2.  « Gilgamesh siede e piange »

2.1  Un re-sacerdote vissuto 5.000 anni fa

Nel corso della lunga analisi testuale compiuta nel capitolo precedente abbiamo toccato con mano in quale modo l'esegesi moderna ha scoperto, all'interno del racconto del diluvio la presenza di almeno due tradizioni diverse: un racconto Jahwista, più arcaico e caratterizzato da numerose ripetizioni, ed uno Sacerdotale, più recente e più ricco di riferimenti simbolici, teologici e cultuali. Un'analisi a più ampio respiro dell'intero Pentateuco ci aiuterebbe a scoprire che le tradizioni in realtà sono quattro, formatesi in epoche notevolmente differenti tra di loro, e facenti capo ad altrettante scuole teologiche: Jahvista (sotto il regno di Salomone, X sec.a.C.), Elohista (nel regno settentrionale di Israele, IX-VIII sec. a.C.), Deuteronomista (sorta dopo la riforma religiosa del re Ezechia, VII sec.a.C.) e Sacerdotale (durante la deportazione a Babilonia, VI sec.a.C.), detta anche codice P (dal tedesco Priester). Arrivare a queste scoperte, direte voi, é una vera peregrinazione nel buio; e non posso darvi torto. Qualunque ricerca della verità é difficoltosa, però vale la pena di portarla avanti, proprio perché la meta finale é la scoperta della verità. Ed é con questo spirito che vorrei invitarvi a chiudere la Bibbia per aprire altri testi, per lo più sconosciuti al grande pubblico, onde  analizzare con voi alcuni racconti del diluvio presenti al di fuori della tradizione biblica; questa analisi, potete scommetterci, ci porterà praticamente in ogni angolo del mondo, e ci farà scoprire che la narrazione del diluvio non é un ingigantimento mitico delle alluvioni che interessarono in epoca preistorica la Bassa Mesopotamia, ma appartiene invece alle tradizioni orali e scritte di tutti i popoli della terra.

 

Gilgamesh, un eroe vissuto 5.000 anni fa

Gilgamesh

Cominciamo, com'é logico, dal racconto più somigliante alla famosa epopea noachica. Stiamo parlando di alcune tavolette incise con caratteri cuneiformi, risalenti al tempo del re assiro Assurbanipal (668-626 a.C., il Sardanapalo dei greci), riportate alla luce a Kujundshik presso Ninive alla metà del XIX secolo e decifrate dall'inglese George Smith (1840-1876), studioso autodidatta di lingue antiche ed assirologo dilettante. Si tratta del celeberrimo poema di Gilgamesh, di cui vi ho già parlato anche in un altro mio ipertesto, e che narra le leggendarie imprese dell'omonimo eroe per due terzi dio e per un terzo uomo. Secondo il poema egli fu il quinto patesi (re-sacerdote) della città di Uruk, e questo ci convince del fatto che la vicenda sia molto più antica delle tavolette di Kujundshik. Poiché i luoghi descritti appartengono alla regione del basso corso dei fiumi Tigri ed Eufrate, dove erano stanziati i Sumeri, é quasi certo che questo poema rappresenti un elemento superstite dell'epica di quel popolo di origini ignote (ma di certo né semitico né indoeuropeo), la cui presenza in Caldea é testimoniata fin dal IV millennio a.C. Nei molti secoli durante i quali si sviluppò la loro civiltà, essi probabilmente dovettero rielaborare e fissare per iscritto tutte le leggende più antiche della mezzaluna fertile; perciò, qualunque frammento di interesse per la nostra inchiesta sia rintracciabile nella loro straordinaria mitologia, noi dobbiamo ritenerlo estremamente prezioso. E, come ora vedremo, non é solo qualche astratto riferimento che essi ci hanno lasciato, ma un'intera "scatola delle sorprese"! Come probabilmente già sapete, infatti, l'antichissimo poema decifrato da George Smith narra le vicende di Gilgamesh e del suo inseparabile amico Enkidu, eroi legati da così profonda amicizia da ricordare quella fra Oreste e Pilade nella tradizione greca, o quella fra Eurialo e Niso nell'epica romana. Quando però Enkidu morì di una malattia atroce ed orribile, Gilgamesh si rese conto della caducità della nostra natura umana e decise di diventare immortale. Un'impresa non da poco, voi direte; ma Gilgamesh non era nuovo a "sbruffonate" di questo genere. Così infatti lo descrive l'omonimo poema:

"Colui che tutto vide sino ai margini della Terra, ogni cosa conobbe e tutto studiò, lui, ricco di sapienza e di esperienza, le cose arcane vide, le cose nascoste scoprì, ciò che avvenne prima del diluvio narrò; lui che remoti cammini percorse fino allo sfinimento, ogni sua fatica scolpì poi su una pietra, costruì le mura di Uruk tutt'intorno al sacro tempio..."

Imprese erculee, come si legge. Probabilmente si tratta di un personaggio storico, vissuto tra il 3100 e il 2700 a.C., ma trasfigurato dal mito secondo un ben noto meccanismo psicologico che spiega le doti eccezionali con un'origine divina; così, di lui ci resta solo questo straordinario racconto romanzato.

tavoletta del Poema di Gilgamesh

Frammento in terracotta del Poema di Gilgamesh, Londra, British Museum

 

2.2  « Come un esercito in guerra »

Tornando al poema, per conquistare la vita immortale il prode Gilgamesh si mise in viaggio fin sull'altra sponda dell'oceano, per incontrare il proprio antenato Ut-napyshti, che dagli dei aveva ottenuto l'immortalità. E qui comincia la parte più interessante del poema: il dono di vivere in eterno gli era stato fatto da un dio amico per essere scampato ad una immane tragedia, nella quale era perito tutto il resto dell'umanità; una tragedia che noi traduciamo proprio con la parola... diluvio!!! L'umanità era stata infatti travolta dalle acque piovute da sopra il cielo, proprio come secoli più tardi ci avrebbe raccontato la Bibbia. Potete immaginare quale fu l'eccitazione di Smith quando si rese conto che quelle poche tavolette d'argilla contenevano il più antico racconto scritto conosciuto del Diluvio Universale!

Ma voglio raccontarvi tutta la storia per esteso. Dovete sapere che, prima di questa catastrofe, Ut-Napyshti era il re di Shuruppak, una città sumerica sul fiume Eufrate nell'attuale Iraq. Non é che i suoi tempi fossero una buia epoca di decadenza, come sostengono invece la tradizione ebraica e quella greca; la vita si svolgeva tranquilla sulla Terra, e l'uomo era capace sia di gesta generose che di nefandezze indegne della sua ragione umana. Le cose, insomma, andavano più o meno come ai nostri giorni. Tuttavia Enlil, dio dell'aria, si stufò della presenza degli uomini perché infastidito dal loro... chiasso! Convocò allora gli altri dei, decise con loro di far perire l'umanità in uno spaventoso diluvio e fece giurare a tutti di non tradirlo, rivelando agli uomini mortali questo segreto. Ora però Ea, il dio della terra, amava moltissimo il suo devoto fedele Ut-napyshti, e decise di salvarlo. Ma come avrebbe potuto avvertirlo, avendo le mani legate dal proprio giuramento?

Fortunatamente, il buon nume ebbe un'idea. Si pose davanti a una parete di canne e, parlando a sé stesso, vuotò il sacco circa la faccenda del diluvio universale. Il fatto é che dietro il muro c'era proprio Ut-napyshti, che sentì tutto. Così, senza rivelare il segreto divino, cominciò a fabbricare una vera e propria arca, che a differenza di quella biblica era di forma cubica ("Siano uguali la sua larghezza e la sua lunghezza", disse testualmente Ea al suo beniamino). In essa avrebbe dovuto trovare rifugio, oltre all'eroe e alla sua famiglia, anche ogni specie di animali, esattamente come nel racconto biblico. La costruzione dell'arca durò sette giorni; poi, quando il dio suo amico gli inviò i segnali convenuti, vi entrò e la sigillò dall'interno.

Per sei giorni e sei notti le acque del diluvio si rovesciarono sulla terra, che venne totalmente sconvolta. Terribile é la descrizione della tempesta, con il giorno che tutto d'un tratto si trasforma nella notte e la marea che infuria "come un esercito in guerra". Il settimo giorno, finalmente, tutto tornò tranquillo e il cubo galleggiante che recava in salvo l'antico eroe si arenò; come narra lo stesso Ut-napyshti al nipote Gilgamesh, "tutti gli uomini erano divenuti fango"! Vale però la pena di leggere il testo originale, in modo da poter confrontare questo racconto dell'uragano cosmico con quello biblico, letto nell'ipertesto precedente:

« Presi con me tutto quanto avevo, l'intero frutto della mia vita, e lo portai nella barca: la famiglia e tutti i parenti, gli animali dei campi, le bestie del pascolo e le genti da lavoro, imbarcai tutti. (Gen 6,19-21, fonte P; Gen 7,1-4, fonte J)

Salii nella barca e chiusi la porta. (Gen 7,16b)

Quando il nuovo giorno sorse luminoso, una nuvola nera si raggomitolò lontano sull'orizzonte. Il chiarore del giorno si trasformò d'un tratto nella notte, il fratello non vide più il fratello, il popolo del cielo non si poté più riconoscere. (Gen 7, 11b)

Gli dei erano pieni di spavento davanti al diluvio, essi fuggirono e si rifugiarono sulla montagna celeste di Anu; gli dei si accovacciarono come cani contro le mura, e ristettero immobili.(---)

Durante sei giorni e sei notti si gonfiarono la tempesta e il diluvio, l'Uragano regnò sul paese. (Gen 7, 24, fonte P; Gen 7, 12 e 17a, fonte J)

Quando il settimo giorno spuntò, si placò la tempesta, si spianò la marea che aveva infuriato come un esercito in guerra; le onde si fecero tranquille, cessò il vento tempestoso, e i flutti smisero di salire. (Gen 8, 1b-3)

Guardai verso l'acqua: il suo mugghiare si era ammutolito, tutti gli uomini erano divenuti fango! La superficie terrestre era divenuta uniforme come un tetto! (Gen 7, 21-23)

Guardai verso la terra, verso l'orizzonte del mare: lontano, molto lontano, emergeva un'isola. L'imbarcazione arrivò al monte Nisir, presso il monte Nisir arrivò e si fermò come se fosse ancorata. (Gen 8, 4)

Quando spuntò il settimo giorno, liberai una colomba e la mandai lontano, e la mia colomba volò e poi tornò indietro: poiché non aveva trovato un posto dove posarsi, tornò indietro. (Gen 8, 8-12)

Presi una rondine e la lasciai volare, e la mia rondine volò via e poi tornò indietro: poiché non aveva trovato un posto dove posarsi, tornò indietro. (---)

Presi un corvo e lo lasciai volare, e il corvo volò via e vide che lo specchio dell'acqua si abbassava: esso si nutrì, volò intorno, gracchiò e non tornò più indietro. » (Gen 8, 6-7)

 

2.3  Nel regno di Urartu

Come avete di certo capito, a parlare é Ut-Napyshti. Ho segnato accanto ad ogni paragrafo il riferimento al passo corrispondente del racconto biblico; (---) significa che non c'é corrispondente. Questi testi senza corrispettivo ebraico sono due: il terrore degli dei, che fuggono nel regno del dio Anu (cioè nella parte più alta del cielo), e l'esplorazione della rondine. Se la soppressione del primo brano é facile da comprendere, perché contrasta con il monoteismo ebraico e con l'onnipotenza dio Jahvé/Elohim, meno giustificata risulta l'eliminazione della rondine, forse presente nel testo Sacerdotale, ma eliminata dal Redattore. Ma perché eliminare la rondine e non il corvo? Anche qui é sotteso un simbolismo oggi non più spiegabile.

Al di là delle differenze, la coincidenza di due uccelli su tre e dell'idea di farli partire come esploratori é impressionante, e ci convince circa il fatto che gli autori biblici, indipendentemente dal momento in cui scrissero, dovevano avere ben presente questo testo mesopotamico; il che non stupisce, visto che Canaan era situata al crocevia delle grandi vie carovaniere tra Egitto e Babilonia. Facciamo comunque rilevare che, secondo alcuni esegeti, l'uso degli uccelli come "palloni sonda" si spiegherebbe con il fatto che l'arca non aveva finestre, ma solo porticine sul tetto, per impedire l'ingresso dell'acqua. Guardare fuori sarebbe stato perciò un grosso problema.

L'altro notevole punto di contatto tra poema di Gilgamesh e Genesi é costituita dall'arenarsi dell'arca su un monte. Il vascello di Ut-Napyshti andò a fermarsi sul monte Nisir, situato secondo i testi cuneiformi nell'attuale Kurdistan, tra i fiumi Tigri e Zab, in quella stessa regione montuosa dove é identificabile il biblico Ararat. E, a questo proposito, può essere utile una breve digressione, poiché nell'ipertesto precedente abbiamo sorvolato abbastanza rapidamente sulla meta dell'arca.

L'archeologia moderna, oltre che sulla letteratura sumerica ed assiro-babilonese, ci ha fornito lumi anche sui regni fioriti ai margini della valle del Tigri e dell'Eufrate. Nel periodo della decadenza assira, nella prima parte dell'ultimo millennio avanti Cristo, il declinare di Assur e di Babilonia favorì il sorgere di diversi regni guerriglieri in quelle che erano state le provincie periferiche dell'impero assiro. Fra questi, é da annoverare il regno di Urartu. Ecco quanto ci dice di esso la "Cronologia Universale" edita da Garzanti: il suo fondatore fu Sarduri I (835-825 a.C.), che creò una piccola potenza regionale tra i laghi Van ed Urmia; la sua capitale era Tushpa. Sotto i successori di Sarduri I, Urartu estese il suo dominio fino al fiume Eufrate, ai laghi Urmia ed Erevan e alla città di Aleppo. Sarduri II avanzò oltre il Tigri e l'Eufrate marciando su Assur, ma venne battuto da Tiglat-Pileser III (745-727 a.C.), il re che rifondò la potenza assira. Dal 750 a.C. in poi, inoltre, Urartu se la dovette vedere anche con i Cimmerii, popolazione nomade proveniente dal Caucaso, che compiva rapide scorrerie nei territori della mezzaluna fertile.

Il regno di Urartu verso l'800 a.C., disegno dell'autore

Il regno di Urartu verso l'800 a.C., disegno dell'autore

Al 714 a.C. risale la vittoria definitiva degli Assiri su Urartu; la rapida ascesa dell'impero di Ninive ne segnò la fine, come la sua decadenza ne aveva segnato lo splendore. A ciò s'aggiunsero, a partire dal 720, le incursioni degli Sciti, provenienti dalla Russia meridionale; dopo il 600, poi, nella regione si stanziarono gli Armeni indoeuropei, mettendo fine a quanto restava del popolo di Urartu, inglobato nel 610 dal regno dei Medi. Ne conservò memoria solo la Bibbia con il suo "Ararat", che diede al paese quell'immortalità che aveva cercato inutilmente con la forza delle armi. Paese florido benché montagnoso, ricco di giacimenti di ferro e di rame, e per questo all'avanguardia nella lavorazione dei metalli e nella forgiatura di spade, ci ha lasciato le tracce di imponenti fortezze. La sua rapida parabola poteva ben aver suggerito ai sacerdoti ebrei in esilio a Babilonia di essere il prototipo dell'umanità che risorge e decade, seguendo il destino di tutte le creazioni del braccio e dell'ingegno umani. La sua collocazione geografica, poi, ne favorì l'identificazione come luogo di approdo dell'arca. Anche il monte Nisir va probabilmente cercato in quel paese, anche se vedremo che ogni popolo ha il suo "Ararat" nazionale: per esempio, i Greci lo ponevano in Grecia. E, del resto, quale scrittore non ambienterebbe il proprio capolavoro nel proprio paese d'origine?

 

2.4  Poema epico e storia sacra

A questo punto, é necessario sottolineare il fatto che solo lo schema generale del racconto mesopotamico coincide praticamente con quello tramandatoci dalla Bibbia; se scendiamo nei particolari, notiamo più differenze che somiglianze. Anzitutto, Noé porta nell'arca solo i più stretti congiunti, preoccupandosi però di salvare tutti gli animali terrestri; invece, Ut-Napyshti si preoccupa di salvare più che altro le sue proprietà. Quando parla di "genti da lavoro", si riferisce ai propri servi, e gli unici animali salvati sono quelli che egli possiede. Egli non si preoccupa affatto di preservare le specie viventi, quasi che gli dei abbiano organizzato un "diluvio intelligente", in grado di sterminare solo gli esseri umani. Diversa é la durata del diluvio: solo sette dì e sette notti, anziché 40 (non dimentichiamo che sette é un numero molto caro alla simbologia orientale). Diversa é l'entità del diluvio: i monti non appaiono completamente sommersi. Diverso é persino lo stile della narrazione: chiunque di voi può constatare quanto più avventuroso e ricco di immagini colorite risulti questo racconto rispetto ai magri versetti biblici, con "gli uomini trasformati in fango", le acque paragonate ad "eserciti", e gli immortali paragonati addirittura a "cani"! La descrizione é così realistica da assomigliare a quella di un testimone oculare!

Ma, soprattutto, diverso é il fine teologico della narrazione. Infatti, secondo gli autori della Genesi (sia lo Jahvista, che il Sacerdotale, che il Redattore ultimo) il diluvio é un castigo inviato da Dio contro l'umanità, che si é radicalmente allontanata dal Suo progetto di amore. Contemporaneamente, nella Bibbia c'é l'affermazione della totale onnipotenza del Signore, al cui comando le acque vanno e vengono a piacimento, e della sua sconfinata misericordia, che si traduce nella grande Alleanza simboleggiata dall'arcobaleno, così come l'alleanza con Abramo troverà la sua espressione concreta nella circoncisione, e quella con Mosé nell'osservanza della Legge. Dio é insomma un padre severo ma buono, che castiga duramente coloro che lo hanno deluso depravandosi sempre più (si pensi al bestiale grido di guerra di Lamec il Cainita in Gen 4,24, vero "manifesto" dei nemici di Dio!), ma ha a cuore il destino dei pochi giusti e degli animali, incolpevoli perché privi di ragione, al punto di "pentirsi di essersi pentito" della propria opera creatrice, e di assicurare che il tempo sulla terra non si interromperà mai più.

Totalmente differente é la prospettiva dell'ignoto autore dell' epopea di Gilgamesh. Gli dei distruggono l'umanità solo per un capriccio, ed anzi é uno solo di essi che aizza tutti gli altri contro l'uomo, costringendo un altro nume ad una difficile manovra per salvare il proprio protetto. Ut-Napyshti poi é salvato non perché é più giusto degli altri, ma solo perché sta simpatico ad un dio benevolo, che rischia grosso per lui. Durante il diluvio egli é abbandonato a sé stesso, poiché Ea non può fare più nulla per lui, mentre durante il diluvio biblico Dio non si dimentica mai di Noé e dei suoi. Nulla c'é di provvidenziale nel poema assiro, in accordo con la visione scoraggiante che gli abitanti della Mesopotamia avevano degli dei.

Questo ci conferma che, diversamente da quanto pensavano alcuni critici dell'ottocento, il racconto biblico del diluvio NON é affatto una "brutta copia" di un mito meglio raccontato, ma rappresenta, rispetto a quello, un notevole passo avanti nella comprensione del divino da parte dell'uomo. L'operato di Dio non é cieco fato o vano capriccio di una mente distorta, bensì costituisce il realizzarsi nella storia di un progetto d'amore. D'altro canto, dovevamo aspettarci una simile differenza fra il racconto babilonese e quello della Genesi, proprio perché quello appartiene solo ad un poema epico, questa ad una storia sacra, che vuole comunicare prima di tutto un messaggio di speranza e di fiducia in Dio.

 

2.5  Gli dei buongustai

Dopo questo raffronto, che mi sembrava doveroso compiere, possiamo avviarci a concludere l'avvincente narrazione mesopotamica del diluvio universale. Avendo compreso che le acque si stavano ormai ritirando sotto la superficie terrestre, Ut-napyshti fece uscire tutti dal suo provvidenziale vascello e celebrò un sacrificio, del tutto analogo a quello di Noé in Gen 8,20, raffigurato da Raffaello nelle logge progettate da Bramante per papa Giulio II. Gli dei "fiutarono il buon odore" e "si radunarono come mosche sul sacrificio": anche il nostro Dio in Gen 8,21 annusa la "soave fragranza" del sacrificio di Noé, e ne é talmente contento da stringere alleanza perpetua con lui e con tutti i suoi discendenti: il sacrificio ebraico non era solo una rinuncia, era un modo per far giungere direttamente a Dio la propria offerta, e quindi le parole della Bibbia e dell'epopea di Gilgamesh vogliono solo efficacemente indicare il gradimento dell'offerta da parte dell'Essere Supremo. Così, dopo essere stati vilmente ridotti al rango di CANI, gli dei vengono rivalutati, apparendo perlomeno come dei BUONGUSTAI. Ricordate quanto dicevamo del "Dio portinaio"? Ebbene, in quell'immagine non é certo trascurabile l'influsso della cultura assiro-babilonese. Ma tiriamo avanti.

Naturalmente a questo punto arrivò anche Enlil il quale, vedendo che il suo piano per sterminare gli uomini era fallito, andò su tutte le furie con Ea. Questi replicò rimproverandolo per aver voluto distruggere l'umanità solo a motivo dei suoi capricci, indi prese con sé Ut-napyshti e la moglie per sottrarli alla vendetta del perfido dio dell'aria, li benedisse (esattamente come fece Dio con Noé ed i suoi dopo l'uscita dall'arca!) e li trasportò al di là dell'Oceano, ai confini della Terra, dove li aspettava una vita eterna e felice, simile a quella degli dei. Chi ha letto l'"Odissea" sa che questo é anche il destino degli eroi greci, discendenti dagli dei, per cui erano stati preparati i campi Elisi. Nel canto IV di questo poema il dio marino Proteo predice all'eroe Menelao la vita perpetua in quel giardino di delizie solo per il fatto di essere "genero di Zeus" attraverso la bella Elena, che secondo la leggenda era appunto figlia di Zeus e Leda:

« Ma tu, tu, Menelao, di Giove alunno,

chiuder gli occhi non dei nella nutrice

di cavalli Argo, ché nol vuole il Fato.

Te nell'Elisio campo, ed ai confini

manderan della terra i numi eterni,

là 've risiede Radamanto, e scorre

senza cura o pensiero all'uom la vita.

Neve non mai, non lungo verno o pioggia

regna colà, ma di favonio il dolce

fiato, che sempre l'Oceàno invia,

que' fortunati abitator rinfresca.

Perché ad Elena sposo, e a Giove stesso

genero sei, tal sortirai ventura. »

 

(l. IV, vv.703-715 nella trad. di I.Pindemonte)

 

La costruzione dell'arca nel film "Noah" (2014) di Darren Aronofsky

La costruzione dell'arca nel film "Noah" (2014) di Darren Aronofsky

 

Naturalmente, giunti proprio sul più bello, non voglio lasciarvi con la curiosità di sapere come va a finire il "poema di Gilgamesh"; dopotutto, nessun professore si é mai sognato di parlarne a scuola, come si fa invece (e fino alla nausea!) con l'"Iliade" e la "Divina Commedia". Com'era immaginabile, Gilgamesh riuscì a strappare al suo antenato Ut-Napyshti il segreto per divenire immortale: mangiare una pianta che cresce in fondo al mare. Anche questa era un'impresa colossale, ma l'eroe sumerico riuscì perfino in essa: si tuffò, raggiunse la pianta, la strappò dal fondo, la portò in superficie, dove la mostrò con aria di trionfo al proprio battelliere. A questo punto, Gilgamesh aveva l'immortalità ad un passo; ma, come spesso accade nelle favole, essa gli sfuggì per un pelo. Ecco, difatti, quello che gli accadde durante il viaggio di ritorno:

« Gilgamesh vide un pozzo la cui acqua era fresca: vi discese dentro e si lavò con l'acqua. Un serpente fiutò l'odore della pianta... salì e portò via la pianta...

Allora Gilgamesh si siede e piange, sulla sua guancia scorrono le lacrime... »

Questo testo ricorda molto da vicino il famoso racconto della Genesi, secondo cui l'uomo e la donna persero la propria immortalità beata proprio a causa del serpente, "il più astuto di tutti gli animali della terra che Dio aveva fatto" (3,1): posteriore alla redazione del Pentateuco é infatti l'identificazione di questo serpente con il diavolo. Certo, non é possibile negare che questo passo del poema, così popolare nell'antica Babilonia, abbia influenzato l'autore Jahvista; ma, come nel caso del diluvio universale, la prospettiva é molto diversa. Infatti questo serpente toglie solo a Gilgamesh la speranza dell'immortalità, mentre quello biblico la toglie a tutti noi. Inoltre, quello prospettato dai Sumeri é un meccanismo quasi automatico: niente pianta, niente vita eterna, quasi fosse solo una medicina portentosa. Invece, nella Bibbia l'"albero della vita" é solo il simbolo dell'immortalità divina, e i due progenitori perdono il diritto a fruire di essa perché Dio li punisce per il loro atto di superbia, cioé per il loro voler essere più che semplici creature, per il voler essere simili a Dio. Lo stigmatizza benissimo Dante nel Paradiso:

"Or, figliuol mio, non il gustar del legno

fu per sé la cagion di tanto esilio,

ma solamente il trapassar del segno."

(canto XXVI, vv. 115-117)

Come si é visto, dunque, il "Poema di Gilgamesh" presenta diversi limiti dal punto di vista dell'interpretazione del divino, rispetto alla rivelazione biblica. Eppure, come ha scritto un commentatore, esso rappresenta la più alta opera poetica dell'antico Vicino Oriente extrabiblico, e la più affine, fra tutte, al sentimento moderno. L'amicizia tra Gilgamesh ed Enkidu, il dolore, il problema della morte, la salvezza, la ricerca dell'immortalità, la profonda vena di pessimismo che lo attraversa sono temi scottanti anche per l'uomo d'oggi, e in esso la mitologia antica é utilizzata per esprimere in modo efficace le inquietudini del mortale d'ogni tempo. Varrebbe perciò la pena di dedicare almeno alcune ore dell'odierno insegnamento scolastico alla lettura almeno parziale di questo scritto che, usando una metafora non certo fuor di luogo, possiamo definire "vecchio come Noé", e che, ispirando al popolo ebraico prigioniero una parte delle sue tradizioni mitologiche e sapienziali, ha finito per rendere sé stesso la profonda radice di tutta la religione, l'arte, la cultura, le tradizioni, il pensiero di tutta la moderna civiltà occidentale.

 

2.6  « Scoperto il diluvio universale - stop »

Prima di chiudere questo argomento, e di passare ad altre descrizioni del diluvio universale, voglio qui accennare ad una curiosa scoperta archeologica, avvenuta nel 1929 nell'estremo sud della Mesopotamia, che é diventata il cavallo di battaglia di coloro che sostengono che il racconto del diluvio altro non é che un ingigantimento (un'"universalizzazione", direi) del ricordo di una colossale alluvione protostorica. L'autore di questa scoperta é sir Charles Leonard Woolley, archeologo professionista divenuto famoso per aver disseppellito dalle sabbie del Tell al Muqayyar, oggi nell'Iraq meridionale, i resti della biblica Ur dei Caldei. Uomo intelligente e fortunato, egli riuscì a dissotterrare le tombe dei re sumerici, scoprendo una civiltà antica quasi quanto quella egiziana, e forse ancora di più. Durante la sua sesta campagna di scavi presso il Tell al Muqayyar, avvenuta appunto nell'estate del 1929, egli volle accertare se sotto la più profonda (e quindi la più antica) delle tombe reali da lui riportate alla luce, vi fossero tracce di altre inumazioni, o magari di una civiltà ancora più antica. Il suo scopo era quello di sapere quando il primissimo insediamento umano pose le proprie fondamenta sulla terra vergine.

Ebbene, sotto le tombe egli trovò uno strato di cenere di legna bruciata, contenente numerosi frammenti di anfore, vasi, tazze tutte di terracotta. Lo stile della ceramica rimaneva invariato, e pressoché identico a quello dei pezzi ritrovati nelle cripte reali, nonostante questo strato dovesse essere di due o tre secoli più antico di quelle. Durante lunghi secoli, dunque, la tecnica sumerica di produzione della ceramica non aveva subito variazioni di rilievo: doveva perciò aver raggiunto un alto grado di sviluppo già in epoca remotissima.

Dopo giorni e giorni di scavo, finalmente, le vanghe degli operai raggiunsero uno strato dal quale era assente qualunque traccia di civiltà umana. Già dopo un esame superficiale, tuttavia, Woolley riconobbe che quello era uno strato di argilla, quale poteva formarsi solo attraverso i sedimenti lasciati dalle acque, come per esempio un fiume in piena che si ritira. Pensate per esempio alle inondazioni del Nilo, che lasciavano il fertile limo sulla terra d'Egitto!

Dunque, quell'argilla poteva avere un'unica spiegazione: non poteva trattarsi che di sabbia alluvionale. Ma da dove veniva? L'aveva depositata il non lontano Eufrate, durante una delle sue periodiche esondazioni, che però, a differenza di quelle del Nilo, erano sempre distruttive? Allora, intorno al XX sec.a.C., il golfo Persico si addentrava nel continente assai più di oggi, il Tigri e l'Eufrate sfociavano in mare separatamente, ed Ur, oggi 180 chilometri nell'entroterra, sorgeva nei pressi della foce dell'Eufrate, che si poteva tranquillamente ammirare dall'alto della sua famosa Ziqqurat, ancor oggi in piedi. Tuttavia, calcoli più accurati indussero Woolley ad escludere questa probabilità. Egli scrive nel suo diario:

« Vidi che eravamo troppo in alto. Non era pensabile che l'isola sulla quale erano state costruite le prime abitazioni potesse emergere tanto dalla palude. »

Il fondo della buca scavata dagli operai, dove cominciava lo strato argilloso, giaceva molti metri al di sopra del livello del fiume; dunque, non poteva trattarsi di materiale sedimentario portato dall'Eufrate. Quell'argilla costituiva un vero mistero. Allora l'impaziente Woolley decise di scavare attraverso quello strato misterioso. Man mano che i secchi di sabbia venivano estratti, con grande sorpresa egli si accorse che lo strato era molto più profondo del previsto; solo dopo quasi tre metri lo strato argilloso ebbe fine, così rapidamente com'era cominciato.

Ma il bello era ancora da scoprire. A questo punto, infatti, l' archeologo inglese ed i suoi colleghi si erano aspettati di trovare terra vergine, senza tracce di civiltà; ed invece ecco nuovi strati di macerie, tra cui ancora molti residui di terracotta. Sotto uno strato argilloso spesso quasi tre metri, si incontravano ancora residui di insediamenti umani!

Ora, però, Woolley osservò che la tecnica di produzione della terracotta era radicalmente mutata, rispetto ai frammenti degli strati soprastanti. Questi ultimi, infatti, erano stati chiaramente prodotti con la ruota del vasaio; quelli trovati sotto l'argilla, invece, erano stati confezionati a mano. Al di sopra, c'erano resti di utensili di rame e altri metalli; al di sotto, per quanto la sabbia fu setacciata, non se ne trovò più traccia. Gli strumenti erano tutti confezionati in pietra. Questo poteva significare una cosa sola: Woolley e soci avevano raggiunto gli strati dell'Età della Pietra!

Quello stesso giorno, Woolley diede notizia al mondo della propria scoperta con un iperbolico telegramma, che potete vedere in questa pagina Web, sovrapposto ad una visione parziale degli scavi di Woolley ad Ur: "SCOPERTO DILUVIO UNIVERSALE"!!!

scoperto diluvio universale - stop

La cantonata di Sir Woolley

Effettivamente, nell'argilla rimossa il celebre scienziato aveva scoperto tracce di animali marini, per cui egli pensò ad un improvviso sollevamento del livello del mare, dovuto ad un'eccezionale alluvione, databile - attraverso gli strati di terra tra cui l'argilla era stata rinvenuta - a non più tardi del 4000 a.C. Tale alluvione ricordava così da vicino l'immane diluvio universale della Genesi e del Poema di Gilgamesh, da non poter essere identificata che con esso. Per averne la certezza, Woolley fece scavare un altro pozzo a 300 metri di distanza dal primo, ritrovando di nuovo lo strato argilloso interposto tra strati che recavano entrambi vestigia di vita umana. Più tardi un altro archeologo, Stephen Langdon, riportò alla luce a Kish, presso Babilonia (dove Tigri ed Eufrate si avvicinano a soli 40 chilometri), un altro strato sedimentario di argilla, spesso però solo mezzo metro. Inoltre, le datazioni dei due strati non concordavano, segno che non erano riferibili, evidentemente, allo stesso evento. Ci furono indubbiamente molte catastrofiche alluvioni nella valle dei due fiumi, tali da comportare una distruzione quasi totale degli insediamenti umani, ma nessuna di esse dovette essere talmente terribile da poter giustificare una sua "estrapolazione" fino all'intero orbe terracqueo. Ha ragione chi dice che queste alluvioni erano solo un "fatto locale", ma per chi viveva laggiù 6.000 anni fa la Mesopotamia "era tutto il mondo"; però non si spiega, in questo modo, come mai anche i popoli esterni alla mezzaluna fertile abbiano in qualche modo conservato memoria di una "inondazione universale" che sterminò l'intero genere umano. E se tutti i racconti di catastrofi legate al diluvio, alcuni dei quali saranno l'oggetto del prossimo capitolo, fossero il ricordo di alluvioni locali e circoscritte, poi estese a tutta l'umanità, mediante il medesimo processo che portò alla formazione dell'epopea di Ut-Napyshti nella terra dei Sumeri? E' possibile, ma improbabile. Se tutti gli alunni di una classe sostengono che la maestra non ha dato loro compiti, é più probabile che effettivamente non ne siano stati assegnati loro, piuttosto che ammettere che siano tutti bugiardi. Quando i commentatori del "poema di Gilgamesh" dicono che il racconto del diluvio in esso contenuto rispecchia effettivi fenomeni atmosferici che possono aver avuto luogo nella bassa Mesopotamia, sottintendono che l'autore di tale descrizione deve essere stato un testimone oculare dei desolanti effetti della grande alluvione, che effettivamente ricoprì il suolo di argilla rendendo tutto "uniforme come un tetto"; e noi stessi abbiamo ammesso, in precedenza, che la descrizione é così realistica da sembrare una "istantanea" scattata subito dopo il diluvio. Ma é difficile credere che il Poema di Gilgamesh risalga al 3000 a.C., quando la scrittura non era ancora utilizzata; é più probabile che l'autore del testo, risalente probabilmente al tardo periodo sumerico, si sia ispirato alle tante alluvioni che flagellavano la sua terra per descrivere, ingigantendoli opportunamente, gli effetti di quella che per lui era stata l'alluvione per antonomasia! Ciò ci può spiegare il "realismo" della descrizione fatta a Gilgamesh da Ut-Napyshti, realismo che é quasi del tutto assente dal testo della Genesi, perché gli Ebrei, abituati ad abitare in una terra arida e sitibonda, non avevano mai assistito ad una vera e propria catastrofe alluvionale.

Anche gli studiosi che sostengono l'ipotesi dell' "alluvione ingigantita", perciò, vanno oggi con i piedi di piombo nel considerare tale ipotesi come "comprovata" dalle scoperte di Woolley, Langdon ed altri. Per esempio, Werner Keller (1909-1980), autore del bestseller "La Bibbia aveva ragione" (ancor oggi un classico divulgativo dell'archeologia biblica), definisce il racconto del diluvio "storicamente non accertato", e si chiede: "Forse si riflettono qui tradizioni molto più antiche, che risalgono a millenni prima del diluvio rilevato da Woolley ad Ur, fino all'epoca dello scioglimento delle masse di ghiaccio della glaciazione, quando i mari salirono di circa 200 metri, e si formarono in sostanza gli attuali contorni delle terre e dei mari? Questo fu un evento con conseguenze di portata mondiale, che potrebbe spiegare perché presso tanti popoli si sono conservate tradizioni riguardanti il diluvio". È un' ipotesi più credibile, alla luce di quanto stiamo per andare ad esaminare.