Lia e Rachele  

Rachele muore per dare vita. È una morte feconda la sua, carica
di speranza: la madre che ha generato per grazia, muore donando

Giacobbe, in fuga dal fratello Esaù a causa dell'inganno con il quale gli aveva sottratto il diritto di primogenitura, arriva nella terra dei padri, a Paddan-Aram, presso lo zio materno, Labano.

È a questo punto della storia di Israele che entrano in scena due figure di donne motto importanti per il futuro del popolo santo: Rachele e Lia (Gen 29-30).

Rachele è una pastorella: i saggi dicono che, nel suo andare e venire fuori da casa, era protetta dalla Shekinah (la Presenza di Dio) perché era difficile per loro immaginare, riguardo ad una donna, una vita all'aria aperta, una vita sottoposta ai pericoli dell'esterno, dell'erranza e, senza dubbio, delta solitudine. È vicino ad un pozzo al quale Rachele si ferma per far abbeverare il suo gregge che Giacobbe la incontra per la prima volta. E diventa immediatamente, per lui, la donna del cuore: mentre la tradizione pone il matrimonio come fonte e condizione dell'amore, come primizia di un sentimento gratificato dalla benedizione della Legge, con Giacobbe e Rachele è l'immediatezza dell'amore dell'uno per l'altra che decide il matrimonio e induce il patriarca a servire per anni e anni il padre di lei pur di poterla sposare. Gli era bastato vederla la prima volta per eleggerla eternamente a prediletta del suo cuore. Nessun altro segno gli era necessario per confermarlo nell'immediata certezza che il destino dell'alleanza sarebbe passato attraverso di lei e che l'obbedienza al desiderio di sua madre Rebecca di vederlo sposato ad una donna degna della promessa si stava realizzando. Il racconto della Genesi precisa, però, che Rachele non è sola: la sua posizione di figlia minore all'interno della genealogia della sua famiglia, interferisce sul suo destino. « Ora Labano aveva due figlie; la maggiore si chiamava Lia e la più piccola si chiamava Rachele. Lia aveva gli occhi smorti, mentre Rachele era bella di forme e avvenente di aspetto, perciò Giacobbe s'innamorò di Rachele » (Gen 29, 16-18). Nel suo Commento alla Genesi, Rashi di Troyes spiega, con un piccolo racconto, che in virtù dell'usanza che imponeva il matrimonio della maggiore prima della minore e secondo l'accordo tra Labano e Rebecca, Lia era promessa sposa ad Esaù, Rachele a Giacobbe. Di un tale destino entrambe vivevano le conseguenze: Rachele diventava più bella di giorno in giorno sentendo parlare di Giacobbe; Lia, invece, si consumava nel dolore, sentendo le malefatte e il carattere di Esaù. La bellezza dell'una, la sua grazia e la sua giovinezza, deponevano a favore delle sue qualità, mentre le lacrime dell'altra indebolivano e rovinavano i suoi occhi.

L'intervento di Labano che "sostituisce" Rachele con Lia la notte delle nozze, scatena la reazione di Giacobbe che, pur di avere la donna amata, promette a Labano stesso altri sette anni al suo servizio. Ma ecco che la donna tanto bella e sospirata, si rivela sterile. Bella, ma senza capacità generative, un utero infecondo e senza vita. AI contrario Lia, messa da subito in secondo ordine da Giacobbe e da lui trascurata, ha la benedizione di Dio dalla sua parte e genera al marito una numerosa prole. Sembra, all'autore sacro, che questa situazione dipenda da Dio, il quale fa giustizia già su questa terra. Rachele che è bella, amata e dunque sembra aver tutto, di fatto tutto non ha perché è sterile. Lia, meno dotata in bellezza e meno amata, è feconda. E ad ogni nascita Lia spera di ricevere, finalmente, il segno di un attaccamento del suo sposo, ma invano: malgrado le sue numerose maternità, Giacobbe continuerà nella fermezza dei suoi sentimenti così diversi nei confronti delle due sorelle. Il nome di ognuno dei figli di Lia rivela la costanza del suo desiderio di essere amata e l'invincibilità della sua riconoscenza verso Dio malgrado il rinnovarsi della sua delusione, malgrado il silenzio totale di Giacobbe a ciascuno di questi avvenimenti. Ecco dunque che, nella solitudine, Lia genera e dà il nome a Ruben, perché « il Signore ha visto la mia umiliazione », a Simeone, perché « il Signore ha udito che ero trascurata », a Levi, perché « questa volta mio marito mi si affezionerà », a Giuda, per il quale essa « rese grazie a Dio ». Ma un altro grido viene elevato a Dio, quello di Rachele: « Dammi dei figli, se no io muoio! ». È un grido di profonda angoscia che rasenta la disperazione.

Rachele, pur di avere un figlio, supplica il marito di unirsi alla sua schiava e di darle una discendenza attraverso di lei. Ma Dio ha in serbo qualcosa di più grande: non solo un figlio per interposta persona, ma il frutto del suo grembo, la fine della sterilità. Nasce Giuseppe e non meraviglia che Giacobbe lo amasse più di tutti i suoi fratelli: è il figlio di Rachele! Anzi, a questo punto può partire dal paese che lo ospita e ritornare a casa. Anche Rachele ha un figlio! Se Lia verrà sepolta da Giacobbe nella tomba dei padri a Mamre, accanto ad Abramo, Sara, Isacco e Rebecca, come del resto spettava alla prima moglie, Rachele morirà sulla strada per Betlemme nel dare alla luce il suo secondogenito, figlio del suo dolore e perciò figlio di estrema benedizione per Giacobbe. Rachele muore per dare vita. È una morte feconda la sua, carica di speranza: la madre che ha generato per grazia muore donando, a sua volta, la vita che le era stata donata. Anche dopo morta, ci dice il profeta Geremia, piange i suoi figli uccisi e dispersi dall'esilio in Babilonia. Per i suoi meriti, Dio avrà pietà di Israele e lo ricondurrà nella sua terra.

William Dyce, "Giacobbe incontra Rachele al pozzo", Royal Academy, Londra, ca. 1850

William Dyce, "Giacobbe incontra Rachele al pozzo", Royal Academy, Londra, ca. 1850