Particelle dallo spazio  

Parlando di particelle, non possiamo non accennare a quelle che piovono sulla Terra provenienti dallo spazio, e che hanno avuto un grande impatto sull'immaginario collettivo, anche se ben pochi ne conoscono la vera natura. Stiamo parlando dei raggi cosmici.

Il loro studio costituisce un campo di ricerca che si trova al confine tra l'astrofisica, la fisica nucleare e la fisica delle particelle elementari. Con il termine generico di raggi cosmici, i fisici si riferiscono a una vasta gamma di particelle di provenienza extraterrestre che riempiono lo spazio attorno alla Terra. Si tratta di particelle di energia estremamente elevata, circa 100 volte superiore a quella raggiunta dalle particelle negli acceleratori: pensate che una sola di queste particelle possiede la stessa energia cinetica di una pallina da tennis che si muove alla velocità di 200 km/h! In media, una particella incide su ogni centimetro quadrato di superficie sulla Terra ogni secondo. Studiare la natura e l'origine di queste particelle vuol dire indagare alcuni dei fenomeni più sorprendenti che avvengono nel nostro universo.

L'ipotesi dell'esistenza di una radiazione corpuscolare proveniente da una sorgente al di fuori del nostro pianeta iniziò a prendere corpo nel primo decennio del XX secolo. In particolare, questa ipotesi venne suggerita dagli studi compiuti sui fenomeni di conducibilità elettrica nei gas. Nel 1785 infatti Carl Augustin Coulomb (1736-1806) dimostrò che un elettroscopio, dopo essere stato caricato elettricamente, non manteneva indefinitamente la carica posta sulle sue foglie d'oro. Secondo le leggi dell'elettrostatica, questo fenomeno poteva essere spiegato solamente ipotizzando che non tutte le particelle di gas che riempivano l'aria circostante fossero elettricamente neutre, ma che alcune di esse fossero ionizzate e avessero carica positiva o negativa. Stabilita la causa del fenomeno, rimaneva da comprendere quale fosse il meccanismo che causasse la ionizzazione dell'aria. Inizialmente si pensava che fosse dovuta all'effetto di radiazioni provenienti da sostanze radioattive presenti nella crosta terrestre, da poco scoperte dal fisico francese Henry Becquerel e dai coniugi Marie e Pierre Curie. Grazie al loro elevato potere penetrante, queste erano le uniche particelle in grado di ionizzate l'aria. Questa ipotesi, tuttavia, venne contraddetta rapidamente in seguito ai primi esperimenti condotti ad alta quota. Misure compiute portando alcuni elettroscopi sulla cima della Torre Eiffel mostravano infatti che essi tendono a scaricarsi ugualmente anche se allontanati da sorgenti di radioattività naturale. Questo risultato era incompatibile con l'ipotesi che la radiazione ionizzante fosse esclusivamente di origine terrestre. Se così fosse stato, il flusso radioattivo avrebbe dovuto diminuire rapidamente allontanandosi dalla superficie terrestre e, di conseguenza, anche il tasso di ionizzazione delle particelle atmosferiche. L'italiano Domenico Pacini (1878-1934) escluse l'origine terrestre delle radiazioni cosmiche studiandole nelle acque marine di Livorno e in quelle del lago di Bracciano fra giugno e ottobre 1911, e registrandone la diminuzione di intensità all'aumentare della profondità. Nel 1912 invece il fisico tedesco Werner Kolhörster (1887-1946) e l'austriaco Victor Franz Hess (1883-1964) compirono misure della radiazione penetrante durante delle ascensioni in mongolfiera: dall'aprile all'agosto di quell'anno Hess ebbe l'opportunità di effettuare sette ascensioni in pallone, portando a bordo tre diversi strumenti di misura della radioattività. Nel volo finale, il 7 agosto del 1912, Hess raggiunse i 5200 metri a bordo della mongolfiera "Böhmen" durante un viaggio di sei ore da Aussig, nella Boemia settentrionale, a Pieskow, un villaggio a una sessantina di chilometri a est di Berlino. I risultati mostrarono chiaramente che la velocità di scarica di un elettroscopio tende ad aumentare a quote superiori a 1500 metri. Questo risultato poteva essere interpretato solamente ipotizzando che anche il tasso di ionizzazione dell'atmosfera aumentasse al di sopra dei 1500 metri e che, quindi, la radioattività terrestre giocasse un ruolo secondario in questo tipo di fenomeno. Per la precisione, immediatamente sopra al suolo la radiazione totale diminuisce leggermente; a un'altitudine fra i 1000 e i 2000 metri avviene una leggera ricrescita della radiazione penetrante; già a un'altitudine fra i 3000 e i 4000 metri, l'aumento raggiunge il 50% della radiazione totale che si osserva al suolo; tra i 4000 e i 5200 metri la radiazione è più forte di oltre il 100 % che al suolo. Kolhörster si spinse fino a 9000 metri d'altezza, confermando i risultati di Hess.

L'unica spiegazione plausibile era che esistesse una forma di radiazione ionizzante negli strati alti dell'atmosfera, la cui origine doveva essere necessariamente extraterrestre. A questa radiazione venne dato il nome di raggi cosmici, e da questo momento in poi lo studio dei raggi cosmici seguì di pari passo l'evoluzione della fisica nucleare e delle particelle. Per le sue scoperte sui raggi cosmici Hess vinse nel 1936 il Premio Nobel per la Fisica.

All'epoca della loro scoperta, i raggi cosmici erano di gran lunga la forma di radiazione più penetrante tra quelle conosciute. A titolo di esempio, le particelle alfa si propagano nell'atmosfera per distanze di non più di 10 centimetri. Il primo ad avanzare un'ipotesi sulla natura dei raggi cosmici fu il fisico inglese Robert Millikan (1868-1953), famoso per aver dimostrato la quantizzazione della carica elettrica. Egli ipotizzò che la radiazione cosmica fosse costituita da fotoni molto energetici, vale a dire raggi gamma, che venivano assorbiti dall'atmosfera interagendo mediante effetto Compton. In particolare, Millikan ipotizzò che tale fotoni fossero originati da processi di fusione nucleare nel gas interstellare. Questa teoria però venne contraddetta net giro di pochi anni: nel 1929, infatti, Werner Kolhörster e Hans Bethe utilizzarono il contatore Geiger di recente invenzione per dimostrare che la radiazione cosmica era carica elettricamente e, quindi, era di tipo corpuscolare. Un notevole impulso allo studio dei raggi cosmici fu dato negli anni trenta dall'inglese Patrick Blackett (1897-1974) e dall'italiano Giuseppe Occhialini (1907-1993).

Vale la pena di spendere due parole su questo grande scienziato italiano. Giuseppe Occhialini, uno dei fisici più brillanti della sua generazione, si laureò all'Università di Firenze a soli 22 anni, e trascorse la prima parte della sua carriera presso il Cavendish Laboratory di Cambridge dove contribuì a mettere a punto alcune tecniche di rivelazione di particelle, che permisero la scoperta del positrone. Sfortunatamente, nonostante l'indubbio valore della sua ricerca scientifica, Occhialini non vinse mai il Premio Nobel, pur andandoci molto vicino nel 1950. Nel 1952 Occhialini divenne professore di Fisica presso l'Università di Milano, fondando un gruppo di ricerca finalizzato allo studio dei raggi cosmici e delle particelle elementari; insieme a Edoardo Amaldi, Occhialini diede anche un notevole impulso allo sviluppo dell'allora nascente ricerca spaziale europea, e fu uno dei padri fondatori del progetto ESA che portò al lancio del satellite COS-B per osservazioni dei raggi gamma. Era inoltre appassionato di alpinismo e di speleologia. Giuseppe Occhialini, detto confidenzialmente Beppo dagli amici, si spense a 86 anni il 30 dicembre 1993; in suo onore è stato battezzato il satellite BEPPO SAX, realizzato dall'Agenzia Spaziale Italiana per lo studio dell'Universo nei raggi X; lanciato il 30 aprile 1996, restò operativo fino al 29 aprile 2003, fornendo risultati scientifici di eccezionale valore.

Giuseppe Occhialini (Fossombrone, 5 dicembre 1907 – Parigi, 30 dicembre 1993)

Giuseppe Occhialini (Fossombrone, 5 di-
cembre 1907 – Parigi, 30 dicembre 1993)

Blackett e Occhialini dimostrarono mediante camera a nebbia che le particelle cosmiche sono in grado di generare sciami di particelle secondarie, e cioè che in alcuni casi esse si diramano in più segmenti, ognuno dei quali è associato alla formazione di una nuova particella. Questa serie di lavori portò rapidamente ad ipotizzare che le interazioni dovessero avvenire anche negli strati più esterni dell'atmosfera e che, in realtà, dovessero esistere due tipi di radiazione cosmica: una di tipo primario e una di tipo secondario. Nello stesso periodo, l'americano Carl Anderson (1905-1991) eseguì esperimenti mirati a determinare la natura delle particelle che formavano gli sciami. Essendo particelle cariche, esse dovevano essere sensibili all'azione di un campo magnetico; quindi Anderson ripeté le misure di Blackett e Occhialini, ma ponendo una camera a nebbia in un campo magnetico molto intenso e osservando le tracce lasciate dagli sciami. In particolare egli osservò come non sempre le tracce risultavano curvate nella stessa direzione, e concluse che le particelle dovevano essere cariche sia positivamente che negativamente. Le uniche particelle elementari cariche elettricamente allora conosciute erano l'elettrone (negativo) e il protone (positivo). Misure più raffinate però portarono a concludere che in alcuni casi le particelle positive non erano protoni. Ricavando dalla traccia la misura del raggio di curvatura di tali particelle e, dalla sua consistenza, il loro potere ionizzante, Anderson fu in grado di risalire alla loro massa. Sorprendentemente, essa risultò essere uguale (nell'ambito degli errori sperimentali) a quella dell'elettrone. Gli esperimenti sui raggi cosmici avevano condotto all'evidenza sperimentale dell'esistenza di antiparticelle, fino ad allora solo postulata da Paul Dirac (1902-1984). I raggi cosmici hanno dunque aiutato parecchio lo sviluppo della fisica delle particelle: dallo studio di tale radiazione spaziale sono stati scoperti non solo il positrone, ma anche il muone e le particelle strane, in un'epoca nella quale la tecnologia degli acceleratori non era ancora molto avanzata; ed ancora oggi l'energia dei raggi cosmici è milioni di volte superiore rispetto a quella che si può ottenere negli acceleratori terrestri.

Nel 1931 il fisico italiano Bruno Rossi (1905-1993) notò che, se la carica delle particelle era positiva, esse dovevano provenire in maniera preferenziale da ovest. Enrico Fermi inoltre propose il possibile meccanismo di accelerazione dei raggi cosmici, in particolare nei resti di supernova. Il meccanismo di Fermi resta ancora il modello principale per la spiegazione dell'emissione. Anche l'astrofisico sovietico Nikolai Kozyrev (1908-1983) si dedicò dal 1959 fino alla morte all'investigazione teorica e sperimentale dei raggi di natura cosmica. Nei primi anni sessanta il fisico Giuseppe Cocconi (1914-2008), lavorando al Brookhaven National Laboratory, fu il primo ad ipotizzare che i raggi cosmici altamente energetici fossero di provenienza extragalattica, ipotesi poi confermata. Cocconi ipotizzò anche che all'emissione di raggi cosmici carichi si accompagnasse l'emissione di raggi gamma; anche quest'ipotesi fu confermata e oggi i raggi gamma vengono utilizzati come tracciatori dell'accelerazione cosmica di particelle.

La composizione della radiazione cosmica primaria è stata studiata a lungo utilizzando ogni sorta di rivelatori, prima portati in quota per mezzo di palloni e sonde stratosferiche, e poi, con il progredire dell'astronautica, utilizzando razzi e satelliti artificiali in orbita attorno alla Terra. Essendo la radiazione cosmica costituita per la maggior parte da particelle, essa risente dell'azione di un eventuale campo magnetico e, per questo motivo, il moto dei raggi cosmici viene influenzato dal campo magnetico terrestre. Questo fatto determina la creazione di regioni attorno al nostro pianeta dove la densità di particelle cariche risulta più elevata che in altre. Questo è quanto accade all'interno delle Fasce di Van Allen. Proprio dagli studi svolti sul comportamento dei raggi cosmici all'interno del campo magnetico terrestre fu possibile dedurre che la radiazione cosmica primaria era costituita per la maggior parte da particelle di carica positiva. In particolare, protoni (i più energetici e i più numerosi, circa l'87 %), nuclei atomici (a partire da idrogeno ed elio per arrivare a nuclei più pesanti) e positroni. Una percentuale minore della radiazione cosmica primaria è costituita anche da elettroni e raggi gamma. Entrambi sarebbero il prodotto secondario delle interazioni nucleari che avvengono tra le altre particelle cosmiche e il gas presente nello spazio interstellare. Durante l'attraversamento dell'atmosfera terrestre, la componente primaria della radiazione cosmica viene gradualmente assorbita e vengono generati attraverso nucleari i raggi cosmici secondari. A livello del mare, quindi, non esiste più traccia della radiazione primaria, e ciò che si osserva è solamente la componente secondaria, emettendo elettroni, positroni e neutrini. Per evitare interferenze, molti laboratori di fisica dedicati allo studio dei raggi cosmici si trovano nel sottosuolo, come il laboratorio del Gran Sasso.

Anche se i raggi cosmici non possono essere visti direttamente, essi possono essere fotografati utilizzando tecniche di rivelazione particolari. Una di queste consiste nell'impiego di emulsioni fotografiche particolarmente sensibili. Quando un raggio cosmico attraversa tale materiale, interagisce con esso a livello nucleare provocando l'emissione di particelle secondarie (i cosiddetti sciami) che, diffondendosi a raggiera nell'emulsione fotografica, danno origine alle caratteristiche strisce. In questo modo e possibile visualizzare facilmente il punto esatto in cui il raggio cosmico ha interagito. Quando una particella della radiazione cosmica primaria, ad esempio un protone, colpisce un nucleo dell'atmosfera, vengono prodotti altri nuclei atomici, spesso essi stessi radioattivi, e alcune altre particelle più o meno inusuali, tra le quali ancora muoni e pioni, che decadono in tempi estremamente brevi (pari, rispettivamente, a circa 2 milionesimi e 2 centomilionesimi di secondo. Ecco come avviene la formazione della radiazione cosmica secondaria negli strati alti dell'atmosfera: un raggio cosmico interagisce con un nucleo atmosferico producendo particelle secondarie instabili (mesoni π) e nuclei secondari. I mesoni decadono rapidamente: un pione positivo (π+) o negativo (π) decade a formare un muone positivo (μ+) o negativo (μ) che, a sua volta, decade a formare un positrone o un elettrone e vari tipi di neutrini. Viceversa, un pione neutro (π0) decade direttamente producendo una coppia di raggi gamma che decadono in coppie elettrone-positrone. Mentre i neutrini passano attraverso la materia senza interagire, le altre particelle prodotte vengono rivelate come parte della radiazione cosmica secondaria. Quando, invece, la particella cosmica è essa stessa un nucleone, l'interazione con i nuclei atmosferici ne provoca la completa disgregazione e la formazione di particelle di ogni genere.

Ecco cosa succede quando un protone colpisce un atomo dell'alta atmosfera (da questo sito)

L'origine dei raggi cosmici ha rappresentato a lungo un mistero, e non ha ancora trovato una soluzione condivisa da tutti. In particolare non è ancora chiaro se essi siano di provenienza esclusivamente galattica o se esistano anche sorgenti extragalattiche e, quindi, l'Universo sia permeato da un flusso continuo di queste particelle. Il problema principale, in questo caso, e dovuto all'incapacità di stabilire con una certa sicurezza la direzione di arrivo dei raggi cosmici e, quindi di identificarne le sorgenti. A parte una percentuale minima di raggi cosmici costituita da raggi gamma, la maggior parte è rappresentata da particelle cariche, sensibili all'azione del campo magnetico della nostra galassia nonché dei corpi celesti che avvicinano. Per questo motivo i raggi cosmici subiscono continue deviazioni che rendono assolutamente impossibile ricostruire la loro traiettoria originale. Sicuramente, sia all'interno che all'esterno della nostra galassia esistano corpi, come i nuclei galattici attivi o le pulsar, attorno ai quali avvengono fenomeni particolari che provocano l'emissione di particelle estremamente energetiche. Oggi sappiamo che i raggi cosmici di energia intermedia (fino a 10.000 TeV) che permeano lo spazio interstellare e bombardano costantemente il nostro pianeta, e che provengono dalla Via Lattea, vengono accelerati nei resti delle esplosioni delle supernovae; l'energia termica totale causata dall'esplosione delle stelle viene spesa in gran parte per accelerare alcune particelle a velocità prossime a quelle della luce.

Nel 2004 è entrato in funzione il più grande rivelatore a terra mai realizzato per l'osservazione dei raggi cosmici, chiamato Osservatorio Pierre Auger, situato nella pampa argentina vicino a Malargue. Grazie alla sua schiera di 1600 rivelatori sparsi su un'area di 3000 chilometri quadrati nella parte occidentale dell'Argentina, ciascuno dei quali costituito da un serbatoio contenente 12 tonnellate di acqua, l'osservatorio Auger sta fornendo informazioni fondamentali sui raggi cosmici, in particolare indicando che la direzione dei raggi cosmici di energia estremamente alta (superiore a centinaia di milioni di TeV) è correlata ai nuclei delle galassie al di fuori della Via Lattea, e in particolare è stata riconosciuta come sorgente la galassia Centaurus A. Difatti il 22 settembre 2017 Karl-Heinz Kampert, dell'Università di Wuppertal, portavoce della collaborazione Auger che coinvolge 400 ricercatori di 18 nazioni, ha annunciato la scoperta di una regione di spazio particolarmente attiva nell'emettere particelle estremamente energetiche. Tale rivelatore è riuscito a determinare la distribuzione delle direzioni di arrivo di più di 30.000 particelle cosmiche con energia oltre i 2 Joule, e dall'analisi statistica dei dati è emerso che il flusso di questi raggi cosmici proveniente da una certa direzione, che forma un angolo di 120° rispetto al centro galattico, è del 6 % maggiore rispetto a quello proveniente dalla direzione opposta. L'eccesso di raggi cosmici punta verso una direzione in cui la distribuzione delle galassie è relativamente elevata: ciò indica chiaramente un'origine extragalattica per le particelle, ma le vere sorgenti devono ancora essere individuate. Si pensa che l'origine dei raggi cosmici di altissima energia sia legata ai collassi gravitazionali in prossimità dei buchi neri supermassicci (con masse superiori anche a un miliardo di masse solari). L'astronomia con i raggi cosmici carichi è comunque difficile perché, anche con strumenti grandissimi come Auger, il numero di eventi raccolti è piccolo: qualche decina all'anno.

Vale la pena di parlare di un piccolo mistero che ha turbato i sonni degli astrofisici negli ultimi anni. Nel 2008 infatti due rivelatori spaziali, PAMELA dell'Agenzia Spaziale Italiana e AMS-02, misurarono intorno alla Terra una quantità elevatissima di positroni, dando il via a un accesso dibattito sull'origine di questa anomalia. Le teorie avanzate per spiegarla sono due. Secondo la prima, l'eccesso di particelle potrebbe provenire da due pulsar vicine, che ruotano su se stesse molte volte al secondo e proiettano nello spazio circostante elettroni, positroni e altre particelle. La seconda teoria prevede un'origine più esotica, legata alla materia oscura. Nel 2017 l'High-Altitude Water Cherenkov (HAWC), un osservatorio per raggi gamma situato a 4500 metri di quota sulla Sierra Negra, in Messico, ha permesso di condurre precise misurazioni sulle due pulsar precedentemente identificate. Tali misure hanno portato a concludere che è piuttosto improbabile che le sorgenti dei positroni siano le pulsar vicine. Pur avendo un'età e una distanza giusta per rientrare nei parametri teorici calcolati dai ricercatori, sono infatti circondate da una spessa nube di gas che non permetterebbe la propagazione libera dei positroni. Questa misurazione non dirime la questione a favore della materia oscura, ma sicuramente lascia la porta aperta ad ipotesi che definire affascinante è dire poco.

Inoltre i raggi cosmici potrebbero gettare nuova luce sulla natura della materia oscura, l'ipotetica componente dell'universo che non si può osservare direttamente, di cui parleremo in una prossima lezione. Infatti, come si è detto, i raggi cosmici contengono una piccola quantità di particelle di antimateria (essenzialmente positroni e antiprotoni), una piccola percentuale della quale potrebbe provenire da processi di annichilazione o di decadimento della materia oscura. Ma come identificare la "firma" di questi processi? Analizzando i dati ottenuti con l'esperimento Alpha Magnetic Spectrometer (AMS), che dal 2011 è in orbita sulla Stazione Spaziale Internazionale per misurare i raggi cosmici e andare alla ricerca di segnali riconducibili alla presenza di materia oscura, due gruppi di ricerca hanno elaborato un modello accurato delle particelle di materia invisibile che potrebbe decadere nell'antimateria cosmica visibile. Alessandro Cuoco e colleghi dell'RWTH dell'Università di Aachen, in Germania, hanno elaborato due diversi scenari, che si differenziano per la presenza o meno della materia oscura. Sulla base di questi scenari hanno condotto due simulazioni, calibrando diversi parametri fisici per rendere conto al meglio dei segnali relativi a protoni, antiprotoni e atomi di elio misurati nei raggi cosmici da AMS e da altri esperimenti. Hanno così scoperto che il modello con la materia oscura è più accurato nel prevedere l'osservazione di antiprotoni: in particolare, essi proverrebbero da una particella di materia oscura dotata di una massa di 80 GeV/c2. Nel secondo studio, Ming-Yang Cui dell'Accademia delle Scienze Cinese e colleghi hanno invece adottato un approccio basato sull'analisi del rapporto tra due elementi, boro e carbonio, all'interno del flusso di raggi cosmici, che indica la distanza percorsa da tali raggi per arrivare fino a noi. I dati ricavati dall'analisi corroborano anch'essi un modello in cui è presente la materia oscura, che però sarebbe costituita da particelle dotate di una massa un po' diversa da quella ricavata da Cuoco e colleghi: tra 40 e 60 GeV/c2. I due risultati sono entrambi in buon accordo con una teoria che spiega con la presenza di materia oscura l'eccesso di raggi gamma che si osservano provenire dal centro della nostra galassia.

I Fantastici Quattro nella versione cinematografica del 2007

I Fantastici Quattro nella versione cinematografica del 2007

I raggi cosmici pongono un problema notevole all'esplorazione spaziale: nei satelliti artificiali l'elettronica di bordo deve essere irrobustita e schermata per evitare malfunzionamenti, e le particelle cosmiche disturbano i vari sistemi elettronici del satellite e sono fonte di interferenza con la strumentazione scientifica. Nel caso di missioni con equipaggio umano, poi, gli astronauti sono sottoposti agli effetti ionizzanti causati nei tessuti biologici. In pratica, chi trascorre lunghi periodi nello spazio riceve enormi dosi di radiazioni, e ciò potrebbe avere conseguenze catastrofiche sugli organismi degli astronauti durante lunghe missioni, come quelle ipotizzate nei prossimi decenni per l'esplorazione di Marte e della fascia degli asteroidi tra Marte e Giove. Sicuramente l'astronautica dovrà individuare soluzioni per schermare gli astronauti dai raggi cosmici prima di realizzare le suddette missioni: un problema che la fantascienza sembra aver totalmente dimenticato.

Eppure, nella fantascienza almeno una volta i raggi cosmici hanno giocato un ruolo fondamentale. Nell'Universo Marvel, una tempesta di raggi cosmici che investe la loro navicella spaziale durante la prima ascensione nello spazio è stata la causa della mutazione genetica di Reed Richards, Susan Storm, Johnny Storm e Ben Grimm: dotati di superpoteri da parte di questa ondata di energia, i quattro astronauti formarono il gruppo dei Fantastici Quattro, il primo team di supereroi, nato nel novembre del 1961.

Prima di cambiare argomento, vorrei aggiungere che la moderna fisica delle particelle può dare una grossa mano agli archeologi che si occupano di civiltà antiche. Lo dimostra il lavoro di una collaborazione franco-giapponese che, utilizzando una tecnica di imaging basata sui nostri raggi cosmici, ha scoperto un grande spazio vuoto all'interno della piramide di Cheope. Come tutti sapete, stiamo parlando della più grande delle tre piramidi che sorgono nella piana di Giza, presso il Cairo: è alta 139 metri e larga 230 metri, ed è composta da 2.300.000 blocchi di pietra, pesanti fra le 2,5 e le 60 tonnellate. Fu edificata durante il regno del faraone da cui prende il nome (in originale Khufu), che regnò sull'Egitto dal 2589 al 2566 a.C. Lo storico greco Erodoto di Alicarnasso (484-430 a.C.) ne descrisse la costruzione, ma il suo resoconto è di 2000 anni posteriore alla costruzione della piramide, mentre un papiro scoperto nel 2013 contiene la logistica della costruzione, come le modalità di trasporto delle pietre utilizzate, ma non parla delle tecniche costruttive. Finora all'interno della piramide erano note tre camere, poste a differenti altezze ma tutte orientate secondo la direzione nord-sud: la camera sotterranea, la camera della regina, e la camera del re. Queste camere sono collegate da diversi corridoi, il più imponente dei quali è la cosiddetta Grande Galleria, lunga 46,7 metri, con un'altezza di 8,6 metri e una larghezza variabile tra uno e due metri. Si ritiene che l'entrata originale sia il cosiddetto corridoio discendente, che parte dalla facciata nord, ma attualmente i turisti entrano nella piramide attraverso un tunnel attribuito al califfo Abū Jafar al-Ma'mun, costruito intorno all'anno 820 d.C. La difficoltà di esplorare altri tunnel presenti all'interno della piramide ha spinto i ricercatori a rivolgersi a tecniche di analisi attraverso l'uso di particelle molto penetranti come i muoni prodotti dai raggi cosmici. Grazie ad essi, già nel 1970 un gruppo di ricercatori stabilì che nella piramide di Chefren, la seconda della piana di Giza, non c'è alcuna camera nascosta.

In modo simile ai raggi X, che possono penetrare il corpo umano permettendo di visualizzarne le ossa, i muoni sono molto penetranti, e seguono traiettorie diverse quando si propagano nell'aria o all'interno delle rocce; quindi possono essere sfruttati per distinguere i volumi pieni da quelli vuoti in strutture complesse e di difficile accesso. Sfruttando contemporaneamente tre diverse tecniche di analisi basate sui muoni, Kunihiro Morishima e colleghi dell'Università di Nagoya sono riusciti a visualizzare un grande vuoto all'interno della piramide di Cheope e a determinarne forma e dimensioni. Si tratterebbe di uno spazio lungo almeno 30 metri, con una sezione simile alla Grande Galleria, che si trova proprio al di sotto. La precisa struttura e il ruolo questo nuovo spazio interno sono sconosciuti, ma la scoperta offre una buona base di partenza per ulteriori studi sulla struttura e le possibili tecniche costruttive della piramide di Cheope. Nel frattempo, un'altra squadra di scienziati sotto la guida di Arturo Menchaca-Rocha, della National Autonomous University of Mexico, vuole utilizzare i muoni per formare un'immagine dell'interno della Piramide del Sole di Teotihuacán, una delle maggiori dell'America Precolombiana, con 225 metri di lato e 75 di altezza, costruita verso il 100 d.C. Lo scopo ovviamente è quello di verificare se ospita delle tombe, come nel caso della Piramide della Luna. La squadra ha incontrando diversi problemi tecnici, relativi però alla struttura del sistema, e non al rivelatore di muoni. Siamo tutti in attesa dei risultati di questa straordinaria indagine.

La piramide di Cheope, foto dell'autore di questo sito

La piramide di Cheope, foto dell'autore di questo sito

Questa stessa tecnologia può essere usata per tracciare strutture molto più grandi delle piramidi, come i vulcani. Un team di fisici dell'Università di Tokyo ha installato un rilevatore di muoni a un chilometro dalla sommità del vulcano Asama sull'isola giapponese di Honshu e ha scoperto che, alcune centinaia di metri sotto il cratere, vi sono un condotto aperto e un cumulo di lava. Il team ha utilizzato la stessa tecnica per indagare anche una cupola che sta fumando dal 1945 sul fianco del vulcano di Usu, sull'isola di Hokkaido. Questo metodo potrebbe permettere di prevedere un'eruzione controllando le variazioni di densità del magma. Anche i ricercatori dell'Università di Catania sono impegnati attualmente nella realizzazione di un sistema di monitoraggio della stabilità di edifici storici, basato sul tracciamento dei raggi cosmici, oltre alla "radiografia" tramite muoni del cratere dell'Etna. Secondo alcuni ricercatori, le particelle ad alta energia che arrivano dallo spazio potrebbero presto permetterci di "mappare" l'interno del pianeta e di trovare le risorse di cui abbiamo sempre più bisogno, a partire dall'acqua; tutto ciò conferma l'utilità della fisica delle particelle per indagare non soltanto il nucleo degli atomi, ma anche antiche strutture sepolte, serbatoi magmatici e giacimenti di petrolio.

I muoni però potrebbero avere un altro sorprendente utilizzo: nientemeno che per i GPS! Infatti, essendo basato su segnali elettromagnetici, il sistema di posizionamento globale presenta alcuni limiti intrinseci che ne vincolano le possibilità di utilizzo: i segnali GPS non possono penetrare in ambienti rocciosi e nell'acqua profonda, oltre a interferire con facilità con numerose superfici e materiali. Nel 2023 un gruppo di ricerca guidato da Hiroyouki Tanaka dell'Università di Tokyo, a cui hanno contribuito anche Domenico Lo Presti e Giuseppe Gallo dell'Università di Catania, ha dimostrato per la prima volta la possibilità di realizzare un sistema di navigazione senza fili basato su muoni, che potrebbe aprire la strada ad applicazioni importanti per la geolocalizzazione in ambienti sotterranei e acquatici. Già nel 2020 Tanaka aveva proposto il cosiddetto muometric positioning system (μPS), basato su due rivelatori di muoni posti in posizioni diverse, una nota e l'altra da determinare; il primo rivelatore è in superficie, mentre l'altro si trova nel sottosuolo. Misurando l'intervallo di tempo intercorso tra il passaggio di un muone nel primo rivelatore e nel secondo e conoscendo la velocità del muone, è possibile determinare la distanza tra i due rivelatori, risalendo così alla posizione del secondo. Il problema principale di questa tecnica è riuscire a misurare il tempo in modo sincronizzato con due orologi separati; nella dimostrazione del 2020, per effettuare la sincronizzazione i due rivelatori venivano collegati tramite un cavo: un sistema evidentemente poco pratico. Ma nella nuova ricerca Tanaka ha dimostrato per la prima volta la fattibilità della stessa tecnica con un sistema di navigazione senza fili, chiamato muometric wireless navigation system (μWNS). In questo caso i rivelatori di riferimento (con posizione nota) sono stati posti al sesto piano di un edificio, mentre il rivelatore ricevitore è stato collocato al piano terra, a una distanza verticale di circa dieci metri. Ogni 30 minuti, il rivelatore da posizionare è stato avvicinato a uno dei rivelatori di riferimento, per effettuare la sincronizzazione, e poi riportato nel sottosuolo per la misura della sua posizione. La risoluzione ottenuta è dell'ordine dei dieci metri, confrontabile con quella relativa alla geolocalizzazione urbana, ma la localizzazione è stata fatta per un oggetto che si trova sottoterra, non raggiungibile dal segnale GPS. Naturalmente la strada verso un possibile uso pratico di questa tecnologia è ancora lunga: uno dei limiti attuali è rappresentato dalla sincronizzazione, che non è ancora realizzabile in tempo reale. La posizione è stata infatti calcolata solo in un secondo momento rispetto all'esperimento vero e proprio, dopo l'analisi off-line delle misurazioni acquisite. Inoltre in questa dimostrazione siano stati usati orologi al quarzo ad alta precisione, ma un salto di qualità potrebbe arrivare dall'uso di orologi ancora più sofisticati e precisi, come gli orologi atomici su scala di chip (CSAC), già in commercio ma al momento ancora molti costosi. La rapidità con cui questa tecnologia potrà diventare di uso pratico dipende molto dal mercato: se l'idea comincia a essere interessante per applicazioni, lo sviluppo tecnologico potrà accelerare rapidamente. E le potenziali applicazioni certo non mancano: la possibilità di avere a disposizione un sistema di navigazione efficiente anche in ambienti sotterranei o subacquei può aprire la strada all'uso di robot e veicoli autonomi in zone prive di localizzazione GPS e non facilmente raggiungibili per gli esseri umani, per operazioni di salvataggio o anche per obiettivi di ricerca scientifica. Una delle applicazioni più importanti sarebbe la possibilità di misurare la deformazione del suolo sottomarino in presenza di attività vulcanica o sismica.


I muoni su "Topolino" n° 3527, nell'avventura "Zio Paperone e l'inghippo del muone"!

Chiudiamo con una nota storica che riguarda il nostro paese. Nonostante le donne siano sempre state neglette nel mondo scientifico (solo quattro Premi Nobel per la Fisica dal 1901 ad oggi sono stati assegnati a delle donne, più o meno negli stessi anni Augusta Manfredini (1916), Francesca Bachelet (1919) e Giustina Baroni (1923) hanno contribuito in modo significativo, con il loro ingegno e con la loro determinazione, al progresso della fisica dei raggi cosmici. Naturalmente nessuna di loro ha avuto un percorso formativo semplice né un inizio di carriera scientifica facile: s Manfredini che Bachelet iniziarono il loro lavoro con l'insegnamento nelle scuole superiori, ma nei primi anni '50 il grande Edoardo Amaldi ne ottenne il distacco dalla scuola perché potessero lavorare come assistenti presso l'Istituto di Fisica Nucleare di Roma. Giustina Baroni, laureata in Fisica e Chimica, dopo un inizio nel 1950 come Assistente Straordinario, nel 1973 divenne Professore Ordinario. La Manfredini nel 1967 vinse il concorso per professore di ruolo a Messina e nel 1974 fu trasferita all'Università di Roma. Francesca Bachelet divenne nel 1980 Professore Associato fino alla pensione nel 1991. Nei primi anni '50, una collaborazione internazionale organizzata da Bristol, Padova e Roma realizzò una serie di esposizioni di emulsioni ai raggi cosmici con lanci di palloni aerostatici, e così le tre giovani ricercatrici iniziarono la loro carriera scientifica in questo campo di ricerca. Risultati particolarmente significativi furono raggiunti nello studio di eventi con mesoni K e iperoni. Particolarmente importante fu l'osservazione di "Faustina", un "Unusual Event Produced by Cosmic Rays" pubblicato su "Il Nuovo Cimento" il 1° marzo 1955 a firma Amaldi, Castagnoli, Cortini, Franzinetti e Manfredini. L'interpretazione dell'evento come frutto dell'annichilazione di un antiprotone ebbe poi conferma dalla osservazione di un analogo evento con una serie di tracce in emulsioni esposte al Bevatrone di Berkeley, pubblicata su "Il Nuovo Cimento" nel 1956. Successivamente, gli interessi di ricerca di Augusta Manfredini si allargarono alla ricerca di poli magnetici di Dirac, alla fotoproduzione di mesoni π0 e alla violazione della parità nelle interazioni deboli. Giustina Baroni negli anni '60 divenne leader del Gruppo Emulsioni di Roma, aprendo la via al loro utilizzo in esperimenti con strumenti diversi come le camere a bolle e rivelatori elettronici per lo studio di particelle formate da quark charm e beauty. Il campo principale di ricerca di Francesca Bachelet fu lo studio della fisica dei raggi cosmici, attività che la portò a scrivere con Edoardo Amaldi la voce "Radiazioni" dell'Enciclopedia Treccani e ad essere nominata direttrice del Gruppo Italiano di Fisica Cosmica (GIFCO) fondato nel 1964. Per avermi fatto conoscere queste tre grandi studiose dei raggi cosmici ringrazio il professor Bruno Borgia dell'Università La Sapienza di Roma, il quale ha scritto: « Come nota personale di studente, ma anche di collega, ho il ricordo di una Francesca Bachelet gentile, pronta ad ascoltare e sempre impegnata, e di una Augusta Manfredini di grande cultura e rigore scientifico. Per un problema di plasma di quark, Giustina Baroni mi diede la chiave per interpretare la loro fenomenologia. Non posso che ringraziare queste colleghe che con il loro esempio limpido di scienziate mi hanno educato alla ricerca. » Grazie mille anche da parte mia!