COME MUTA LA TERRA

Come muta la Terra? In base a quali possenti dinamiche interne i continenti si modificano lentamente ma progressivamente nel corso delle ere geologiche, finendo per cambiare faccia? Dal momento che nel corso delle ere essa ha subito trasformazioni radicali nel suo aspetto e nella sua configurazione, è bene esplicitare i fenomeni che, nel tempo, hanno contribuito a rimodellarne il volto così come un artigiano modella la creta. Ecco un elenco sintetico di questi fenomeni:

 

Viaggio al Centro della Terra

Anzitutto, due parole su com'è fatto l'interno della Terra. Gli uomini se lo chiedono praticamente da sempre; tutte le mitologie immaginano un mondo sotterraneo abitato dalle anime dei morti, e Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) sosteneva che fosse un grande fiume di fuoco, il quale scorreva sotto la crosta terrestre, a provocare la formazione dei vulcani. La più straordinaria avventura di esplorazione dell'interno della Terra è quella immaginata da Jules Verne (1828-1905) nel suo straordinario "Viaggio al Centro della Terra" (1864), in cui il professor Lindenbrock, suo nipote Axel (la voce narrante) e la guida islandese Hans, sulle tracce di un alchimista islandese del XVI secolo che avrebbe compiuto per primo quel tragitto, si calano nel cratere del vulcano islandese Snaeffels Joküll e scoprono gallerie intricatissime, funghi giganteschi, un oceano sommerso, creature preistoriche sopravvissute all'estinzione nelle viscere del pianeta, e persino un colossale ominide che custodisce un branco di mastodonti.

In realtà Verne sapeva di fare molta più fantascienza che scienza: ai suoi tempi era infatti già ben noto che il centro della terra raggiunge temperature insopportabili per gli esseri umani. Verne comunque aggira l'ostacolo non facendo arrivare gli esploratori fino al centro del pianeta, ma solo fino ad alcuni chilometri di profondità. In ogni caso, le maggiori profondità raggiunte con perforazioni e carotaggi della crosta terrestre non superano i 20 km (meno di un quattrocentesimo del raggio della Terra), e già nei primi strati della crosta la temperatura aumenta di un grado ogni 33 metri di profondità. Questo calore interno della Terra è dovuto per il 20 % alla formazione iniziale, quando la Terra era ancora una palla di fuoco, e per l'80 % alle reazioni nucleari del decadimento radioattivo di molti minerali presenti nelle rocce, come uranio, torio e potassio. Il parametro che determina la frazione dovuta agli elementi radioattivi rispetto all'energia irradiata dal centro della Terra si chiama Rapporto di Urey, ed è stimato valere 0,5-0,6: un valore così basso ha suscitato molte perplessità, facendo pensare a taluni l'esistenza di sorgenti di energia diverse. Si è perfino ipotizzata l'esistenza di un gigantesco reattore nucleare nel cuore del nostro pianeta! Il fatto è che la Terra emette circa 40 Terawatt di calore (vale a dire 40.000 miliardi di Watt), ovverossia 60 milliwatt per metro quadrato: l'equivalente di 10.000 centrali nucleari a piena potenza, 20 volte quelle realizzate finora dall'uomo. Per verificare l'effettiva origine di tutta questa energia occorrerebbe una stima realistica della densità degli isotopi radioattivi nell'interno della Terra, una stima finora impossibile da realizzare. Nei nostri anni duemila, tuttavia, è stato possibile misurare in superficie il flusso di geoneutrini, come sono detti gli antineutrini di bassa energia provenienti dall'interno della Terra e prodotti appunto dal decadimento spontaneo dei radionuclidi, grazie a grandi laboratori sotterranei come il grande Laboratorio Nazionale del Gran Sasso gestito dall'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), oggi il migliore al mondo. L'esperimento Borexino, una sfera di 8 metri di diametro piena di un liquido scintillante ultrapuro, pensato per misurare il flusso di neutrini solari, è riuscito a misurare con precisione il flusso di geoneutrini, distinguendoli da quelli provenienti dallo spazio e dalle centrali nucleari costruite dall'uomo. Dopo tre anni di osservazioni, Borexino ha permesso di ricalcolare il Rapporto di Urey, verificando che è compatibile con l'unità; in altre parole non c'è alcun reattore nucleare interno al nostro pianeta, e per spiegare il calore da esso emesso è sufficiente l'energia liberata dalla densità di radionuclidi corrispondenti alle misure di Borexino.

Ma torniamo alla struttura interna del nostro pianeta. Non potendo naturalmente osservarla direttamente, in un'epoca in cui gli osservatori per geoneutrini non esistevano ancora, essa fu ricavata mediante l'analisi e dallo studio delle onde sismiche, la cui propagazione è legata alla densità dei materiali della Terra. Fu proposta così l'esistenza di un nucleo centrale molto pesante, attorniato da una zona di transizione e da uno spesso involucro solido di composizione basaltica, il tutto a sua volta racchiuso da rocce più  superficiali e leggere, a formare una sottilissima e fragile crosta su cui scorre la nostra vita. Facile comprendere il perchè di questa stratificazione di materiali a densità, pressioni e temperature crescenti: durante il raffreddamento e il consolidamento del pianeta, i minerali più pesanti come ferro e nichel precipitarono nel nucleo, mentre i più leggeri restarono a "galleggiare" sulla superficie, formando la crosta.

L'interno della Terra come era immaginato per tutto il secolo XXEd ecco in ordine le varie zone in cui è stato suddiviso l'interno della Terra da parte dei geologi del ventesimo secolo:

1) Crosta Terrestre (da 0 a 40 Km di profondità). Essa si divide in crosta continentale e crosta oceanica. La prima, che costituisce i continenti, è composta principalmente da rocce cristalline granitiche e granodioritiche, ricche di quarzo e di silicati di sodio e calcio, ma soprattutto di silicati di alluminio, da cui viene la definizione di Sial. data un tempo a questo strato. Esso ha uno spessore medio di circa 30 km, ma raggiunge i 70 Km al di sotto delle catene montuose più alte. La crosta oceanica invece è più povera in quarzo ed è costituita da uno spessore di 10 km di rocce più dense, con una composizione media vicina a quella dei basalti, ricchi in silicati di ferro e magnesio. La crosta è separata dal mantello sottostante da una zona intermedia detta discontinuità di Mohorovičić (o più semplicemente Moho), compresa tra 40 e 70 Km di profondità, che prende il nome dal geologo croato Andrija Mohorovičić (1857-1936). Questi, analizzando il terremoto di Pokuplje dell'8 ottobre 1909, individuò particolari arrivi di onde sismiche che potevano essere spiegati solo con un brusco aumento di densità ad una profondità di una quarantina di chilometri.

2) Mantello superiore (da 70 a 400 Km di profondità). È costituito principalmente da silicati di ferro, magnesio, calcio e alluminio, e viene anche chiamato mantello litosferico, perchè insieme alla crosta costituisce la litosfera terrestre. A una profondità che varia da circa 80 km sotto gli oceani a circa 200 km sotto i continenti, vi è uno strato a bassa viscosità, comunemente definito astenosfera: questa bassa viscosità è stata associata ad uno stato di fusione parziale del mantello, ed è dovuta alle alte temperature, vicine al solidus (la temperatura alla quale inizia a fondere il componente a più bassa temperatura di fusione) delle comuni rocce del mantello, ricche in olivina. L'astenosfera si comporta dunque come un fluido, scorrendo alla velocità di 10 cm all'anno, e come vedremo più oltre la sua plasticità è alla base della Tettonica delle placche. La prova dell'esistenza dell'astenosfera fluida è costituita dai cosiddetti movimenti isostatici: il Golfo di Botnia, dove era concentrato il massimo spessore dello strato di ghiaccio nordeuropeo durante le glaciazioni del Pleistocene, sta subendo un sollevamento della crosta continentale, come rivela la datazione delle paleospiagge: attualmente la velocità del sollevamento è pari a un centimetro all'anno, ma raggiunse il metro all'anno subito dopo la fine della glaciazione di Würm, verso il 10.000 a.C. Questo movimento verticale è analogo a quello di una barca che viene scaricata e vede abbassarsi la sua linea di galleggiamento: lo scioglimento di chilometri e chilometri di ghiaccio provoca il lento sollevarsi della crosta sopra l'astenosfera fluida.

3) Mantello di transizione (da 400 a 650 Km di profondità). Intorno ai 410 km e ai 600 km di profondità sono state scoperte due importanti discontinuità sismiche, associate a transizioni di fase rispettivamente dall'olivina alla wadsleyite e dalla ringwoodite alle fasi del mantello inferiore. Questa zona è considerata la sorgente dei magmi basaltici. Infatti una bassa percentuale delle rocce del mantello è fusa, prende il nome di magma ed ha una densità minore del materiale circostante, per cui risale attraverso la crosta terrestre e viene eruttata in superficie come lava.

4) Mantello inferiore (da 650 a 2700 Km di profondità). Esso costituisce circa il 49,2% della massa della Terra, ed è ricco di slicio e magnesio (per questo battezzato Sima), con un po' di ferro, ossigeno, calcio ed alluminio. I minerali principali sono la perovskite e la magnesio-wuestite, che hanno struttura cristallina cubica, adatta a sostenere le crescenti pressioni del mantello. Questa struttura mineralogica è anche in accordo con la composizione di molte meteoriti piombate sulla superficie terrestre. Lungo buon parte del mantello inferiore non si verificano sostanziali transizioni di fase mineralogica e dunque, dal punto di vista sismico, il mantello inferiore è meno complesso del soprastante mantello di transizione. La temperatura aumenta sostanzialmente in modo adiabatico, e la fisica ci insegna che tutto ciò è compatibile con i moti convettivo che si pensano responsabili della migrazione delle placche. Anche se, recenti studi interdisciplinari, basati su studi di minerali ad alta pressione e temperature e dati sismologici, hanno postulato un gradiente super-adiabatico. Tra i 2700 e i 2890 Km di profondità si ha la discontinuità di Gutenberg, dal nome del geologo tedesco Beno Gutemberg (1889-1960) che la introdusse nel 1914; essa separa il mantello dal nucleo, con un aumento della densità che passa da circa 10 g/cm3 a circa 13,5 g/cm3.

5) Nucleo esterno (da 2890 a 5150 Km di profondità). Esso costituisce il 30,8 % della massa della Terra, e ha circa le stesse dimensioni del pianeta Marte. Appare formato da uno strato plastico molto caldo e più denso del mantello, con una temperatura media di 3000° C, una densità di 9,3 g/cm3 e una pressione di 1400 kbar. Questo fluido consiste principalmente di ferro (80 %) e nichel, e per questo denominato Nife; secondo l'ipotesi più comunemente accettata, la circolazione del fluido ferromagnetico dovuta alla rotazione della Terra dà origine al campo magnetico del nostro pianeta. Al di sotto, fra i 5150 e i 5200 Km di profondità, si trova la discontinuità di Lehman, che porta il nome dalla sismologa danese Inge Lehman (1888-1993), la quale la introdusse nel 1936. Essendosi spenta a 105 anni, certamente la Lehman fu uno degli scienziati più longevi della storia dell'uomo!

6) Nucleo interno (da 5200 a 6371 Km di profondità). Esso è grande più o meno quanto la Luna e contiene circa il 17 % della massa terrestre. Il primo a pensare all'esistenza di un nucleo molto denso al centro della Terra fu sir Isaac Newton: dopo aver stimato la massa del pianeta Terra, si accorse che la sua densità è quasi doppia di quella della crosta terrestre, e questo comporta che nel cuore del pianeta siano concentrati i suoi costituenti più pesanti. Il nucleo interno infatti è composto quasi esclusivamente di ferro, ha una temperatura di 5000° C (ma stando ad alcuni autori addirittura di 6500° C), una densità di 13 g/cm3 e una pressione di 3600 kbar, cioè 3,6 milioni di volte più alta di quella rilevata al livello del mare. Tali condizioni limite fanno pensare che il ferro si trovi in uno stato cristallino, e quindi solido: la pressione così alta porta ad un innalzamento notevole del punto di fusione del ferro. Il nucleo interno ruota in direzione est (in senso antiorario) più velocemente del resto del pianeta, mentre il nucleo esterno ruota in direzione ovest (in senso orario), ma più lentamente. Questa scoperta, che risponde a domande rimaste irrisolte da oltre tre secoli, la dobbiamo ad un gruppo di scienziati dell'Università di Leeds guidati da Philip Livermore, grazie a sofisticate analisi delle onde sismiche. Secondo Livermore, « il campo magnetico spinge verso est il nucleo interno facendolo girare più velocemente della Terra, che ruota nello stesso senso. Invece spinge in direzione opposta il nucleo esterno liquido, che quindi si muove verso ovest ». Il fatto che il campo magnetico interno della Terra oscilli con un periodo di una decina di anni, implica che anche le forze elettromagnetiche che determinano le spinte delle due parti del nucleo variano nel corso del tempo. Non ha invece finora trovato consenso unanime l'ipotesi dell'esistenza di un ulteriore nucleo più denso all'interno del nucleo interno, e ben distinto dalla materia soprastante, ipotizzato da alcuni geologi negli anni Duemila studiante la propagazione degli echi di onde sismiche attraverso il centro della terra.

Come studiare il comportamento dei materiali in condizioni tanto aliene come quelle che si verificano nel cuore del pianeta? Di solito si usa la cosiddetta cellula a incudine di diamante. Si tratta di un dispositivo formato da due diamanti a tronco di piramide grazie al quale si possono sottoporre microscopici campioni a pressioni fino a quattro milioni di volte superiori a quella atmosferica! Inoltre, utilizzando potenti raggi laser, i campioni vengono surriscaldati fino a raggiungere i 5.000° C. I campioni esaminati sono termicamente isolati ed è impedito loro di reagire chimicamente con l'ambiente circostante, ma la più grande difficoltà è rappresentata dal fatto che un frammento che raggiunge le condizioni massime di temperatura e pressione all'interno del nucleo terrestre, lo fa soltanto per poche frazioni di secondo. Di solito si colpisce il campione sottoposto a esame con un potente fascio di raggi X, in grado di determinare, grazie al fenomeno della diffrazione, se sia liquido, solido o in via di fusione, per il brevissimo periodo in cui si raggiungono i massimi valori termopressori. Grazie a questo dispositivo, ad esempio, il punto di liquefazione del ferro è stato fissato a 4.800° C con una pressione di 2,2 milioni di atmosfere, pari a circa 2.270 tonnellate al centimetro quadrato! (è la pressione al confine tra nucleo esterno e nucleo interno).

I cumuli termochimici

Questo semplice modello a strati concentrici come una cipolla, ritenuto valido per tutto il novecento, è stato però messo seriamente in discussione nel corso degli anni Duemila, quando ci si è resi conto che la realtà sotto ai nostri piedi è ben diversa. I ricercatori di Scienze della Terra dell'Università dell'Arizona, dopo anni di studi e di modellizzazioni dell'interno del nostro pianeta, hanno proposto per il nostro pianeta una struttura tutt'altro che schematica, fatta di ammassi caotici di particolari combinazioni mineralogiche. La rivoluzione più sconvolgente sta nel mantello: le miscele di silicati a temperature fra i 2000° e i 3000° C che costituiscono il mantello non sono affatto distribuite in maniera omogenea, come si pensava fino a questo momento. Nelle zone più profonde del mantello, infatti, sono stati scoperti due enormi grumi di materiali ad elevata densità, la cui origine è ancora tutt'altro che chiara. « Sono come due cumuli spessi alcune centinaia di km e posizionati l'uno sotto l'Oceano Pacifico centrale, e l'altro fra l'Atlantico e l'Africa », hanno spiegato Ed Garnero e Allen McNamara, sismologi della Arizona State University's School of Earth and Space Exploration, che a questo studio hanno dedicato un articolo sul numero di Science del 2 maggio 2008. Andrea Morelli, dirigente di ricerca dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, anche lui impegnato in ricerche sull'interno della Terra, spiega a sua volta: « I due ricercatori americani dell'Arizona hanno chiamato queste strutture cumuli termochimici, e ipotizzano che si siano formati a causa della compattazione degli atomi di silicio, magnesio e ferro sotto le enormi pressioni esistenti al fondo del mantello. Esperimenti condotti in laboratorio, con apparati in grado di riprodurre pressioni molto elevate, hanno permesso di ricreare il minerale costitutivo di questi cumuli termochimici, materiale esotico che è stato battezzato post-perovskite ».

Attraverso lo studio delle onde sismiche, i geologi dell'Arizona sono stati in grado di ottenere una sorta di vera e propria tomografia dell'interno del pianeta, tale da fornire immagini tridimensionali di strutture nascoste. Così, con una risoluzione mai raggiunta prima d'ora, sono stati individuati non solo i cumuli termochimici, ma anche le varie disomogeneità che caratterizzano il mantello: bolle, tubi e vesciche. Avete presente il film "The Core" di Jon Amiel (2003), in cui un pugno di eroi scende con un mezzo futuribile fin nel nucleo della Terra per riattivarne la rotazione, bloccata a causa di sconsiderati esperimenti compiuti dai militari USA, e così scongiurare la fine dell'umanità? Ebbene, durante la loro drammatica discesa i ricercatori scoprono strutture incredibili, come diamanti grossi come montagne. Evidentemente gli sceneggiatori del film non sono andati troppo lontani dal vero, in questa loro visione dell'interno del nostro mondo!!

Inoltre, a fine 2015 Dimitri A. Sverjensky e Fang Huang, due ricercatori della Johns Hopkins University, hanno scoperto che i diamanti in natura possono formarsi anche con un meccanismo diverso da quelli finora noto. Il nuovo modello di formazione potrebbe essere utile per indagare ambienti naturali diversi in cui si possono formare queste pietre preziose, ma può anche chiarire la complessa storia di fluidi nel profondo della Terra nel tempo geologico. Finora erano due i processi ipotizzati per la formazione dei diamanti: il primo avverrebbe nel mantello litosferico, a una profondità compresa fra 40 e 250 chilometri. In questo ambiente i diamanti si possono formare in presenza di temperature comprese fra i 900° C e i 1400° C e pressioni di 4,0-8,0 gigaPascal (un gigaPascal corrisponde a circa 10.000 atmosfere e a 10 tonnellate per centimetro quadrato). In alternativa, i diamanti possono formarsi da rocce metamorfiche che, durante i processi di subduzione che portano una placca tettonica continentale a immergersi sotto un'altra, raggiungono i 600° C e sono sottoposte a pressioni superiori ai 3 gigaPascal. In entrambi i casi i diamanti sarebbero poi portati in superficie nel corso di eruzioni che hanno dato origine a quei camini diamantiferi dove oggi si trovano le principali miniere di queste pietre preziose. Ora, Sverjensky e Huang hanno sviluppato un modello che mostra come i diamanti possano formarsi anche in condizioni differenti, a seguito di interazioni fra acqua e roccia, come quelle che avvengono quando nei processi di subduzione è coinvolta la litosfera oceanica. In particolare, il processo di formazione dei diamanti può realizzarsi quando il fluido si infiltra fra due strati di roccia calda e sotto pressione: i due ricercatori hanno calcolato che sia necessaria una temperatura di almeno 900° C e una pressione superiore ai 5 gigaPascal. Se in queste condizioni si verifica un crollo del pH dell'acqua, ovvero un repentino aumento dell'acidità, una condizione che dipende dalla composizione delle rocce coinvolte nell'interazione, inizia la precipitazione chimica dei diamanti.

Il mantello terrestre è "umido"

Non possiamo non riportare qui la notizia di una scoperta che potrebbe rivoluzionare la geofisica: nel mantello terrestre ci sarebbe una quantità d'acqua che può essere paragonata a quella di un oceano. La scoperta è dovuta ad un gruppo internazionale di ricerca guidato da Graham Pearson, dell'Università dell'Alberta (Canada), e di cui fa parte anche Fabrizio Nestola del dipartimento di geoscienze dell'Università di Padova, e conferma un'ipotesi contestata ma che negli ultimi tempi ha preso piede tra i geologi: l'esistenza di grandi volumi di acqua intrappolati tra 400 e 650 km di profondità nella zona di transizione tra il mantello superiore e inferiore della Terra. Non si tratterebbe di acqua liquida contenuta in una grande caverna, sul modello del Mare Lidenbrock del "Viaggio al Centro della Terra" di Jules Verne, e nemmeno nelle porosità delle rocce, come avviene per esempio con il petrolio o i gas a quote molto più superficiali, ma del gruppo ossidrilico (-OH) che entra a far parte della struttura cristallina di un minerale noto con il nome di ringwoodite. Si tratta di una particolare forma di olivina (il minerale di cui è costituita la parte superiore del mantello) che finora è stato rinvenuto solo in alcune meteoriti, oppure creato in laboratorio sottoponendo l'olivina ad pressioni così forti, che si trovano nel sottosuolo alla profondità di almeno 400 chilometri. A queste pressioni l'olivina subisce una transizione di fase e si trasforma in ringwoodite. Con una particolarità: nella sua composizione chimica compare una significativa quantità d'acqua (fino al 2,5 % in peso) sotto forma di ossidrile.

La scoperta della ringwoodite è stata del tutto casuale. Il gruppo di Pearson nel 2008 stava compiendo ricerche nel Mato Grosso (Brasile) su altri minerali, quando è stato avvicinato da un cercatore dilettante di diamanti che aveva trovato una gemma di soli 3 millimetri nella sabbia di un fiume presso Juina: la stessa che vedete nella fotografia qui sopra. La pietra non sembrava un granché e venne acquistata per soli 20 dollari. Una volta tornati in laboratorio, la pietra venne affidata a un giovane laureando, il quale si accorse che conteneva un'inclusione microscopica, invisibile a occhio nudo, di un minerale che non riusciva a identificare. Da qui è partita una sofisticatissima ricerca basata sui sistemi più avanzati come spettroscopia Raman e a infrarossi e diffrazione a raggi X, prima che fosse ufficialmente confermata come ringwoodite.

« Nella zona di transizione tra il mantello superiore e inferiore ci potrebbe essere tanta acqua quanto quella contenuta in tutti gli oceani in superficie, e forse anche di più », ha azzardato Paerson. Questa scoperta confermerebbe quindi l'esistenza di un'ampia fascia umida compresa tra due aree molto più secche del mantello superiore e inferiore. Ma come è arrivata tutta quest'acqua a simili profondità? Con la subduzione delle placche oceaniche sotto quelle continentali. Le rocce sedimentarie dei fondi oceanici contengono grandi quantità di acqua, che vengono in questo modo trasportate in milioni di anni a centinaia di chilometri di profondità.

Peraltro un'ulteriore conferma, sia pure indiretta, dell'influenza delle attività umane sul clima è venuta non da osservazioni dell'atmosfera, degli oceani o della superficie terrestre, ma del nucleo terrestre. Una ricerca condotta da geofisici del Jet Propulsion Laboratory della NASA e dell'Università Diderot di Parigi indica infatti una stretta correlazione fra le fluttuazioni naturali nella durata del giorno e l'esistenza di fluttuazioni naturali nelle temperature superficiali del pianeta, una volta che queste siano depurate degli effetti attribuibili ai gas serra legati alle attività dell'uomo.

La lunghezza del giorno, inteso come tempo necessario a una rotazione completa della Terra attorno al suo asse, fluttua leggermente attorno al valore medio di 24 ore. Nel corso di un anno la durata varia di circa un millisecondo, allungandola in inverno e riducendola in estate. Ma la durata del giorno subisce anche fluttuazioni su periodi più lunghi, poliennali, decennalei e su periodi di diversi decenni, sui 65 e gli 80 anni, con variazioni per quest'ultimo tipo di fluttuazioni che arrivano ai 4 millisecondi. Queste fluttuazioni sono troppo grandi per essere spiegate dai movimenti dell'atmosfera e delle masse oceaniche, e sono legate ai flussi di metallo liquido presenti nel nucleo terrestre, che possono essere dedotti dalle variazioni nel ampio magnetico del pianeta.

Già studi precedenti avevano rilevato una correlazione fra variazioni nella durata del giorno, e fluttuazioni fino a 0,2°C nella media globale a lungo termine dell'aria alla superficie terrestre. Nella loro ricerca, i geofisici hanno determinato con maggiore accuratezza e affidabilità i valori relativi alle temperature del pianeta negli ultimi 160 anni, per poi metterli in relazione con i modelli climatici utilizzati nello studio degli effetti dei gas serra. « La nostra ricerca mostra che negli ultimi 160 anni le variazioni decennali e di più lungo periodo nella temperatura dell'atmosfera terrestre corrispondono ai cambiamenti nella lunghezza del giorno se rimuoviamo il significativo effetto di riscaldamento legato agli effetti dei gas serra antropogenici. Lo studio implica che l'impatto dell'uomo sul clima negli ultimi 80 anni maschera la corrispondenza naturale che esiste fra rotazione della Terra, momento angolare del nucleo e temperatura alla superficie », ha osservato Jean Dickey, che con Steven Marcus e Olivier de Viron ha coordinato lo studio. Quanto ai meccanismi in gioco, i ricercatori ipotizzano che i movimenti del nucleo disturbino l'azione protettiva del campo magnetico rispetto ai raggi cosmici, che a loro volta influenzano la formazione della copertura nuvolosa del pianeta, che altera la quantità di luce solare riflessa nello spazio e intrappolata in atmosfera.

Del resto, come ora vedremo, studiare la complicatissima geografia dell'interno della Terra non serve solo a fornirci informazioni puramente accademiche, ma è utilissima per capire da quali meccanismi sono governati i moti convettivi che modificano continuamente la crosta terrestre, causando il movimento delle placche, la formazione delle montagne, i terremoti e l'attività vulcanica. Il viaggio di Otto Lindenbrock verso il centro della Terra si è rivelato più utile che mai.

Le montagne dell'Atlantide?

Quando, nella seconda metà dell'ottocento, cominciarono le spedizioni oceanografiche in grande stile, si scoprì che sui fondali di tutti gli oceani, vi sono formazioni montuose simili a quelle della terraferma, e a volte anche più imponenti (il vulcano Mauna Kea delle Hawaii si eleva dal fondo per un'altezza superiore a quella dell'Everest!) Inizialmente essi furono interpretati come le montagne del perduto continente di Atlantide descritto da Platone nel « Timeo » ed inabissatosi in seguito ad uno spaventoso sommovimento tettonico; erano gli anni in cui il politico americano Ignatius Donnelly (1831-1901) con il suo volume intitolato « Atlantis: the prediluvian world » (1882), creava il mito della superciviltà da cui sarebbero derivate tutte quelle successive. Questo mito, nonostante tutte le smentite della scienza "ufficiale", resiste ancor oggi (si pensi a "Impronte degli dei" di Graham Hancock), ed anche il grande Jules Verne cadde nella trappola, facendo ancorare il Nautilus di "Ventimila Leghe sotto i Mari" tra le rovine dell'Atlantide di Platone.

In realtà, la catena sottomarina si snoda attraverso tutti i mari del globo, non solo attraverso l'Atlantico, anche se, com'é ovvio, non tutti i fondali oceanici un tempo erano emersi! E allora? Come si spiegano quei misteriosi rilievi?

Topografia del fondo dell'oceano Atlantico

La risposta giusta l'ha data un secolo dopo il geologo Harry Hammond Hess (1906-1969), autore della teoria della cosiddetta "tettonica delle placche", oggi universalmente accettata. Secondo tale teoria, la crosta terrestre é formata da grossi spezzoni o "placche" (o anche "zolle") che "galleggiano" sopra il mantello terrestre, che si trova in uno stato pressoché fluido. Talvolta esse sono più piccole dell'Italia, talvolta risultano grandi come continenti! I moti reciproci di queste placche producono l'impressionante e maestoso fenomeno della deriva dei continenti.

Alfred WegenerTale teoria a sua volta fu postulata da Alfred Lothar Wegener (1880-1930) fin dal 1911. Questi aveva notato le sorprendenti analogie tra i fossili rinvenuti sulle rive di continenti oggi separati da vastissimi oceani: l'America meridionale e l'Africa occidentale, oppure l'Australia e l'India. Egli non era certo il primo ad accorgersi di questo fatto; ma, nell'ottocento, il problema dei fossili era risolto mediante tre possibili ipotesi:

a) trasporto su zattere. Alcuni animali o le loro uova potevano attraversare bracci di mare anche piuttosto vasti su tronchi alla deriva o simili, e così andare a colonizzare nuovi continenti. Oggigiorno appare l'ipotesi meno probabile.

b) archi insulari. In altre parole, dall'oceano nelle epoche passate sarebbero affiorate delle cinture di isole, come lo sono le Curili che oggi congiungono la penisola di Kamchatka al Giappone, e dunque gli animali incriminati avrebbero potuto tranquillamente coprire a nuoto i brevi tratti di mare che separavano queste isole.

c) ponti continentali. In epoche passate sarebbero affiorate dal mare delle vere e proprie lingue di terra che congiungevano tra loro i continenti attraverso gli oceani, come oggi Panama congiunge le due Americhe, o il Sinai congiunge Africa ed Asia; percorrendole, gli animali si sarebbero diffusi facilmente in tutto l'orbe terracqueo.

Prove a favore della deriva

Ma Wegener non era soddisfatto dalle ultime tre possibilità che vi ho prospettato. Egli infatti fu colpito dalla straordinaria corrispondenza della costa orientale dell'America del sud con quella occidentale dell'Africa, che chiunque di noi può constatare su un qualunque mappamondo. Questo era stato già sottolineato nel 1620 dal grande filosofo inglese Francesco Bacone (1561-1626); oggi sappiamo che un incastro migliore si ottiene facendo combaciare le piattaforme continentali antistanti, a circa 1000 metri sotto il livello del mare, ma l'idea di Wegener era essenzialmente giusta. Perché dunque ipotizzare che l'Atlantico fosse separato in due oceani da una striscia di terra estesa dal Brasile alla Sierra Leone, quando invece era più semplice spiegare la somiglianza tra le forme dei continenti affermando che i grandi continenti... si muovono? Secondo la teoria da lui formulata, alla fine dell'era Paleozoica o Primaria e nel Triassico, il primo grande periodo dell'era Mesozoica o Secondaria, esisteva sulla Terra un solo enorme continente detto Pangea ("tutte le terre"), che emergeva dalle acque di un unico immenso oceano detto Pantalassa ("tutti i mari"). Successivamente, nel periodo Giurassico il protocontinente si sarebbe spezzato in due parti, dette Laurasia e Gondwana, separate dalla Tetide o mar Mesogeo. Queste due, a loro volta, si sarebbero suddivisi originando i nuclei degli attuali continenti. Ecco dunque, secondo il nostro Wegener, come si potrebbe ricostruire la Pangea disegnando i continenti su carta millimetrata, ritagliandoli e portandoli a combaciare tra di loro (realizzato dall'autore).

Quando l'Atlantico non era ancora nato

Faccio notare come la Pangea, più che un'unica grande estensione terrestre com'è oggi l'Asia, apparisse piuttosto come una serie di blocchi molto vicini tra loro, e separati da mari caldi e poco profondi, detti mari epicontinentali.

Naturalmente, per rendere credibile tale teoria occorre spiegare quali immani forze producono il moto reciproco dei continenti. A sostegno di essa Wegener addusse numerose prove: geografiche, paleontologiche, geologiche, paleoclimatiche. La prova geografica più evidente, cui abbiamo già accennato, sostiene la possibilità di far coincidere con una traslazione le coste dell'America Meridionale con quelle dell'Africa occidentale cui fanno riscontro, dal punto di vista geologico, i vari tipi di rocce sia cristalline sia sedimentarie dei due continenti, che corrispondono per composizione ed età fino al Mesozoico.

Invece le prove paleontologiche si basano sulla presenza, in entrambi i continenti, della stessa flora che si sviluppò durante di clima freddo del Paleozoico. Fino al Triassico, cioè fino a meno di 200 milioni di anni fa, le faune fossili di America del Sud e Africa (e il paragone può essere esteso anche ad altri continenti, per esempio, il Nordamerica e l'Europa) sono non solo simili, ma addirittura identiche. In particolare, nel Triassico l'ambiente in America del Sud e in Africa doveva essere desertico in quanto si ritrovano rocce come le arenarie e resti fossili di rettili. Quello che più attirò l'attenzione di Wegener fu il Mesosauro, grande coccodrillo d'acqua dolce, i cui resti furono però ritrovati sulle sponde di continenti oggi separati da migliaia di Km d'oceano (vedi immagine sottostante). Nel Giurassico, le condizioni ambientali cambiano e le rocce di quel periodo sono argillose e contengono Pesci e molti fossili di Ostracodi, piccoli animali che non avrebbero potuto in nessuna maniera superare l'oceano attualmente frapposto tra i due continenti. Invece, dal Cretacico superiore in poi, cioè meno di 100 milioni di anni fa, i depositi e le faune cambiano radicalmente e, da quel momento, l'evoluzione della fauna e della flora sudamericane ha seguito percorsi molto diversi da quella africana.Il mistero dei fossili

Ci sono poi prove paleoclimatiche. Le fasce climatiche della Terra hanno andamenti ben definiti e a queste corrispondono faune, flore e rocce sedimentarie precise. La presenza di depositi glaciali in zone che attualmente hanno un clima temperato o tropicale significava secondo Wegener che i continenti dovevano essersi spostati. In Sudamerica, Africa, India, Madagascar e Antartide, si può osservare una serie di rocce che oggi si ritrova solo nei ghiacciai. Queste rocce, le tilliti, ora si trovano in regioni come il deserto centro africano che certo non prevedono condizioni climatiche da ghiacciaio! In particolare, quando un ghiacciaio si ritira, per esempio in seguito ad un mutamento climatico, lascia al suo posto una tillite, composta essenzialmente da blocchi immersi in una matrice di tipo argilloso. Questi blocchi rocciosi hanno la caratteristica di registrare i movimenti di espansione e di ritiro dei ghiacci a causa del fatto che restano striati dal contatto contro il terreno.

Lo studio delle striature, quindi, permette di riconoscere il verso di movimento delle grandi calotte glaciali che corrispondono ai depositi delle antiche tilliti africane e sudamericane. Da questo si è potuta ricostruire la posizione di una grande calotta che si estendeva dall'Africa verso il Sudamerica e arrivava a interessare perfino il deserto del Sahara quando i due continenti erano uniti. Secondo Wegener la crosta terrestre era costituita da materiali diversi.

Migrazione dei poli magneticiUn'ultima prova molto evidente dello spostamento dei continenti è quella fornita dalla migrazione dei poli magnetici avvenuta durante tutta la storia della Terra e testimoniata mediante la ricostruzione dei paleoclimi che tiene conto dei depositi morenici, legati ai climi freddi, ai carboni fossili che si formano in climi caldi e, sulla flora e sulla fauna fossili da cui si deduce il tipo di clima nel quale vissero. L'esistenza nel Carbonifero e nel Permiano di depositi glaciali nell'America e nell'Africa meridionali, nell'Australia, nell'India e nel Madagascar e la contemporanea esistenza di carboni fossili nell'America Settentrionale, nell'Europa e nell'Asia, dimostrano, secondo Wegener, che il Polo Nord era situato nell'Oceano Pacifico a 35º lat. N e che il Polo Sud si trovava poco a sud dell'Africa a 55º di latitudine S. Questo fatto dimostrerebbe inequivocabilmente che tutti i continenti erano riuniti in un unico blocco.

Nascita e morte della crosta terrestre

Purtroppo, se le prove addotte da Wegener erano assai accattivanti, le cause dell'effettivo spostamento delle masse continentali non erano affatto convincenti. Egli infatti, rispondendo ai critici che gli chiedevano com'era possibile spostare a piacimento migliaia di chilometri di roccia sulla superficie terrestre, propose che la causa del moto fosse da ricercarsi nella forza centrifuga dovuta alla rotazione terrestre. Ma i calcoli gli dettero torto: tale forza centrifuga è in grado forse di indirizzare il moto dei cicloni, ma non certamente di spostare un continente come l'Asia. Lo stesso Wegener, isolato e deriso da più parti, trovò la morte durante una spedizione in Groenlandia alla ricerca di nuove prove a sostegno della sua teoria, e per trent'anni non se ne parlò più.

Harry HessPoi, come detto, arrivò Hess con la sua teoria della tettonica delle placche. Secondo lui, la spiegazione della migrazione dei continenti sta nei moti convettivi del magma all'interno del mantello terrestre, simili a quelli prodotti in una pentola d'acqua dal calore del fornello acceso su cui essa é posta (il riso buttato in acqua per preparare il risotto li evidenzia bene). Ecco come vanno le cose per sommi capi. Dal mantello si innalzano, a causa dei moti convettivi innescati al suo interno, delle vere e proprie colonne di magma che frantumano la crosta terrestre. Quando la rigida litosfera si é rotta, essa viene sospinta lateralmente dal magma in emersione, e grossi blocchi di roccia sprofondano, causando la formazione di fosse tettoniche note come rift valley. Man mano che il magma risale, la rift valley si allarga sempre più, dando vita ad un braccio di mare. La lava che emerge sotto il mare dà vita a basalti che continuano a spingere lateralmente i graniti della crosta continentale. Man mano che il magma emerge, i moti convettivi che sono stati alla base di quest'affioramento contribuiscono ad allontanare i due pezzi di zolla, che ormai hanno dato vita a due zolle separate. Così, il mare si allarga e dà vita ad un vero oceano. I vulcani della rift valley continuano ad eruttare, e costituiscono quella che viene chiamata una dorsale oceanica: é questo il vero motore dell'apertura del mare e della deriva dei continenti. Ed è questa l'origine della catena montuosa rilevata sul fondale dell'oceano Atlantico, che quindi nulla ha a che vedere con il mitico continente sommerso!

  La dorsale medioatlantica

Poiché il raggio della Terra è finito, la produzione di litosfera nuova deve essere compensata dalla distruzione di altra litosfera. Questo accade in corrispondenza delle fosse oceaniche, dove i rami discendenti delle correnti convettive fanno affondare nel mantello la litosfera oceanica, più densa e più pesante di quella continentale. Queste zone sono dette di subduzione (dal latino "condurre sotto"), e restituiscono al mantello la quantità di materiale risalito attraverso le dorsali bilanciando lo scambio di rocce tra la litosfera e il mantello. Se le fosse inghiottono più materiale di quanto ne venga emesso dalle dorsali, un oceano comincia lentamente a morire e questo processo si conclude con la collisione di due zolle continentali: l'oceano che le divideva scompare e i due continenti diventano uno solo. È probabile che con le future migrazioni dei continenti, fra centinaia di milioni di anni, il Mediterraneo scomparirà in seguito alla collisione tra Europa ed Africa.

Il fenomeno dell'orogenesi

Quando i continenti vanno a sbattere l'uno contro l'altro, si verificano imponenti eventi orogenetici, cioè si formano ampie catene montuose. E' un po' come quando si avvicinano con le mani le due estremità di un asciugamano: all'interno di esso si formano delle pieghe. Nel caso della litosfera queste pieghe, una volta erose, danno vita alle montagne. Di solito perciò queste catene montuose sono parallele alle faglie che separano tra loro due placche che stanno scontrandosi: è il caso della lunga catena che dai Pirenei e dalle Alpi, attraverso i Balcani e le montagne della Turchia e della Persia, arriva fino al Pamir, all'Indukush e all'Himalaya: essa si è formata a causa dello scontro delle placche africana e indiana con quella eurasiatica. Stesso destino avevano avuto in precedenza gli Appalachi e le colline scozzesi a causa dello scontro tra le placche americane e quella pacifica. Basterà osservare la cartina qui sopra per rendersene conto.

Consideriamo ad esempio gli Appennini, la spina dorsale della nostra cara penisola. Si tratta di una catena montuosa relativamente "giovane" (su scala geologica, si intende!): si stima infatti che il loro sollevamento sia iniziato circa 30 milioni di anni fa. Ed essi, come tutti i giovani, continuano a crescere, anche se pochissimo: sì e no di qualche centimetri al secolo. La forza che li spinge verso l'alto è la stessa che periodicamente scatena terribili terremoti nelle regioni dello stivale italiano (si pensi a quello dell'Irpinia del 23 novembre 1980, di magnitudo 6,9 Richter, a quello che ha colpito Umbria e Marche il 26 settembre 1997, di 6,1 gradi Richter, e a quello che ha raso al suolo l'Aquila il 6 aprile 2009, giunto a 6,3 Richter): la subduzione di una vasta porzione della crosta terrestre proprio sotto i nostri piedi. Proprio così: la cosiddetta "microplacca Adriatica", che si trova più meno in corrispondenza dell'area su cui si stende il mare omonimo, si sta letteralmente immergendo sotto la penisola muovendosi da est verso ovest. A ridosso dell'immersione essa provoca compressione ed il sollevamento della catena appenninica; più in là, verso ovest, causa distensione e stiramento. I dettagli della complessa dinamica dell'orogenesi appenninica che interessa Toscana, Umbria, Marche e Lazio, sono stati recentemente chiariti da Claudio Chiarabba, Pasquale De Gori e Fabio Speranza, ricercatori dell'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), con uno studio pubblicato sulla rivista della Geological Society of America « Lithosphere » Così ha dichiarato Chiarabba: « Per ricostruire la dinamica delle forze in gioco e dei fenomeni associati alla subduzione della microplacca Adriatica siamo partiti dallo studio dei terremoti che si sono verificati tra il 2000 e il 2007. La distribuzione degli ipocentri lungo un piano inclinato verso Ovest, le caratteristiche della crosta individuate grazie alla tomografia sismica e l'analisi dei meccanismi delle varie scosse, ci hanno portato a ricostruire, fino a una profondità di circa 60 km, il cosiddetto "piano di Benioff", lungo il quale parte della crosta inferiore sprofonda insieme al mantello ». Associato al fenomeno, ha aggiunto Chiarabba, c'è anche il rilascio di anidride carbonica da parte delle rocce profonde coinvolte nel fenomeno di sprofondamento: « Proprio l'anidride carbonica, risalendo attraverso le fratture della crosta, sembra costituire uno dei meccanismi di innesco dei terremoti appenninici. Questa dinamica ha scatenato sicuramente la lunga sequenza sismica che ha interessato l'Aquila nel 2009 ».

Continenti alla deriva

Secondo il geologo Eric Cheney, che lo introdusse nel 1996, il più antico continente a sollevarsi dall'oceano che avvolgeva tutta la Terra circa 3,3 miliardi di anni fa fu quello che è stato battezzato continente di Vaalbara, e le sue rocce si trovano ancor oggi conservate come reliquie geologiche negli strati dei continenti attuali. Il suo nome deriva dalla fusione di quelli dei due cratoni archeani (un tempo presumibilmente continenti) chiamati rispettivamente Cratone di Kaapvaal (dalla regione sudafricana di Kaapvaal) e Cratone di Pilbara (dalla regione di Pilbara nell'Australia Occidentale); questi due cratoni rappresentano oggi i più antichi resti di crosta terrestre sopravvissuti fino ai nostri giorni. È presumibile che esso non fosse un supercontinente come la Pangea, ma piuttosto era l'UNICO continente allora emerso! 

Secondo l'altro geologo John Rogers, 500 milioni di anni dopo Vaalbara emerse il continente di Ur (nome non troppo dissimile dal "continente di Mu" favoleggiato dagli atlantologi), che nulla ha a che vedere con la città sumerica di Ur, patria di Abramo: "Urkontinent" in tedesco significa infatti "continente ancestrale". Ad esso seguì Artica, mentre un altro mezzo miliardo di anni più tardi se ne formarono altri due, la Baltica e l'Atlantica (da non confondersi con l'Atlantide!!). I vari continenti si unirono tra di loro poco meno di due miliardi di anni fa a formare il primo supercontinente: Kenorlandia, circa 2,7 miliardi di anni fa. Esso poi si fratturò ed i cratoni risultanti diedero vita per accrezione a un nuovo supercontinente, Columbia (gli americani sono ripetitivi nell'assegnare i nomi). Dopo 300 milioni di anni le masse continentali tornarono a separarsi per almeno 400 milioni di anni, dando vita in seguito ad un nuovo supercontinente, Rodinia. Siamo nel Proterozoico. Esso si divise ed i continenti tornarono a fluttuare finché non si aggregarono per breve tempo nella Pannotia, subito disgregatasi e poi riaggregatasi a formare la Pangea, dalla cui divisione nel Giurassico sono nati i continenti attuali. Un vero e proprio movimento a fisarmonica, questo, che ha finito per creare periodicamente un'unica massa continentale sulla superficie della Terra:  i continenti si sono allontanati e ravvicinati periodicamente più volte e continueranno a farlo in futuro. Oggi delle parti di Vaalbara e di Ur si ritrovano in Africa, Australia ed India, mentre Artica si è divisa in Canada, Groenlandia e in parte della Siberia, e l'Atlantica si è suddivisa tra Sudamerica ed Africa; dalla collisione di Atlantica ed Ur nacque insomma quello che poi divenne il continente di Gondwana, il quale a sua volta dopo la distruzione della Pangea ha dato vita ad Africa, Sudamerica, India, Australia ed Antartide.

Ciò che resta oggi dell'antichissimo supercontinente di Ur

Come abbiamo fatto a ricostruire tutto questo? Studiando i frammenti di crosta antichissima oggi esistente e le antiche linee lungo le quali essi si saldarono e si divisero. Un supercontinente può disgregarsi e poi dare vita ad un altro per introversione, se i mari che si sono aperti al suo interno si richiudono dopo un po', oppure per estroversione, se i mari interni si allargano finché i continenti "figli" tornano a scontrarsi dalla parte opposta del mondo. Nel primo caso, la litosfera oceanica subdotta è più giovane di quella della frammentazione del supercontinente, ma più vecchia di quella della successiva riaggregazione. Viceversa, nel caso dell'estroversione, la prima litosfera ad andare in subduzione sarà precedente alla frammentazione del megacontinente.

Purtroppo la subduzione della litosfera oceanica distrugge la documentazione geologica che permetterebbe di scegliere tra i due modelli, e quindi di ricostruire la "danza" dei continenti sulla superficie terrestre, Ma alcuni frammenti di crosta oceanica possono staccarsi ed aderire ai continenti, preservandosi dalla distruzione: sono le cosiddette ofioliti. Inoltre, gli archi insulari formatisi sopra zone di subduzione possono essere a loro volta "raschiati via" dal fondo marino che precipita nel mantello scivolando sotto il continente, e così conservarsi; è successo anche al Nordamerica, continuamente accresciuto a forza di aggiungere archi insulari alle sue coste. Così siamo riusciti a ricostruire con buona approssimazione il moto delle masse continentali, ed a scoprire che Pangea si formò dall'introversione di Pannotia, mentre Pannotia si era formato dall'estroversione di Rodinia.

Nel 1991 Paul Hoffman della Harvard University ipotizzò che la frammentazione di Rodinia, avvenuta circa 760 milioni di anni fa, abbia "capovolto" il Gondwana nato dalla fusione di Atlantica e di Ur: è un esempio lampante di estroversione. Secondo Hoffman l'oceano Pacifico cominciò a formarsi allora, quando una massa continentale formata da Australia ed Antartide si separò da quella che allora era la costa occidentale del Nordamerica, ed andò alla deriva nell'oceano. Quando quella massa entrò in collisione con l'Atlantica (o meglio con quella che era stata l'Atlantica), si formò la Pannotia, arroccata attorno al polo sud del mondo; ciò avvenne circa 550 milioni di anni fa, alla fine del Precambriano. L'oceano esterno in pratica si era chiuso, estrovertendo il supercontinente precedente. Ma la Pannotia, come si è detto, ebbe vita breve: dal Gondwana si separarono tre nuovi continenti, la Laurenzia (Nordamerica, Groenlandia e Scozia, dal nome del fiume San Lorenzo negli attuali USA), la Siberia e la Baltica, separate da un nuovo oceano apertosi nel cuore di Pannotia, chiamato oceano Giapeto, mentre la Laurenzia era separata dal Gondwana dall'oceano Reico. Circa 300 milioni di anni fa, a cavallo tra Carbonifero e Permiano, l'oceano Giapeto si richiuse, e la Laurenzia andò a sbattere contro quella che oggi è l'Eurasia, dando vita per orogenesi alla catena americana degli Appalachi. Poi si chiuse per introversione anche l'oceano Reico, Gondwana si aggregò al resto delle terre emerse e si formò la Pangea, nella quale si apriva un immenso golfo, la Tetide o mar Mesogeo, dove sono oggi l'oceano Indiano e il mar Mediterraneo. Ma nel periodo Giurassico una frattura in direzione est-ovest divise in due la Pangea, separandola in Laurasia a nord e Gondwana a sud; cominciò poi ad aprirsi l'oceano Atlantico mentre la Tetide si chiudeva. Anche il Gondwana cominciò così a fratturarsi: prima si staccò l'Australia, che rimase isolata e sviluppò una fauna diversa da quella di tutti gli altri continenti; successivamente fu la volta del Madagascar con l'India e l'America Meridionale. Nel Cretacico avvenne la completa separazione dell'Africa dall'America Meridionale ed il distacco dell'India dal Madagascar. Nell'era Cenozoica o Terziaria anche la Laurasia si fratturò, generando il Nordamerica e l'Eurasia, e, flottando lentamente, i continenti raggiunsero la posizione attuale. Qui sotto si può vedere un'animazione, disegnata e realizzata dal sottoscritto, che illustra la deriva dei continenti negli ultimi 500 milioni di anni e nei prossimi 50:

La deriva dei continenti

Ma perchè, si sono chiesti alcuni, i continenti hanno continuato ad aggregarsi e a riaggregarsi secondo cicli periodici, formando successivamente i supercontinenti di Columbia, Rodinia, Pannotia e Pangea? A tentare di dare una risposta sono stati J. Brendan Murphy e R. Damian Nance, che in un articolo pubblicato su "American Scientist" hanno avanzato la seguente ipotesi: il supercontinente ricopre buona parte della superficie terrestre (tutti i continenti attuali sommati assieme raggiungerebbero i 140 milioni di chilometri quadrati, circa il 27 % della superficie del globo), e dunque funziona come un isolante; in pratica, come un plaid gettato su un emisfero della Terra. Di conseguenza il calore del mantello rimane intrappolato, gli strati geologici sotto il supercontinente si riscaldano, si produce nuovo magma basaltico fluido che risale fino alla superficie, aprendo dei mari dentro la Pangea di turno. Geniale, no?

Perchè quella di Atlantide è solo una leggenda

Mi si consenta di chiudere l'argomento con un ameno divertissement che chiude il discorso con cui si è aperta questa nostra spiegazione. Come si è detto, 180 milioni di anni fa l'oceano Atlantico non esisteva: l'attuale Nordamerica era allora saldato al nostro continente a formare la cosiddetta e già citata Laurasia. Poi, la risalita di magma dal mantello provocò la frammentazione di questo continente, ed il progressivo allontanamento della parte orientale da quella occidentale. Le montagne e gli altopiani osservati sul suo fondo non sono altro che parti della dorsale atlantica, che non fu mai emersa alla superficie, se non quando si stava formando la rift valley. Perciò, le rocce che costituiscono il fondo dell'oceano che avrebbe dovuto ospitare l'Atlantide platonica sono tutti basalti molto giovani, formati in continuazione dai vulcani di questa dorsale, e non sembrano certo essere state in grado di sostenere un intero continente. Inoltre, tutti i fenomeni di emersione e sprofondamento verificatisi nei mari in periodi storici erano eventi di proporzioni relativamente piccole: nessuna isola-continente delle dimensioni di Atlantide è mai stata inondata e sommersa in una notte fino ad oggi. Quello che Ignatius Donnelly non poteva sapere allo stato delle conoscenze dell'epoca era in definitiva che le montagne della dorsale medioatlantica non stanno subendo alcun processo di progressivo affondamento a causa dell'emergere di altre, ma che stavano invece venendo a galla come risultato di formazione di nuova roccia sul fondale marino. Le Azzorre non costituiscono la cima di montagne affondate che ancora si mostrano sopra la superficie dell'acqua, bensì rappresentano invece il punto più alto di una catena montuosa che si sta formando sotto le profondità dell'oceano Atlantico allorché l'Africa e le Americhe si allontanano sulle rispettive placche tettoniche. E questo vale anche per qualunque Mu e per qualunque Lemuria in ogni altro oceano.

I "punti caldi" della litosfera

Ma non è tutto. Il fenomeno della subduzione porta con sé la formazione di grandi archi vulcanici perché, secondo la teoria della tettonica delle placche, esso provoca il riscaldamento della placca oceanica, più fredda e densa, durante la sua discesa al di sotto della crosta continentale. La crosta subdotta dunque fonde e, essendo più leggera, "viene a galla" generando imponenti fenomeni eruttivi. Intere catene montuose, come le Ande, si sono formate in seguito a processi di questo tipo: molti dei più alti rilievi della catena sono vulcani attivi. Ma anche il Giappone, terra fortemente vulcanica (il suo simbolo stesso è il vulcano Fujiama), si è formato proprio in conseguenza della subduzione della placca Pacifica sotto quella Euroasiatica in corrispondenza della profondissima fossa del Giappone, cui l'arcipelago corre parallelo. La maggior parte dell'attività vulcanica avviene dunque lungo i margini delle zolle, dove la litosfera è più debole: l'intero oceano Pacifico è infatti circondato da una temibile "cintura di fuoco", costituita da centinaia di vulcani. Ma il vulcanismo riguarda pure zone lontane da questi punti, come la rift valley dell'Africa orientale, dove sorge un vulcano come il Kilimangiaro: tale rift valley rappresenta difatti una zona in cui la crosta continentale ha iniziato a lacerarsi e dove si prevedono future grandi eruzioni magmatiche.

Invece la presenza di 10.000 o più vulcani sottomarini, attualmente quasi tutti spenti, sul fondo dell'oceano Pacifico, e quindi all'interno di una enorme placca, per lungo tempo non ha trovato una spiegazione. Sembrano in gran parte distribuiti in modo del tutto casuale sul fondo dell'oceano, ma alcuni formano chiare catene lineari, come alle Hawaii. La loro presenza in regioni lontane dai margini delle zolle è stata spiegata solo recentemente. Entro il mantello terrestre si innalzano sottili colonne verticali (dette pennacchi) di magma particolarmente caldo, proveniente dal nucleo, che rimangono in posizione fissa mentre le zolle si spostano al di sopra di essi. Questi pennacchi generano "punti caldi" nella litosfera che li sormonta e, in corrispondenza di questi punti caldi, si verifica l'attività vulcanica. Il sito di tale tipo di vulcanismo si sposta allo spostarsi della zolla.

Non tutti i punti caldi vulcanici del mantello si trovano negli oceani. Un esempio di punto caldo continentale è il parco nazionale di Yellowstone, negli Stati Uniti. Attualmente non si verificano eruzioni vulcaniche a Yellowstone, ma la zona è caratterizzata da un intenso flusso di calore crostale, che produce sorgenti termali e i getti di vapore dei geyser.

Molti milioni di persone nel mondo vivono sotto la minaccia permanente di eruzioni vulcaniche, in particolar modo di tipo esplosivo. Eppure sono moltissimi, nel mondo, gli insediamenti situati in prossimità dei vulcani, nonostante un reale grave pericolo, perché i suoli prodotti dalla degradazione del materiale vulcanico sono assai fertili. Il vulcano Pinatubo, situato a nord di Manila, la capitale delle Filippine, ha avuto un imponente risveglio di attività nel 1991, scagliando nell'atmosfera milioni di tonnellate di ceneri. Queste, a causa delle intensissime piogge tropicali, hanno prodotto immense colate di fango che hanno ucciso 550 persone e ne hanno lasciate 650.000 senza tetto. Il caso del Pinatubo mostra quale pericolo ci sia nel considerare inattivo o estinto un vulcano: esso non aveva dato segni di attività per più di 600 anni!

Eruzione del vulcano Pinatubo, foto scattata il 12 giugno 1991 da Dave Harlow dell'U.S. Geological Survey

L'ira di Poseidone

Ma le eruzioni vulcaniche non sono il solo fenomeno tettonico da cui i viventi debbono guardarsi: ancor più frequenti e insidiosi sono i violentissimi terremoti che periodicamente devastano la Terra. Assodato che i sismi NON hanno origine, come recitava il mito greco, dai colpi di tridente dell'adiratissimo Poseidone contro le a lui nemiche terre emerse, da dove trae origine tanto esplosiva manifestazione di potenza da parte della crosta terrestre? Ecco come risponde la teoria della tettonica delle placche. Al contatto fra due zolle si determinano delle forti tensioni, perchè le rocce che sfregano l'una contro l'altra si caricano di energia elastica come molle compresse a dismisura; quando la tensione supera il limite di resistenza delle rocce, esse si rompono di colpo, e l'energia elastica si scarica attraverso vibrazioni di potenza eccezionale: questa è l'origine dei terremoti. La sorgente dei terremoti è sottoterra. I unti profondi in cui le placche entrano in contatto sono gli ipocentri dei terremoti, mentre i luoghi della superficie dove le scosse sono più forti sono detti epicentri. La profondità degli ipocentri varia: quando l'ipocentro è ad una profondità inferiore ai 60 km si parla di terremoti poco profondi; quando è fra i 60 e i 300 km, si hanno i terremoti intermedi; al di là dei 300 km si parla di terremoti profondi. Finora la massima profondità accertata supera di poco i 700 km. I terremoti più frequenti sono quelli poco profondi: essi sono anche i più disastrosi, poiché provocano maggiori danni. Le onde sprigionate dai terremoti, infatti, tendono a smorzarsi via via che si allontanano dal punto ove sono generate. Il 22 febbraio 2005 ad esempio la provincia iraniana del Karman viene colpita da un violento sisma nello stesso luogo dove colpì un altro il 26 dicembre 2003. In questo secondo evento però gli effetti disastrosi sono più contenuti, a causa della maggior profondità dell'ipocentro: 25 Km contro i 7 del sisma che cancellò dalla faccia della terra la cittadella medioevale di Bam.

La forza dei terremoti viene misurata in due modi. La quantità di energia liberata (magnitudo) nel punto di origine del terremoto viene misurata mediante la scala Richter: un terremoto di magnitudo 7 di questa scala equivale all'incirca all'esplosione di una bomba nucleare da un megatone, cioè un milione di tonnellate di tritolo. Il terremoto succitato di Bam raggiunse i 6,6 gradi Richter. L'energia liberata da un terremoto si può anche misurare, però, in modo empirico in base ai danni provocati: è la scala Mercalli, che riporto qui sotto.

I 12 gradi della scala Mercalli modificata

Grado Tipo di scossa Effetti
I Strumentale Avvertita solo dai sismografi
II Leggerissima Avvertita solo da individui sensibili
III Leggera Vibrazioni analoghe a quelle provocate dal passaggio di un autocarro
IV Mediocre Vibrazioni di finestre, porte, lampadari
V Forte Gli edifici oscillano, i campanelli tintinnano
VI Molto Forte Caduta di piatti, bicchieri, libri; danni non gravi alle abitazioni più fragili
VII Fortissima Aperture di crepe nelle case e nei muri; le campane delle chiese suonano
VIII Rovinosa Si spezzano i rami degli alberi; crollo di piccoli edifici
IX Disastrosa Caduta di colonne e di monumenti; binari contorti; strade dissestate
X Distruttrice Crolli di dighe e di ponti; crepacci larghi sino ad un metro; formazione di nuovi laghi
XI Catastrofica Distruzione pressoché totale di edifici e città; cambiamenti nel paesaggio; smottamenti e caduta di rocce
XII Grande catastrofe Scomparsa di ogni opera prodotta dall'uomo

Il dodicesimo grado non è mai stato registrato dai sismologi; sarebbe, per l'appunto, quello che cancellò la favolosa Atlantide dalla faccia della Terra.

Le "onde di porto"

Particolarmente distruttivi sono i sismi il cui epicentro si trova sul fondo del mare, poiché generano un'onda altissima, una vera e propria parete d'acqua, che si abbatte con la forza di un rullo compressore sulle coste. A quest'onda viene dato il nome di tsunami (in giapponese "onda di porto") o "onda anomala". Essa può percorrere migliaia di chilometri lungo l'oceano, per poi acquista una forza crescente a causa di due fattori: la profondità del mare e la vastità dell'Oceano, che consente all'energia di moltiplicarsi durante il percorso dell'onda. Quando l'onda arriva nelle vicinanze della costa e incontra i fondali più bassi, l'energia che fino ad allora è stata verticale si sviluppa in orizzontale e diventa un vero e proprio cataclisma. E' anche possibile che uno tsunami non si crei da subito come una gigantesca onda, ma assuma in un primo momento le sembianze di bassa marea: le acque si ritraggono velocemente, lasciano scoperto il fondale marino e poi altrettanto velocemente si rigonfiano, prima di abbattersi contro chi si è attardato ad osservare lo strano fenomeno.

Gli tsunami hanno colpito l'umanità fin dalla più oscura preistoria, Secondo alcuni il diluvio universale narrato nella Bibbia fu il risultato di un gigantesco tsunami a causa di un terremoto avvenuto sul fondo dell'Oceano Indiano, il quale provocò l'allagamento della Mesopotamia a partire da sud; ciò spiegherebbe il versetto « in quello stesso giorno, eruppero tutte le sorgenti del grande abisso. » (Gen 7, 11) Invece lo storico greco Erodoto di Alicarnasso (484-425 a.C.) racconta nelle sue "Storie" (VIII, 129) che nel 479 a.C. la città greca di Potidea fu salvata dall'assedio persiano per intervento diretto di Poseidone, dio del mare. Dopo tre mesi di assedio, infatti, le acque del mare si ritirarono improvvisamente, formando una secca su cui i soldati persiani si accalcarono stupidamente per prendere d'assalto la città, ma a quel punto un'improvvisa ondata di marea li spazzò via, castigandone la superbia. In tempi recenti uno studio condotto da Klaus Reicherter, dell’Università Tecnica di Aquisgrana, ha dimostrato che quell'evento non ebbe nulla di divino; si trattò piuttosto di uno tsunami, con onde anomale alte 5 metri., del quale sono state trovate le tracce in profondi strati di sabbia nell'entroterra dell'antica Potidea, e la datazione al radiocarbonio di gusci di conchiglie ha fornito una datazione compatibile con la tradizionale cronologia delle Guerre Persiane. E non basta. Una leggenda afferma che nell'anno 1089 la Grancontessa Matilde di Canossa (1046-1115) andò in pellegrinaggio al Santuario di San Michele a Monte Sant'Angelo, in Puglia; prima di giungere a destinazione fece tappa a Lesina e si fermò in un castello, ospite di un conte normanno. Durante la notte i cavalieri del conte molestarono le damigelle di Matilde, e la Grancontessa se ne andò sdegnata, ma la sua vendetta fu tremenda: con arti magiche provocò un rapido sollevamento delle acque del lago, che sommersero i cavalieri. Secondo Giuseppe Martinuzzi dell'Università "Aldo Moro" di Bari e Paolo Sansò dell'Università del Salento, si tratta della testimonianza culturale di un maremoto, conseguente a un terremoto, che avrebbe interessato il Gargano sul finire dell'XI secolo; i dati geomorfologici confortano l'ipotesi.

In tempi più vicini a noi. il Giappone fu travolto, nel 1960, da uno tsunami che si abbatté sulle sue coste alla velocità di 750 chilometri orari. Il fenomeno era nato al largo della costa del Cile, in seguito a una scossa sismica che aveva sollevato di circa nove metri un'area sommersa vasta quanto la California. Ma il peggior tsunami di tutti i tempi, che ha provocato oltre 228.000 vittime, si è abbattuto sulle coste di Indonesia, Malesia, Thailandia, India, Ceylon e Somalia il 26 dicembre 2004, in seguito ad un violentissimo terremoto sul fondo dell'oceano Indiano, che ha addirittura spostato di 30 metri l'isola di Sumatra; il termine "tsunami" è entrato nell'immaginario collettivo proprio a causa di quel disastro, che provocò la morte di migliaia di turisti occidentali. Ma anche l'Italia è, potenzialmente, un'area soggetta agli tsunami, a causa della posizione peninsulare e della elevata sismicità di alcune regioni. Gli episodi più significativi hanno colpito l'Italia meridionale e sono legati ai terremoti che si sono verificati nel 1627, nel 1693, nel 1783 e nel 1908.

Gli spaventosi effetti dello tsunami nel Sud-Est Asiatico del 26 dicembre 2004

È inoltre da segnalare un altro devastante tsunami, che colpì le coste della Nuova Inghilterra, anche se in un'epoca in cui non vi erano certo megalopoli sovrappopolate sulle sue coste. L'incubo del film « Deep Impact » (1998), in cui New York veniva investita da un'ondata gigantesca provocata da una cometa caduta nell'Oceano Atlantico, si è realmente verificato 2300 anni fa: la realtà, come sempre, è superiore alla fantasia. Gli scienziati della Columbia University e dell'Università della California Santa Cruz hanno infatti trovato prove di uno tsunami che investì l'attuale baia di Manhattan con un'onda che raggiunse almeno i venti metri d'altezza, provocata da un asteroide di circa 100 metri di diametro che si ipotizza caduto sulla piattaforma continentale al largo del New Jersey. Durante lo studio di alcuni sedimenti lungo il corso del fiume Hudson, che sfocia proprio a New York, Katherine Cagen dell'Università di Harvard ha infatti scoperto alcune microsferule di carbonio, tra le quali ha rinvenuto anche dei nano-diamanti, cioè cristalli che possono essere prodotti solo grazie a pressioni altissime, come quelle che si verificano in seguito all'impatto di un grande meteorite. I sedimenti trovati sul corso dell'Hudson a 50 km dalla foce, inoltre, non sono tipici di ambienti fluviali, ma possono essere depositati solo da un'onda anomala alta 2,5 metri. La squadra di ricerca però ha rinvenuto altri elementi che possono far pensare a un impatto meteorico anche sulle coste del New Jersey e a Long Island. « Ci sono state storicamente forti tempeste che hanno investito New York », ha dichiarato la Cagen, « ma nulla che abbia potuto depositare sedimenti simili ». E per far arrivare un'onda di 2,5 metri a 50 km lungo il fiume, Manhattan dev'essere stata investita da uno tsunami di almeno 20 metri, paragonabile a quello del 26 dicembre 2004 di cui si è parlato sopra. Manca ancora la cosiddetta "pistola fumante", cioè il cratere sepolto sotto i sedimenti della piattaforma continentale del Nordamerica, ma gli scienziati non disperano di trovarlo e di provare senza ombra di dubbio il fenomeno che avvenne intorno al 300 a.C.

Non basta. Alcuni geologi hanno supposto che la leggenda della perduta Atlantide possa essere spiegata proprio facendo riferimento ad un colossale tsunami, avvenuto però non nel buio della Preistoria, bensì nell'Età del Bronzo. Secondo gli autori di questa teoria, le mitologiche Colonne d'Ercole non sarebbero da identificare con lo stretto di Gibilterra, bensì con quello di Messina, e l'isola al di là delle Colonne d'Ercole sarebbe la Sardegna. L'esplosione di un vulcano sottomarino nel Mar Tirreno Meridionale avrebbe causato un'onda anomala, le cui acque sarebbero penetrate in gran profondità nella pianura del Campidano, distruggendo per sempre la civiltà nuragica. Infatti tra le pietre di alcuni dei nuraghi superstiti sono state rinvenute conchiglie anche a grande distanza dal mare, e solo un'ondata di spaventosa potenza avrebbe potuto trascinarvele. La devastazione dell'isola avrebbe costretto alla fuga via mare molti dei suoi abitanti, che sarebbero giunti fino in Egitto, dove erano conosciuti con il nome di Shardana; più in generale la fuga dei popoli colpiti dallo tsunami lungo le coste di Italia, Sicilia e Corsica avrebbe messo in moto le migrazioni dei famosi Popoli del Mare (dei quali parleremo ancora a proposito dell'Olocene), che avrebbero causato fra l'altro la caduta della civiltà micenea, l'incendio di Troia, la fine dell'impero Ittita e la crisi del Nuovo Regno Egizio. Certamente è solo un'ipotesi, però è quanto meno affascinante! Più in generale, storici e climatologi hanno raccolto le prove di come le società antiche spesso siano entrate in crisi in corrispondenza di drammatici eventi di siccità o di danni all'agricoltura; sicuramente ha avuto un ruolo decisivo El Niño, un fenomeno di periodico riscaldamento e raffreddamento dell'Oceano Pacifico che influenza le dinamiche meteorologiche in gran parte dell'Africa, del Medio Oriente, dell'India, del Sud Est Asiatico, dell'Australia e delle Americhe, dove vive circa la metà della popolazione mondiale. Durante la fase fredda, nota anche come La Niña, la pioggia può essere relativamente intensa nelle aree tropicali; durante il più caldo El Niño (così detto perchè si verifica intorno all'epoca natalizia, quando si festeggia "Il Bambino" Gesù), le temperature della terraferma aumentano e le piogge tropicali diminuiscono nella maggior parte dei paesi che ne sono influenzati. Tutto ciò ha avuto un impatto notevole sulla storia dell'umanità.

I dieci terremoti più violenti della storia

Data Luogo magnitudo Richter
22 maggio 1960 Valdivia (Cile) 9,5
28 marzo 1964 Prince Williams Sound (Alaska) 9,2
26 dicembre 2004 Banda Aceh (Indonesia) 9,1
13 agosto 1868 Arica (allora Perù, oggi in Cile) 9,0
4 novembre 1952 Kamchatka (Russia) 9,0
26 gennaio 1700 Cascadia (USA) 8,9
11 marzo 2011 Isola di Honshu (Giappone) 8,9
27 febbraio 2010 Concepción (Cile) 8,8
31 gennaio 1906 Costa Esmeralda (Ecuador) 8,8
4 febbraio 1965 Isola Rat (Alaska) 8,7

 

I dieci terremoti più distruttivi della storia

Data Luogo morti accertati
23 gennaio 1556 Shaanxi (Cina) 870.000
27 luglio 1976 Tangshan (Cina) 255.000
9 agosto 1138 Aleppo (Siria) 230.000
26 gennaio 2004 Banda Aceh (Indonesia) 228.000
1 dicembre 2010 Haiti 222.570
22 dicembre 856 Iran 200.000
16 dicembre 1920 Haiyuan, Ningxia (Cina) 200.000
23 Marzo 893 Iran 150.000
1 settembre 1923 Kanto (Giappone) 142.800
5 ottobre 1948 Turkmenistan 110.000

 

Aggiungiamo una curiosità. Nel 1879 William Thomson, meglio noto come Lord Kelvin (1824-1907), notò che le maree nel Canale della Manica erano più forti lungo la costa francese che su quella inglese. Thomson si rese conto che questa osservazione poteva essere spiegata con la rotazione della Terra. Mentre il pianeta ruota su se stesso, genera una forza, chiamata forza di Coriolis, che produce nei fluidi vortici che si avvolgono in senso orario a nord, in senso antiorario a sud. Questo fenomeno spinge l'acqua del Canale della Manica contro la linea di costa francese, costringendo le onde a scorrere lungo di essa. Conosciute oggi come onde di Kelvin costiere, queste onde sono state osservate in tutto il mondo, e scorrono in senso orario attorno alle masse continentali (con la costa sul lato destro dell'onda) nell'emisfero settentrionale e in senso antiorario nell'emisfero meridionale. Ma ci sarebbe voluto quasi un secolo prima che gli scienziati scoprissero le increspature equatoriali molto più grandi e le collegassero alle onde di Kelvin costiere. Ciò accadde nel 1966, quando il meteorologo giapponese Taroh Matsuno (1934-) stava elaborando un modello matematico del comportamento dei fluidi (sia aria che acqua) vicino all’equatore terrestre. Con i suoi calcoli Matsuno dimostrò che le onde di Kelvin avrebbero dovuto esistere anche all'equatore. Nel mare, invece di spingersi contro una costa, si scontravano con l'acqua dell'emisfero opposto, che ruotava nella direzione opposta. Secondo i calcoli di Matsuno, le onde equatoriali risultanti avrebbero dovuto fluire verso est ed essere enormi, lunghe migliaia di chilometri. Gli scienziati confermarono le previsioni di Matsuno nel 1968, quando osservarono per la prima volta le massicce onde di Kelvin equatoriali: è stata una delle poche volte in cui la teoria sul fluido geofisico ha previsto la scoperta. Successivamente George Kiladis, meteorologo della National Oceanic and Atmospheric Administration, confermò un'altra delle previsioni di Matsuno collegando la lunghezza di un'onda di Kelvin alla frequenza delle sue oscillazioni (una caratteristica nota come relazione di dispersione), e scoprì che corrispondeva alle equazioni di Matsuno. Tutto tornava.

 

I terremoti e gli tsunami non modificano granché l'aspetto della superficie terrestre, se non si tiene conto dei danni provocati alle opere dell'uomo (edifici, strade, ponti...) Essi però sono i segni premonitori di altri fenomeni più importanti, come la nascita di montagne o il sorgere di una catena di vulcani. Vulcani, terremoti e montagne sono strettamente legati fra di loro, poiché tutti e tre sono l'espressione più evidente di un unico grande fenomeno: la Terra cambia sotto la spinta di eventi naturali che l'uomo potrà conoscere a fondo, ma non riuscirà mai a controllare.

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ARCHEOZ. PALEOZOICO MESOZ. CENOZOICO NEOZ.
Ad. Ar. Pr. Ca. Or. Si. De. Cb. Pe. Tr. Gi. Cr. Pa. Eo. Ol. Mi. Pli. Ple. Ol.

 

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