Gli studi - L'uomo di Piltdown

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Fin dalla presentazione della scoperta, ci fu molto scetticismo riguardo all'autenticità del ritrovamento. Gerrit Smith Miller, per esempio, nel 1915 osservava come in caso di dolo intenzionale, il metodo migliore per rendere attendibili i reperti sarebbe stato quello di frammentare (ufficialmente in maniera accidentale) in numerose parti i resti, permettendo quindi svariate soluzioni per ricostruire il presunto ominide. Nei decenni successivi, fino al definitivo riconoscimento del falso, gli scienziati generalmente si riferivano all'uomo di Piltdown come a un'aberrazione in contrasto con il percorso evolutivo umano tracciato dai resti fossili ritrovati altrove.

Nel novembre del 1953 il Time pubblica le prove raccolte da Kenneth Page Oakley, Sir Wilfrid Edward Le Gros Clark e Joseph Weiner che indicavano come l'Uomo di Piltdown fosse in realtà un reperto contraffatto composto da tre specie distinte. Le prove raccolte indicavano che si trattasse del teschio di un uomo di epoca medievale, della mandibola di un orango che risaliva a cinquecento anni prima e ad alcuni denti limati di scimpanzé. 
Test chimici rivelarono che le parti erano state deliberatamente colorate con dell’acido cromico e con una soluzione acida di solfato di ferro (nessuna della due sostanza era presente in natura nell’area circostante) per falsificare i risultati della datazione cromatica dei reperti.
 
 
 
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