (CUORE), sempre nei Laboratori nazionali del Gran Sasso dell'INFN, che dovrebbe iniziare nel 2017 a cercare il decadimento doppio beta senza neutrini nel tellurio-130.

Aggiungiamo che nel 2019 è stata osservata nello spazio aperto la primissima molecola originatasi nell'universo: l'idruro di elio (HeH+), cioè idrogeno ionizzato che reagisce con il gas nobile elio. Questa molecola era stata osservata in laboratorio nel 1925, ma mai nello spazio, fino a che un team dell’Istituto Max Planck per la Radioastronomia di Bonn è riuscito a scoprire l'idruro di elio nella giovane nebulosa planetaria NGC 7027, posta nella costellazione del Cigno a tremila anni luce dalla Terra, chiudendo così una questione aperta da quasi un secolo. Più di tredici miliardi di anni fa, quando un giovane Universo iniziava a raffreddarsi, esso era privo di metalli e composto esclusivamente da ioni di elementi leggeri: idrogeno, elio, deuterio e tracce di litio. Quando la temperatura è scesa sotto i 4000 Kelvin, questi ioni hanno cominciato a ricombinarsi, con ordine inverso rispetto al loro potenziale di ionizzazione (l'energia necessaria a strappare un elettrone da un atomo). Così, lo ione elio ha acquisito un elettrone formando il primo elemento neutro in assoluto. L’idrogeno ionizzato invece, è altamente reattivo. È il più forte acido noto e tende a reagire con qualunque elemento neutro. In questo modo, si è creato il primo legame molecolare fra elio neutro e ione idrogeno, che ha formato la molecola di idruro di elio. Man mano che la ricombinazione degli elementi procedeva, lo ione idruro di elio si è unito ad altri atomi di idrogeno, aprendo così la strada alla formazione dell’idrogeno molecolare e a tutto l’universo come lo conosciamo oggi. Secondo modelli teorici messi a punto alla fine degli anni Settanta, quantità rilevabili di HeH+ si sarebbero dovute trovare in nebulose planetarie, formate da materiale espulso da stelle simili al Sole alla fine del loro ciclo vitale. Sfortunatamente la lunghezza d’onda emessa dall'idruro di elio è bloccata dall’atmosfera della Terra e non può essere rilevata con i radiotelescopi terrestri. Per questo motivo i ricercatori hanno effettuato le osservazioni con un telescopio orbitante chiamato Sofia, un Boeing modificato per osservazioni ad alta quota. Su Sofia è montato uno spettrometro molto sensibile, noto come Great (German Receiver for Astronomy at Terahertz Frequencies). Questo spettrometro opera nelle frequenze dei Terahertz (il lontano infrarosso), invisibili per i telescopi terrestri a causa dell’atmosfera. Great è operativo dal 2011 ed è stato sviluppato proprio dai ricercatori dell’Istituto Max Planck per la Radioastronomia.

Le fusioni tra galassie nell'universo neonato

Tra gli eventi più spettacolari che si possono osservare nell'Universo ci sono sicuramente gli scontri tra galassie: quando due o più galassie si avvicinano a tal punto da iniziare a spiraleggiare l'una sull'altra a causa della gravità, arrivano a fondersi in un'unica galassia più grande. Tuttavia, solo l’1% delle galassie nell’Universo locale sono osservate nell’atto di fondersi: al giorno d’oggi le galassie crescono prevalentemente perché accrescono gas freddo trasformandolo in stelle, il cosiddetto meccanismo di formazione stellare. Nonostante sia noto che gli eventi di fusione fossero più frequenti nel passato, la loro identificazione nell’Universo lontano è resa più complicata dalla presenza delle polveri interstellari, che impediscono alla luce prodotta da stelle giovani di raggiungere i classici telescopi ottici, e dalla difficoltà di questi telescopi di rilevare il moto delle galassie stesse. Ma nel 2021 Michael Romano, dottorando presso l’Università di Padova e membro del team ALPINE (ALMA Large Program to INvestigate C+ at Early times) ha annunciato la scoperta di dozzine di fusioni galattiche nell’universo primordiale grazie alle potenti antenne dell’interferometro ALMA (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array), in Cile. Il radiotelescopio ALMA è infatti in grado di osservare la luce oscurata dalla polvere individuando galassie che altrimenti risulterebbero essere completamente invisibili, e di svelarne la struttura tridimensionale.

Il programma ALPINE, coordinato tra gli altri da Paolo Cassata, professore presso l’Università di Padova, ha studiato nel dettaglio un campione di un centinaio di galassie risalenti a quando l’Universo aveva "solo" un miliardo di anni. Grazie ad ALMA, è stato possibile rilevare la luce proveniente da queste galassie lontane ed emessa da un particolare ione del Carbonio, detto C+. Gli atomi di Carbonio infatti vengono ionizzati dalla luce ultravioletta prodotta da stelle appena nate all’interno di nubi di polvere, emettendo luce ad una ben determinata frequenza. Tale radiazione, al contrario di quella ultravioletta, è in grado di viaggiare indisturbata attraverso la coltre di polvere che la circonda, fino a raggiungere le antenne di ALMA. La presenza di atomi di C+ fornisce quindi informazioni sul tasso di formazione stellare all’interno delle galassie e sulla loro morfologia. Grazie al progetto ALPINE è stato possibile osservare la struttura tridimensionale di queste galassie primordiali a diverse frequenze, identificando anche le componenti più polverose grazie all’emissione del C+, celate in precedenza persino agli occhi dei più potenti telescopi ottici, come l’Hubble Space Telescope. Abbiamo così scoperto che, 12 miliardi di anni fa, le fusioni erano circa 40 volte più frequenti di oggi, fornendo un contributo significativo alla crescita in massa delle galassie nell’Universo lontano. Questa analisi ha permesso anche di stimare quante volte una galassia simile alla Via Lattea si sia scontrata con altre galassie vicine durante la sua evoluzione fino ad oggi. Ne risulta che, tipicamente, tali galassie possono subire fino a una decina di fusioni in circa 13 miliardi di anni, contribuendo alla formazione delle strutture che osserviamo attualmente nel nostro "vicinato cosmico".

« Con ALPINE abbiamo stimato per la prima volta la frazione di coppie di galassie nell’Universo primordiale che si stanno fondendo, o che sono in rotta di collisione, tramite misurazioni del C+. Questo ci ha permesso di confrontare il processo di crescita delle galassie dovuto a tali fusioni, con quello guidato dalla formazione stellare. I risultati del nostro lavoro evidenziano che la conversione di gas in stelle è il meccanismo primario che permette alle galassie di aumentare la propria massa, sebbene il contributo dovuto alle fusioni acquisti una sempre maggiore importanza con l’avvicinarsi agli albori dell’Universo, dove diventa almeno maggiore del 10% o, in alcuni casi, addirittura paragonabile al processo di formazione stellare », ha spiegato Michael Romano. In futuro, saremo sicuramente in grado approfondire il problema della crescita ed evoluzione delle galassie primordiali grazie ad ulteriori osservazioni ad alta risoluzione con ALMA e con il James Webb Space Telescope.

Energia invisibile ed interruzione della formazione stellare

Assolutamente misteriose restano invece, almeno per ora, l'origine e la natura della fantomatica energia oscura che riempirebbe tutto quanto l'universo, come l'etere della fisica pre-einsteiniana. Questa entità pressoché metafisica venne introdotta solo nel 1998 dal cosmologo Michael Turner, per spiegare come mai le galassie stanno accelerando allontanandosi l'una dall'altra, anziché rallentare a causa della reciproca attrazione gravitazionale, come tutti ci saremmo aspettati. La prima intuizione della sua esistenza la aveva avuta però Albert Einstein, introducendo nelle sue equazioni una « costante cosmologica » per contrastare gli effetti della gravità e far sì che l'universo fosse stazionario ed eterno, teoria questa assai in voga prima della scoperta del Big Bang e dell'espansione delle galassie. Nel 2010 l'operazione Cosmos (Cosmological Evolution Survey) ha provato definitivamente la sua esistenza attraverso un imponente programma di osservazione durato mille ore ed effettuato dall'Advanced Camera for Survey del telescopio spaziale Hubble, che ha avuto come obiettivi ben 446 mila galassie. Gli astronomi infatti hanno infatti calcolato che il 74 % dell'universo è composto da energia oscura, al quale si aggiunge un 22 % di materia oscura (e di entrambe si ignora la natura). Il rimanente 4 % è costituito dalla materia e dall'energia visibili; noi quindi viviamo in un universo in larga invisibile. Se la materia oscura contribuisce con una maggiore gravità su una piccola scala cosmica, l'energia oscura fa invece misteriosamente sentire il suo effetto su una scala maggiore. Proprio cercando questi effetti è stata raccolta la prova dell'esistenza dell'energia oscura nella distorsione dell'immagine delle galassie lontane generata dal cosiddetto effetto di "lente gravitazionale", cioè la distorsione delle immagini di oggetti remoti dovuti alla curvatura dei raggi di luce a causa della gravità di oggetti assai massicci. Oggi che l'energia oscura è dunque stato accertato, ma cosa sia resta per ora un enigma, e ce lo potranno dire solo le ricerche future.

Una gigantesca carambola fra galassie ha inoltre sconvolto l'intero universo circa tre miliardi di anni dopo il Big Bang: le prime galassie hanno cominciato a scontrarsi fra loro, dando origine ad altre galassie enormi che nel tempo sono diventate oggetti molto compatti e per tanti aspetti misteriosi. Lo ha scoperto Sune Toft, dell'Università di Copenaghen. Fin qui si pensava che il giovane universo avesse conosciuto "baby galassie" che gradualmente sono cresciute sia per la nascita di nuove stelle, sia collidendo con galassie vicine; le più grandi galassie sarebbero dunque "in costruzione" sin dalla nascita del cosmo. « Ecco perché ci ha sorpreso scoprire che già quando l'universo aveva solo tre miliardi di anni esistevano galassie molto grandi, paragonabili alle maggiori che vediamo oggi », ha dichiarato Toft. Ancora più sorprendente, per l'astrofisico, è che queste galassie oggi sono molto compatte e la loro dimensione tre volte inferiore alle galassie attuali di massa simile. Inoltre, queste galassie sono morte presto perché ad un certo punto non sono riuscite più a formare nuove stelle. « Per scoprirne il motivo », ha continuato Toft, « abbiamo studiato le galassie esistenti quando l'universo aveva un'età compresa tra 1 e 2 miliardi di anni, oggi nascoste sotto una spessa coltre di polvere, progenitrici delle galassie "defunte" che vediamo oggi ». Queste galassie erano ricche di gas e, quando si sono fuse con altre, tutto il gas è stato spinto verso il centro del sistema, dando vita a un'intensa attività di formazione stellare. La maggior parte degli astri si è formato nella zona centrale e la galassia è diventata rapidamente molto compatta. Il gas, inoltre, è stato utilizzato troppo rapidamente, con il risultato che le galassie sono morte perché non sono riuscite più a formare nuove stelle.

Non possiamo a questo punto non citare un catastrofico evento responsabile dell'interruzione della nascita delle stelle in una galassia dell'universo primordiale: lo hanno identificato i ricercatori del dipartimento di Fisica della Durham University che grazie al Near-Infrared Integral Field Spectrometer (NIFS) del Gemini Observatory hanno osservato la galassia massiccia SMM J1237+6203 come appariva appena tre miliardi di anni dopo il Big Bang, quando l'universo aveva un quarto della sua età attuale. Le caratteristiche osservate già da tempo nelle stelle massicce intorno alla Via Lattea portavano a ritenere che un evento improvviso potrebbe aver interrotto la formazione stellare nelle galassie primordiali, arrestandone l'espansione. Gli astrofisici hanno ipotizzato che ciò sia stato dovuto a un'emissione di energia in grado di disgregare le galassie e di impedire l'ulteriore formazione stellare, una serie di esplosioni miliardi di volte più potenti di qualunque bomba atomica con una frequenza e una durata inimmaginabili, avvenute ininterrottamente per milioni di anni. Esse diffusero il gas necessario per formare nuove stelle, consentendogli di sfuggire all'attrazione gravitazionale della galassia, e di fatto regolandone la crescita. Secondo gli astrofisici, l'inimmaginabile fonte di energia necessaria sarebbe derivata dalla proiezione verso l'esterno di materiali accelerati dal buco nero presente nella galassia. « In effetti, le osservazioni mostrano la galassia mentre sta "regolando" la propria crescita impedendo la nascita di nuove stelle », ha dichiarato Dave Alexander, che ha partecipato alla ricerca: « Credo che simili emissioni abbiano proiettato nello spazio i materiali necessari alla formazione stellare », di fatto preparando il terreno ideale alla nascita dei sistemi planetari come quello del nostro Sole.

Nella foto sottostante è possibile vedere un'incredibile istantanea del giovane universo quando aveva appena 379.000 anni, cioè oltre 13 miliardi di anni fa, scattata satellite Planck Surveyor dell’ESA (l'Ente Spaziale Europeo), lanciato il 14 maggio 2009, che ha misurato le anisotropie di ciò che rimane della radiazione fossile dovuta al Big Bang, ovvero la radiazione cosmica di fondo. Forse quelle che vediamo in questa strabiliante immagine sono i semi delle nostre galassie...

L'universo neonato ripreso dal satellite Planck!

Una collisione galattica nella notte dei tempi

Dieci miliardi di anni fa la nostra galassia ne ha inglobata un’altra, le cui stelle sono andate a formare una parte consistente dell’alone interno; la fusione ha inoltre compresso il disco galattico interno, facendogli assumere una conformazione molto più spessa di quella originaria. A scoprirlo è stato un gruppo di astronomi dell’Università di Groningen, nei Paesi Bassi, e dell’Université Grenoble Alpes, in Francia, guidati da Amina Helmi. La scoperta è avvenuta analizzando i dati della missione Gaia dell'ESA che, iniziata nel 2013, sta realizzando un’accurata mappa tridimensionale delle stelle della regione galattica più vicina al nostro Sole: finora ha determinato con precisione la posizione di oltre 1,7 miliardi di stelle, di 1,3 miliardi delle quali ha anche stabilito velocità e direzione di spostamento.

Ispirandosi al nome della sonda, gli astronomi hanno chiamato la galassia dell'impatto Gaia-Encelado, in onore di uno dei giganti della mitologia greca, figlio di Gaia (la Terra), e Urano (il Cielo). Secondo la leggenda Encelado fu sepolto sotto l'Etna, in Sicilia, ed è responsabile dei terremoti locali. Allo stesso modo, le stelle di Gaia-Encelado sono state profondamente sepolte nei dati di Gaia, e hanno scosso la Via Lattea, portando alla formazione del suo spesso disco. Analizzando i primi 22 mesi di osservazioni di Gaia, relativi a 7 milioni di stelle, Helmi e colleghi hanno scoperto che circa 30.000 di esse si muovevano lungo traiettorie eccezionalmente allungate e, cosa ancor più strana, in direzione opposta alla stragrande maggioranza degli altri cento miliardi di stelle della Via Lattea, Sole compreso. Non solo: la luminosità e il colore che caratterizzano quelle stelle indicano che appartengono a una popolazione distinta da quella degli astri circostanti o, come dicono gli astronomi, si collocano in una posizione nettamente diversa sul diagramma di Hertzsprung-Russell, che descrive l’evoluzione della vita delle stelle.

A questo punto i ricercatori, che in precedenza avevano studiato i modelli teorici degli effetti della fusione di due galassie, hanno sospettato che fosse questa l’origine di quelle stelle anomale, una conclusione che è stata poi confermata dai dati spettroscopici ottenuti con l’esperimento APOGEE (Apache Point Observatory Galactic Evolution Experiment) che ha permesso di stabilirne la composizione chimica. Le stelle che si formano nelle diverse galassie hanno infatti composizioni chimiche uniche che corrispondono alle condizioni della galassia d'origine e alla loro età. Secondo le simulazioni dei ricercatori, 10 miliardi di anni fa la nostra galassia avrebbe fagocitato Gaia-Encelado, che aveva dimensioni di poco superiori a quelle della Piccola Nube di Magellano, una galassia satellite della Via Lattea attuale.

All’epoca tuttavia, la Via Lattea stessa era più piccola, per cui il loro rapporto era di poco superiore a quattro a uno, e per questo la collisione ha avuto effetti notevoli sulla struttura della nostra galassia. In particolare avrebbe riscaldato la parte centrale del disco galattico, portandola da uno spessore originario di alcune centinaia di anni luce, simile a quello che si osserva oggi in prossimità dei bracci di spirale, a uno spessore di diverse migliaia di anni luce.

I grani presolari

Philipp R. Heck, del Field Museum di Chicago, ha avanzato l'ipotesi che, miliardi di anni prima della formazione del nostro sistema solare, le stelle nascessero a un ritmo accelerato. Le prove di questo boom demografico stellare sono state scoperte nel cuore del meteorite Murchison, caduto in Australia il 28 settembre 1969 vicino al villaggio dello Stato di Victoria da cui ha preso il nome. Oltre a contenere almeno cento amminoacidi, tale meteorite si è rivelato uno scrigno di grani presolari, rari e minuscoli frammenti di polvere di stelle più antichi del Sole presenti solo nel cinque per cento dei meteoriti caduti sulla Terra.

Come gli esseri viventi, anche le stelle hanno un ciclo vitale. Nascono dagli ammassi fluttuanti di gas e polveri delle nebulose, bruciano per miliardi di anni e infine muoiono, lanciando nello spazio le polveri che andranno a formare nuove stelle, pianeti, lune e meteoriti come il Murchison. Una volta isolati, i grani presolari hanno rivelato la loro età e il tipo di stelle da cui provengono. Gli elementi che contengono sono il risultato dell'esposizione ai raggi cosmici, particelle ad alta energia che penetrano nella materia solida, modificandola. Maggiore e 1'esposizione, più elementi si formano.

I risultati dell'analisi, pubblicati nel 2020, indicano che la maggior parte dei grani ha un'età compresa tra i 4,9 e i 4,6 miliardi di anni. Alcuni superano i 5,5 miliardi di anni (uno in più della Terra!) e sono quindi il materiale solido più antico mai scoperto! Ma i grani presolari forniscono molte altre informazioni: possono fluttuare a lungo nello spazio in grandi ammassi, e la loro abbondanza nel Murchison suggerisce che circa sette miliardi di anni fa ci fu un periodo di intensa formazione stellare. Va quindi rivista l'ipotesi, fino ad ora prevalente, di un tasso costante di nascita di nuove stelle nelle nebulose della nostra galassia, anche se i motivi di questo boom demografico ci sono ancora oscuri.

Lo sviluppo del sistema solare

Il cosmo aveva cominciato ad assumere l'aspetto con il quale oggi lo conosciamo, e tutto era pronto per la nascita del Sistema Solare. La sua origine, anche se i pareri sono discordi, andrebbe collocata tra i 5 e 4,5 miliardi di anni fa; dunque quando l'Anno della Terra non era ancora cominciato.

Il Sole, con tutti i corpi che gli ruotano attorno, costituisce un sistema di cui solo da pochi anni conosciamo altri esempi, ma nessuno di questi si trova alla portata della nostra osservazione diretta. Per questo motivo il problema sulla sua origine, l'evoluzione fino allo stato attuale e la previsione del suo futuro lontano è più complesso e più difficile di quello dell'evoluzione di una stella, in quanto è invece possibile osservare nella Galassia stelle in stadi evolutivi diversi da cui si sono formulate teorie basate su dati sperimentali.

Una teoria universalmente accettata da tutti gli studiosi per l'origine del Sistema Solare, purtroppo, oggigiorno non esiste ancora. Molti aspetti delle teorie più diffuse sono ancora in una fase di congettura, e devono ancora essere dimostrate sperimentalmente. Tuttavia la regolarità con cui molte caratteristiche si ripetono nel sistema solare, come il fatto che le orbite planetarie giacciono tutte sullo stesso piano, oppure il fatto che, escludendo Venere ed Urano, tutti i pianeti hanno un moto di rotazione e rivoluzione nello stesso senso, hanno fatto ritenere già fin dal 1700 che tutti i corpi abbiano avuto la stessa origine. Ed ecco alcune delle ipotesi al riguardo.

1)  Teoria mareale

Nel 1745 Georges Louis Leclerc, conte di Buffon (1707-1788), elaborò una teoria secondo la quale i pianeti si sarebbero formati dopo il passaggio di un corpo di grande massa che, transitando nei pressi del Sole, gli avrebbe strappato della massa, poi raccoltasi in una specie di filamento a forma di sigaro; spezzatosi in vari frammenti poi condensatisi, esso avrebbe dato vita ai pianeti ed ai satelliti.

2)  Teorie catastrofiche

In alternativa alla teoria nebulare, nel XIX secolo vennero elaborate le cosiddette teorie catastrofiche, secondo le quali il sistema solare si sarebbe formato successivamente all'origine del Sole dalla materia che quest'ultimo avrebbe espulso a seguito dell'impatto con una cometa o addirittura con un'altra stella (altro che Armageddon!)

Le teorie mareali e catastrofiche, tuttavia, non erano in grado di spiegare molte caratteristiche del sistema solare, ed erano legate all'aleatorietà di eventi disastrosi su larga scala, che oggi sappiamo essere rarissimi. L'idea che il cosmo evolva lentamente e senza grandi sbalzi diede invece vita alla:

3)  Teoria nebulare o di Kant-Laplace

L'ipotesi che tutto abbia avuto origine da una materia primordiale concentrata in una nebulosa di gas e polveri fu formulata per la prima volta da Cartesio (1596-1650) nel 1644, ma le prime teorie scientifiche che andavano in questo senso furono elaborate nel 1755 dal filosofo tedesco Immanuel Kant (1724-1804). Secondo la teoria nebulare di Kant, il Sole ed il sistema solare si sarebbero formati a seguito della condensazione di una grande nube di gas in rotazione.

Nel 1797, indipendentemente dall'opera di Kant, Pierre Simon marchese di Laplace (1749-1827) spiegò l'origine del sistema solare ipotizzando che da una primitiva nebulosa dotata di un moto di rotazione si sarebbero staccati, per contrazione e raffreddamento, gli anelli esterni i quali successivamente avrebbero dato origine ai protopianeti; aggregandosi sotto l'effetto della gravità, essi avrebbero originato i pianeti. Allo stesso modo si sarebbero formati i satelliti, la cui origine sarebbe derivata dagli anelli staccatisi dalla superficie dei pianeti, o da protopianeti "sopravvissuti" (qualcuno dice che questa è anche l'origine della nostra Luna).

Mediante la teoria nebulare di Kant-Laplace si può spiegare anche l'esistenza della fascia di Kuiper (Kuiper belt). Ad una distanza di 10.000 unità astronomiche dal Sole (cioè ad una distanza 10.000 volte maggiore di quella tra il Sole e la Terra) si è formata infatti una nube costituita da corpi che non superano i 10 chilometri di diametro, formati per lo più da ghiaccio, neve e polveri, che saltuariamente attraversano il sistema solare dando vita all'apparizione delle comete. Sono questi i KBO o Kuiper Belt Objects (Oggetti della fascia di Kuiper), dal nome del loro scopritore Gerard Peter Kuiper (1905-1973): qualcuno li chiama "plutini" per via della loro lontananza dal Sole. I pianeti nani Plutone ed Eris sarebbero i più grandi tra questi oggetti, che si sarebbero formati con i resti della nebulosa dalla quale ebbe origine il sistema solare.

L'accettazione di una teoria o dell'altra prevede diversi modelli di universo. Secondo la teoria nebulare, infatti, la formazione di un sistema solare è la naturale conseguenza della formazione delle stelle, e quindi i sistemi solari sarebbero diffusi ovunque, non solo nella nostra Galassia, ma in tutto l'Universo. L'incontro di due stelle è invece un evento raro ed occasionale, e la formazione di un sistema solare sarebbe raro se non addirittura unico nell'Universo. Le recenti osservazioni di sistemi solari in orbita attorno alle stelle vicine danno ragione alla teoria di Kant-Laplace, e questo modifica la nostra posizione nel cosmo. Noi infatti non esistiamo su di un pianeta nato in seguito ad un evento straordinario, ma su di un corpo come ce ne sarebbero moltissimi altri nell'infinità dei cieli; non solo non siamo dei privilegiati, dunque, ma potremmo anche non essere neppure soli. Questo però è un discorso che esula dalle ambizioni di questo ipertesto.

 

Formazione del Sistema Solare, disegno dell'autore

Formazione del Sistema Solare secondo la teoria nebulare, disegno dell'autore

 

I protopianeti

Ed ecco come gli astronomi moderni ritengono che siano andate le cose. La formazione del sistema solare sarebbe avvenuta per la condensazione, in un angolo remoto della nostra Galassia, di una nube composta in massima parte da idrogeno ed elio, ed in minima parte da grani solidi, ghiaccio, grafite, silicati e ferro. Su pensa che questa materia abbia avuto origine da una "stella madre" di grandi dimensioni, nata qualche decina di milioni di anni prima di lui e morta dopo una vita relativamente breve, esplodendo in Supernova. Essa avrebbe seminato nello spazio elementi pesanti e radioattivi, alcuni dei quali sarebbero poi entrati a far parte del Sole e dei pianeti del Sistema Solare. Nel 2012 questa stella perduta è stata battezzata Coatlicue ("Veste di serpenti"), il nome della dea azteca che sarebbe stata la madre del Sole.

A causa della sua rotazione, la nube primordiale collassò con la conseguente formazione di un corpo centrale più denso circondato da gas la cui massa era circa 1/10 della massa totale. Con il collasso si formarono nuovi vortici che frantumarono la nube in più parti dotate di un proprio movimento di rotazione.

Uno di questi frammenti in rotazione, divenne il nucleo del nostro sistema solare che, per effetto della rotazione, iniziò ad appiattirsi, assumendo la forma di un disco.

A distanze crescenti da quest'embrione di stella, intanto, gli urti fra le particelle in caduta avevano prodotto degli addensamenti locali che agivano anch'essi da centri di attrazione per la materia circostante: sono i protopianeti, abbozzi informi dei pianeti.

Le condizioni fisiche della nube primordiale erano molto diverse procedendo dal nucleo verso l'esterno. Al centro vi erano le temperature e le pressioni più elevate e, richiamate dalla maggior forza di gravità, le particelle più grandi e pesanti. Verso la periferia, forza di gravità e temperatura decrescevano, il gas era più rarefatto, i grani solidi più piccoli e leggeri.

Il centro del disco divenne il punto di attrazione di particelle solide e gassose che provocarono il continuo aumento della temperatura e della pressione ed diedero origine al Sole. Nel centro di questa nube primordiale si accumulò infatti una quantità di materia densa e calda che ben presto superò i parametri critici per l'avvio della reazione nucleare di fusione dell'idrogeno in elio. I corpi che raggiungevano una certa massa iniziavano intanto ad attrarre i gas e le polveri contenute nella zona gassosa, accrescendosi sino allo stato attuale. La radiazione prodotta dal Sole nascente, a seguito dell'alta temperatura sviluppatasi per la contrazione gravitazionale, arrestò il processo di accrescimento dei pianeti eliminando il gas della nube residua.

Le alte temperature raggiunte nella zona gassosa più prossima al Sole sono state la causa della dispersione degli elementi più leggeri e volatili, come l'idrogeno e l'elio. Si poterono formare quindi protopianeti di massa minore e formati essenzialmente da elementi pesanti, come il ferro, caratterizzati da una massa minore ma con con maggiore densità. Ebbero così origine due famiglie nettamente distinte di pianeti.

a) pianeti terrestri. In ordine di distanza dal Sole, i primi quattro (Mercurio, Venere, Terra e Marte), privati degli elementi più volatili dalla radiazione solare, sono costituiti d'ammassi solidi ad alta intensità (4-5 grammi a centimetro cubo) e piccole dimensioni molto simili (raggi compresi tra 2500 e 6000 chilometri)

b) pianeti gioviani. I successivi quattro pianeti (Giove, Saturno, Urano e Nettuno), hanno potuto accrescersi utilizzando, oltre alle particelle solide più pesanti, abbondanti quantità di gas e ghiaccio per cui sono caratterizzati da bassa densità media e da grandi dimensioni. Per le loro caratteristiche sono detti giganti gassosi o di tipo gioviano. Hanno raggi che vanno dai 26.000 chilometri di Urano e Nettuno ai 60.000  di Saturno ed agli oltre 70.000 di Giove. Sono in gran parte fluidi, con densità nettamente minori di quelle dei pianeti terrestri. Tutti i pianeti gassosi sono circondati da anelli; solo quelli di Saturno, però, sono così splendenti da essere visibili chiaramente anche dalla Terra. Essi, infatti, sono quasi completamente costituiti da cristalli di ghiaccio d'acqua o ne sono ricoperti, per cui, la luce del Sole è in gran parte riflessa tanto da renderli visibili, nonostante il loro spessore non superi il chilometro.

L'infanzia del Sole

Per fare luce su un periodo della storia del sistema solare finora rimasto oscuro, l’infanzia del Sole, un periodo collocato circa 4,6 miliardi di anni fa e durato circa 50 milioni di anni, è possibile usare dei piccoli cristalli di colore blu, mescolati con altri materiali in molti meteoriti. Il  ruolo cruciale della hibonite, il minerale che li costituisce, è stato documentato nel 2018 da Levke Kööp dell’Università di Chicago e colleghi, grazie all’analisi di meteoriti conservati al Field Museum of Natural History della stessa città. Quando il disco protoplanetario iniziò a raffreddarsi, infatti, si formarono i primi minerali, come la hibonite. In quel periodo il Sole era molto attivo: generava molte più eruzioni di quante se ne osservino oggi, e proiettava nello spazio un’enorme quantità di particelle cariche; alcune di queste particelle arrivarono a collidere proprio con i cristalli di hibonite, che contengono elementi come calcio e alluminio. In particolari condizioni, questi atomi subirono una fissione per effetto degli urti, producendo atomi più piccoli come elio e neon, poi rimasti intrappolati nei cristalli di hibonite per miliardi di anni.

Quasi nulla del sistema solare è vecchio a sufficienza da confermare questa attività primordiale del Sole; tra le poche eccezioni, i minerali scoperti nelle collezioni del Field Museum di Chicago, probabilmente tra i primi a essersi formati nel nostro sistema planetario. In passato però la ricerca di elio e neon nei cristalli era stata vana, per la mancanza di strumenti adatti. Il problema è stato ora superato da Kööp e colleghi grazie a uno spettrometro estremamente sensibile del Politecnico di Zurigo, in Svizzera: grazie a un laser, gli autori hanno fuso un minuscolo granello di hibonite estratto da un meteorite, ottenendo il rilascio dell’elio e del neon intrappolati, che sono così stati rilevati. Oltre alla prova definitiva del fatto che i meteoriti furono irradiati in modo diretto, i nuovi risultati indicano che i materiali più antichi del sistema solare sperimentarono una fase di irradiazione che i materiali più recenti hanno evitato. Dopo la formazione dell’hibonite, forse l’attività del Sole diminuì, o forse i materiali di formazione successiva non erano in grado di arrivare nelle regioni del disco in cui era possibile l’irradiazione.

E non è tutto. Minuscole variazioni nella composizione isotopica dell'argento nei meteoriti e nelle rocce terrestri hanno permesso a Richard Carlson, del Dipartimento di magnetismo terrestre della Carnegie Institution for Science di Washington, di elaborare la sequenza temporale di come il nostro pianeta si formò esattamente 4,568 miliardi di anni fa. Il nuovo studio, pubblicato sulla rivista Science, indicherebbe che l'acqua e altre sostanze volatili cruciali possono essere state presenti in almeno alcuni dei "mattoni elementari" del nostro pianeta, anziché essere arrivate successivamente con le comete. Infatti, in confronto al resto del sistema solare, la Terra è povera di elementi volatili come idrogeno, carbonio e azoto, che sono concentrati con maggiore probabilità nella parte più interna e ad alta temperatura del sistema solare. Il nostro pianeta è povero anche di elementi moderatamente volatili, come l'argento. « Il grande interrogativo sulla formazione della Terra è quando sia avvenuto questo impoverimento », ha spiegato Carlson. L'argento ha due isotopi stabili, uno dei quali, l'argento 107, fu prodotto nel sistema solare primordiale dal rapido decadimento del palladio 107. Quest'ultimo è così instabile che è praticamente decaduto tutto entro i primi 30 milioni di anni della storia del sistema solare. Ora, argento e palladio differiscono nelle loro proprietà chimiche: l'argento è più volatile, mentre il palladio si lega al ferro con maggiore probabilità. Queste differenze hanno permesso al ricercatore della Carnegie Institution di usare i rapporti isotopici nei meteoriti e nelle rocce del mantello terrestre per determinare la storia degli elementi volatili del nostro pianeta in rapporto alla formazione del suo nucleo ferroso. Gli isotopi dell'afnio e del tungsteno secondo Carlson indicano che il nucleo si è formato tra 30 e 100 milioni di anni dopo l'origine del sistema solare, mentre gli isotopi dell'argento suggeriscono che il nucleo della Terra ha avuto origine tra 5 e 10 milioni di anni dopo la nascita del sistema solare.

Queste osservazioni contraddittorie possono essere conciliate solo ipotizzando che il processo di accrezione della Terra sia cominciato con materiali privi di elementi volatili, fino a raggiungere l'85 % della sua massa finale; essi sono poi stati acquisiti nei successivi stadi di formazione, circa 26 milioni di anni dopo l'origine del sistema solare, probabilmente nel corso di un unico evento, forse la gigantesca collisione tra la proto-Terra e un oggetto delle dimensioni di Marte che, come diremo sotto, potrebbe aver originato la Luna. Questo modello è stato battezzato "accrezione eterogenea", perché i componenti elementari della Terra cambiarono di composizione via via che il pianeta si formava.

I diamanti del protopianeta perduto

Come ha dimostrato un gruppo di ricercatori dell’Ecole Polytechnique Fédérale di Losanna, le inclusioni di una serie di piccoli diamanti osservate in un meteorite scoperto in Sudan mostrano che esso proviene dai resti di un protopianeta distrutto all’epoca della formazione del sistema solare. Farhang Nabiei, Philippe Gillet e colleghi hanno studiato un meteorite caduto nel 2008 nel deserto di Nubia, noto come meteorite di Almahata Sitta o 2008 TC3. Analisi precedenti avevano mostrato che si trattava di un urelite, un raro tipo di meteorite formato principalmente dai minerali olivina e pirosseni ma ricco anche di grafite e disseminato di microdiamanti. Già da tempo i planetologi sospettavano che questo tipo di meteorite potesse avere un’origine protoplanetaria; tuttavia, nessuna delle ureliti analizzate aveva portato la prova di una origine simile.

Nabiei, Gillet e colleghi hanno analizzato le piccole inclusioni cristalline presenti nei diamanti di 2008 TC3 osservandole con un microscopio elettronico a trasmissione. La struttura caratteristica di quei cristalli ha suggerito che potevano essersi formati solo a pressioni superiori ai 20 gigapascal, valori di pressione che possono essere raggiunti solo all’interno di un grande corpo planetario. E questo vale anche per i diamanti in cui si trovano le inclusioni. I ricercatori hanno calcolato che se la formazione dei diamanti è avvenuta al confine fra il nucleo e la parte più esterna del protopianeta (un caso limite), la dimensione minima di questo mondo del remoto passato del sistema solare doveva essere circa quella di Mercurio; nel caso, più probabile, che o diamanti si siano formati all’interno del mantello, ossia in una parte più superficiale del protopianeta, esso avrebbe dovuto avere dimensioni maggiori, paragonabili anche a quelle di Marte.

A proposito di diamanti, nugoli di nanodiamanti che si muovono vorticosamente nei dischi protoplanetari produrrebbero una particolare luce a microonde da alcune regioni della nostra galassia. Questa emissione, nota come emissione anomala a microonde (AME), è stata individuata per la prima volta alla fine del XX secolo, e alcune sue caratteristiche avevano portato a concludere che era prodotta da nanoparticelle in rapido movimento; tuttavia non era stato possibile stabilire di che tipo di particelle si trattasse. L’ipotesi considerata più plausibile era che si trattasse di aggregati di idrocarburi policiclici aromatici (IPA), molecole a base di carbonio presenti nello spazio interstellare e caratterizzate dalla particolare debole luce infrarossa che emettono. Ora, osservando i dischi protoplanetari attorno a tre stelle giovani (V892 Tau, HD 97048 e MWC 297), gli autori hanno rilevato nella radiazione proveniente da esse sia la firma della debole radiazione infrarossa sia quella della luce AME. Poiché molti altri dischi protoplanetari emettono la radiazione infrarossa tipica degli IPA, ma non la luce AME, quest’ultima non può essere generata dagli IPA. Approfondendo l’analisi delle osservazioni effettuate con il Green Bank Telescope in West Virginia e con l’Australia Telescope Compact Array, i ricercatori hanno trovato indizi della massiccia presenza di nanodiamanti nei tre dischi protoplanetari; questi diamanti nanoscopici possono formarsi dal vapore surriscaldato di atomi di carbonio nelle regioni vicine a stelle molto energetiche, e di loro c’è traccia anche in molti meteoriti arrivati sul nostro pianeta. La struttura dei nanodiamanti che si formano nello spazio è particolare: gli atomi da cui sono composti possono emettere radiazioni elettromagnetiche quando sono in rotazione. Studiando il tipo di radiazione emessa, gli autori hanno trovato che corrisponde alla firma della luce AME. La scoperta potrebbe avere implicazioni per la cosmologia, in particolare per testare la cosiddetta teoria dell’inflazione, secondo cui subito dopo il Big Bang l’universo avrebbe sperimentato un periodo di espansione estremamente rapida. Gli effetti di questo fenomeno dovrebbero essere rilevabili in un particolare tipo di polarizzazione del fondo a microonde del cosmo, la radiazione fossile del Big Bang. Finora questa polarizzazione non è stata rilevata con sicurezza, ma i risultati del nuovo studio suggeriscono che potrebbe essere trovata grazie a uno studio più approfondito dei nanodiamanti spaziali.

Interazioni tra antichi mondi

Incredibilmente, informazioni sull'inizio della storia del nostro Sistema Solare possono essere raccolti osservando... altri sistemi planetari, che vengono scoperti ormai con frequenza sempre maggiore. Infatti il sistema planetario Kepler-223 è formato da quattro pianeti più grandi della Terra, ciascuno dei quali probabilmente è costituito da un nucleo solido circondato da un involucro di gas, e orbita attorno alla stella centrale con un periodo variabile tra 7 e 19 giorni. Si tratta probabilmente del tipo di pianeta extra-solare più comune nella galassia. Secondo Sean Mills e colleghi dell'Università di Chicago, queste caratteristiche rendono Kepler-223 molto diverso dal sistema solare come lo conosciamo oggi, ma simile a com'era nella sua fase primordiale. Poco dopo la formazione del sistema solare, infatti, i pianeti orbitavano molto più vicini al Sole. Solo successivamente migrarono verso l'esterno per assumere la configurazione attuale.

Gli studiosi sono giunti a questa conclusione analizzando i dati registrati dal telescopio spaziale Kepler della NASA. Da questi dati è stato possibile capire in che modo i quattro pianeti del sistema Kepler-223 fanno variare, con il loro transito, la luminosità della stella centrale e come influiscono reciprocamente sulle loro orbite. Inoltre, gli scienziati hanno ricavato dimensioni e masse dei pianeti e, grazie a una simulazione al computer, anche la struttura complessiva delle orbite risultata molto simile a quella originaria del sistema solare. Secondo lo studio, le orbite dei pianeti sono in risonanza: ciò significa che i periodi di coppie di pianeti sono tra loro in rapporto come numeri interi. I due pianeti più interni, nello specifico, sono in risonanza 4 a 3; il secondo e il terzo in risonanza 3 a 2; il terzo e il quarto in risonanza 4 a 3.

La risonanza orbitale, già osservata in altri sistemi extrasolari e anche per Nettuno e Plutone, è un fattore di stabilità per le orbite, perché permette un equilibrio delle forze gravitazionali che agiscono tra le coppie stesse di pianeti. In questo caso si tratta di un fenomeno portato all'estremo, perché è la prima volta che viene osservato per ben quattro pianeti. La stabilità però può venir meno se qualche fattore esterno, come l'impatto con asteroidi o piccoli pianeti, perturba la risonanza. I pianeti così possono migrare su orbite più esterne, dove trovano un'altra stabilità: il fenomeno è avvenuto probabilmente per i quattro giganti gassosi del sistema solare. Secondo i modelli, Giove, Saturno, Urano e Nettuno si trovavano originariamente su orbite molto più interne rispetto a quelle attuali.

A questo proposito vale la pena di citare un'altra teoria, che vedrebbe Mercurio e Marte... separati alla nascita. Questa la conclusione a cui è giunta la simulazione di Brad Hansen della California University di Los Angeles presentata nel gennaio 2009 al meeting di Long Beach (California) dell'American Astronomical Society. Il tutto parte da un esame della fotografia dei quattro pianeti in fila, Mercurio, Venere, Terra e Marte, come ruotano intorno al Sole. Tutti i corpi planetari si formano da un anello di materia distribuito intorno alla stella. « La simulazione realizzata », ha spiegato Hansen, « dimostra che due pianeti maggiori di un anello di materia più vicino all'astro si sono formati agli estremi, cioè l'uno nel bordo interno e l'altro nel bordo esterno ». Questi sarebbero rappresentati da Venere e la Terra. Di mezzo c'era però altro materiale dal quale presero forma Mercurio e Marte, entrambi poi scacciati all'esterno dal gioco delle forze gravitazionali dei due corpi maggiori. E lì sono rimasti dove noi li vediamo. Gli altri pianeti maggiori, da Giove in poi, sarebbero scaturiti da un anello più esterno.

Una ricerca dell'Università di Copenaghen pubblicata nel 2020 suggerisce poi che la Terra si sia formata più rapidamente del previsto: il suo embrione si sarebbe sviluppato in soli 5 milioni di anni all'interno della nube di gas e polveri che circondava il Sole. La teoria finora accreditata prevedeva che la Terra si sarebbe formata nell'arco di decine di milioni di anni per effetto un processo di accrescimento; secondo il coordinatore della ricerca, Martin Schiller, il risultato indicherebbe che la formazione dei pianeti è più frequente del previsto. Per questo sarebbe interessante valutare se processi analoghi avvengano attorno ad altre stelle della Via Lattea.  A sostenere la nuova ipotesi sono le misura relative a diversi tipi di meteoriti. In particolare sono stati studiati gli isotopi di ferro, ossia atomi dello stesso elemento con una diversa massa. È emerso così che un solo tipo di meteorite ha una composizione simile a quella della Terra: sono i cosiddetti condriti CI. Questi piccoli corpi celesti molto primitivi sarebbero i testimoni più antichi dell'ambiente in cui era immerso il Sole quando era ancora giovanissimo. Le analogie riscontrate nei dati relativi alla composizione della Terra portano a ipotizzare che anche l'embrione del nostro pianeta sia nato nello stesso periodo. Comprendere come si sono formati i pianeti del Sistema Solare permette anche di capire con quale frequenza si accumuli l'acqua, ha dichiarato il coautore della ricerca, Martin Bizzarro. Considerando infine che le condriti contengono acqua al loro interno, diventerebbe più probabile trovarla altrove nell'universo.

Infine, un'ipotesi avanzata nel 2012 da Diego Turrini e Gianfranco Magni riprendendo una precedente idea di Angioletta Coradini, recentemente scomparsa. Secondo loro, se non ci fosse Giove, forse non ci sarebbe neppure la Terra. Infatti, prima che Giove si formasse, il disco di gas e polveri che orbitava attorno al giovane Sole era composto principalmente da asteroidi di piccola taglia. La nascita di Giove destabilizzò la nebulosa, introducendo forti perturbazioni capaci di disperdere gli oggetti vicini, dei quali una parte finì nel sistema solare interno. Le comete cominciarono a popolare zone più vicine al Sole, fornendo ingredienti fondamentali come l'acqua ed altri elementi volatili, indispensabili per formare pianeti dotati di atmosfera, Terra compresa. Alla nascita di Giove poi seguì il primo violento bombardamento meteoritico dei giovani pianeti (chiamato JEB, "Jovian Early Bombardment"), che impedì la formazione di un vero pianeta nella fascia degli asteroidi e modellò l'aspetto dei pianeti di tipo terrestre. E non basta: uno studio del 2015 di Konstantin Batygin e colleghi dell’Università della California a Santa Cruz ha rivelato che, nei primi 10 milioni di anni circa della sua esistenza, Giove si spostò verso il Sole, per poi invertire il suo moto quando Saturno divenne abbastanza massiccio da richiamarlo verso l’esterno, portandolo sulla posizione attuale. Nella nostra galassia, i sistemi noti con più di un pianeta sono circa 500: il tipo più diffuso è costituito da pochi pianeti ma molto più massicci della Terra, le cosiddette "Superterre", le cui orbite sono molto più vicine alla loro stella di quella di Mercurio rispetto al Sole. Anche i pianeti giganti osservati in altri sistemi tendono a essere più vicini alla loro stella di quanto lo siano Giove e Saturno al Sole. È probabile quindi che ai primordi del sistema solare, dal denso disco di gas e polvere originario vicino al Sole si siano formati pianeti rocciosi che sarebbero diventati "Superterre” se non fosse stato per la migrazione di Giove. Secondo le simulazioni di Batygin e colleghi, le perturbazioni gravitazionali del pianeta gigante avrebbero spazzato via pianeti interni, protopianeti e asteroidi. Solo la formazione di Saturno, riportando Giove su orbite più esterne, permise poi la formazione dei pianeti interni attuali: Mercurio, Venere, Terra e Marte. Una delle previsioni più interessanti del modello è che i pianeti simili alla Terra, con una superficie solida e una pressione atmosferica relativamente bassa, sono rari. È proprio il caso di dire: grazie, Giove!

Le sorelle perdute del Sole

E ora, un accenno a un'ipotesi rivoluzionaria proposta in tempi recenti. La notte è buia perché, parlando in termini cosmici, il Sole e la sua famiglia di pianeti sono molto solitari. Le stelle vicine sono tanto distanti da apparirci come minuscoli puntini luminosi, e quelle più lontane appaiono confuse in una debole luminescenza. Anche le sonde spaziali più veloci impiegherebbero decine di migliaia di anni per coprire la distanza che ci separa dalla stella più prossima: come ha detto uno scienziato, lo spazio ci isola così come un oceano che circonda un atollo.

L'ammasso delle Pleiadi, posto a circa 425 anni luce dalla Terra nella costellazione del ToroMa non tutte le stelle sono così isolate. Circa una su dieci fa parte di un ammasso, ovvero di un raggruppamento di centinaia o migliaia di stelle del diametro di alcuni anni luce. La grande maggioranza delle stelle nasce in aggregati di questo tipo, che però nel passare dei miliardi di anni si disperdono, mescolando le proprie componenti nell'immensità della galassia.

Orbene, è possibile che anche il nostro Sole abbia avuto origine in un ammasso stellare? Se questo fosse vero, la nostra posizione nella galassia non sarebbe sempre stata cosi desolata; lo sarebbe diventata solo a causa della graduale dispersione nel tempo dell'ammasso originario. Un insieme sempre più massiccio di dati suggerisce proprio questo: un tempo il Sole era ritenuto un figlio unico, ma oggi molti astronomi sono convinti che appartenesse invece ad una famiglia assai numerosa, formata da migliaia di sorelle nate tutte più o meno nello stesso momento. Se fossimo vissuti ai primordi del sistema solare, lo spazio circostante la Terra bambina ci sarebbe apparso tutt'altro che vuoto: il cielo notturno sarebbe stato pieno di stelle brillanti, molte con una luminosità almeno paragonabile a quella della Luna piena, tanto da permetterci di leggere. Alcune di esse dovevano essere addirittura visibili anche di giorno!

Raccogliendo tutti i dati disponibili, Simon F. Portegies Zwart, professore di astrofisica computazionale presso l'osservatorio dell'Università di Leida, nei Paesi Bassi, ha cercato di ricostruire quale fosse la configurazione dell'ammasso in cui probabilmente nacque il Sole, che si è ormai dissolto da lungo tempo. Gli indizi più convincenti dell'esistenza di "sorelle" del Sole sono stati scoperti nel 2003, quando Shogo Tachibana dell'Università di Tokyo e Gary R. Huss dell'Università delle Hawaii a Manoa hanno analizzato due meteoriti antichissimi, ritenuti testimonianze quasi inalterate dell'epoca in cui si formò il Sistema Solare. I due scienziato hanno rilevato la presenza in essi di nichel 60, un prodotto del decadimento radioattivo del ferro 60, in composti che normalmente dovrebbero contenere ferro. Sembra quindi che nei meteoriti sia avvenuta una serie di trasformazioni in cui il ferro originariamente presente nei composti fu sostituito dal nichel. Il ferro 60 deve essere stato sintetizzato, portato nel sistema solare e incorporato nei meteoriti nel corso di un intervallo di tempo inferiore al suo periodo di dimezzamento, pari a 2,6 milioni di anni: un batter d'occhio, in termini cosmici. Quindi la sorgente del ferro doveva essere molto vicina: la candidata più probabile e un'esplosione di una supernova distante meno di 5 anni luce quando il Sole aveva un'età di appena 1,8 milioni di anni. Se a quell'epoca il Sole fosse stato isolato come lo è oggi, la coincidenza sarebbe davvero sorprendente: secondo voi è credibile che una stella massiccia sia esplosa proprio mentre passava nei pressi del Sole? Non sono mai avvenute altre esplosioni di supernova a distanza tanto ravvicinata, altrimenti la vita sulla Terra sarebbe stata annientata. Una spiegazione molto più plausibile e che il Sole neonato e la stella esplosa facessero parte entrambe di un ammasso: in una situazione in cui le stelle nascenti sono densamente raggruppate, una supernova vicina appare un evento meno improbabile.

Altre prove fanno pensare che il Sole sia nato in un ammasso. L'abbondanza di elementi pesanti nel Sole e più elevate di quarto indicherebbe la sua posizione nella galassia; questo dato fa pensare a un arricchimento provocato dai resti di una supernova vicina. Inoltre Urano e Nettuno sono molto più piccoli di Giove e Saturno. Una possibile spiegazione di questo fatto è che la radiazione di una stella vicina abbia vaporizzato i loro strati esterni, mentre i pianeti più vicini al Sole avrebbero evitato questa sorte perché erano più riparati dal gas interplanetario residuo.

« Le stelle di un ammasso attraversano un ampio intervallo di masse », ha dichiarato Zwart: « quelle pesantissime sono poche, mentre quelle leggere sono più numerose. Per ogni incremento di massa di un fattore 10, l'abbondanza delle stelle si riduce circa di un fattore 20. Quindi, per ogni stella di 15-25 masse solari - la taglia di quella che si ritiene sia esplosa vicino al giovane Sole - un ammasso ne contiene circa 1500 più piccole. Questo numero indica la massa minima dell'ammasso in cui e nato il nostro astro diurno. Le mie simulazioni indicano che probabilmente l'ammasso conteneva poco meno di 3500 stelle. Una stella di 15-25 masse solari vive tra 6 e 12 milioni di anni prima di esplodere come supernova. Dunque, tra la formazione di questa stella e la nascita del Sole deve essere trascorso lo stesso intervallo di tempo. A partire da questi dati, ho stimato le dimensioni dell'ammasso, che doveva avere un diametro inferiore a 10 anni luce. » Le stelle dovevano essere dunque davvero vicinissime le une alle altre! Altro che romantico e oscuro cielo notturno!

C'è però un'obiezione importante a questa teoria. Secondo molti astrofisici, prima che l'ammasso si disperdesse le stelle erano tanto vicine tra loro che una di esse avrebbe potuto facilmente attraversare il sistema solare. Un incontro ravvicinato del genere avrebbe sconvolto le orbite di pianeti, comete e asteroidi, che, da circolari e complanari, sarebbero diventate fortemente ellittiche e inclinate. Una possibile contro-obiezione è la seguente: alcune comete distanti più di 50 Unità Astronomiche dal Sole, poste quindi l'orbita di Plutone, hanno orbite motto allungate. La dinamica interna del sistema solare non sembra in grado di giustificare queste orbite peculiari, dato che questi corpi sono al di fuori anche dall'influenza gravitazionale di Giove. La spiegazione più probabile è che siano stati perturbati da una stella "sorella" del Sole transitata a circa 1000 Unità Astronomiche. I pianeti, viceversa, hanno orbite molto regolari, e questo indica che nessun "visitatore stellare" è mai passato a meno di 100 Unità Astronomiche dal Sole.

Nane brune intorno a noi

Bisogna aggiungere un'altra importantissima scoperta: nelle vicinanze del nostro Sole, fra i 27 e i 30 anni luce, c’è una ricca popolazione di nane brune, freddi corpi celesti di massa superiore a quella dei pianeti ma inferiore a quella necessaria a innescare e sostenere le reazioni nucleari e diventare stelle. Erano passate inosservate fino a poco tempo fa proprio a causa della debole emissione di radiazioni: la loro temperatura superficiale non supera i 2700 K, rendendole molto difficili da rilevare, a meno che non facciano parte di un sistema binario. Delle 95 nane brune identificate e confermate nello studio, ben quattro appartengono alla cosiddetta classe Y, che raggruppa le stelle con una temperatura superficiale che non supera i 300 K, ossia i 27 °C. Si tratta cioè di corpi celesti con una temperatura paragonabile a quella del nostro pianeta! Questa collezione di nane brune fredde ci permette di stimare con precisione il numero di mondi fluttuanti che vagano liberamente nello spazio interstellare vicino al Sole. Mappare le nane brune più fredde, quelle con masse più piccole, ci dà inoltre indizi importanti sul processo di formazione delle stelle di massa piccola, e una lista di obiettivi per studi dettagliati delle atmosfere dei corpi come Giove.

La scoperta di questo ampio gruppo di "stelle mancate" è frutto di una certosina analisi dei dati d'archivio del telescopio Mayall a Kitt Peak, in Arizona, e del telescopio Blanco a Cerro Tololo, in Cile. Questa analisi è stata realizzata nel quadro del progetto Backyard World Planet 9, una collaborazione organizzata dalla National Science Foundation che permette anche agli astronomi amatoriali di accedere a una massa di dati. I ricercatori sottolineano che la collaborazione di questi volontari, che complessivamente hanno ispezionato trilioni di pixel di immagini telescopiche per identificare sottili movimenti di possibili nane brune, è stata essenziale, dato che si tratta di un lavoro che attualmente sfugge anche alle possibilità di analisi dei microcomputer e dei sistemi di apprendimento automatico. I corpi celesti indicati come candidati a nane brune sono stati poi osservati con la Infrared Array Camera del telescopio spaziale Spitzer, che ne ha confermato l'esistenza e ha stabilito la loro esatta temperatura superficiale.

E non è tutto: secondo Hal Levison e David Kaufmann del Southwest Research Institute (SwRI) di Boulder, in Colorado, insieme con i colleghi Martin Duncan della Queen's University di Kingston, in Canada, e con Ramon Brasser dell'Observatoire de la Côte d'Azur, in Francia, la maggior parte delle comete, incluse le famose Halley, Hale-Bopp e la più recente McNaught, potrebbero essersi originate addirittura attorno ad altre stelle! I ricercatori hanno utilizzato simulazioni al computer per mostrare come il Sole potrebbe avere catturato piccoli corpi ghiacciati dalle loro stelle originarie quando ancora faceva parte di un ammasso di stelle neonate, creandosi così un disco da cui successivamente si formarono i pianeti. Il Sole catturò gravitazionalmente una vasta nube di comete quando l'ammasso si disperse; tale nube prende il nome di nube di Oort da Jan Hendrik Oort (1900-1992) che ne postulò l'esistenza nel 1950. "Il processo di cattura è stato sorprendentemente efficiente, e porta all'eccitante possibilità che la nube contenga un marasma di materiali provenienti da un gran numero di gemelli del Sole", ha sottolineato Duncan. "Se si assume che il disco protoplanetario del Sole osservabile può essere usato per stimare la popolazione indigena della nube di Oort, possiamo concludere che più del 90 % delle comete osservate ha un'origine extrasolare". La formazione della nube di Oort è stato un mistero per oltre 60 anni, e il nuovo lavoro risolve probabilmente questo difficile problema.

Recenti analisi isotopiche del meteorite Allende, il più grande meteorite di condrite carbonacea, caduto nel 1969 nello stato messicano di Chihuahua, portano acqua al mulino di quest'ipotesi. Le condriti carbonacee sono tra gli oggetti più antichi di tutto il sistema solare, si sono formate molto lontano dal Sole e in seguito hanno guadagnato una posizione assai più ravvicinata ad esso. Le loro inclusioni ricche di alluminio e calcio, che hanno un diametro compreso tra il millimetro e il centimetro, si sono formate con tutta probabilità in una fase primordiale dell'evoluzione del sistema solare: poiché risalgono a 4,57 miliardi di anni fa, sono più vecchie dei pianeti, che si formarono invece dai 10 ai 50 milioni di anni dopo. Si ritiene che, entrando in contatto con il gas nebulare o in forma di condensati solidi o di goccioline fuse, si siano poi arricchite dei più leggeri isotopi dell'ossigeno, registrando così la composizione di ossigeno del gas nebulare solare in cui si sono sviluppate. I nuovi risultati delle misure isotopiche ad alta precisione condotte dal Lawrence Livermore National Laboratory, dal Johnson Space Center della NASA e dall'Università della California a Berkeley portano a ipotizzare che le condriti si siano formate da differenti riserve di ossigeno, probabilmente localizzate in distinte regioni della nebulosa solare.

Insomma, anche se oggi il Sistema Solare ci appare piuttosto solitario nel Braccio di Orione della Via Lattea, probabilmente in passato non è sempre stato così. Le stelle che un tempo erano compresse in una sfera del raggio di 10 anni luce (oggi ce ne sono solo 11, allora qualche migliaio!), a causa della rotazione su se stessa della Galassia, oggi si sarebbero disperse su un arco di decine di migliaia di anni luce. Se tutto ciò è corretto, individuare tramite osservazioni telescopiche le « sorelle perdute del Sole » sarà quanto mai importante, perchè esse sono le naturali candidate ad ospitare pianeti abitabili, e forse sui quali si è sviluppato il miracolo della vita.

E se Marte avesse influenzato i cicli climatici della Terra?

Anche i pianeti del Sistema Solare possono avere un ruolo nell'evoluzione della vita sulla Terra? Dopo aver esaminato i sedimenti dei fondali marini risalenti a 65 milioni di anni fa (alle 17.28 del 26 dicembre dell'Anno della Terra), Dietmar Müller e colleghi della scuola di geoscienze dell'Università di Sydney hanno scoperto un flusso e riflusso delle correnti marine profonde, legato a un'ondata di riscaldamento e di raffreddamento globale durata 2,4 milioni di anni e guidata nientemeno che dalla reciproca attrazione gravitazionale tra la Terra e Marte. Come ttutti sappiamo grazie alle ricerche dell'astronomo boemo Johannes Kepler (1571-1630), le orbite dei pianeti non sono circolari, ma ellissi poco eccentriche. Nel corso del tempo le oscillazioni gravitazionali dei pianeti modificano la forma di queste orbite secondo uno schema prevedibile. Ebbene, a quanto pare queste alterazioni si ripercuotono sul clima a lungo termine, influenzando l'avvicendarsi delle ere glaciali. Nel 1941, l'astrofisico serbo Milutin Milanković (1879-1958) scoprì che i cambiamenti nella forma dell'orbita terrestre, l'inclinazione del suo asse e l'oscillazione dei suoi poli influenzano la quantità di luce solare che riceviamo. Conosciuti come "cicli di Milanković", questi schemi si verificano con periodi di 405.000, 100.000, 41.000 e 23.000 anni. I geologi ne hanno trovato traccia nel passato geologico della Terra, anche in rocce di 2,5 miliardi di anni fa (risalenti alle 5.20 del 12 giugno). Tuttavia esistono anche ritmi più lenti, che causano fluttuazioni nell'arco di qualche milione di anni. Uno di questi cicli, legato alla lenta rotazione delle orbite della Terra e di Marte, si ripete appunto ogni 2,4 milioni di anni (ogni 4 ore e 40 minuti dell'Anno della Terra). Il ciclo è previsto dai modelli astronomici, ma è raramente rilevato nelle registrazioni geologiche. Si potrebbe trovarlo in campioni di sedimenti che coprono continuamente un periodo di molti milioni di anni, ma questi sono molto rari. Tuttavia i dati delle trivellazioni scientifiche oceaniche raccolti a partire dagli anni sessanta hanno prodotto un'enorme mole di informazioni sui sedimenti di acque profonde nel corso del tempo in tutti gli oceani.

Dietmar Müller e colleghi hanno sfruttato le sequenze sedimentarie provenienti da oltre 200 siti di trivellazione per scoprire una connessione precedentemente sconosciuta tra il cambiamento delle orbite della Terra e di Marte, i cicli passati di riscaldamento globale e l'accelerazione delle correnti oceaniche profonde, e si sono concentrati sulle parti mancanti della documentazione sedimentaria, le interruzioni della sedimentazione chiamate iati. Infatti uno iato in acque profonde indica l'azione di vigorose correnti di fondo che hanno eroso i sedimenti del fondo marino. Al contrario, un accumulo continuo di sedimenti indica condizioni assai più calme. Analizzando la tempistica dei periodi di iato negli oceani, hanno così identificato i cicli di iato negli ultimi 65 milioni di anni. I risultati dimostrano che il vigore delle correnti di mare profondo cresce e diminuisce in cicli di 2,4 milioni di anni, che coincidono con i cambiamenti nella forma dell'orbita terrestre. I modelli astronomici suggeriscono che l'interazione tra la Terra e Marte determini un ciclo di tale durata, in cui si alternano periodi di maggiore insolazione e clima più caldo e periodi di minore insolazione e clima più freddo. I periodi più caldi sono correlati a un maggior numero di iati marini profondi, legati a correnti oceaniche profonde più vigorose. I gorghi oceanici profondi sono come giganteschi vortici guidati dal vento e spesso raggiungono il fondale marino profondo, provocando l'erosione del fondale marino e grandi accumuli di sedimenti, detti drift conturitici, simili a cumuli di neve. Le ricerche di Müller e soci suggeriscono che gli oceani più caldi abbiano una circolazione più vigorosa guidata da correnti parassite, un processo che potrebbe svolgere un ruolo importante in un futuro condizionato dall'attuale riscaldamento globale. In un mondo che si riscalda, la differenza di temperatura tra l'equatore e i poli diminuisce e le acque superficiali ricche di ossigeno non si mescolano più adeguatamente con le acque più profonde, dando potenzialmente origine a un oceano stagnante. Insomma, il modo in cui l'influenza astronomica Terra-Marte interagirà con i cicli di Milanković più brevi e con l'attuale riscaldamento globale provocato dall'uomo dipenderà in larga misura dalla traiettoria futura delle nostre emissioni di gas serra.

La Luna durante una spettacolare eclisse che la tinge di rossoLa madre della Luna

Sull'origine della Luna sono in corso grandi controversie. Anche in questo caso si contrappongono varie scuole di pensiero:

a) secondo i sostenitori delle teorie catastrofiche, la Luna sarebbe nata dall'impatto devastante tra la Terra ed un protopianeta avente più o meno le dimensioni di Marte, chiamato Teia (nome della madre della Luna nella mitologia greca); alcuni frammenti sarebbero stati proiettati nello spazio dove, secondo le simulazioni al computer, si condensarono in due satelliti: uno, troppo vicino alla Terra, gli sarebbe ricaduto addosso, ma l'altro avrebbe iniziato a ruotare su se stesso, trasformandosi nella nostra Luna. Teia si sarebbe così fusa con la Terra, mentre la Luna avrebbe avuto origine dal materiale della parte più esterna di una Terra già differenziata, e quindi composta da elementi più leggeri; questo spiegherebbe la mancanza di ferro sulla Luna, mentre le differenze di composizione tra i due corpi celesti sarebbero dovuti all'apporto mineralogico fornito da Teia alla Terra nascente. Vi sono però dei punti poco chiari: la percentuale di ossido di ferro della Luna implica che il materiale protolunare proverrebbe solo da una piccola frazione del mantello terrestre, ed inoltre non c'è prova che la Terra abbia mai posseduto un oceano di lava, come previsto da queste teorie.

b) secondo i sostenitori delle teorie evoluzionistiche, la Luna sarebbe stata un protopianeta formatosi altrove nel sistema solare e catturato in un secondo tempo dalla gravità terrestre (vedi il periodo Devoniano); questa ipotesi però si scontra con il fatto che un protopianeta così grosso si sarebbe probabilmente scontrato con la Terra piuttosto che venire catturato da essa, e comunque sarebbe stata necessaria la presenza all'epoca di un'estesa atmosfera terrestre che dissipasse l'energia prodotta dall'evento, cosa ritenuta dai più improbabile.

c) i propugnatori della coformazione pensano invece che la Luna si sarebbe formata con una parte del materiale che diede origine alla Terra. Anche in questo caso  c'è però un problema: questa ipotesi non spiega in modo soddisfacente alcune differenze evidenti tra la geologia terrestre e quella lunare, come lo svuotamento del ferro metallico sulla Luna o il fatto che sulla Terra non si trova traccia delle regoliti (così abbondanti sulla Luna). Inoltre sia la teoria della cattura che quella della coformazione non rendono ragione del fatto che il satellite della Terra è unico: i pianeti gioviani hanno una carrettata di satelliti, mentre quelli terrestri ne sono del tutto privi (i due microsatelliti di Marte, Phobos e Deimos, presumibilmente sono asteroidi catturati dalla vicina fascia asteroidale).

d) una quarta ipotesi è quella della fissione: in questo modello la Terra primordiale era un corpo rotante in rapido movimento, in cui le forze centrifughe erano solo di poco inferiori a quelle gravitazionali, ed in questa situazione un piccolo incremento della velocità angolare avrebbe permesso ad una grossa frazione del nostro pianeta di staccarsi dall'Equatore. Anche questa teoria presenta però un punto debole: per causare il distacco sarebbe stato necessaria una rotazione terrestre iniziale troppo elevata rispetto a quella che si suppone esistente all'epoca, e per questo la teoria della fissione era stata abbandonata negli anni settanta. Di recente tuttavia Rob de Meijer, ricercatore della University of the Western Cape in Sudafrica, e Wim van Westrenen della Universiteit van Amsterdam hanno proposto una variante di questa ipotesi: la Luna si sarebbe formata a seguito di un potentissima esplosione nucleare, la quale avrebbe generato un anomalo aumento di velocità. In pratica le forze centrifughe avrebbero concentrato sul piano equatoriale gli elementi più pesanti, come l'uranio e il torio, vicino alla superficie terrestre, e l'alta concentrazione avrebbe dato vita ad un georeattore naturale, la cui esplosione avrebbe permesso il distacco della Luna. A quei tempi infatti la percentuale isotopica di uranio 235, un isotopo altamente fissile, era più elevata di quella attuale, e sufficiente per raggiungere la massa critica che innesca la fissione nucleare. L'esistenza dei georeattori non è solo un'ipotesi, dal momento che nel 1970 è stata documentata l'esistenza di un georeattore attivo tra 2 e 1,5 miliardi di anni fa a Oklo, in Gabon. Indubbiamente si tratta di un'ipotesi affascinante, ma difficile da dimostrare.

Un gruppo di geologi dell'università di Colonia guidato da Daniel Herwartz ha analizzato le rocce lunari portate a Terra dalle missioni Apollo 11, 12 e 16 e altri campioni lunari arrivati sulla Terra come meteoriti, e ha misurato le percentuali degli isotopi presenti in esse, primi fra tutti ossigeno, titanio e silicio. Herwartz sostiene, grazie a queste misure, di aver dimostrato che la teoria giusta è quella catastofica dell'impatto tra la Terra e Teia: « ora possiamo essere ragionevolmente sicuri che la gigantesca collisione ha avuto luogo, ed inoltre i dati ci forniscono un'idea sulla geochimica di Teia. Il prossimo obiettivo è quello di scoprire quanto materiale di Teia c'è ancora sulla Luna ». La notizia è stata accolta con prudenza dalla comunità scientifica: per il planetologo dell'Istituto Nazionale di Astrofisica Diego Turrini « il fatto che la Luna e la Terra, contrariamente a quanto si pensava, hanno una differenza sistematica nella loro composizione, è un risultato solido di questo lavoro; però è un po' presto, secondo me, per dire con certezza quale sia l'origine di questa discrepanza, perché di queste fasi molto remote della storia del Sistema solare conosciamo ancora poco ». Il risultato, ha concluso, « è comunque importante perché rivela come le rocce lunari ci possono dare moltissime informazioni sulla storia dei corpi da cui provengono e sul Sistema solare in generale ».

Un'ulteriore prova della teoria dell'impatto gigante potrebbe essere arrivata nel 2023, quando un gruppo di ricerca guidato da Qian Yuan del California Institute of Technology ha avanzato l'ipotesi che il cataclisma cosmico causato dallo scontro tra il protopianeta Theia e la proto-Terra potrebbe aver creato regioni distinte rispetto alla densità, all'interno del mantello terrestre. Di conseguenza la verifica sperimentale di tale modello sull'origine della Luna potrebbe essere compiuta studiando la densità delle masse presenti in vaste regioni del mantello, in quanto in esse si troverebbero i resti di Theia. Qian Yuan e i suoi colleghi hanno utilizzato simulazioni al computer per spiegare la scoperta di due vaste regioni del mantello terrestre in cui si riscontrano anomalie di velocità sismica, a una profondità di circa 2.900 chilometri: il materiale in queste regioni sembra essere tra il 2,0% e il 3,5% più denso rispetto al mantello circostante. Gli autori della ricerca suggeriscono che questi materiali un po' più densi potrebbero rappresentare residui del materiale del mantello di Theia, sprofondati nella regione inferiore del mantello della proto-Terra dopo l'impatto gigante, accumulandosi per formare masse dense sopra il nucleo terrestre, che sono sopravvissute fino ai nostri giorni. Inoltre, poiché gli impatti giganti sono comuni nelle fasi finali dell'accrescimento dei pianeti, regioni simili nel mantello causate da impatti potrebbero esistere anche all'interno di altri corpi planetari. Bisogna ammettere che è affascinante pensare che i segreti del Sistema Solare possano essere nascosti nelle viscere del nostro pianeta!

La Luna è nata da una ciambella cosmica?

Vale la pena di citare qui anche l'ipotesi di un giovane scienziato, Simon Lock, ricercatore del dipartimento di scienze planetarie di Harvard che nel 2018 ha proposto una nuova ipotesi, più semplice e secondo diversi esperti anche più convincente, per la formazione della Luna, che inizia anch'essa da un tremendo impatto tra corpi celesti, ma che avrebbe provocato la formazione di un ammasso di gas e rocce liquefatte a forma di ciambella ribattezzato "sinestia", da cui avrebbero poi avuto origine sia la Terra che la Luna. Il problema, ha spiegato Lock, è che per rivelarsi corretta la teoria di Teia richiede un insieme di condizioni estremamente difficili da realizzarsi. Infatti « sarebbe molto difficile ottenere le condizioni necessarie per inviare in orbita una massa sufficiente alla formazione della Luna », ha spiegato il ricercatore. « Solo un piccolo numero di collisioni potrebbero riuscirci: l’angolo di impatto e la massa dei due corpi celesti devono essere estremamente specifiche, e anche con le giuste caratteristiche molti degli impatti possibili non avrebbero prodotto i risultati che osserviamo oggi. »

Il nuovo modello proposto da Lock permette invece di spiegare la nascita del satellite a partire da un ampio ventaglio di cataclismi spaziali, e sarebbe il primo che può spiegare senza troppi problemi anche la composizione di elementi chimici che osserviamo oggi sulla Luna. I test effettuati negli scorsi decenni hanno rivelato che la Terra e il suo satellite condividono la medesima "impronta isotopica", sono cioè costituiti da materiali provenienti dalla stessa fonte. Un particolare difficile da spiegare con la teoria di Teia, perché in quello scenario il nuovo satellite sarebbe stato composto prevalentemente da materiale proveniente dal corpo impattante (il planetoide errante) e non da quello della proto-Terra. Secondo Lock il risultato dell’impatto sarebbe un nuovo tipo di oggetto celeste battezzata da lui sinestia: una gigantesca massa cava di rocce liquide e materiale gassoso che rotea su se stessa, con una forma simile a quella di una ciambella. Da questo inferno di lava e gas bollenti avrebbero avuto origine sia la Luna che la Terra. Precipitando verso il centro della ciambella la materia avrebbe formato infatti, col tempo, il nostro pianeta. E nel frattempo, un piccolo "seme", un nucleo di rocce fuse condensatosi a poca distanza dal centro della ciambella cosmica, avrebbe attirato una parte dei gas, che raffreddandosi si sarebbero condensati dando in fine origine al nostro satellite. Calcoli alla mano. afferma il suo autore, questo scenario sarebbe il più convincente tra quelli proposti fino ad oggi. Rimangono ovviamente molti aspetti della sua teoria che necessiteranno di ulteriori indagini prima di poterla considerare attendibile.

Aggiungiamo che nei campioni di roccia raccolti nelle missioni Apollo 15 e Apollo 17 furono trovate sulla Luna tracce geologiche, risalenti ad oltre tre miliardi di anni fa (alle ore 16 del 2 maggio dell'Anno della Terra), del fenomeno delle cosiddette fontane di fuoco, un particolare tipo di eruzione vulcanica, che sulla Terra sono abbastanza frequenti nei complessi vulcanici dell'Islanda e delle Hawaii: avvengono quando la lava in eruzione si mescola a un significativo livello di sostanze volatili, che durante la risalita passano allo stato gassoso per espandersi violentemente una volta in superficie, provocando lo spettacolare effetto esplosivo. Sulla Terra le sostanze volatili che permettono le fontane di fuoco sono principalmente l'acqua e l'anidride carbonica. Ma i geologi hanno calcolato che nelle condizioni esistenti nel mantello superiore della Luna è estremamente improbabile che potesse avvenire una degassificazione delle rocce con una produzione di acqua e anidride carbonica sufficiente ad alimentare il fenomeno. Oggi sappiamo che il gas che permise le fontane di fuoco sulla Luna era il monossido di carbonio, grazie ad uno studio dei ricercatori della Brown University di Providence (Rhode Island) e della Carnegie Institution, i quali hanno riesaminato i campioni con le più recenti tecniche di spettrometria di massa di ioni secondari. I risultati delle analisi condotte da Diane T. Wetzel e colleghi sulle inclusioni vetrose dei campioni di roccia lunare, tipicamente prodotte dalle fontane di fuoco, depongono a favore dell'ipotesi che quelle lave contenessero notevoli quantità di carbonio che, combinandosi con livelli più ridotti di ossigeno, avrebbero facilmente prodotto quantità sufficienti di monossido di carbonio. Inoltre, il fatto che la composizione e la quantità di carbonio rilevato nelle inclusioni vetrose sia molto simile a quelle che si riscontrano nei basalti eruttati nelle profondità marine lungo le dorsali oceaniche della Terra, sarebbe un'ulteriore prova che i serbatoi geologici di sostanze volatili della Terra e della Luna hanno un'origine comune.

Oggi sappiamo che la Luna è nata 4,48 miliardi di anni fa, appena 105 milioni di anni dopo l'inizio della formazione del sistema solare. La datazione è stata ottenuta grazie a un'ingegnosa analisi dei meteoriti che portano le tracce del catastrofico impatto fra la proto-Terra e Teia, eseguita da un gruppo di studiosi del Southwest Research Institute a Boulder, delle Università dell'Arizona e delle Hawaii e dell'Università Carolina di Praga. Gli scienziati hanno a lungo cercato di definire con precisione l'età della Luna analizzando i più antichi campioni lunari tra quelli portati sulla Terra dagli astronauti delle missioni Apollo, ma senza trovare un accordo su quali dei radioisotopi utilizzabili fossero i più adatti per una datazione affidabile: le stime variano da un minimo di circa 30 milioni di anni a un massimo di 200 milioni dall'inizio del processo di formazione del sistema solare. I modelli dell'impatto indicano inoltre che non creò solamente l'anello di frammenti che avrebbe formato la Luna, ma anche una grandissima quantità di detriti poi dispersi nello spazio. Il destino di tutto questo materiale, corrispondente a una piccola percentuale della massa della Terra (il valore varia a seconda del modello considerato), non era però mai stato analizzato con attenzione. Le simulazioni condotte da W.F. Bottke e colleghi suggeriscono che almeno 10 miliardi di corpi di dimensioni pari o superiori al chilometro devono essere stati scaraventati al di fuori della sfera gravitazionale della Terra, arrivando fino alla fascia degli asteroidi in formazione. La collisione di questi detriti con gli asteroidi può aver prodotto piogge di meteoriti, alcuni dei quali sono ricaduti anche sul nostro pianeta, portando le tracce dell'impatto all'origine della Luna. Alcuni dei bolidi provenienti dalla collisione fra la Terra e Teia, infatti, devono avere colpito gli asteroidi a una velocità di circa 10 chilometri al secondo, sufficiente a causare la fusione e la trasformazione dei minerali degli asteroidi in materiali vetrosi più scuri. Uno shock termico di questo tipo modifica "l'orologio" radioisotopico standard usato per datare i meteoriti: l'isotopo radioattivo potassio-40, intrappolato nella struttura cristallina della roccia, che decade progressivamente in argo. Se però l'argo viene riscaldato a sufficienza, si muove attraverso le strutture cristalline, e si può reimpostare l'orologio, offrendo un punto di riferimento per calcolare quando ciò è avvenuto. I ricercatori hanno identificato 34 meteoriti tra quelli censiti nella letteratura scientifica, che recavano i segni di quello shock termico. La loro età si distribuisce in un ristretto arco di tempo attorno a 105 milioni di anni dopo la formazione del sistema solare, e sei di essi risalgono esattamente a quella data. Invece Seth Jacobson dell'Osservatorio della Costa Azzurra a Nizza, in Francia, ha elaborato un modello numerico su come si sono rimescolati alcuni elementi, in particolare platino e iridio, nella lunga fase degli impatti della Terra con gli oggetti planetari, e secondo questo modello è probabile che la Luna si sia formata 95 milioni di anni dopo l'origine del sistema solare, in buon accordo anche con alcune stime dei tempi di formazione del nucleo e con la formazione dei minerali sulla crosta terrestre. Per saperne di più sulla geologia lunare, vi consiglio di consultare questo pregevole sito dell'amico Giuseppe Turdo.

La Terra con due lune

Una cosa è certa: comunque sia nata, la Luna ha avuto un'influenza fortissima sulla vita del nostro pianeta. Senza di essa, ad esempio, non si verificherebbe l'alternarsi delle maree, così come sarebbe diverso il clima. Anche per molti animali la vita sarebbe diversa perché mancherebbe loro un elemento di riferimento dei loro cicli vitali. E la presenza di due lune probabilmente creerebbe effetti mareali incompatibili con l'esistenza della vita.

Eppure, c'è chi sostiene che, in un lontano passato geologico, la Terra avesse proprio due lune. La scoperta delle notevoli differenze morfologiche tra le due facce della Luna è infatti un problema di vecchia data: il lato che guarda verso di noi è relativamente basso e ricco di mari e crateri, mentre la topografia della faccia nascosta è caratterizzata da vasti altopiani, e la crosta ha uno spessore decisamente maggiore. Orbene, secondo alcuni planetologi dell'Università della California a Santa Cruz, gli altopiani della faccia nascosta potrebbero essere i resti di una collisione del nostro satellite con una seconda luna più piccola. Eseguendo simulazioni al computer di un impatto tra la Luna e un satellite dotato di una massa pari a circa un trentesimo di quella della Luna stessa, gli studiosi hanno scoperto che, in una collisione a bassa velocità, l'impatto non formerebbe un cratere, né una elevata fusione della crosta, e la maggior parte del materiale si accumulerebbe sull'emisfero colpito come uno spesso strato di nuova crosta solida.

Il modello permetterebbe anche di spiegare le variazioni nella composizione della crosta lunare, che dal lato che guarda verso la Terra è relativamente più ricca di potassio, di elementi delle terre rare e di fosforo, che rappresentano il cosiddetto kreep. Questi elementi, al pari di uranio e torio, dovevano essere concentrati in un oceano di magma intrappolato sotto la crosta. Nelle simulazioni si osserva che, in seguito alla collisione, questo strato kreep viene spinto verso l'emisfero opposto, ponendo i presupposti per le peculiarità geologiche da noi rilevate.

Per spiegare la formazione degli altopiani sono stati tuttavia proposti anche altri modelli, secondo i quali il modellamento della crosta lunare potrebbe essere dovuto alle forze di marea gravitazionali. Per ora, concordano i ricercatori, non ci sono dati sufficienti per decidere quale dei modelli offra la spiegazione migliore: probabilmente solo il ritorno di astronauti sulla Luna e la raccolta di altri campioni lunari potrà dirci quale di queste due ipotesi è la più corretta.

La Terra con gli anelli?

Vi è un'ulteriore ipotesi circa la Luna, cui vale la pena di accennare. Sébastien Charnoz dell'Università di Parigi-Diderot e Aurélien Crida dell'Università di Nizza-Sophia Antipolis hanno proposto che la nostra Luna si sia formata a partire da un sistema di anelli scomparso ormai da lungo tempo, simile a quello che ancora circonda Saturno, e lo stesso varrebbe per molti dei satelliti in orbita attorno agli altri pianeti. Attraverso un modello teorico, i due ricercatori hanno scoperto che la nascita della Luna sarebbe iniziata ai bordi di un anello planetario, dove un satellite può prendere forma senza essere frantumato dall'attrazione gravitazionale del pianeta. Lì, i satelliti si "coagulano" a partire dal materiale dell'anello prima di migrare verso l'esterno. Poiché il sistema ad anello sforna piccole lune una dopo l'altra, questi oggetti si fondono per formare i satelliti più grandi, che possono poi fondersi tra loro mentre si allontanano a spirale dal pianeta. Secondo Charnoz e Crida, l'ipotesi che i satelliti si siano condensati insieme al pianeta padre da una vorticosa nube di polveri e gas, proprio come si pensa che abbiano potuto prendere forma i pianeti attorno al Sole, potrebbe funzionare bene per i satelliti più grandi, come i quattro famosi satelliti Medicei di Giove, ma non altrettanto bene per il corteo di piccole lune che seguono gli altri pianeti giganti, finora considerate solo un sottoprodotto della formazione dei satelliti maggiori.

La nuova ipotesi spiega un importante elemento comune ai satelliti con orbita regolare di Saturno, Urano e Nettuno, e cioè il fatto che le lune più lontane dai loro pianeti tendono ad avere massa maggiore di quelle più vicine. Come una palla di neve che rotola a valle, i satelliti in via di coalescenza sarebbero cresciuti sempre di più, man mano che si allontanavano dal pianeta e dai suoi anelli, con una serie di nuove fusioni avvenute lungo la strada. Il risultato finale è un sistema di satelliti ben ordinato, con le lune più piccole all'interno, sorte a partire da alcuni minuscoli protosatelliti, e grandi lune di più lontane, formatesi da un maggior numero di essi. « L'aspetto migliore di questo lavoro consiste nel fatto che spiega il legame tra la massa di un satellite e la sua distanza orbitale », ha osservato il planetologo David Nesvorny del Southwest Research Institute a Boulder, in Colorado. Questa ipotesi non esclude quella di Teia, cioè del gigantesco impatto di un protopianeta sulla Terra appena formatasi, ma sostiene che il materiale espulso avrebbe prima formato un anello appiattito intorno al pianeta, che poi si è coagulato nella Luna. A differenza degli anelli di Saturno, che avrebbero espulso numerose protolune destinate a formare vari piccoli satelliti, l'anello relativamente massiccio della Terra avrebbe riversato tutto il suo materiale in un unico grande satellite prima di dissiparsi. « Si diffuse molto rapidamente, », ha spiegao Crida, « per cui ha avuto il tempo di formare solamente un grande satellite ».

Affascinante, vero? Provate ad immaginare una terra con gli anelli... Però la nuova ipotesi non è certo priva di problemi. Anzitutto non sembra applicabile ai satelliti di Giove, che non obbediscono alla stessa correlazione fra massa e distanza valida per gli altri sistemi di lune. Crida osserva però che Giove è stato il primo pianeta a formarsi, e la coalescenza dei satelliti può essere avvenuta in condizioni diverse. E poi c'è l'ovvia domanda: se i sistemi ad anello come quello di Saturno erano così estesi e un tempo ornavano anche Urano e Nettuno, ora dove sono? I due ricercatori francesi ammettono che il destino degli anelli è una questione aperta, ma ritengono che l'esistenza degli attuali satelliti sia una prova indiziaria del fatto che anche Urano e Nettuno avessero anelli così grandi e brillanti.

L'origine dell'acqua

Da dove viene la maggior parte dell'acqua e degli altri elementi volatili oggi presente sulla Terra? L'ipotesi oggi più accreditata parla di un contributo prevalente da parte delle comete, che altro non sono se non grandi palle di neve sporca, e di alcuni tipi di meteoriti. Ma c'è anche chi va controcorrente. Secondo alcuni scienziati della Carnegie Institution a Washington, del Natural History Museum di Londra e della City University of New York sarebbero meteoriti e asteroidi, come le condriti carbonacee, le fonti più probabili dell'acqua terrestre. L'opinione finora prevalente è che le comete abbiano avuto origine oltre l'orbita di Giove, ai margini del sistema solare, e che si siano poi spostate verso l'interno, portando notevoli quantità di materiali volatili sulla Terra. In questo caso, il ghiaccio delle comete e quello trovato nei resti di ghiaccio presenti sotto forma di silicati idrati nelle condriti carbonacee dovrebbero avere composizioni isotopiche simili. In particolare, gli oggetti che si sono formati a maggiore distanza dal Sole dovrebbero avere in media un contenuto di deuterio più elevato di quello presente nei corpi che si sono formati più vicino, e gli oggetti che si sono formati nelle medesime regioni dovrebbero avere composizioni isotopiche simili. Confrontando il contenuto in deuterio nell'acqua delle condriti carbonacee e quello delle comete è possibile dire se le meteoriti si sono formate nelle regioni che hanno ospitato la formazione delle comete.

Nel corso di questo studio i ricercatori hanno analizzato campioni provenienti da 85 condriti carbonacee, scoprendo che hanno un contenuto di deuterio molto più basso. Le meteoriti devono dunque essersi formate nella fascia di asteroidi fra le orbite di Marte e Giove. I ricercatori sostengono perciò che anche la maggior parte degli elementi volatili presenti sulla Terra provenga dalle condriti e non da comete. « I nostri risultati forniscono importanti nuovi vincoli per l'origine delle sostanze volatili nel sistema solare interno, compresa la Terra », ha detto Cornel Alexander, tra i firmatari della ricerca, « e avranno importanti implicazioni per gli attuali modelli della formazione ed evoluzione orbitale dei pianeti e dei piccoli corpi del Sistema Solare. »

La "linea della neve"

Circa il 71 % della superficie terrestre è oggi ricoperta da acqua salata, ma l'apparenza inganna: in realtà l'acqua costituisce meno dell'1 % dell'intera massa del nostro pianeta, e quella che c'è come si è visto è stata portata sulla Terra dalle comete o dai meteoriti in un lontano passato. Perché la Terra è così "asciutta"? Mario Livio e Rebecca Martin dello Space Telescope Science Institute di Baltimora hanno proposto una spiegazione: al contrario di quanto creduto finora, essi ritengono che la Terra si sia formata in un ambiente così caldo da vaporizzare tutto il ghiaccio esistente nell'orbita terrestre, lasciando così il nostro pianeta "all'asciutto". Secondo gli attuali modelli di formazione del Sistema Solare, nelle zone più esterne del disco protoplanetario di gas e polveri le temperature erano così basse da consentire la presenza e l'accumulo di ghiaccio d'acqua.  Di conseguenza, tutti i pianeti formatisi all'esterno di un confine detto "linea della neve" hanno potuto mantenere un'alta percentuale di acqua fin dalla loro formazione. La "linea della neve" si trova alla distanza dal Sole alla quale le temperature risultano inferiori a – 115 °C, e per il Sistema Solare attuale si trova nella fascia degli asteroidi fra Marte e Giove. Questo scenario spiega perché i pianeti esterni come Urano e Nettuno contengono una percentuale di acqua che può raggiungere il 40 %. Tuttavia la linea della neve ha cambiato posizione nel corso del tempo in funzione delle caratteristiche fisiche del Sole e del disco protoplanetario. Secondo la maggior parte degli scienziati, in passato la linea della neve si trovava all'interno dell'orbita terrestre; il nostro pianeta avrebbe quindi dovuto formarsi in un ambiente ricco di ghiaccio, e contenere anch'esso un'altra percentuale di acqua. Ma i dati geologici raccontano una storia completamente diversa.

Secondo i modelli convenzionali, 4 miliardi e mezzo di anni fa (quando ha preso avvio l'Anno della Terra!) la radiazione luminosa emessa dal Sole neonato sarebbe stata sufficiente a ionizzare il gas nel disco protoplanetario. La ionizzazione del gas avrebbe quindi originato fenomeni di turbolenza capaci di favorire l'accrescimento di gas e polveri sul Sole. L'attrito del materiale in accrescimento avrebbe così riscaldato il disco, muovendo la linea della neve a grandi distanze dal Sole, pari a dieci volte il raggio dell'orbita terrestre. Con il passare del tempo, il materiale si sarebbe poi esaurito, interrompendo l'accrescimento e abbassando la temperatura del disco. In questa nuova fase, la linea della neve di sarebbe così spostata fino all'interno dell'orbita terrestre. « Se la linea della neve fosse stata all'interno dell'orbita terrestre quando il nostro pianeta si stava formando », ha spiegato invece Rebecca Martin, « la Terra avrebbe dovuto essere un pianeta ghiacciato. » Infatti, secondo Mario Livio, l'ipotesi che il disco protoplanetario del Sole fosse ionizzato non è così ragionevole: « gli oggetti molto caldi come le nane bianche e le sorgenti di raggi X rilasciano abbastanza energia da ionizzare i loro dischi di accrescimento, ma le stelle giovani non hanno abbastanza radiazione o abbastanza materia in accrescimento da fornire l'energia sufficiente a ionizzare i dischi ». I due ricercatori hanno quindi ricostruito l'evoluzione della linea della neve nel caso di un disco non ionizzato, evidenziando uno scenario completamente diverso.

In assenza di ionizzazione, la turbolenza nel disco è ridotta e l'accrescimento non ha luogo. Nelle regioni più interne si forma così una "zona morta" che si estende ben oltre l'orbita terrestre. All'esterno di essa, il materiale si accumula ed aumenta la sua temperatura, spostando la linea della neve a distanze ancora maggiori. Secondo questo nuovo modello, la formazione della Terra sarebbe quindi avvenuta all'interno della linea della neve, e non all'esterno come previsto dai modelli convenzionali! « A differenza del modello standard di accrescimento », ha concluso Livio, « la linea della neve nella nostra analisi non si sposta mai all'interno dell'orbita terrestre. Al contrario, resta molto più lontano dal Sole dell'orbita terrestre, il che spiega perché la nostra Terra è un pianeta asciutto ». Di conseguenza la Terra, come pure Mercurio e Venere, è nata una regione in cui le temperature erano così alte da vaporizzare ogni traccia di ghiaccio. Ma per fortuna il nostro pianeta non è rimasto arido a lungo. Molte comete e asteroidi hanno successivamente bombardato la Terra, arricchendola di acqua in superficie e trasformandola così nel pianeta azzurro che noi conosciamo.

L'ipotesi della panspermia

E veniamo dunque ad accennare qualcosa riguardo al problema della nascita della vita, una questione che sicuramente va al di là dei confini della paleontologia e della biologia, per invadere il campo della filosofia e della religione. Delle teorie più accreditate circa la comparsa della vita sulla Terra, parleremo con ampiezza nella pagina dedicata al Precambriano, ma parlando in generale della formazione del Sistema Solare non è possibile non accennare almeno ad una teoria molto in voga negli ultimi anni, secondo cui la vita (e quindi io che scrivo e voi che leggete) non è nata in conseguenza di processi chimici avvenuti in una sorta di "pozza calda" piena di "brodo primordiale" in qualche angolo del nostro pianeta primigenio, e quindi non sarebbe un fenomeno esclusivo della Terra, bensì sarebbe arrivata su di essa da qualche altro posto, addirittura dall'esterno del Sistema Solare. Questa teoria prende il nome di panspermia.

L'idea di panspermia fu proposta per la prima volta dal filosofo greco Anassagora di Clazomene (497-428 a.C.), ma per molto tempo è stata scartata come inverosimile. Come dice il nome, essa afferma semplicemente che la vita e diffusa in ogni regione dello spazio sotto forma di "spore" che si propagano per tutto l'universo. In un certo numero di oggetti cosmici all'apparenza molto poco accoglienti per la vita, in particolare le comete, si trovano effettivamente grandi quantità e varietà di composti organici complessi; grazie alla spettroscopia, poi, gli astronomi hanno individuato vari tipi di molecole organiche nello spazio, sospese in nubi di gas o protette da grumi di particelle di polvere. Si va da composti semplici come il metano, l'acido cianidrico e l'alcol etilico, a molecole assai più complesse come gli aminoacidi, i componenti elementari delle proteine, di cui se ne sono trovati più di 70 nelle meteoriti. Le comete, oggetti celesti ancora profondamente misteriosi, oggi come ai tempi di Gesù Bambino, fanno parte di una classe di oggetti ghiacciati che probabilmente circondano ogni sistema stellare, ed anzi si formano ai margini delle nubi interstellari. Le comete e gli altri oggetti simili della Fascia di Kuiper potrebbero essere gli ambasciatori di un tempo antecedente alla formazione del sistema solare.

Chandra Wickramasinghe (nato nel 1939) I principali sostenitori moderni della panspermia sono stati l'inglese Fred Hoyle (1915-2001) e il singalese Chandra Wickramasinghe (1939-vivente), i quali non solo hanno affermato con convinzione che la Terra è stata inseminata miliardi di anni fa da forme di vita provenienti dallo spazio, ma addirittura che ancor oggi sul nostro pianeta continuano a piovere spore aliene. Secondo i due fisici, questo fenomeno potrebbe spiegare le epidemie spesso misteriose che periodicamente affliggono l'umanità. Ad esempio, Hoyle sosteneva che sulla Terra cadono ogni anno dallo spazio circa 40.000 tonnellate di materiale carbonioso, di cui una tonnellata circa sarebbe composta da veri e propri batteri o spore batteriche. Ne1 2003, all'apice dell'epidemia di SARS in Asia, che uccise centinaia di persone, Wickramasinghe sostenne pubblicamente che il virus responsabile di quel flagello poteva avere origini aliene.

Una versione minimale di quest'ipotesi, detta litopanspermia, sostiene che la vita è nata, una o più volte, su un certo pianeta del sistema solare, per poi diffondersi su altri corpi celesti trasportata da rocce spaziali strappate alla superficie di un pianeta a causa dell'impatto di una meteora. Una versione interstellare più ampia ipotizza invece che la vita possa addirittura diffondersi tra diversi sistemi stellari, usando come vettori privilegiati le comete. Ma c'è anche una terza variante della panspermia, molto cara agli autori di fantascienza, secondo cui la vita (o almeno i suoi precursori) permea lo spazio, annidandosi nella polvere cosmica o negli sciami di corpi ghiacciati che probabilmente circondano ogni stella e sono disseminati tra l'una e l'altra. Secondo quest'ultima possibilità la vita in realtà è una proprietà intrinseca dell'universo, come l'interazione gravitazionale o la costante di Planck, e non può non avere origine, essendo nata in seguito a processi che ebbero luogo appena dopo, o addirittura durante, lo stesso Big Bang. Continuando ad estrapolare, si arriva ad ipotizzare che la vita stessa possa far parte del "principio organizzativo" dell'universo, avendo avuto origine proprio nel Big Bang: in altre parole, l'Universo sarebbe come è a causa della vita.

C'è pure una variante di questa ipotesi, ripresa anche dalla serie di fantascienza "Star Trek, The Next Generation", secondo cui da qualche parte dell'universo qualche forma di vita intelligente starebbe deliberatamente "inseminando" il cosmo, sparando enormi quantità di DNA nello spazio. Nella puntata intitolata "Il segreto della vita" della serie di telefilm suddetta, il capitano Jean-Luc Picard decide di realizzare l'ultimo desiderio di Richard Galen, suo professore di archeologia, ed in concorrenza con varie astronavi aliene si mette a raccogliere il DNA di vari pianeti per poter mettere in funzione un "programma" costituito da un puzzle genetico scoperto da Galen, che sarebbe nascosto proprio dentro il DNA degli abitanti della Galassia. Quando lo scontro armato con i rivali alieni appare inevitabile, il programma viene attivato e subito compare l'ologramma di un umanoide, registrato miliardi di anni fa, che spiega di aver deciso l'inseminazione perchè la sua razza si era trovata sola nella Galassia (un'angoscia sperimentata anche da noi uomini), ed invita tutti i suoi "discendenti" alla fratellanza ed alla cooperazione reciproca. Naturalmente questo messaggio resta inascoltato, e tutti gli umanoidi se ne vanno nemici come prima. Al di là di ogni bella trasposizione cinematografica, quest'ipotesi suona piuttosto assurda ma, anche se non ci crederete, è stata presa sul serio da alcuni scienziati famosi.

In realtà, l'ipotesi della panspermia non spiega affatto né come né dove è nata la vita, ma spinge soltanto la data della sua origine molto all'indietro, fino a prima dell'inizio stesso della vita della Terra. A prima vista, la panspermia sembra un'inutile complicazione di un problema già di per sé assai complicato. Vi sono però vari argomenti a suo favore, tra cui il più convincente sarebbe il tempo estremamente breve, secondo alcuni sospettosamente breve, che la vita avrebbe impiegato per svilupparsi sul pianeta Terra dopo la formazione di quest'ultima. Le stromatoliti, resti fossili di colonie batteriche marine di cui oggi si possono osservare esempi viventi nell'Australia occidentale, risalgono a 3,5 miliardi di anni fa, ed in Groenlandia sono state trovate rocce risalenti a circa 3,8 miliardi di anni fa, contenenti formazioni ferrose a bande che si pensa siano opera di processi di fotosintesi clorofilliana.

Ma la Terra ha circa 4,5 miliardi di anni, e si ritiene che durante le prime centinaia di milioni di anni di vita sia stata sottoposta ad un terrificante bombardamento da parte di detriti del sistema solare. A intervalli di qualche decina di milioni di anni, la Terra veniva colpita da rocce di dimensioni tali da sterilizzarla completamente; come si è detto, anche la Luna avrebbe avuto origine da un'enorme palla di magma liquido lanciata nello spazio in seguito all'impatto di un oggetto grande quanto Marte. Allora, ogni forma di vita presente oggi sulla Terra deve discendere da un organismo che venne alla luce dopo l'ultimo caso di sterilizzazione. Per lo sviluppo della vita, quindi, non resta molto tempo: al massimo qualche centinaio e, secondo alcuni, solo qualche decina di milioni di anni. Per alcuni non e plausibile. L'universo sarebbe stato "favorevole alla vita", cioè avrebbe reso disponibili le sostanze chimiche indispensabili per la sua nascita, per un intervallo di tempo molto più lungo. Secondo i sostenitori della panspermia è staticamente più probabile, che la vita sia emersa nel corso di questo periodo molto più lungo, durato miliardi di anni, e non durante la "finestra temporale" piuttosto limitata consentita dalla Terra.

Che i componenti cruciali della vita possono aver avuto davvero origine nello spazio lo dimostra del resto l'analisi di alcuni meteoriti condotta nel 2012 dall'Astrobiology Analytical Laboratory del Goddard Space Flight Center di Greenbelt, nel Maryland. Esso ha analizzato campioni ricavati da 14 meteoriti raccolti in Antartide, e contenenti minerali che portano i segni di un'esposizione a temperature superiori a 1000° C. In questi campioni sono stati ritrovati alcuni amminoacidi. « Gli amminoacidi in meteoriti ricchi di carbonio sono stati trovati anche in passato, ma non ci aspettavamo di trovarne in questi specifici gruppi, a causa delle alte temperature che hanno sperimentato e che tendono a distruggere gli stessi amminoacidi », ha spiegato Aaron Burton, ricercatore del Goddard. « Tuttavia, il tipo di amminoacidi che abbiamo scoperto in questi meteoriti indica che ebbero origine grazie a un effettivo processo ad alta temperatura, via via che gli asteroidi andavano gradualmente a raffreddarsi. » Burton ha ipotizzato che gli amminoacidi si siano formati mediante processi ad alta temperatura che coinvolgono un gas contenente idrogeno, monossido di carbonio e azoto, chiamati reazioni di Fischer-Tropsch (FTT): esse si verificano tra 93° e 537° C e sono facilitate dalla presenza di minerali (sono utilizzate, per esempio, per produrre olio lubrificante di sintesi e altri idrocarburi). Si ritiene quindi che gli asteroidi da cui si sono originati questi meteoriti siano stati riscaldati ad alte temperature per effetto delle collisioni o del decadimento di elementi radioattivi. Via via che gli asteroidi si raffreddavano, le reazioni FTT potrebbero essersi verificate sulla loro superficie, utilizzando i gas intrappolati in minuscoli pori.

Vale la pena di ricordare che tre ricercatori della University of Buckingham (Regno Unito) sostengono di aver scoperto delle alghe, e precisamente delle diatomee fossilizzate, proprio in una condrite carbonacea caduta nelll'isola di Sri Lanka il 29 dicembre 2012, vicino al villaggio di Araganwila; tali fossili assomiglierebbero a quelle terrestri della specie Sellaphora blackfordensis. I tre si dicono certi che la meteorite non è stata contaminata da composti di origine terrestre, in quanto è stata vista cadere dal cielo e raccolta subito dopo, e che quelli che sembrano essere fossili di diatomee sono ben incastonati nella sua matrice. Se confermati, questi nuovi dati sembrerebbero fornire un forte e decisivo supporto alla teoria panspermica; la scoperta però è molto controversa perchè il suo autore principale è proprio Chandra Wickramasinghe, il principale partigiano della panspermia, che nel presentare i risultati si è fatto prendere dall'entusiasmo: un po' come se il Cancelliere tedesco presentasse al mondo uno studio nel quale si cerca di dimostrare che i tedeschi hanno un Quoziente Intellettivo più alto della media degli altri popoli! Già nel 1996 David McKay della NASA pubblicò uno studio in cui si affermava che all'interno della meteorite marziana ALH-84001 erano state individuate delle microstrutture che assomigliavano a microorganismi terrestri; in seguito, però, questa scoperta non fu confermata da ulteriori studi, secondo cui i presunti microfossili deriverebbero da contaminazioni di biofilm terrestri. Dunque è presto per poter affermare che abbiamo scoperto i primi esseri viventi piovuti dallo spazio.

Ai limiti estremi della vivibilità

Inoltre, in tempi recenti si è scoperto che la vita sulla Terra può svilupparsi rigogliosamente in una varietà di ambienti molto più ampia di quanto si pensava un tempo. Fino a pochi decenni fa per esempio si era convinti che la vita fosse impossibile a temperature superiori a 60° (da cui deriva la "bollitura" nelle autoclavi degli strumenti chirurgici per sterilizzarli). Oggi sappiamo che alcune specie di batteri (detti non a caso "termofili") non solo sopravvivono, ma addirittura prosperano a temperature superiori al punto di ebollizione dell'acqua. Essi vivono intorno a bocche vulcaniche poste sul fondo degli oceani, note come fumarole nere, e sono assolutamente indipendenti dalla luce del Sole: secondo alcuni furono microrganismi come questi, i primi pionieri del nostro Pianeta. La vita, inoltre, può far fronte anche a condizioni di estremo freddo. Al di sotto dei ghiacci polari è stati trovato un batterio chiamato Colwellia che vive a temperature di 40°. I microrganismi "psicrofili", che amano il freddo, hanno fatto ricorso a meccanismi complicati ed ingegnosi per impedire all'acqua contenuta nelle loro cellule di ghiacciare: certe proteine gelatinose, chiamate esopolimeri, impediscono la formazione dei cristalli di ghiaccio che frantumano le cellule.

Deinococcus radiodurans (foto di Michael Daly) La vita può tollerare non solo temperature assurde, ma anche livelli di pH estremi, come attesta la scoperta di microrganismi che crescono tranquillamente in sorgenti termali da cui sgorga acido solforico. Deinococcus radiodurans, il batterio raffigurato nell'immagine qui a destra, appare in grado di sopravvivere a livelli estremi di radiazioni, letali per qualunque altro essere vivente. Anche se vi è ancora dissenso in proposito nella comunità scientifica, alcune scoperte sembrerebbero dimostrare addirittura che alcuni minuscoli organismi, gli ipotetici nanobi, sono in grado di sopravvivere addirittura tra i 10 e i 20 chilometri di profondità, a temperature e pressioni davvero estreme. Sono state poi scoperte spore vitali dentro cristalli che risalgono a centinaia di milioni di anni fa, ancora in grado oggi di svilupparsi in esseri viventi. Questi gruppi di esseri viventi sono complessivamente conosciuti come "estremofili". La loro esistenza rende difficoltoso decidere quale sia l'habitat da considerare "normale" per la vita sulla Terra: in superficie, negli oceani e nell'aria, come pensavamo tutti fino a poco tempo fa, oppure esiste una biosfera enormemente più grande nascosta sottoterra, nelle rocce, sepolta nei sedimenti, sotto il ghiaccio o negli strati superiori dell'atmosfera?

Tutto questo amplia di conseguenza la gamma degli habitat possibili per la vita nell'universo: se vogliamo trovare vita aliena, non dobbiamo più limitarci a cercare pianeti verdazzurri coperti di acqua liquida. Se esistono batteri psicrofili in grado di metabolizzare a 40°, intere regioni del sistema solare, dai grandi satelliti dei pianeti esterni fino agli innumerevoli sciami di oggetti ghiacciati nella Fascia di Kuiper, dove le temperature sono davvero molto basse, appaiono all'improvviso molto più ospitali, tenendo conto del fatto che all'interno questi oggetti potrebbero essere più caldi a causa del decadimento di sostanze radioattive.

La scoperta che la vita è più resistente e adattabile di quanto si pensasse è ritenuta dai più una prova contro la panspermia, poiché suggerisce che la gamma dei luoghi terrestri in cui può essere nata la vita potrebbe essere molto più ampia di quando scritto sui testi accademici fino a pochi anni fa. Può darsi, ad esempio, che l'assunto dell'inabitabilità della Terra durante le prime centinaia di milioni di anni sia da rivedere; se i batteri possono sopravvivere a 20 chilometri sottoterra, forse la vita poté resistere agli attacchi più violenti da parte dei meteoriti durante il periodo Adeano. La vita dunque si e evoluta in superficie ed è migrata verso il basso, o piuttosto si è evoluta sottoterra e poi è salita alla luce quando il cielo si è rasserenato? E se si fosse evoluta nella stratosfera?

Ma gli estremofili, oltre a suggerire che forse agli inizi la vita ebbe minori difficoltà a prendere piede sulla Terra di quanto non pensavano i biologi, insegnano anche che la vita, anche solo al livello di spore, potrebbe essere abbastanza robusta da sopravvivere ai rigori dello spazio interplanetario e perfino interstellare, come suggerisce l'ipotesi della panspermia: il freddo dello spazio non rappresenta dopotutto un ostacolo se un microbo che si è evoluto nel mite clima terrestre può continuare a sopravvivere a 200°! Insomma, quelle stesse prove usate da alcuni contro la panspermia, sono usate da altri come indizi a favore di essa. Se davvero durante l'Adeano tutte le stirpi viventi furono cancellate dai violentissimi impatti con planetoidi, i fossili più antichi di cui disponiamo in effetti potrebbero essere quelli di forme di vita aliene!

La teoria è verificabile sperimentalmente? In un esperimento effettuato nel 2001, la NASA ha usato un proiettile ad alta velocità per cercare di riprodurre l'effetto di una cometa ricca di aminoacidi che cade sulla Terra a una velocità di migliaia di chilometri all'ora. Si è scoperto che l'impatto, invece di spezzettare gli aminoacidi, come si presumeva, li spinge invece ad unirsi formando catene peptidiche, composti polimerici che hanno un livello di complessità immediatamente inferiore a quello delle proteine. Ed infatti si sono trovati composti aromatici azotati quasi ovunque nello spazio: nelle comete, nelle nubi di polvere interstellare e nell'atmosfera dei pianeti esterni. Le condriti carbonacee, un tipo particolare di meteoriti, contengono i composti carboniosi alieni più complessi che si conoscano, tra cui aminoacidi e zuccheri.

In un articolo pubblicato su "Science" nel febbraio 2004, la professoressa Sandra Pizzarello dell'Arizona State University ha sostenuto che la chiralità, cioè la tendenza delle molecole a essere levogire o destrogire, delle proteine e degli zuccheri nelle forme di vita terrestri potrebbe essere collegata al materiale meteoritico che ha colpito il nostro pianeta per miliardi di anni. Sandra Pizzarello ha scoperto che in esperimenti in cui la sintesi degli zuccheri veniva realizzata in laboratorio in condizioni giudicate simili a quelle della Terra primordiale, una pioggia costante di sostanze chimiche con la chiralità giusta (precisamente levogire) fa invertire la chiralità agli zuccheri "terrestri". Ciò non significa che Sandra Pizzarello abbia dimostrato che la vita è arrivata dalle meteoriti, beninteso, ma che è quanto meno possibile che l'arrivo di meteoriti abbia influenzato in misura profonda l'evoluzione della vita, quale che sia il modo in cui ebbe inizio sul nostro pianeta.

Un frammento della meteorite caduta nel lago Tagish, in CanadaSappiamo che queste molecole organiche sono presenti nell'universo da moltissimo tempo, senza dubbio da prima che nascesse il nostro mondo. Uno dei candidati principali al titolo di "oggetto più antico della Terra" è una meteorite schiantatasi nel 2000 sulla superficie ghiacciata del lago Tagish, in Canada, visibile nella foto a fianco. L'analisi della meteorite del lago Tagish compiuta dai ricercatori della University of Western Ontario e pubblicata su "Science" nel 2006 hanno rivelato che le sferette cave di carbonio, con un diametro pari a pochi millesimi di millimetro, trovate nei frammenti della meteorite sarebbero persino più antiche della Sole! In altre parole, è possibile che all'interno di questi frammenti di roccia si trovino particelle antiche quanto l'universo stesso, contenenti composti complessi, aminoacidi compresi, mescolati con granuli di minerali argillosi, silicati con una struttura a strati. Qualcuno ha ipotizzato che questi composti inorganici potrebbero essere i possibili "uteri" per la formazione di un qualche genere di entità prebiotica, come precursori degli acidi nucleici.

A questo punto è facile immaginare quanta sensazione ha suscitato l'annuncio, fatto nel marzo 2011 da Richard Hoover, un astrobiologo che lavora per il Marshall Space Flight Center della Nasa, della scoperta di una forma di vita aliena fossilizzata e giunta sulla Terra dentro un meteorite. La sua straordinaria affermazione è supportata da dieci anni di studi su fossili di batteri: Hoover ha esaminato forme estremamente rare di meteoriti, chiamate condriti carboniose, ritrovate in ogni parte del mondo, dall'Antartide alla Siberia fino all'Alaska. I fossili da lui identificati come "alieni" appaiono lunghi e filamentosi, ed assomigliano ai batteri terrestri noti come Velox Titanospirillum. « Il fatto che molti dei batteri siano riconoscibili e si possano confrontare con specie terrestri lega indissolubilmente la vita sul nostro pianeta a quella portata dallo spazio », ha dichiarato Hoover sull'onda dell'entusiasmo. Hoover sostiene però che i batteri da lui identificati non possiederebbero azoto. Naturalmente la maggior parte del mondo accademico si è dimostrata scettica, in attesa di nuovi test indipendenti.

Una pietra miliare nella storia dell'ipotesi panspermica è da considerarsi il rivoluzionario studio presentato al Congresso Europeo di Scienze Planetarie tenutosi nel settembre 2012 a Madrid da un gruppo di astrofisici dell'Università di Princeton, dell'Università dell'Arizona e del Centro Spagnolo di Astrobiologia. Uno degli autori di questo studio, la professoressa Renu Malhotra, Presidente del Programma di Astrofisica Teorica all'Università dell'Arizona, ha dichiarato: come si è visto sopra, « il Sole si è formato in un ammasso stellare comprendente poche migliaia di stelle. Tale ammasso si è poi disperso in stelle singole alcune centinaia di milioni di anni fa. Noi abbiamo concluso che delle rocce proiettate all'esterno da un sistema planetario hanno viaggiato nello spazio ed alcune di esse (circa l'uno per mille) viaggiavano a velocità modeste. Proprio grazie alla loro ridotta velocità avevano un'alta probabilità di venire catturate da un sistema planetario vicino, quando ancora l'ammasso stellare e i pianeti erano ad uno stato nascente ». Fino a pochi anni fa si escludeva che un pianeta potesse, con la sua sola forza gravitazionale, attirare e catturare grossi frammenti proiettati nello spazio da un altro sistema planetario. I calcoli attuali, però, danno un risultato diverso. « I nostri calcoli ci dicono che le rocce a bassa velocità subiscono un processo di cattura planetaria molto diverso da quello immaginato fino ad adesso. Subentra la teoria del caos e una teoria matematica chiamata "bordi di debole stabilità" (WSB, Weak Stability Boundary Theory). La probabilità di cattura per una roccia a bassa velocità (circa 100 metri al secondo) risulta essere circa un miliardo di volte superiore a quella di una roccia di media o alta velocità ».

Per la Malhotra non ci sono dubbi: « La durata dell'ammasso stellare di cui il Sole faceva parte si sovrappone con il lasso di tempo durante il quale si formò il nostro Sistema Solare, quando esso proiettava molti frammenti rocciosi nello spazio interstellare. E questo a sua volta si sovrappone all'era geologica durante la quale si formò la vita sulla Terra. Plausibilmente, altri sistemi planetari simili al nostro coesistevano e quantità non trascurabili di frammenti rocciosi possono essere stati scambiati tra tali giovani sistemi planetari ». I suoi calcoli suggeriscono che tali scambi di resistentissime spore possano essere avvenuti circa 300 milioni di volte. Chiaramente, sulla Terra dovevano esistere condizioni climatiche e termiche capaci di far prosperare le spore trasportate dei frammenti spaziali: la presenza di acqua in particolare si rivela essenziale. Gli studi di Malhotra e soci confermerebbero che i calcoli tornano. Ma essi insistono su un punto: questa non è la conferma che la vita sulla Terra proviene dallo spazio; è solo la conferma che si tratta di una reale possibilità. « Naturalmente sono ancora irrisolti molti problemi di sopravvivenza biologica nello spazio e dopo un atterraggio brusco; ritengo tuttavia che i nostri lavori possano incitare a proseguire in queste ricerche, in stretta collaborazione con i biologi. Per gli astrofisici e gli scienziati planetari si aprono prospettive di applicazione della teoria WSB a scambi, in ambedue le direzioni, dentro il nostro sistema planetario (per esempio tra la Terra e Marte, o tra la Terra e le lune di Giove). La sfida dei prossimi anni sarà quella di trovare segni affidabili di forme di vita nello spazio e in pianeti diversi dal nostro ».

A portare sostegno all'ipotesi panspermica sono arrivate la scoperta di 1I/'Oumuamua, in lingua hawaiana "messaggero da un lontano passato, il primo asteroide sicuramente interstellare classificato come tale, avvenuta il 18 ottobre 2017 ad opera di Bob Weryk, e di 2I/Borisov, la prima cometa interstellare scoperta il 30 agosto 2019 dall'astrofilo russo Hennadij Borisov. Entrambi infatti si muovevano su di un'orbita chiaramente iperbolica, e quindi provenivano dall'esterno del nostro sistema solare. L'esistenza di asteroidi e comete interstellari era stata teorizzata decine di anni fa, ma fino al 2017 l'esistenza di questi tipi di oggetti era solo un'ipotesi. Se 2I/Borisov è sicuramente un oggetto cometario, essendo dotato di chioma e di coda, ancora misteriosa è la reale natura di 1I/'Oumuamua giacché, a fronte di un periodo di rotazione maggiore di 5 ore, la sua luminosità varia di 2,5 magnitudini, indice di una forma allungata molto lontana dalla forma sferica, a meno di postulare una notevole variabilità dell'albedo. 1I/'Oumuamua sembrava provenire da un punto situato nella costellazione della Lira, a circa 6° di distanza dalle coordinate celesti dall'apice solare: l'apice solare è il punto verso cui apparentemente sembra dirigersi il sistema solare. Si tratta in effetti del punto di tangenza del sistema solare rispetto al baricentro della nostra galassia, ed è anche il punto da cui più probabilmente dovrebbero pervenire nel sistema solare corpi celesti estranei ad esso. Appare altamente significativo il fatto che 1I/'Oumuamua provenga da una direzione a soli 6° di distanza da esso: statisticamente c'è una possibilità su 1800 che questo fatto sia casuale! Uno studio pubblicato a giugno 2018, basato sull'analisi dei dati ricavati da osservazioni precedenti, suggerisce che questo corpo celeste sia una cometa, sebbene non abbia mostrato alcuna attività cometaria in modo evidente, perchè la sua traiettoria è risultata modificata da azioni non gravitazionali che potrebbero essere state determinate da getti liberatisi nell'attraversamento del sistema solare interno. Secondo due astrofisici dell’Arizona State University, Steven Desch e Alan Jackson della School of Earth and Space Exploration dell'Arizona State University, si trattava invece di un frammento di un pianeta simile a Plutone proveniente da un altro sistema solare. Alcuni poi, tra cui il docente dell'Università di Harvard Avi Loeb, sostengono che 1I/'Oumuamua potrebbe essere un artefatto alieno a forma di razzo dotato di autopropulsione, come immaginato nel romanzo "Incontro con Rama" di Arthur C. Clarke, ma non vi è alcuna prova a riguardo. Maggiori informazioni potranno venire dallo studio di altri eventuali futuri oggetti con traiettorie interstellari: a tal fine sono state proposte alcune possibili missioni spaziali nel caso venissero avvistati, con sufficiente anticipo rispetto al perielio, altri oggetti con traiettorie nettamente iperboliche. Inoltre le somiglianze di 2I/Borisov con gli oggetti conosciuti nel sistema solare aprono la strada a un'eccitante opportunità mai offerta da 1I/'Oumuamua: un confronto diretto tra il sistema solare e i suoi dintorni cosmici.

In ogni caso, per quanto bizzarra ci appaia, oggi l'idea che la vita, o quanto meno i precursori chimici della vita, possano essere arrivati sulla Terra trasportati da materiale cometario, non viene più considerata totalmente assurda: almeno alcuni di quei processi che si presumeva si fossero realizzati in una piccola pozza calda della Terra primordiale potrebbero aver avuto luogo nello spazio profondo, in un tempo in cui l'universo era ancora giovane. Se si arrivasse a dimostrare che davvero l'universo è vivo, non solo sarebbe una scoperta eccezionale anche dal punto di vista filosofico e teologico, ma ci potremmo anche consolare un po'. Forse, a differenza del capitano Picard di Star Trek, non scopriremo quanto è diffusa la vita intelligente attorno a noi, ma almeno sapremo che, se anche dovessimo causare noi stessi la nostra fine, ci sarebbero luoghi del cosmo in cui il grande progetto della vita potrebbe proseguire. Forse la piccola pozza calda dei biologi di metà Novecento in realtà era un oceano grande come il nostro cosmo!

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