5. Il Noè babilonese

"Colui che prolunga"
Anche quello del diluvio è un racconto che a prima vista ci lascia perplessi, perchè prima di esso DIO SI PENTE. Si pente di tutto ciò che ha creato, e decide di distruggerlo.  Non è l'unica volta che succede, nella Bibbia: anche durante l'esodo dall'Egitto, ad un certo punto, a Dio viene in mente di distruggere tutto il popolo ebraico, e di far diventare Mosè una grande nazione (Numeri 14, 12). Ora, Dio è considerato l'IMMUTABILE per eccellenza, Colui che fin dal principio ha già stabilito tutto, e sa già come andranno tutte le cose. Lo dice anche il salmo 138: "Tu mi scruti e mi conosci, Signore, Tu sai quando mi siedo e quando mi  alzo... Ti sono note tutte le mie vie... Se salgo in cielo, là Tu sei; se scendo negli inferi, eccoti... nemmeno le  tenebre  per Te sono oscure... Tu mi conosci sino in fondo, non Ti erano nascoste le mie ossa quando venivo formato nel segreto, intessuto nelle profondità della terra. Ancora informe mi hanno visto i Tuoi occhi, e tutto era scritto nel Tuo libro; i miei giorni erano fissati, quando ancora non ne esisteva uno."

Ma allora, com'è possibile che improvvisamente Dio cambi idea? Anche qui, evidentemente, si tratta di PAROLA DI DIO incarnata in PAROLE UMANE. A Dio si attribuiscono cioè dei caratteri tipici dell'uomo: è il cosiddetto ANTROPOMORFISMO, che domina tutta la Genesi e gran parte della Bibbia. In realtà, anche il racconto del diluvio è mutuato dalle popolazioni finitime ad Israele, che avevano una visione completamente antropomorfica della divinità. Anzi, si può dire che la tradizione del diluvio sia comune praticamente alle culture di tutti i popoli della Terra, di qua e di là dall'Atlantico, in Grecia come in India, in Oceania come in Perù o tra gli amerindi del Canada: in ogni parte del mondo sono state raccolte almeno 250 narrazioni di catastrofi che hanno colpito il genere umano sotto forma di un'improvvisa inondazione delle terre emerse. Come ha scritto il teologo protestante tedesco Claus Westermann (1909-2000), infatti, « il diluvio è uno dei più importanti retaggi culturali dell'intera umanità ». Naturalmente, non è il caso ora che vi racconti le elaborazioni mitologiche di quei popoli, che non possono aver influenzato direttamente il Popolo Eletto; se volete, potete leggerne alcune cliccando qui. Noi ci appuntiamo solo sui miti della Mezzaluna Fertile, e in particolare sul Poema di Gilgamesh. Probabilmente ne avete già sentito parlare, se alle scuole medie (come è capitato a me) vi hanno consigliato di leggere il best-seller mondiale "Civiltà Sepolte", vera "bibbia" dell'archeologia scritta da C.W.Ceram, autore dilettante ma bene informato, che nella sua terza parte ("Il libro delle scale", cioè delle grandi Ziggurat babilonesi) cita ampiamente l'antico Poema di Gilgamesh, facendolo conoscere al grande pubblico.

Gilgamesh

Gilgamesh

Si tratta di un poema babilonese di origine sumerica, ritrovato inciso su tavolette d'argilla nella grande biblioteca del re assiro Assurbanipal (669-626 a.C.). Siamo nel VII secolo a.C., ma queste tavolette sono le copie di un poema più antico, composto forse a cavallo tra il III ed il II millennio a.C. Il suo protagonista Gilgamesh, raffigurato nell'opera d'arte da me riprodotta qui a fianco, era il patesi (re-sacerdote) della città sumerica di Uruk, molto ma molto più antica dei racconti biblici e delle tavolette di Assurbanipal (pare sia stata fondata nel IV millennio a.C.!) Non si sa se anch'egli sia una figura storica deformata dalla leggenda, come Achille e Romolo, o se sia un personaggio inventato di sana pianta; comunque, Gilgamesh nel racconto ha un amico carissimo, Enkidu, un uomo selvaggio che non conosce la civiltà, con cui ha diviso le sue imprese, tra cui l'uccisione del demone Kumbaba sulle montagne della Siria. I due sembrano veramente inseparabili; ad un certo punto, però, Enkidu muore di peste, e di fronte al suo cadavere gelido Gilgamesh decide che lui non farà quella fine, che lui non morirà. Compie allora un lunghissimo viaggio fino agli estremi confini del mondo, dove abita il suo antenato UT-NAPISHTIM, che gli racconta come si è salvato dal... diluvio! Ut-napishtim è dunque il Noè babilonese!

Allora, il racconto di Noè salvatosi dal diluvio non è esclusivo della Genesi ebraica! Ciò che più colpisce ad una prima lettura del poema di Gilgamesh è proprio questo fatto: la prima stesura del mito, sebbene così antica, praticamente coincide con quanto si legge ancor oggi in chiesa. Basti dire che coincide persino il nome del protagonista principale, seppur tradotto da una lingua all'altra. Si è detto che il nome di Noè può essere ricondotto a una radice semitica che significa "colui che prolunga" (la storia dell'umanità al di là della catastrofe del diluvio). Ebbene, anche il nome di Ut-napishtim dovrebbe avere proprio lo stesso significato! Ed identico è anche il senso del nome sumerico Ziusudra, protagonista di un'epopea simile, ma ancora più antica. L'analogia è evidente anche nella forma, tanto che "Noè" appare addirittura come un diminutivo di Ut-napishtim! Del resto, l'ebraico e il caldeo sono entrambe lingue semitiche, con notevoli punti di convergenza tra di loro (come ne hanno due lingue indoeuropee, quali l'italiano e il portoghese, e due lingue germaniche, quali l'inglese e lo svedese). Coincidenze come queste tra leggende composte in epoche tanto distanti fra di loro ha del prodigioso, se si pensa alla velocità con cui la fantasia umana rielabora ed aggiorna le sue storie; tuttavia, non bisogna affatto credere che gli autori biblici "scopiazzarono" dal poema di Gilgamesh per scrivere il racconto del diluvio universale, perchè tra l'epopea babilonese e quella ebraica ci sono anche delle differenze abissali. E quella più sostanziale riguarda il motivo per cui fu scatenato il diluvio. Mentre infatti, secondo la Bibbia, Dio punì i giganti antichi per la loro malvagità, invece lo sapete perchè gli dei babilonesi avrebbero concertato tra loro di distruggere struggere l'umanità? Secondo il poema assiro Atrahasis, ciò avvenne perchè era troppo... rumorosa! Insomma, questi numi si prendono la briga di distruggere la Terra e la vita su di essa solo per il proprio quieto vivere!

L'arca a forma di cubo
Sì, è vero: ci fanno proprio una magra figura. Scommetto che vi starete chiedendo: è mai possibile che Colui che ci ha creati decida di sopprimere tutti gli uomini fino all'ultimo solo perchè sono troppo fracassoni? Se fosse davvero così anche per noi, non ci resterebbe molto da vivere, dato che la nostra attuale è stata efficacemente definita la "società dei rumori"!

Certo, se ci sembra strano che Dio si penta del proprio agire, figuriamoci se non ci sembra strano che sia infastidito dal nostro chiasso. Questa spiegazione può farci ridere, ma non più della gelosia di Giunone per le scappatelle amorose del marito Giove, che pure era detto re degli dei. Comunque sia, nel poema di Gilgamesh si narra che Ut-napishtim ha delle "amicizie in alto loco", e precisamente è il "cocco" del dio Ea, che - nonostante tutti  gli dei abbiano concertato fra di loro che non avrebbero rivelato a nessuno la loro decisione di scatenare il diluvio - si mette dietro un muro fatto di canne ed inizia a parlargli di ciò che gli dei avevano intenzione di fare. Solo che dall'altra parte del muro c'è Ut-Napishtim, che sente tutto, e così ha modo di costruire un'arca, che ha forma cubica (a differenza di quella di Noè, che ha la forma di un parallelepipedo), nella quale si rifugia con la sua famiglia e con tutti gli animali. Alla fine del terribile diluvio, che dura sette giorni e sette notti, dopo che "le acque sono passate sulla terra come eserciti in guerra", l'arca si posa sul monte Nisir (l'Ararat biblico); Ut-Napyshti guarda fuori dall'arca, ed ecco che "tutta l'umanità è diventata fango"!

Allora Ut-napishtim esce dall'arca, proprio come fa il Noè ebraico, ed offre un sacrificio agli dei. Ma ecco un'altra notevole differenza tra il racconto biblico e il poema mesopotamico: mentre nella Genesi è Dio stesso che veglia sopra il salvataggio degli otto navigatori nell'arca, nel poema di Gilgamesh gli dei appaiono sconcertati, se non addirittura contrariati, quando si accorgono che qualcuno è scampato alla loro furia. Tuttavia, questo racconto va collocato in un contesto culturale ben preciso, quello della Mesopotamia del II millennio a.C., dove i concetti di "Padre nostro" e di "Dio provvidente" erano totalmente sconosciuti. Siamo agli antipodi dell'idea di divinità che abbiamo noi monoteisti. Chi sostiene perciò che il testo di Gen 6-9 non può essere parola di Dio perchè dipende da un mito precedente, di origine totalmente umana, parla senza conoscere alcunché della teologia ebraica, che non ha assolutamente niente da spartire col colorito e camaleontico pantheon degli assiro-babilonesi!

Come se la cava Ut-napishtim? Evidentemente è nato con la camicia, perchè Ea convince gli altri dei a lasciarlo in pace, in quanto hanno bisogno di qualcuno che offra loro sacrifici. Anzi, l'eroe è addirittura trasformato in DIO, e va a vivere in eterno con la moglie su un'isola ai bordi del mondo. Per il resto, vi dirò che Gilgamesh gli chiede come si fa a diventare immortale, dato che lui c'è riuscito, e l'antenato gli rivela che accederà all'immortalità se riuscirà a restare sveglio per sette giorni e sette notti; ma l'eroe, spossato dal lungo viaggio, crolla nel sonno. La moglie di Ut-napishtim tuttavia gli offre l'estrema possibilità: andare in fondo al mare a cercare una pianta miracolosa, che restituisce la giovinezza a chi la mangia. Gilgamesh si immerge appesantendosi i piedi medianti massi, la trova e si rimette in cammino tutto contento con la pianta verso la sua città, dove ha intenzione di trapiantare il vegetale miracoloso per ridonare a tutti la giovinezza perduta. Ma il destino è in agguato: fa un caldo bestiale, Gilgamesh vede un pozzo d'acqua fresca, appoggia la pianta sul bordo del pozzo e vi si immerge. Purtroppo arriva un serpente e divora la pianta; subito perde la vecchia pelle e ritorna giovane (tipica eziologia per spiegare la muta dei serpenti). Allora Gilgamesh si siede e piange, comprendendo alfine che nessuno può scampare alla morte né sfuggendo al proprio ineluttabile destino (pare quasi di ascoltare un'anticipazione del "desine fata deum flecti sperare precando" dell'Eneide!)

Qui è fin troppo evidente il contatto tra questa narrazione e il racconto della Genesi a proposito del serpente che corrompe Eva: ed è per questo che ho concluso il riassunto del poema. Nell'oriente antico è sempre il serpente che costringe l'uomo a peccare, così come nell'occidente medioevale è sempre il lupo l'animale cattivo per eccellenza, che vorrebbe mangiarsi gli uomini. Nella storia del pensiero, come si vede, ci sono delle pregiudiziali costanti, a cui non è possibile sottrarsi. Dire comunque che la tentazione di Eva è un ciclostile del disperante finale del poema mesopotamico, alla luce di quanto detto poco fa, è come dire che la fede degli Ebrei era solo una variante del politeismo mesopotamico, il che è manifestamente un anacoluto.

Rileggendo la trama del fantasioso poema di Gilgamesh, ci siamo convinti del fatto che la Bibbia va sempre letta tenendo conto dell'ambiente sociale, culturale e religioso in cui fu composta: ispirata sì da Dio, ma pur sempre compilata da uomini immersi in un contesto dal quale è impossibile prescindere senza prendere paurosi granchi. Lo si vede bene quando si studia attentamente quale modo di pensare è attribuito a Dio da parte dell'autore biblico (o meglio degli autori biblici). In perfetto accordo con la "teoria della retribuzione" di cui vi ho parlato nel capitolo precedente, non è un motivo futile quello per cui Dio vuole sbarazzarsi dell'umanità: Egli ha visto che gli uomini sono diventati troppo malvagi, cioè hanno CORROTTO LA SUA CREAZIONE. Non ne può più di vederli traviare, commettere crimini impunemente, adorare falsi dei; ed è per questo che muta parere, che "si pente" addirittura, di ciò che aveva fatto prima. Il desiderio di giustizia innato in ciascuno di noi, che fremiamo vedendo i perfidi trionfare in questo mondo ed i piccoli e i deboli calpestati senza pietà, viene automaticamente applicato a Dio, che a differenza nostra ha tutti i mezzi a sua disposizione per dare il fatto suo a chi si è comportato male. Il diluvio è presentato perciò non come un arbitrario gesto inconsulto da parte di un padrone che tratta noi uomini come un contadino tratta un campo di patate, bensì come un colossale atto di giustizia contro i peccatori (e la Giustizia e l'Amore non sono forse i tratti distintivi del Dio giudeo-cristiano?) Così scrive magistralmente Manfred Lurker (1928-1990) nel suo "Dizionario delle immagini e dei simboli biblici":

« I salvati dal diluvio hanno solitamente la funzione di apportatori di civiltà o di salvezza, così come avviene per i bambini che in numerosi miti vengono esposti. Il futuro potente re Sargon di Accad sarebbe stato consegnato alle acque dell'Eufrate in un cestello di canne; qualcosa di simile narra la saga romana di Romolo e Remo, che vennero esposti sul Tevere in un tino simile a una culla. [...] Con la parola tebah ("arca") è indicato anche il « cestello di papiro » spalmato di bitume e di pece in cui Mosè fu esposto fra i giunchi sulla riva del Nilo (Es 2,3-9). Anche qui è in gioco la Provvidenza di Dio, e il cestello di giunchi è immagine di liberazione e salvezza. E persino le circostanze della nascita di Cristo, il suo essere esposto in questo mondo e nella mangiatoia (un altro "cestello") presentano riferimenti tipologici con la storia dell'arca di Noè e con quella dell'esposizione di Mosè nel Nilo in un cestello di giunchi. E infatti in alcuni scritti neotestamentari l'arca è riconosciuta come simbolo di salvezza: "al tempo di Noè, mentre si preparava l'arca, poche anime, cioè otto, furono salvate attraverso l'acqua. Quest'acqua era figura del battesimo che ora salva anche voi, mediante la risurrezione di Gesù Cristo..." (1Pt 3,20-21) »

"C'erano i giganti sulla Terra"
A questo proposito, è bene spendere due parole anche sul CONTESTO nel quale è ambientata la tragedia del diluvio, perchè è molto importante.  All'inizio della "storia di Noè", in Gen 6, 4 si dice: "A quei tempi c'erano i Giganti sulla Terra, e anche più tardi, quando i figli di Dio conobbero le figlie degli uomini, e queste partorirono loro dei figli. Sono questi i famosi eroi dei tempi antichi." Questo è un racconto molto arcaico, non nel senso che è stato scritto molto tempo fa (la redazione finale del Pentateuco risale al VI sec. a.C.), ma nel senso che l'origine della tradizione è antichissima. Tra l'altro, lo si ritrova in molte altre civiltà, non solo presso quella ebraica o mesopotamica: chi ignora infatti che la maggior parte degli eroi greci che presero parte alla guerra di Troia discendeva da dei e dee dell'Olimpo? Achille, il superman del mito ellenico, era figlio di Teti, dea del mare; Ulisse doveva la sua astuzia al fatto di discendere direttamente da Ermes (Mercurio), dio dei ladri; Menelao, re di Sparta, oltre ad essere genero di Zeus in persona per mezzo della bellissima moglie Elena, discendeva egli stesso dal re degli dei attraverso Tantalo, re di Lidia, famoso per la proverbiale punizione che ricevette nell'Ade. Idem dicasi per il re troiano Priamo e per tutti i suoi figli, discendenti da Dardano, nato dall'amore di Zeus per Elettra, reso immortale da Foscolo nei suoi "Sepolcri". Nel poema che porta il suo nome, poi, Enea per cavarsi d'impiccio si giova assai spesso del fatto di essere figlio di Venere. Al di fuori dei poemi omerici troviamo Edipo, sfortunato re di Tebe, che discendeva da Agenore, re dei Fenici, figlio di Poseidone e della ninfa Libia. Addirittura Ercole, l'eroe greco per antonomasia, era figlio di Zeus e di Alcmena, moglie di Anfitrione re di Tebe, le cui sembianze Giove assunse per poter impunemente giacere con la sua donna; Eeta, re della Colchide a cui Giasone riesce a trafugare il vello d'oro, era figlio di Elios, dio del sole, così come la maga Circe. Anche Minosse e Radamanto, i due noti giudici dell'oltretomba, erano figli di Zeus e della ninfa Europa.

Come si vede, pare che l'intero Olimpo sia venuto a spassarsela sulla terra, facendo razzia di donne per soddisfare il proprio piacere, e generando così tutto un popolo di semidei dotati di qualità eccezionali, che si ritiene aver abitato nel nostro stesso mondo non solo nel lontanissimo passato, attestato solo da leggende tanto fantasiose quanto incredibili, ma anche in epoca storica, quando avvenivano fatti seriamente documentati come la presa di Troia. D'altra parte, anche Alessandro Magno asserì di essere figlio nientemeno che di Giove Ammone!

Ora, per tornare alla Bibbia, i "figli di Dio" di cui essa narra in Gen 6 altro non sono che gli angeli. Non può essere che così, perchè - mentre i popoli pagani avevano tanti dei, e  quindi si poteva ammettere che questi dei si accoppiassero con le "figlie degli uomini", cioè con le donne  mortali - per gli Ebrei c'era un solo Dio, questo era di natura trascendente e non si accoppiava con nessuno! Quindi, sono gli angeli che decidono ad un certo punto di INCARNARSI e di dare vita a una stirpe di EROI. Gli eroi sono tali, cioè sono più forti e/o più astuti degli altri mortali, proprio perchè hanno il sangue celeste che scorre nelle loro vene.

Questi eroi antichi sono chiamati "giganti", in ebraico "Nefilim". Forse perchè erano di alta statura? In altre parole, si tratta davvero dei "giganti" di cui parlano i romanzi di fantasy che oggi conoscono tanta fortuna, e cioè esseri dalle fattezze umane, ma dalla statura colossale? Davvero la Genesi asserisce che, in quelle età oscure, la Terra fu percorsa da uomini alti come cipressi, dotati della forza di un elefante e di una cattiveria proporzionata alla propria mole? Per quanto possa sembrare strano, un pio ebreo come il profeta Baruc intende proprio così, chiamandoli "alti di statura"  (Bar 3, 26): forse aveva sentito parlare della leggenda greca dei Titani, figli del Cielo e della Terra, che furono vinti da Zeus e schiacciati nel Tartaro per aver osato tentare di scalare l'Olimpo e scalzarne gli dei (evidentemente, greci o biblici che siano, è destino che i poveri giganti facciano una brutta fine. Basta pensare agli orchi delle fiabe, conciati per le feste sia da Pollicino che dal furbo gatto con gli stivali). Tenete però presente che non necessariamente bisogna attribuire una statura ciclopica a quei mitici guerrieri. Uno è un gigante anche quando è semplicemente più forte degli altri: non si è detto forse anche di Cassius Clay che era un "gigante della boxe"? Ecco cosa ha scritto in proposito un commentatore: "L'autore sacro si riferisce a una leggenda popolare sui giganti, nati dall'unione tra donne mortali ed esseri celesti. Senza pronunciarsi sul valore di questa credenza e velando il suo aspetto mitologico, richiama solo questo ricordo di una razza insolente di superuomini, come un esempio della perversità crescente che sta per motivare il diluvio".

Una cosa, comunque, è certa: gli Achille e gli Ercole di cui favoleggiano tutte le mitologie, se mai sono esistiti, sono vissuti in un'epoca così remota che gli autori di tali saghe mitologiche non sanno neppure esattamente quando collocarle. Allora l'autore biblico se la cava affermando semplicemente che sono vissuti "prima del diluvio". Anche durante il XVII e il XVIII secolo, allorché si rinvenivano dei fossili non identificati di cui non si sapeva fornire l'età, perchè allora non c'erano il carbonio-14 ed altri metodi moderni di datazione, si diceva che erano resti di esseri viventi periti nel diluvio universale. Persino i primi fossili di dinosauro mai scoperti, delle impronte di zampe tridattili rinvenute in America, furono considerate orme lasciate dal "corvo di Noè" dopo il diluvio! Pensate che perfino il famoso paleontologo Georges Cuvier (1769-1832), il padre del moderno studio dei fossili, ammetteva per vera la cosiddetta teoria catastrofica, secondo cui sciagure di portata cosmica si sarebbero periodicamente abbattute sulla terra, cancellando ogni forma di vita, che poi Dio avrebbe provveduto a ricreare: l'ultima catastrofe doveva essere, per l'appunto, il diluvio universale di cui parla la Genesi.

Homo diluvii testis: uomo o salamandra?

Homo diluvii testis: uomo o salamandra?

A questo proposito, vi invito ad osservare con me lo strano fossile raffigurato qui sopra, che venne rinvenuto nel 1726 in una miniera di Öhningen (Germania) dal naturalista svizzero Johann Jakob Scheuchzer (1672 - 1733). Alla luce di quanto vi ho detto prima, non deve certo stupirvi il fatto che egli lo descrisse come se si trattasse dello scheletro di uomo perito nel diluvio universale; le sue dimensioni (circa 3 metri) lo facevano infatti passare per uno dei "famosi giganti dei tempi antichi" cui abbiamo appena accennato: a sinistra si vedrebbe il bacino, a destra la colonna vertebrale. Per questo lo battezzò "Homo diluvii testis". Oggi sappiamo che si tratta in realtà di una salamandra gigantesca, simile alla Sieboldia maxima del Giappone, vissuta nel Miocene, circa 20 milioni di anni fa: quello che era stato creduto il bacino, era in realtà il cranio. L'equivoco è rispecchiato ancor oggi dal suo nome scientifico di Andrias  Scheuchzeri, perché Andrias letteralmente significa "simile all'uomo"!

I figli di Set e le figlie di Caino
Detto questo, per dovere di cronaca devo informarvi che i Padri della Chiesa avevano proposto un'altra spiegazione dell'oscuro passo biblico del quale stiamo discutendo: i "figli di Dio" sarebbero gli uomini fedeli a Dio, cioè i discendenti di Set citati nella genealogia di Gen 5, mentre le "figlie degli uomini" sarebbero le donne peccatrici, cioè le discendenti di Caino. I figli di Set erano tutti pii, tutti dediti al culto del Signore, ma ad un certo punto essi sposarono le donne cainite, e queste li pervertirono. Evidentemente, era all'opera quella detestabile forma di maschilismo che portò certi artisti del Medioevo a scolpire sui capitelli delle cattedrali gotiche l'effige del diavolo intento a porgere la donna ad Adamo, e che indusse san Girolamo a definire la donna "porta del demonio, via dell'iniquità, genere nocivo"! Per usare un luogo comune, erano davvero "altri tempi"!

Ora, questa interpretazione di Gen 6, 1-4 è puramente romanzesca, perchè nella Genesi non c'è alcun elemento che possa far pensare a una simile identificazione. L'espressione "figli di Dio" (in ebraico ben-Elohim) nella tradizione giudaica antica designa sempre gli ANGELI, o comunque esseri superiori agli uomini, manifestazioni della trascendenza divina; dunque, il voler vedere in questi passi l'unione dei figli di Set e delle figlie di Caino è teoria nata in un ambiente che poco conosceva dell'ebraismo e della lingua degli Israeliti. Procedendo solo per associazione di idee si rischia insomma di far dire al testo biblico quello che non ha mai voluto dire, un po' come le letture fondamentaliste della Bibbia e del Corano che si fanno oggi, le quali poggiano sullo stesso errato principio che è alla base di questa fantasiosa interpretazione.

Ad ogni modo, con chiunque li si voglia identificare, tutti sono d'accordo nell'affermare che, ben presto, questi giganti si mettono a PECCARE. Perchè lo fanno? Perchè loro sono figli di dei, mica mortali ordinari. Infinitamente superbi della loro prestanza e della loro ascendenza celeste, pensano di poter fare quello che più aggrada loro, e cresce così la loro malvagità. Il bel film di Ermanno Olmi intitolato "Genesi: la Creazione e il Diluvio", trasmesso in prima visione TV da RaiUno la sera del Sabato Santo 1996, per rappresentare il pervertimento degli uomini immediatamente prima del diluvio universale, ci fa scorrere davanti agli occhi le immagini della guerra in Bosnia, di quella del Golfo, delle moderne tragedie della follia, ed in tal modo mette benissimo in rilievo il fatto (di cui vi ho parlato in precedenza) che questi non sono altro che discorsi attuali proiettati all'origine dei  tempi! Questa è una riprova del fatto che, come ha scritto il biblista Mario Cimosa, questi racconti vogliono solo "manifestarci l'amore di Dio che è entrato nella storia dell'uomo, si è messo a camminare accanto a lui, (...) lo ha liberato dalla schiavitù di sé medesimo. E la Bibbia lo fa non in maniera astratta e teorica, ma in modo concreto... descrivendo in mondo palpabile le vicende dell' uomo di allora, che sono le vicende dell'uomo di sempre".