Il Cesare Paolo

di Dario Carcano

Non sono uso a scrivere in prosa, oltretutto in questa modalità; tuttavia, ritengo che, vista la natura della storia che mi accingo a narrare, uno stile asciutto sia quello più adeguato.

Sono nato in Abruzzo nel 1863, in una famiglia di modeste condizioni economiche, presso Aterno Pescarese; fin da bambino ho avuto una grande passione per le lettere e la scrittura, e un grande piacere nello studio della letteratura latina. Tuttavia, la povertà della mia famiglia spinse i miei genitori a prendere l’unica decisione che una famiglia povera possa prendere per far studiare un figlio dotato nelle lettere: farmi entrare in seminario.

Avevo dodici anni quando entrai nel seminario della diocesi di Penne, e ci rimasi per cinque anni, fino a quando ebbi completato gli studi; per essere ordinato sacerdote avrei dovuto studiare teologia per altri tre anni, ma rinunciai perché sentivo che non era la mia strada.

Infatti non mi sentivo adeguato al sacerdozio, e non ero interessato alla cura spirituale delle anime; la mia ambizione era – ed è tuttora – diventare un grande artista, passare alla Storia per i miei scritti e i miei poemi.

Già negli anni in cui studiavo in seminario avevo inviato alcune mie poesie a delle riviste letterarie, riuscendo a farmele pubblicare, e subito dopo la mia uscita dal seminario un editore si offrì di pubblicare una raccolta di mie poesie. Accettai, e le mie poesie furono date alle stampe, col titolo "Primo Vere".

Il "Primo Vere" mi diede varie soddisfazioni: ottenne un buon successo di critica e fu apprezzato dal pubblico, dandomi dei discreti guadagni che mi permisero di trasferirmi a Roma, la capitale imperiale.

A Roma speravo non solo di trovare opportunità di carriera, ma anche un pubblico più colto, capace non solo di apprezzare il mio lavoro, ma di darmi nuovi stimoli.

Arrivai a Roma nel 1881, mentre erano in corso i festeggiamenti per i vent’anni di regno di sua Maestà Imperiale, l’Imperatore dei Romani Giovanni Pio I, sempre Augusto. La capitale era addobbata a festa, e ad ogni angolo veniva offerto vino con cui brindare alla salute dell’Imperatore; ogni giorno c’era una strada su cui l’esercito sfilava in parata, e ogni sera una processione religiosa che ringraziava Dio per il regno saggio e illuminato dell’Imperatore, e chiedeva di avere la grazia di altri dieci anni di questo regno; alcune di queste processioni erano guidate dal vescovo di Ostia, ma in una occasione fu Sua Santità, il patriarca di Aquileia Silvestro V, a guidare la processione dopo essere venuto appositamente nella capitale.

Le celebrazioni oltretutto erano più fastose del solito, perché in quegli stessi giorni le truppe imperiali avevano riconquistato Algeri, ponendo fine a settecento e ventidue anni di dominio arabo e musulmano sulla città; anche per questo il fervore patriottico era alle stelle.

Tuttavia, non si potevano non notare le contraddizioni della capitale: Roma è l’unica città dell’Impero ad avere ogni singola strada illuminata da lampade a gas (nelle altre città solo le strade principali sono illuminate), ma ci sono molte famiglie che non hanno combustibile per cucinare o scaldarsi, e si vedono donne e bambini poveri andare in cerca di legna da ardere; a Roma ci sono fontane ornamentali in ogni strada, e giochi d’acqua in ogni giardino pubblico, ma l’acqua potabile è un problema per molte famiglie. Quella portata dagli acquedotti è monopolio della potente Società Anonima Acque Urbane, azienda di proprietà dei principi Scipioni, che ne fornisce una quota per uso pubblico al governo imperiale e alla prefettura urbana; tuttavia, per avere accesso come privato all’acqua degli acquedotti è necessario pagare alla SAAU un canone annuale.

I cittadini poveri sono costretti a bere l’acqua del Tevere, piena di fango e di ogni altra melma; la prassi è di lasciare decantare queste acque melmose dentro delle caraffe, e aspettare che si depositi la parte solida, bevendo poi la parte liquida. Tuttavia, a coloro che non ci sono abituati quest’acqua causerà la diarrea.

Lo scoprii a mie spese, perché nei primi mesi in cui vissi a Roma dovetti vivere in povertà; quello che avevo lo avevo speso per acquistare casa, un appartamento in zona Trastevere, in un edificio senza ascensore e senza gabinetti in casa, per cui dovetti pagare comunque un prezzo esagerato. Quei primi mesi furono tremendi: senz’acqua pulita, senza riscaldamento, e per mangiare dovevo andare in una mensa diocesana.

Poi, dopo circa quattro mesi, le cose cambiarono. Nonostante la povertà avevo continuato a pubblicare poesie, e una di queste catturò l’attenzione del principe Filippo Anastasio II Sallustio, capo di una delle più antiche e ricche casate nobiliari di Roma, risalente addirittura al I secolo a.C.

Questo quello che dicono i genealogisti pagati dalla famiglia, in realtà le origini dei principi Sallusti sono molto più recenti, e risalgono al XV secolo, da un cambiavalute proprietario di un podere in Umbria denominato pomposamente Castel Sallustio, che durante l’anarchia dei trent’anni divenne oscenamente ricco grazie all’usura e al contrabbando, e che ottenne il titolo principesco pagando una cospicua tangente all’Imperatore Paolo IV.

Tornando a noi, grazie al principe Filippo Anastasio entrai dentro i circoli della nobiltà romana, e conobbi lui, il vero protagonista di questa Storia, sua Altezza Imperiale, il Cesare Porfirogenito Paolo Giovanni Stefano Pio, Despota Imperiale ed erede al trono.

Io avevo diciotto anni, lui venticinque; ci conoscemmo a palazzo Scipioni, durante una delle feste date dal principe Cornelio XIII Scipioni. Le feste dei principi Scipioni già all’epoca erano considerate leggendarie: le voci popolari parlavano di intere piscine piene di vino francese dove si combattevano battaglie navali, nelle quali gli equipaggi delle navi erano scimmie ammaestrate e armate con armi vere; di intere stanze e corridoi piene di opere d’arte, il cui contenuto era stato distrutto per trasformare quegli ambienti in enormi piste da ballo.

Rispetto a queste descrizioni, la festa a cui partecipai io era sottotono: fui portato da un cameriere – che inizialmente dalla cadenza nella parlata credetti sardo, salvo poi scoprire essere di Cartagine – fino ad una stanza spoglia, piena di gente e dove stava suonando un’orchestrina da osteria. Tutta l’attenzione era rivolta verso una finestra da cui era stato rimosso l’infisso.

Seduto sul davanzale di quella finestra c’era un uomo, sui venticinque anni, che senza toccare il muro con le mani e sedendosi come su una altalena stava tracannando una intera bottiglia di spumante; eravamo al terzo piano, sarebbe stato sufficiente un movimento brusco perché quell’uomo cadesse di sotto.

Tutti guardavano in silenzio, anche l’orchestrina per la tensione stava perdendo il ritmo; poi l’uomo tirò dietro di sé la bottiglia vuota, che si ruppe sul pavimento di marmo, senza usare le mani si mise in piedi sul davanzale, si girò di scatto e urlò “Ho vinto bastardi! Datemi un’altra bottiglia!”

L’intera sala scoppiò a ridere e applaudì entusiasticamente; all’uomo fu portata un’altra bottiglia e fu allora che riconobbi in lui il Cesare Paolo.

La bottiglia che gli fu portata non era spumante, ma acquavite; tuttavia, il Cesare ne bevve metà come se fosse acqua, e poi disse:

“A chiunque avrà il coraggio di fare quello che ho appena fatto io, pagherò dieci solidi d’oro. Chi si offre volontario?”

La somma in palio era grossa, ma il rischio dietro quell’impresa non era indifferente. Nessuno si fece avanti.

Il Cesare, frustrato, puntò il dito a caso tra gli spettatori, dicendo:

“Tu, perché non ti offri volontario?”

Dall’altra parte del dito c’ero io, e inizialmente non seppi cosa rispondere al Cesare, ma incalzato dovetti per forza farmi avanti.

Il principe prese un’altra bottiglia di spumante, la stappò coi denti e mi disse:

“Per fare questo gioco bisogna saper bere, saper stare in equilibrio, e saper fare l’una mentre si è sotto l’effetto dell’altra.”

Presi la bottiglia e salii sul davanzale. Provai una prima volta a mettermi a sedere senza usare le mani, ma rischiai di cadere di sotto; la vista del vuoto sotto di me mi fece venire le vertigini, ma riuscii a mettermi a sedere.

Iniziai a bere, sorso dopo sorso. Era un vino dolce, si beveva molto facilmente; a metà mi fermai perché le bollicine pretesero di venire fuori, poi però ricominciai a bere fino a vuotare tutta la bottiglia.

Euforico per l’alcool, buttai la bottiglia di sotto senza curarmi se passasse qualcuno, mi rimisi in piedi sul davanzale senza usare le mani, e mi girai mentre dal basso giungeva una bestemmia ai miei danni da parte di qualcuno che si era visto piovere davanti una bottiglia vuota.

Io ridevo, il Cesare rideva, e tutti i presenti ridevano; sceso dal davanzale, il Cesare Paolo mi invitò a prendere un sorso dalla sua bottiglia, cosa che dopo mi fu spiegato essere un grande onore, mi pagò i dieci solidi e mi diede un’altra bottiglia di spumante, che bevvi praticamente subito.

Venuto a sapere dal principe Sallustio che ero un poeta esperto nel latino, iniziò a declamare versi latini, in parte di autori classici in parte improvvisati sul momento da lui, sfidandomi a fare altrettanto. A causa dell’alcool non ho molti ricordi di quella serata, però devo essermela cavata bene perché il Cesare Paolo rimase molto impressionato da me, e mi permise addirittura di dargli del tu, evitando di chiamarlo Altezza Imperiale.

Credo di non aver mai bevuto così tanto come quella serata; uscito da palazzo Scipioni vomitai due volte sulla strada verso casa, e per i successivi due giorni ebbi dei postumi tremendi che mi impedirono di scrivere.

Tuttavia, il Cesare Paolo rimase bene impressionato da me, e mi fece cercare. Due settimane dopo quella festa, ero nel suo seguito come segretario.

* * *

Le mie mansioni al servizio del cesare Paolo variavano a seconda della giornata; un giorno gli facevo da segretario, il giorno dopo da poeta di corte, il giorno dopo ancora da cancelliere, altri giorni ero semplicemente un amico.

Per mettermi al suo servizio lasciai la mia casa di Trastevere, per trasferirmi in un appartamento dentro a palazzo Silio, nel rione Regola, dove il cesare aveva preso residenza al compimento dei diciotto anni d’età; quell’appartamento era grande quattro volte la mia casa di Trastevere, avevo due bagni con acqua corrente calda e fredda, tutti i giorni la servitù veniva a pulire e se avevo fame, mi bastava chiamare la cucina per farmi portare un intero pasto.

Vivevo come un principe, e avevo anche iniziato a frequentare principi. Ero infatti entrato a far parte del più ristretto cerchio di amici del cesare Paolo; c’erano persone che avrebbero dato tutti i loro possedimenti per avere quel livello di intimità con l’erede al trono, io lo avevo avuto riuscendo a bere una bottiglia di spumante mentre ero in equilibrio su un davanzale.

Del principe Sallustio ho già parlato, perché fu lui a farmi conoscere il cesare Paolo; gli altri che conobbi stando al servizio del cesare furono il principe Marco Antonio IX Salvio, suo cognato Andrea Volpi e il principe Luciano III Messalla.

Il principe Salvio era un personaggio particolare, che merita una digressione. Apparteneva ad una antichissima famiglia della nobiltà romana; mentre altre famiglie principesche simili parentele le millantavano e basta, lui quelle parentele poteva effettivamente dimostrarle, e nell’atrio d’ingresso di palazzo Salvio un gigantesco mosaico mostra tutta la genealogia della famiglia, dall’imperatore Otone al principe Marco Antonio VII, nonno paterno del principe Marco Antonio IX.

Tuttavia, il principe Marco Antonio IX aveva dilapidato il patrimonio familiare, spendendolo in feste, banchetti, scommesse sui cavalli e, soprattutto, donne. Si racconta che – prima della sua caduta in povertà – a una delle sue amanti il principe abbia regalato il suo peso in diamanti, e a un’altra abbia regalato tre pellicce di visone al giorno per tre anni di relazione, così da non vederla mai vestita allo stesso modo per più di due ore al giorno.

Finiti i soldi, l’unica cosa che restava al principe era il nome della famiglia, e siccome aveva una sorella minore in età da marito, decise di mettere all’asta la mano della sorella. Chi avesse offerto di più, avrebbe potuto imparentarsi con una delle più antiche famiglie nobili di Roma, e ottenerne il prestigio e una parte dei titoli.

Il vincitore dell’asta fu Andrea Volpi, cinquantaseienne imprenditore veronese, proprietario di macelli, acciaierie, fabbriche di indumenti, cantieri navali, industrie conserviere, caseifici, terreni agricoli e allevamenti.

Volpi era un uomo molto ricco, ma aveva la colpa di essere nato in povertà in una famiglia di macellai, e di essersi costruito da solo la propria fortuna, lavorando duramente prima per mettersi in proprio e aprire un proprio macello, e poi espandendo la propria attività, diventando attivo in altri settori. La nobilità romana non poteva guardarlo senza sentire la puzza dei macelli.

Il matrimonio con la principessa Elia Salvia fu il modo con cui Volpi si tolse la puzza dei macelli, ed entrò a tutti gli effetti a far parte della nobiltà romana. Inoltre, Marco Antonio IX Salvio era amico d’infanzia del cesare Paolo; quindi, grazie a quel matrimonio entrò in confidenza con l’erede al trono.

Non solo vivevo come un principe, e frequentavo principi, ma grazie al servizio presso il cesare Paolo divenni ricco come un principe. Una delle mie molte mansioni stando al servizio dell’erede al trono era gestire la sua agenda degli appuntamenti, leggere la posta e “scremare” gli scocciatori, durante le udienze decidere chi avrebbe dovuto aspettare in anticamera e chi sarebbe stato ricevuto subito, e chi non sarebbe stato ricevuto affatto.

Insomma, chi voleva guadagnarsi i favori del futuro imperatore doveva per forza passare da me; se ritenevo che una persona non fosse degna delle simpatie del cesare, il cesare non avrebbe neanche saputo dell’esistenza di questa persona. L’unica persona più potente di un Imperatore è colui che decide chi può parlare con l’Imperatore.

C’erano molte persone che desideravano parlare con il cesare Paolo, e guadagnarsi le sue simpatie, nella speranza – una volta iniziato il suo regno – di ottenere incarichi, appalti e favori vari. Ma l’amicizia di un futuro imperatore è molto costosa, e quella del suo segretario anche di più.

Ricevetti regali di ogni genere da parte di persone che desideravano arrivare al cesare: posate e saliere d’oro forgiate da Benvenuto Cellini, dipinti di Leonardo Da Vinci, Raffaello Sanzio e Caravaggio, statue di Gian Lorenzo Bernini, Taddeo Landini e Michelangelo Buonarroti, ville progettate da Andrea Palladio, e un palazzo disegnato da Federico Zuccari, che divenne la mia residenza nei periodi in cui – per mia scelta – non alloggiavo assieme al cesare Paolo a palazzo Silio.

Ricevevo anche denaro, cavalli di razza, terreni agricoli, quote di società e titoli azionari, e addirittura interi stabilimenti industriali.

Qualcuno parlerebbe di tangenti, ma quando si paga una tangente a una persona di potere, sei già d’accordo con quella persona su quale sarà la contropartita di quel pagamento.

Le persone che mi facevano quei regali lo facevano unicamente perché volevano la mia amicizia; per potere avere in futuro il privilegio di pagarmi una tangente.

Ovviamente il servizio presso il cesare Paolo aveva anche dei lati sgradevoli; innanzitutto, gli incontri tra il cesare Paolo e suo padre, l’Imperatore Giovanni Pio I, erano carichi di tensione e molto pesanti da sopportare. L’Imperatore era deluso da suo figlio, in cui vedeva un perdigiorno buono a nulla, e il cesare Paolo era genuinamente dispiaciuto di non avere la stima di suo padre, ma al tempo stesso gli rinfacciava di averlo abbandonato a sé stesso, di non essersi dedicato alla cura del proprio primogenito; a loro modo credo che si volessero bene, tuttavia gli incontri tra loro degeneravano molto spesso, e non era raro si arrivasse a dei veri e propri scontri verbali, nei quali l’Imperatore e l’erede al trono si insultavano apertamente.

Per provare a disciplinare il figlio, l’Imperatore nel 1883 gli assegnò il comando di un reggimento dell’esercito di stanza nei pressi di Frosinone e il grado di colonnello, minacciandolo di una severa punizione se non si fosse dedicato al servizio con l’impegno necessario.

Questa era la seconda cosa sgradevole del servizio presso il cesare Paolo: il doverlo seguire nei suoi spostamenti ovunque andasse, e quindi dover lasciare Roma per seguirlo in Ciociaria.

Mi mancava la mia libertà, anche perché temevo che lì non sarei riuscito a scrivere i miei poemi. Tuttavia, il principe Luciano III Messalla non ci mise molto a ideare una soluzione per liberare il cesare e noi altri da quell’esilio.

Assumemmo nello staff del cesare due ufficiali poveri, appena usciti dall’accademia militare, che facevano il lavoro al posto del cesare Paolo. Inoltre, pagavamo generose mance agli ufficiali e ai sottufficiali del reggimento, così quando l’Imperatore mandava gli ufficiali della Guardia Palatina a controllare se effettivamente il cesare Paolo svolgesse il suo lavoro, questi si sentivano rispondere “Era qui fino a un attimo fa, è uscito a cercare un terreno buono per fare delle esercitazioni” oppure “è uscito per seguire l’addestramento di un gruppo di reclute”.

L’Imperatore non aveva motivo per dubitare di questi resoconti, perché tutti i giorni leggeva i documenti firmati dal figlio durante la giornata, e vedeva come il cesare Paolo fosse impegnatissimo ad addestrare reclute, ordinare munizioni per i fucili – e addirittura scrivere al produttore suggerendo delle migliorie, punire soldati indisciplinati, dirigere le esercitazioni, ecc.

Però quei documenti non erano del cesare Paolo, ma dei due ufficiali che lavoravano al posto suo, che ogni sera andavano da lui per fargli firmare una pila di scartoffie.

Il cesare, infatti, aveva preso residenza in uno degli alberghi più belli e lussuosi della zona, pagando profumatamente per restare in incognito, e tutto quello che faceva come comandante di reggimento era firmare una pila di scartoffie ogni sera, ed essere presente ai pochi eventi pubblici dove doveva farsi vedere in uniforme alla guida del suo reggimento.

Si potrebbe pensare che il cesare si annoiasse a morte a stare lì, in mezzo alla campagna, senza poter tornare a Roma, ma in realtà il cesare Paolo imparò molto presto ad apprezzare la campagna e le sue bellezze.

Me ne resi conto una mattina, quando entrando nella sua camera per portargli la posta, lo sorpresi in compagnia di una ragazza. Aveva le cosce sode tipiche di svolge il lavoro nei campi, e un fisico molto robusto, con dei seni prosperosi; da questo e dalla biancheria che portava capii subito che era una contadina.

Non era la prima volta che la mattina lo trovavo con una donna, ma si era sempre trattato di donne dell’alta società romana, mai di contadine.

Il cesare Paolo quasi non fece caso a me, e si limitò a prendermi la posta; la ragazza, imbarazzatissima, corse a nascondersi.

Sul momento non diedi troppo peso all’episodio, poi però anche le mattine successive lo trovavo sempre con una donna nel letto, sempre diversa da quella del giorno prima, e sempre vestita poveramente.

Finché non iniziai a vedere lei. Si chiamava Chiara, ma tutti la chiamavano Cesarina, perché era nata il giorno del dodicesimo compleanno del cesare Paolo; lui aveva ventisette anni, lei quindici. La prima cosa che notai rispetto alle altre fu che, mentre le altre ragazze erano imbarazzate quando mi vedevano entrare per portare la posta, lei no. Lei non si nascondeva, e anche se la trovavo nuda insieme al cesare non si faceva problemi a farsi guardare. E, onestamente, facevo molta fatica a non guardarla.

Aveva capelli marroni con sfumature rosse, occhi verdi, e un fisico molto prosperoso, ma al tempo stesso rassodato e reso tonico dal lavoro nei campi; a guardarla non si sarebbe mai detto che aveva quindici anni.

Ogni mattina la trovavo sempre lì, a fianco del cesare Paolo, e rapidamente divenne una presenza fissa; cominciai addirittura a chiedermi se quella del cesare fosse solo attrazione erotica o qualcosa di più, e magari intendesse rendere Cesarina molto più di una semplice amante, una volta che lei fosse divenuta maggiorenne e lui Imperatore.

Poi però cominciai a notare dei lividi sul corpo di Cesarina. Inizialmente non ci feci caso, anche perché tra loro vedevo sempre molta tenerezza e molto affetto, poi però notai che quei lividi erano quasi sempre negli stessi punti, e iniziai a notare sul corpo di Cesarina anche graffi e bruciature di sigaretta.

Poi vidi dei lividi sul collo, chiaramente con la forma di dita, che Cesarina copriva con un fazzoletto. Tuttavia, sia il cesare Paolo che la stessa Cesarina mi rassicuravano quando esponevo le mie preoccupazioni, così non ci feci più caso.

* * *

Nella mia vita ho dimenticato molte cose, ma non dimenticherò mai quello che è successo il 17 novembre 1884; quel giorno è impresso a fuoco nella mia memoria, e continuerò a ricordarmelo finché vivrò.

La relazione tra il Cesare Paolo e Cesarina ormai andava avanti da quasi un anno, ed era passato un anno e mezzo da quando l’Imperatore Giovanni Pio I aveva mandato il Cesare in Ciociaria; la competenza e lo zelo mostrato dal Cesare nel comando del proprio reggimento avevano convinto l’Imperatore che Paolo poteva tornare a Roma. Di lì a poco, infatti, il Cesare avrebbe lasciato la Ciociaria per tornare nella capitale, dove suo padre gli avrebbe conferito un incarico di governo.

Quel giorno a Roma si teneva un trionfo in onore del principe Claudio VIII Silla, Proconsole generale tornato vincitore dall’Africa, dove aveva sconfitto la resistenza algerina e riconquistato Ceuta e Tangeri; l’Imperatore avrebbe voluto la presenza del figlio ed erede, per dare un segnale di unità dinastica e familiare, ma il Cesare Paolo aveva già deciso di dare buca, adducendo a impegni inderogabili che lo trattenevano in Ciociaria presso il reggimento.

Gli impegni inderogabili in questione erano il fatto che il Cesare Paolo non aveva intenzione di separarsi da Cesarina, e stava escogitando un modo per portarsela a Roma, senza che il padre venisse a sapere del suo amore. Nei giorni precedenti avevamo vagliato alcune ipotesi, ma non si era deciso nulla di concreto.

Quel 17 novembre come sempre mi ero alzato prima del Cesare, e nella mia camera mi ero messo a scremare la posta, mettendo da parte le lettere degli scocciatori; poi, ogni fine del mese, aprivo quelle lettere per accertarmi che non ci fossero soldi o assegni, e bruciavo il tutto dentro la stufa.

Terminato quel lavoro, presi la posta e passai all’ingresso dell’albergo dove presi una copia de "L’osservatore Imperiale" già preparata dal portiere, e andai nel corridoio dove si trovava la camera del Cesare, dove il cameriere con la colazione mi aspettava affinché gli dessi anche la posta e il giornale; non facevo mai entrare da solo il cameriere, lo facevo sempre aspettare finché non arrivavo io.

Entrato nella camera con la colazione, fui sorpreso nel trovare il Cesare già vestito e pronto per uscire; anche Cesarina – che di solito trovavo ancora nuda – era già pronta, e salutò il Cesare con un bacio prima di andare via.

Il Cesare mangiò in fretta la colazione, e non toccò né la posta né il giornale, che rimasero lì nella stanza; pensai che il Cesare Paolo ci avesse ripensato, e avesse deciso di andare a Roma per partecipare al trionfo del principe Silla, ma fu lo stesso Cesare a far decadere questa teoria, quando mi disse:

“Oggi mi sento molto zingaro. Ho voglia di uscire.”

“Per andare dove, Paolo? Hai in mente un posto dove andare?”

“No, nessun piano prestabilito. Oggi si improvvisa. Gli altri sono pronti?”

Gli altri in questione erano i principi Salvio, Messalla, Sallustio e Andrea Volpi.

“Andrea l’ho visto uscire per andare a prendere il tabacco, il principe Messalla ieri sera era con una donna che ancora non ho visto andare via, il principe Salvio l’ho visto nel salone mentre faceva colazione col principe Sallustio.”

“Beh, allora radunali perché tra un quarto d’ora si esce.”

Eseguii l’ordine, e quando Cesare scese nell’atrio i quattro erano tutti lì insieme a me; il principe Sallustio, che era quello che conosceva meglio il Cesare Paolo, disse:

“So cos’hai in mente, e se permetti avrei una mezza idea su cosa fare.”

Cosa proponi?”

“A tempo debito Paolo, fuori c’è una carrozza che ci aspetta.”

Il principe Sallustio nei suoi giri nella zona si era imbattuto in un paesino mezzo diroccato, di quattro case più una chiesetta, abitato da contadini e pecore; più pecore che contadini.

Pensò quindi che fosse una buona idea spaventare a morte gli abitanti del villaggio fingendosi impiegati della potente SONAFER (Società Nazionale Ferrovie); guidai io la carrozza, dopo circa un’ora arrivammo al villaggio, e dalla carrozza prendemmo vari strumenti che il principe Sallustio aveva preparato, nel caso avesse effettivamente attuato i suoi propositi.

Il Cesare Paolo prese un telemetro con cui si mise a valutare le distanze, il principe Sallustio e il principe Messalla si finsero rispettivamente un ingegnere e il suo assistente, mentre io, Andrea Volpi e il principe Salvio facevamo misurazioni con un metro a nastro, e ogni tanto con un gesso marchiavamo degli edifici a caso.

Subito quel movimento attirò l’attenzione degli abitanti del villaggio, e uno di loro, forse l’anziano del villaggio, venne a chiedere cosa stessimo facendo. Il principe Messalla rispose:

“Siamo della SONAFER, l’ingegnere qui presente è venuto a studiare il terreno su cui dovrà passare la nuova ferrovia Roma-Bari, e le case che stiamo marcando dovranno essere demolite per far passare i binari.”

Sentita quella notizia, immediatamente intorno a noi si formò una piccola folla di gente, molti impauriti e preoccupati, altri arrabbiati. Quando vedemmo dei contadini tirare fuori delle doppiette, capimmo fosse il caso di cambiare aria; in fretta caricammo gli strumenti sulla carrozza e ce ne andammo di corsa mentre dietro di noi sentivamo degli spari.

Poco più avanti trovammo una sorgente d’acqua, e ci fermammo per abbeverarci. Lì il principe Salvio disse:

“Uno dei cavalli ha un nuovo buco per cagare.”

E indicò uno dei cavalli che tiravano la carrozza, che aveva una ferita ad una natica. Niente di serio per fortuna, la ferita era superficiale; ci mettemmo a ridere, la lavammo e proseguimmo il viaggio.

Stavolta eravamo davvero senza meta e senza idee, finché il Cesare Paolo non sentì il bisogno di scendere dalla carrozza a pisciare.

Ci fermammo nei pressi di quella che ci sembrò un'edicola votiva; tuttavia, nonostante ci fossero fiori e piccole candele, non c’era nessuna traccia di immagini mariane o devozionali. C’era solo una scritta, resa però illeggibile dalla muffa.

Il Cesare pensò di mettersi a pisciare davanti a quell’edicola, e intanto che pisciava arrivò un omino anziano, vestito dignitosamente ma coi colori del lutto, e che aveva con sé un mazzetto di fiori.

L’omino guardava il Cesare con un misto di perplessità e stupore, e il Cesare Paolo, resosi conto dello sguardo dell’anziano, gli chiese brutalmente:

“Che fai, guardi, zozzone?”

“No, è che non potete mettervi lì a pisciare.”

“E perché? Non si può più pisciare?”

“Ma piscia dove ti pare, però non davanti alla tomba di mia figlia.”

“Beh, allora curala meglio questa tomba, che non si capisce che qua c’è sepolto qualcuno.”

Il Cesare, che intanto aveva finito di urinare, si rimise a posto i pantaloni e risalì in carrozza; l’omino lo lasciammo lì, davanti all’edicola, a osservare impietrito la chiazza lasciata dalla minzione del Cesare Paolo.

Riprendemmo il viaggio, e ci mettemmo a parlare di quello che era successo a Roma negli ultimi mesi, e specialmente dei fatti del suo belmondo. Raccontai di quando, due settimane prima, essendomi separato dal Cesare per alcuni giorni, avessi preso parte ad un’asta benefica organizzata dal principe Leone IV Porcio in favore dei poveri della capitale.

“E cos'ha di speciale quell’asta?” chiese il Cesare Paolo.

“Beh, la cosa speciale erano i premi in palio. Un esempio: 50 solidi d’oro per poter bere champagne dalla stessa coppa in cui aveva bevuto la principessa Teodora Nevia, lasciando il bordo macchiato di rossetto.”

“Le cose si fanno interessanti!” commentò il principe Messalla pensando alla principessa Nevia.

“Oppure 200 solidi d’oro per un sigaro toccato dalle cosce della principessa Elena Licinia.”

“Beh, mi sembra un prezzo ragionevole.” disse ridendo il Cesare Paolo.

“Ma c’è di più: il principe Cornelio XIII Scipioni ha offerto 500 solidi d’oro affinché il sigaro fosse toccato dalle labbra della vagina.”

“Che spreco…” disse Volpi.

La nostra conversazione si interruppe lì, perché la nostra attenzione fu attirata da un gruppo di donne che bloccavano la strada. Erano operaie di una vicina fabbrica tessile, che erano in sciopero contro la proprietà della loro fabbrica e per protesta stavano picchettando la strada.

Dovetti fermare la carrozza perché non potevamo passare, e una delle operaie venne da me a chiedermi se volessi comprare un giornale socialista; per quieto vivere accettai, e iniziai a fare inversione di marcia con la carrozza. Mentre ero impegnato in questa operazione, gli altri erano scesi e a bordo della strada osservavano le operaie, ogni tanto lasciandosi scappare commenti sull’aspetto delle ragazze.

Una di queste dovette sentire uno dei commenti, e ci urlò contro “Porci!”, tirando all’indirizzo del Cesare Paolo quello che a prima vista credetti essere un sasso, ma in realtà era un uovo marcio. Anche le altre si unirono alla loro compagna, e dovemmo fuggire in fretta e furia.

Rimontati in carrozza, lo sguardo di Andrea Volpi capitò sul giornale socialista che mi aveva dato l’operaia, e sul suo titolo “Contro la guerra imperialista!” Volpi lo prese e iniziò a leggere ad alta voce l’articolo:

“La guerra in Algeria e in Marocco deve essere condannata con la massima forza dal movimento operaio etc. etc. come disse Carlo Marx nel libro tal dei tali etc. etc. trattandosi dell’ennesimo esempio di guerra imperialista tra morti di fame contro altri morti di fame etc. etc. il nostro governo si rifiuta di fornire cure mediche alle migliaia di persone che ogni anno muoiono di malaria, morbillo e pellagra, ma trova i soldi per una guerra coloniale e così via.

Ci vorrebbe il bastone per canaglie simili. Anche nelle mie fabbriche avevo questi problemi coi rossi, poi ho assunto delle squadre di mazzieri per rimetterli al loro posto; da lì in poi non ho mai più visto un sindacalista.”

“Anche voi industriali dovete essere rimessi a posto” disse ridendo il Cesare Paolo.

Ormai era sera, e con la carrozza tornammo verso l’albergo. Arrivammo che il sole era già tramontato, e siccome per tutto il giorno non avevo mangiato nulla, andai verso il salone nella speranza che la cucina fosse ancora aperta, e di poter prendere qualcosa da mangiare. Gli altri mi imitarono, a parte il Cesare Paolo.

Nell’atrio aveva trovato Cesarina ad aspettarlo, ci aveva detto di non avere fame ed era salito in camera insieme a lei.

Dopo un po’, mentre mangiavamo, sentimmo un urlo provenire dalle camere. Ebbi subito una sensazione orrenda, e corsi su di sopra, fino alla camera del Cesare.

Entrai e trovai il Cesare sconvolto a fissare Cesarina; lei era nuda, intorno al collo aveva un laccio rosso. Mi avvicinai e vidi che non respirava, e che il polso non aveva battito. Era morta.

Nel frattempo, erano saliti anche gli altri, e fu il principe Messalla a prendere in mano la situazione; ci disse di rivestirla, e subito lo aiutammo a rimettere i vestiti al cadavere. Poi prendemmo il corpo, lo portammo fuori dalla stanza del Cesare, assicurandoci che nessuno ci vedesse, e lo portammo fino ad un punto dove c’era una finestra. Aprimmo la finestra, e buttammo giù il cadavere.

“Ora non è più omicidio, ma suicidio.” disse il principe Messalla.

Il Cesare Paolo era ancora sconvolto, e gli altri pensarono fosse il caso di portarlo a Roma e fargli cambiare aria per qualche giorno.

Io rimasi lì, ad aspettare che arrivasse la polizia e i genitori della povera Cesarina. Non sospettavano nulla della relazione della figlia col Cesare, e per loro quel suicidio era inspiegabile; rimasi con loro e gli offrii anche del denaro, che loro però rifiutarono. La loro unica preoccupazione era dare un degno funerale alla figlia.

Siccome ufficialmente quella morte era un suicidio, la Chiesa non poteva dare un funerale cristiano a Cesarina, ma i due coniugi sapevano già a chi chiedere aiuto.

Nell’Impero ci sono circa ventimila famiglie nobili. Di queste, duecento posseggono fortune multimiliardarie, e duemila hanno rendite dignitose; le altre diciassettemila e ottocento sono povere in canna, e campano con rendite più misere del salario di un operaio.

Una di queste famiglie erano i conti Sanseverini, che avevano il loro palazzo a poca distanza dall’albergo dove era morta Cesarina; il padre della sciagurata si presentò di fronte al palazzo col cadavere della figlia e due polli, chiedendo al conte la cortesia di allestire un funerale per la figlia, e offrendo i due polli come ringraziamento.

Il conte era magrissimo, persino più magro di molti contadini che ho visto, e la sua testa mi sembrò un teschio con attaccati dei capelli bianchi; il conte accettò di fare quel favore al padre di Cesarina, e dopo essersi scusato per il fatto che la servitù era già stata congedata per la sera (in realtà i conti Sanseverini non potevano permettersi di pagare nemmeno un cameriere), chiamò la contessa e la figlia.

Le due donne immediatamente si misero al lavoro sul cadavere, mentre il conte portava i polli in cucina; la contessa vestì il cadavere con uno dei propri abiti da sera (l’unico abito buono che possedesse), mentre la figlia truccava il cadavere per nascondere le ferite e i lividi.

Sentii il conte dire al padre di Cesarina che il funerale sarebbe stato celebrato il giorno successivo, dal cappellano della famiglia, e che la carrozza di famiglia sarebbe stata usata come carro funebre, poi uscii.

Presi una carrozza, diedi una buona mancia al cocchiere per il servizio notturno, e andai anch’io a Roma. Arrivai a palazzo Silio che albeggiava, e fui subito raggiunto dal principe Sallustio, che mi chiese:

“Ma non sai cos’è successo?”

“No, sono stato a Frosinone fino a poche ore fa. Cos’è successo?”

Mi disse che, quando loro e il Cesare erano tornati a palazzo, trovarono dentro gli ufficiali della Guardia Palatina; pensarono che l’Imperatore avesse scoperto tutti i loro giochetti e li avesse mandati ad arrestarli, ma in realtà quando videro il Cesare si inginocchiarono di fronte a lui e gli giurarono fedeltà.

Infatti, durante il trionfo di quel giorno, l’Imperatore Giovanni Pio I era stato assassinato da un anarchico, tale Giovanni Passannante, subito arrestato e imprigionato in attesa della condanna a morte.

Il Cesare Paolo non era più l’erede al trono, era diventato Sua Maestà Imperiale Paolo VII, Imperatore dei Romani.

Rimasi al servizio dell’Imperatore per cinque anni, fino alla mia caduta in disgrazia; come in tutte le cadute in disgrazia nella corte imperiale, tutto avvenne senza una ragione precisa.

Uno dei miei amici dentro la polizia mi avvertì che mi stavano venendo ad arrestare, così riuscii a prendere con me una borsa piena d’oro e a fuggire.

Persi tutto: il mio palazzo, le mie ville, le mie fabbriche e i miei terreni, i miei cavalli, le mie opere d’arte; tutto quanto fu sequestrato e venduto all’asta.

Dovetti cercare rifugio in un paese di barbari: gli Stati Uniti d’America.

Un tempo avevo tutto, e se volevo qualcosa me lo prendevo. Ora sono di nuovo una nullità che deve fare la coda per avere da mangiare, ed è così che dovrò vivere il resto dei miei giorni.

Dario Carcano

L'Imperatore dei Romani Giovanni Pio I (creata con openart.ai)

L'Imperatore dei Romani Giovanni Pio I (creata con openart.ai)

Nota: Questo racconto nasce dalla lettura de "Il piacere" di D'Annunzio, dove il Vate descrive la decadente e dissoluta nobiltà della Roma umbertina, attraverso le vicende amorose di Andrea Sperelli.
Leggendo quel romanzo mi sono chiesto:
"E se questa nobiltà fosse la classe dirigente di un Impero Romano sopravvissuto fino al XIX secolo?"
E quella è stata l'idea da cui è nato questo racconto.
Due parole su questa TL: il PoD principale è quello che avevo teorizzato qualche tempo fa per una sopravvivenza dell'Impero Romano limitata all'Italia, ossia la vittoria di Antemio nella guerra civile contro Ricimero.
Antemio quindi instaura una sua dinastia che governa l'Italia tra V e VI secolo, in luogo di Odoacre e sovrani ostrogoti; la dinastia antemiana viene poi deposta e sostituita da una nuova dinastia, sempre romana. Questa nuova dinastia non viene però riconosciuta da Costantinopoli, e l'inimicizia tra le due corti imperiali fa sì che lo scisma tricapitolino causi - con cinque secoli di anticipo - una rottura tra cristianità greca e cristianità latina; il papa di Roma tuttavia riconosce il II Concilio di Costantinopoli, e sarà costretto dall'Imperatore d'occidente a lasciare Roma per andare in esilio a Costantinopoli, dove i successivi papi continueranno a risiedere in esilio. Lo scisma causa un conflitto tra i due imperi, con Giustiniano che cerca di reinsediare il papa con la forza, tuttavia la guerra si conclude in un nulla di fatto e ha l'unico effetto di stremare entrambi gli Imperi (soprattutto quello d'Oriente).
Nei territori dell'Impero d'Occidente l'Imperatore favorisce il Patriarca di Aquileia come capo della Chiesa, e per evidenziare questo ruolo la diocesi di Roma viene completamente soppressa, e la sua giurisdizione ripartita tra le diocesi suburbicarie.
Gli arabi mettono alle strette l'Impero d'Oriente, ma quello d'Occidente riesce a tenere, anche se la Tripolitania sarà persa e riconquistata più volte, ma intanto l'Impero deve affrontare la pressione dei Longobardi, degli Ungari e degli Slavi, che premono per entrare nel bacino del Danubio, che nei secoli VII-X sarà una frontiera caldissima per l'Impero, con numerose incursioni barbariche che penetreranno fino in Italia.
Nell'XI secolo Cartagine viene brevemente conquistata dagli arabi, alleatisi coi berberi, ma sarà rapidamente riconquistata, tuttavia questa conquista apre la strada all'espansione araba nel Maghreb, e - complice un periodo di instabilità e guerra civile - i possedimenti africani dell'Impero si ridurranno a Cartagine e alla costa tunisina, con l'odierna Algeria che sarà completamente persa in favore degli arabi, così come Ceuta e Tangeri.
Nonostante queste perdite, tra XI e XIII secolo l'Impero d'Occidente vive una nuova età dell'oro, durante la quale una serie di vittorie contro Longobardi, Croati e Ungheresi permettono all'Impero di riportare la frontiera al Danubio, e di estendere l'influenza romana anche sugli altri regni cristiani (Francia e Spagna visigota); in questo periodo c'è anche un tentativo di una spedizione in Terrasanta per conquistare Gerusalemme, che avrà un iniziale successo per poi fallire entro poche decadi (non ci sono invece le crociate come ci sono state in HL, quindi non c'è il sacco di Costantinopoli del 1204).
Il XV e il XVI secolo rappresentano invece un periodo di crisi per l'Impero, scosso da controversie religiose, instabilità dinastica e crisi economica, il tutto culminato nell'Anarchia dei trent'anni, uno dei punti più bassi della storia imperiale, durante il quale nel 1527 un esercito francese sceso in Italia ad appoggiare uno dei molti pretendenti al trono, poté saccheggiare impunemente la città di Roma.
L'Impero, anche a causa di questi fallimenti, perderà la finestra di opportunità per colonizzare massicciamente le Americhe, che saranno invece dominate da spagnoli, inglesi e francesi.
L'Impero riesce a riprendersi nel XVII secolo grazie alla dinastia dalmata, che farà delle riforme che permetteranno a Roma di tornare competitiva con le altre potenze, tuttavia l'estinzione della suddetta dinastia alla fine del XVIII secolo e una serie di rovesci militari contro la Francia rivoluzionaria (che riesce addirittura ad occupare momentaneamente la pianura padana) causano un nuovo periodo di instabilità, che ha termine nel 1801, con l'ascesa al trono di un generale corso di umili origini, che ribalta le sorti della guerra contro la Francia, riportando Marsiglia e l'intera Provenza sotto controllo imperiale. Con la dinastia corsa ha inizio un nuovo ciclo espansivo, sia da un punto vista militare che economico, ma è un epoca caratterizzata anche da molte contraddizioni e molte disuguaglianze, che prima o poi potrebbero esplodere...
Più che Dumas e Hugo, credo che nel mio racconto ci sia Curzio Malaparte, spero che lo abbiate apprezzato.

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In seguito, Dario ha scritto altri racconti, ambientati nello stesso universo:

Lettera ai Sovietici

Ai compagni dell’Internazionale Comunista.

Sono stato mandato in Italia ormai nel lontano 1921, da Lenin in persona, con il compito di riferire sullo stato del movimento operaio all’interno dell’Impero Romano, e di essere il tramite tra l’Unione Sovietica e il suo partito comunista e l’allora neonato Partito Comunista dei Romani. Da oltre quindici anni non metto più piede in Unione Sovietica, sia per gli impegni che mi sono derivati da questa responsabilità, sia per le frequenti incarcerazioni da parte del governo imperiale.

Mi sono trovato a essere molto più di un semplice ambasciatore del partito bolscevico: essendo un italiano che si è formato politicamente a Mosca, all’interno del Partito bolscevico e dell’Internazionale Comunista, ero uno dei dirigenti più esperti sia nella teoria marxista-leninista che nella prassi rivoluzionaria del partito bolscevico. Per questo, nell’arco di pochi anni, da semplice emissario di Mosca sono diventato prima consigliere della Segreteria, poi dirigente di rilievo, e infine Segretario generale del Partito.

In questo incarico sono sempre stato leale a Mosca, e ho sempre dato il massimo per seguire le direttive dell’Internazionale comunista; tuttavia, dopo quasi vent’anni spesi in Italia a fare lotta politica e attività organizzativa, a coordinare scioperi e occupazioni di fabbrica, e dopo otto anni spesi nelle carceri imperiali sotto il regno dell’imperatore Giovanni Battista Giraldini, devo dire qualcosa che potrebbe causare tensione tra Mosca e i comunisti italiani, ossia che i dirigenti dell’Internazionale Comunista mancano delle conoscenze necessarie a capire la situazione particolare dell’Impero Romano, e le ragioni per cui una rivoluzione proletaria in Italia è improbabile, se non totalmente impossibile.

L’Impero Romano è un paese estremamente arretrato, un relitto del Medioevo che per ragioni a noi incomprensibili è ancora in piedi. Un paese nel quale un vero proletariato industriale esiste solo nel Lazio – escludendo però Roma – in Liguria, nel Milanese e nel Veneto; un paese in cui la maggioranza della popolazione è composta non da operai o braccianti, ma da piccoli proprietari terrieri veterani dell’esercito. Un paese in cui ci sono disuguaglianze economiche enormi, e non ci si fa troppi problemi a deporre e uccidere brutalmente un imperatore se incapace, ma in cui il sistema imperiale gode di un consenso enorme presso il popolo, perché nel sistema il popolo vede una garanzia di benessere.

Eppure, nonostante tutte queste contraddizioni, proprio l’arretratezza dell’Impero è ciò che lo rende impermeabile ad una rivoluzione proletaria.

Innanzitutto, nell’Impero è molto forte la devozione religiosa verso la Chiesa Cattolica Aquileiana: quasi tutti i romani sono credenti, gli atei – o anche solo gli agnostici – sono pochissimi e oggetto di scherno da parte della popolazione. I membri del clero godono di enorme considerazione presso le masse popolari, e nelle città è frequente imbattersi nelle clausure, celle abitate da individui che rinunciano al contatto col mondo esterno per avvicinarsi a Dio, tenuti in vita dalla carità delle persone che abitano vicino a loro.

Nessuno mette in discussione la Chiesa, e nemmeno Leone IV Bonaparte, l’imperatore che lanciato le riforme più audaci, è riuscito a scalfire il potere della Chiesa.

Tuttavia, per il popolo ciò non è affatto un male: la Chiese riceve donazioni da individui di ogni ceto, e queste donazioni sono usate per tenere operativi ricoveri per i senzatetto, mense comuni, ospedali.

L’istruzione oltre l’educazione elementare non è garantita dallo Stato, perciò per le famiglie di modeste condizioni economiche l’unica opzione per far studiare i figli, senza indebitarsi o dilapidare il proprio modesto patrimonio, sono i seminari ecclesiastici, che oltretutto aprono la possibilità di una carriera all’interno della Chiesa.

Inoltre, l’Impero Romano è un paese fortemente corporativo, ossia ci sono categorie sociali che sono tenute in una considerazione più alta da parte dello Stato. Dall’epoca di Leone IV i veterani, al termine del loro servizio nell’esercito, ricevono dallo stato un lotto di terra coltivabile di cui diventano proprietari; questi lotti sono ricavati dal demanio pubblico, ma più spesso sono frutto della divisione delle proprietà espropriate ai nobili caduti in disgrazia presso l’Imperatore.

Gli operai, tramite i sindacati, hanno passato decenni a richiedere miglioramenti nelle loro condizion sia salariali che contrattuali. Molto astutamente, l’Imperatore Marciano VI Giraldini accolse gran parte delle richieste degli operai, creando anche tavoli di contrattazione collettiva tra sindacati e industriali mediati dallo Stato; facendo ciò, l’Imperatore puntava a spaccare il movimento proletario e comunista, avvicinando a sé i sindacati e integrandoli nel sistema corporativo, e allontanando gli operai da Mosca e dalle influenze comuniste.

Noi come PCdR ci siamo opposti a questi tentativi, ma i sindacati hanno ceduto alle sirene imperiali, e ora la Confederazione Generale del Lavoro, il principale sindacato dell’Impero, che fino a vent’anni fa era l’organo attraverso cui organizzavamo la lotta proletaria, è diventato una colonna del sistema Imperiale.

Ho visto troppi compagni del Partito arrestati su segnalazione dei sindacalisti della CGdL; perciò, verso il sindacato ho solo fiele e parole al veleno. Mi dispiace, perché molti sindacalisti sono stati compagni di lotta per molti anni, ma non posso dimenticare come quegli stessi volti poi siano passati a urlare "Viva l’Imperatore!" negli anniversari dell’ascesa al trono dell’imperatore Marciano.

Forse è solo la stanchezza a parlare, e a rendermi così pessimista verso le prospettive del movimento operaio nell’Impero; avevamo grandi speranze nel 1935, quando riuscimmo a deporre l’imperatore Giovanni Battista assieme ai militari. Tuttavia, questi ultimi salvarono l’istituzione imperiale, restaurando il deposto Marciano VI, e la CGdL organizzò una grande manifestazione con cui celebrò il ritorno di Marciano, l’imperatore buono che ascoltava i sindacati e pensava agli operai.

Una rivoluzione deve avvenire sia dal basso che dall’alto; è così per tutte le rivoluzioni della Storia. Se il popolo contesta la classe dirigente, hai una rivolta; se la classe dirigente vuole sostituire il regime, hai un colpo di Stato. Una rivoluzione avviene solo quando contro il regime si mobilitano contemporaneamente il popolo e pezzi del ceto dirigente, con un movimento che è sia dal basso verso l’alto che dall’alto verso il basso. Neanche la Rivoluzione russa fa eccezione a questa regola: la rivoluzione del 1905 fu repressa perché avvenne quando il ceto dirigente russo non metteva in discussione l’istituto imperiale; quando lo zar fu deposto dai suoi stessi ufficiali e la monarchia rimpiazzata dal governo provvisorio, segnale di come lo stesso ceto dirigente esigesse un cambiamento, si aprì la finestra di opportunità che permise a Lenin di guidare la Rivoluzione di Ottobre.

Ebbene, in questo momento nell'Impero non c’è alcuno spiraglio per una rivoluzione; il popolo sostiene l’Imperatore e l’istituto imperiale, l’esercito può mettere in discussione un imperatore (e a volte un’intera dinastia) ma mai la monarchia in sé, gli industriali non sono abbastanza potenti da costituire un pericolo per l’imperatore, e alla nobiltà è concesso arricchirsi finché rimane leale alla corona. Tutti, in un modo o nell’altro, beneficiano dal sistema imperiale, per questo nessuno lo mette in discussione.

Noi comunisti siamo l’unica vera opposizione al regime imperiale. Nonostante le incarcerazioni di dirigenti e militanti, il Partito resta comunque molto presente nelle città, ma purtroppo nelle campagne e nei villaggi rurali – dove abita la grande maggioranza dei sudditi dell’imperatore – praticamente non esistiamo. È difficile spiegare ai veterani, che hanno avuto dall’Imperatore il pezzo di terra che coltivano, le ragioni della rivoluzione proletaria.

Ho sentito che a Mosca molti dirigenti dell’Internazionale si stupiscono di come il PCdR non sia stato formalmente messo al bando, e io stesso sia libero di muovermi e pubblicare articoli su giornali. Ma mettere al bando il partito semplicemente non è necessario, l’Imperatore può semplicemente ignorarci.

Spero che questa mia lettera chiarisca le ragioni del fallimento della lotta operaia nell’Impero Romano.

Saluti, compagni. W la Rivoluzione! W l'Internazionale!

Dario Carcano

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L'intervista

Sono arrivato in Romania nel 1979. All’epoca ero già famoso come giornalista e Martin Scorsese, all’epoca regista emergente, mi aveva chiesto – ovviamente dietro compenso economico – di andare in Italia a studiare la Roman Connection, ossia la rete internazionale del traffico dell’eroina che partiva dalle fabbriche clandestine in Grecia, passava per Taranto con la complicità di ufficiali corrotti della Marina Romana, giungeva ai clan mafiosi della Sicilia, della Campania e della Calabria, e arrivava negli Stati Uniti d’America, a New York.

Martin Scorsese voleva fare un film incentrato su questo traffico, così mi inviò in Romania a raccogliere informazioni e dati che poi sarebbero confluiti nella sceneggiatura del film. Quel progetto, dopo varie modifiche, sarebbe diventato Goodfellas, uscito nelle sale americane nel 1990.

Tuttavia, questa non è la storia di Goodfellas e della sua scrittura. Questa è la storia del mio viaggio in Italia, e della scoperta di uno dei fatti più raccapriccianti nella storia della Romania.

Come dicevo, sono arrivato in Italia nel 1979, a settembre. Quando uscii dall’aeroporto pioveva a dirotto, e sul taxi che mi doveva portare all’albergo trasmettevano una canzone che recitava “Chist’è ‘o paese d’ ‘o sole!”; passai le prime due giornate a Roma in albergo, non solo per organizzare le interviste che dovevo fare, ma anche perché speravo di poter vedere le meraviglie della capitale imperiale. Il terzo giorno, mentre stavo uscendo dall’albergo, trovai nell’albergo due ufficiali della guardia imperiale che, con mia sorpresa, mi stavano aspettando. Mi chiesero se fossi io il giornalista americano vincitore di un premio Pulitzer che collaborava con Martin Scorsese; gli risposi di sì e mi dissero che l’imperatore Paolo VIII voleva conoscermi e mi stava aspettando al Quirinale, nel Gran Palazzo, dove quel giorno avremmo pranzato insieme.

Non mi aspettavo che fossi così famoso anche in Romania, poi però mi ricordai che l’imperatore Paolo VIII era notoriamente appassionato di cinema, tanto che si diceva che i film prodotti dal Ministero per l’Educazione e la Propaganda Imperiale fossero diretti da lui usando pseudonimi. Probabilmente – pensai – l’imperatore era rimasto impressionato da Taxi Driver, e quando aveva sentito che lavoravo con Scorsese si era incuriosito e aveva voluto conoscermi; così, durante il tragitto dall’albergo al palazzo, mi preparai a rispondere a domande su Scorsese e sul suo cinema.

Arrivai al Gran Palazzo che era passato mezzogiorno, e un cameriere in livrea mi accompagnò dall’ingresso alla sala dove l’Imperatore mi attendeva.

Mi aspettavo una sala gigantesca con un tavolo enorme, invece era una saletta abbastanza intima, con un tavolo che per quattro persone sarebbe stato piccolo; l’imperatore era già seduto e mi stava aspettando per iniziare a mangiare. Quando mi vide mi venne incontro per stringermi la mano, e mi salutò con grande cordialità. Non ero a disagio, anzi: le gigantografie e i ritratti della propaganda che ovunque tappezzavano i muri di Roma, mi avevano abituato all’Imperatore e alla sua fisionomia; per cui non mi sembrava di essere assieme ad uno degli uomini più potenti del pianeta, ma di trovarmi assieme ad un vecchio amico.

La conversazione tra noi partì praticamente subito, e durò ben oltre la durata reale del pranzo; come previsto, la conversazione partì dal cinema; tuttavia, l’imperatore parlò soprattutto di come lui, durante il suo regno, avesse creato dal nulla un’industria cinematografica capace di sfidare Hollywood. Sembrava di parlare con Samuel Goldwyn, e non con un imperatore romano.

Ma del resto, l’imperatore Paolo era un intellettuale rinascimentale. Poteva parlare di cinema come un produttore di Hollywood, di Storia romana come un docente universitario, della marina e delle sue navi come un ingegnere navale, di religione come un teologo, e di politica come un sociologo.

Non era uno stupido, l’imperatore: se pensate che il cinema fosse per lui un gioco sbagliereste di grosso. L’imperatore si rendeva conto che il cinema, come anche la televisione, era il veicolo ideale per far passare la propria agenda politica, e si rendeva conto che, se l’Impero non fosse stato in grado di competere col cinema americano, avrebbe perso la più importante delle battaglie. Quella culturale.

A un certo punto della conversazione, quando il pranzo era già finito, l’imperatore disse: “So qual è il vero motivo della sua visita in Romania. L’incarico di Scorsese le ha dato un pretesto, ma lei ha una ragione personale per trovarsi nel mio impero. Suo padre.”

Credevo che l’aver cambiato cognome ottenuta la cittadinanza americana mi avrebbe evitato che qualcuno riconoscesse in me il figlio di mio padre, ma evidentemente mi sbagliavo.

Mio padre, il conte Anastasio Sampaoli, era stato diplomatico e ministro sotto numerosi imperatori, ed era sparito nel nulla durante il regno dell’imperatore Giovanni Battista Giraldini, lo zio dell’imperatore Paolo.

Non c’era stato un processo, e a me e mia madre non risultava fosse stato detenuto in carcere. Semplicemente un giorno era sparito nel nulla, e né io né mia madre avevamo mai più avuto sue notizie; non era nemmeno l’unico caso, molti altri ministri e funzionari erano spariti nel nulla durante il regno di Giovanni Battista.

Mio padre, che forse aveva intuito la fine che stava per fare, pochi mesi prima della sua scomparsa aveva spedito me, mia madre e i miei fratelli negli Stati Uniti, dove siamo cresciuti. Poi, dopo qualche settimana dal nostro arrivo, smettemmo di ricevere sue lettere, e gli amici rimasti in Romania ci confermarono che anche loro non avevano più sue notizie.

L’imperatore, dopo una pausa di silenzio, riprese a parlare e disse: “Lei probabilmente immagina qual è stata la fine di suo padre, il conte Anastasio, e devo informarla che i suoi timori purtroppo sono fondati. Suo padre è stato arrestato con l’accusa di tradimento, detenuto per tre anni nel campo di lavoro di Atella, e poi giustiziato. Non so dirle se sia stato seppellito, ma visti gli usi dell’epoca ne dubito.”

“Cosa intende dire con usi dell’epoca?”

“Il regno di mio zio è stato un periodo diciamo… complicato. Forse lei non è a conoscenza, avendo vissuto fuori dalla Romania, ma in quel periodo nessuno era al sicuro e molte persone sono state trasformate in fertilizzante per piante. Anch’io ho rischiato la vita in quel periodo.”

“Anche lei? Un principe di sangue reale?”

“Gliel’ho detto, nessuno era al sicuro. Il potere di mio zio era assoluto, e anche la sua paranoia era assoluta; tutti i giorni mio zio sottoponeva me e mio padre ad un rituale che chiamava ‘la mezz’ora’.”

“E in cosa consisteva?”

“Beh, in pratica faceva entrare me e mio padre nel suo studio, un ambiente gigantesco fatto apposta per intimorire, dove appesi al soffitto c’erano dei lampadari di cristallo talmente enormi che, se uno di questi si fosse staccato e qualcuno si fosse trovato sotto di esso, sarebbe finito spiaccicato.

In questo ambiente c’erano lui e tutta la sua corte di adulatori ed esecutori; la mezz’ora iniziava effettivamente quando mio zio poneva al suo segretario la domanda ‘Cosa si dice oggi nelle strade?’ e il segretario gli rispondeva “Il popolo è insoddisfatto del governo di sua maestà imperiale, e vorrebbe il ritorno sul trono dell’imperatore Marciano”. Dopo questo scambio rituale iniziava la mezz’ora, e mio zio si alzava in piedi e di fronte a tutta la corte faceva un elenco di tutte le malefatte compiute da mio padre durante il suo regno; omicidi politici, tangenti, accordi diplomatici svantaggiosi per l’impero, appalti truccati, sconfitte militari, nulla veniva risparmiato, vero o falso che fosse. Poi ci congedava sempre con la stessa frase: ‘Io vi compatisco per la fine che vi farò fare. Ora andate, ma ricordate che domani questa fine potrebbe arrivare.’

“Tutti i giorni era così?”

“Ogni singolo giorno sottoponeva me e mio padre a quel rituale. Sapeva che mio padre era troppo popolare per poterlo uccidere impunemente, così lo umiliava ogni giorno con la mezz’ora. Poi, quando compii sedici anni, fui allontanato dalla corte e mandato nel campo di lavoro di Atella, sotto falso nome, cosicché non ricevessi trattamenti di favore. Avevo paura che mio padre non mi avrebbe mai più rivisto, né vivo né morto.

Rimasi ad Atella finché mio zio fu deposto e mio padre restaurato sul trono.”

“Atella? Ma non è dove c’era anche mio padre?”

“Infatti, io ad Atella ho incontrato tuo padre, dormivamo anche nella stessa baracca. Ricordo benissimo il giorno in cui arrivò al campo, perché mio zio aveva predisposto una cerimonia ‘di benvenuto’, per umiliarlo.”

“Addirittura?”

“Sì, mio zio era un sadico che traeva piacere dall’umiliare il prossimo, e spesso si recava ad Atella per umiliare i prigionieri politici. Secondo alcune voci non faceva solo quello…”

“E cosa consistette la ‘cerimonia’ con cui umiliò mio padre?”

“Io vidi tutto dalla finestra della mia baracca, assieme agli altri prigionieri. Quando arrivò il treno su cui aveva viaggiato tuo padre, mio zio lo separò dal resto dei prigionieri, che furono messi in fila nel piazzale del campo a fare da pubblico. Mio zio nel piazzale aveva fatto preparare un palco, attorno a cui erano disposte le guardie del campo, e alcuni membri della sua scorta personale. Ora che ci ripenso, mi rendo conto che mio zio quel giorno aveva la stessa faccia gelida, e al tempo stesso piena di disprezzo, che aveva Klaus Kinski in ‘Aguirre, furore di Dio’.

Tornando a noi, tuo padre fu portato nel piazzale, di fronte a mio zio. Tuo padre era ancora vestito in borghese, così mio zio ordinò che gli fossero strappati tutti i vestiti, e tuo padre rimase nudo, senza neanche le mutande, solo con un paio di occhiali. Vidi mio zio avvicinarsi a tuo padre, togliergli gli occhiali, buttarli a terra e schiacciarli coi suoi stivali, e poi sputare in faccia a tuo padre. Fecero venire il barbiere del campo, che rasò tuo padre a zero, e poi gli misero in mano la divisa a righe del campo e due scarpacce di legno.

Tuo padre non fu l’unico a essere umiliato quel giorno, dopo di lui fu la volta di un'altra mezza dozzina di ex ministri e industriali. Come ho detto prima, mio zio si divertiva a umiliare il prossimo, e circolano molte leggende secondo cui nelle sue visite nei campi non faceva solo quello.”


“A questo punto glielo devo chiedere: cosa dicono queste leggende?”

“Mi sorprende che lei non sappia davvero nulla, evidentemente agli americani queste storie non piacciono; secondo le leggende, mio zio nei campi non solo umiliava i prigionieri, e non solo partecipava direttamente alle torture sui prigionieri – che ad Atella si facevano eccome, e non solo per estorcere confessioni – ma teneva banchetti a base di carne umana dei prigionieri del campo, a cui partecipavano membri di un culto segreto di cui era membro.”

“E secondo lei, queste leggende sono vere?”

“Guardi, che io sappia mio zio non era membro di nessun culto segreto. Però è vero che lo zio era membro di alcune organizzazioni… strane, che negli anni del suo regno hanno avuto una forte influenza sul governo.”

“E quali sarebbero queste organizzazioni?”

“La principale di cui sono a conoscenza era la Fratellanza degli Ottimi Perfetti, che, come ho detto, era… strana. L’ordine venerava una versione idealizzata dell’Impero Romano, nella fattispecie l’Impero dell’epoca augustea, ritenendo che da lì in poi sia iniziata una decadenza irreversibile che poteva essere arrestata solo restaurando l’Impero di Augusto. Lo zio, influenzato da quest’ordine, riteneva di essere la reincarnazione di Germanico, il vendicatore di Teutoburgo, e di essere stato mandato nel mondo per arrestare il declino dell’Impero e riportarlo alla sua antica gloria.”

“Ah.”

“Se già questo le sembra strano, si prepari al resto. Lo zio prese alla lettera il compito di restaurare l’Impero di Augusto; abolì il sistema delle prefetture creato da Leone IV e reintrodusse il sistema amministrativo dell’epoca augustea. Il problema è che anche gli storici non sanno con esattezza quale fosse questo sistema, così l’amministrazione dell’Impero divenne un caos di organi locali che si pestavano i piedi a vicenda. Fu abolita anche la monetazione decimale, e venne reintrodotto il sistema monetario bimetallico dell’epoca alto-imperiale, col risultato che anche solo per avere una moneta che avesse senso molti cittadini dovettero iniziare a ricorrere al mercato nero, dove si sviluppò una vera e propria valuta parallela a quella legale. Questo a cascata ebbe conseguenze disastrose sulle entrate fiscali, ulteriormente aggravate dalla decisione di reintrodurre l’appalto ai privati dell’esazione delle imposte, con tutta la corruzione e le ruberie sulle spalle dei cittadini che ne conseguivano. La cosa paradossale è che le azioni di mio zio scontentarono una platea così vasta di gruppi di potere e ceti sociali, che solo dopo undici anni riuscirono a mettere da parte le proprie divergenze e coalizzarsi per deporre mio zio e restaurare mio padre.”

“E poi, una volta restaurato suo padre cosa fece?”

“Ovviamente la prima cosa fu venire ad Atella a cercarmi; la seconda fu un editto con cui dichiarò ‘nulli, illegittimi e mai avvenuti’ gli atti di mio zio come imperatore.”

“E suo zio?”

“La fine di mio zio è un segreto, e tale deve restare. Posso però dirle che, a differenza sua, siamo stati magnanimi e non lo abbiamo giustiziato.”

Poi l’imperatore si alzò, andò verso un mobile e da un cassetto tirò fuori un faldone pieno di documenti su mio padre, e sulla sua prigionia. Me lo diede e mi disse:

“Si è fatto tardi, e purtroppo la devo lasciare. Questi documenti renderanno molto più semplice la ricerca su suo padre. Se vuole potrà scrivere di questo nostro colloquio, e della sua ricerca.”

Per poi andare via. Solo due mesi dopo, ultimato l’incarico ricevuto da Scorsese, mi avventurai nella ricerca sulla prigionia di mio padre e sulla fine dei suoi resti.

Purtroppo, quest’ultima parte è stata infruttuosa, perché l’imperatore Paolo non esagerava quando parlava di persone trasformate in concime. Come molte altre persone che hanno perso dei cari durante il regno di Giovanni Battista Giraldini, non ho una tomba su cui piangere mio padre, ma dal mio viaggio in Italia mi sono portato dietro una busta del terreno del campo di Atella, dove mio padre ha incontrato il suo destino.

Prima di lasciare Roma, mentre prendevo la metropolitana che mi avrebbe portato in aeroporto, dove avrei preso l’aereo per New York, un uomo attirò la mia attenzione. Era un uomo di circa novant’anni, che indossava una divisa da guardiano dei gabinetti della metropolitana; fu la sua faccia a catturare la mia attenzione, perché mi ricordava moltissimo Klaus Kinski in Aguirre, solo molto più anziano. Mentre lo guardavo stava pulendo il pavimento in marmo della stazione con un mocio, e ad un certo punto anche lui iniziò a guardarmi, e mi guardò come se in me avesse riconosciuto qualcuno che conosceva. Guardò me, lanciandomi saette con gli sguardi, e poi si voltò alla mia destra, dove vidi due uomini in impermeabile che lo tenevano d’occhio.

Poi arrivò il treno, io salii, le porte si chiusero e il treno partì. E mentre il treno si allontanava vedevo che continuava a guardare verso di me, e che i due uomini in impermeabile gli si erano avvicinati e avevano iniziato a rimproverarlo.

Non tornai mai più in Romania.

Dario Carcano

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L'imbianchino

Molti anni fa ero convinto che gli imbianchini pitturassero le navi. Ma del resto cosa potevo saperne? Ero un portuale come gli altri; ero nato a Chiaia, ero stato battezzato nella chiesa di Santa Maria di Piedigrotta, avevo studiato e svolto il servizio militare, avevo fatto la guerra in Algeria, e tornato a Napoli avevo iniziato a faticare come portuale, come gli altri iscritto al sindacato.

E questa era la mia vita finché... finché anch'io non iniziai a pitturare navi.

Era il 1957, erano quasi cinque anni che ero tornato a Napoli a faticare al porto. Per guadagnare dei soldi in più avevo messo in piedi un traffico di merce rubata; niente di più semplice: togli la merce dalle navi, e anziché caricarla sui camion che la portano a destinazione la nascondi, poi la vendi al mercato nero. Sulle bolle di trasporto scrivi che i camion li hai caricati e una parte dei soldi li dai ai camionisti per fare finta di niente.

Tutto filava a gonfie vele, finché un giorno uno scornacchiato di camionista non si fa prendere mentre fa il mio stesso giochetto, e per provare a togliersi dal casino fa il mio nome. Finì a processo, e mi rivolsi a Carmine Cirillo, l'avvocato del sindacato, che era anche cugino di Rosario Cirillo, il capo del sindacato.

Carmine fu molto diretto, e mi rassicurò dicendo che se le accuse contro di me non potevano essere provate non avevo nulla da temere.

"Se la testimonianza di quel camionista è l'unica cosa che hanno, non hanno alcuna speranza di vincere. Possiamo facilmente sostenere che la confessione è stata estorta, e questo dovrebbe bastare a convincere il giudice. Ci sono altre ragioni che potrebbero giustificare un tuo licenziamento?"

"Per esempio?"

"Bevi sul lavoro?"

"No."

"Arrivi al lavoro in ritardo?"

"No."

"Abusi dei giorni di malattia?"

"No."

"Fai a pugni sul lavoro?"

"No, sul lavoro no."

"Allora sei a posto, non devi preoccuparti. Comunque... a me lo puoi dire se li derubi o no. Per me non fa nessuna differenza, in tribunale ti difendo lo stesso."
"Beh, faccio tanto per loro quando non li derubo."

Carmine fu di parola, da quel processo ne uscì completamente pulito, e l'azienda fu condannata per condotta antisindacale. Un processo che avrebbe potuto distruggermi e farmi passare anni in carcere, si concluse con la mia assoluzione.

Non so cosa fece Carmine per farmi vincere, ma alcuni giorni dopo la sentenza Rosario Cirillo chiese di me. Così andai nel suo ufficio, e dopo avermi fatto entrare mi disse:

"Ho sentito che sei stato legionario."

"Sì, in Algeria. Due volte, dal 1946 al 1948 e dal 1950 al 1952, ossia quando è scaduta la ferma e sono tornato a casa."

"E com'era? Hai avuto paura?"

"Si ha sempre paura in guerra, e chi dice il contrario sta mentendo. Algeri era un inferno: pattugli una strada e all'improvviso ti ritrovi in mezzo ad un combattimento, con donne che sparano dalle finestre e bambini che tirano sassi dai tetti. In quel momento preghi la Madonna e daresti qualsiasi cosa per uscire vivo da lì. Poi però, passato il momento di terrore, se sopravvivi torni alla routine di sempre, ed esegui gli ordini. Come quando ti danno un gruppo di prigionieri e ti dicono solo di portarli fuori città a scavare. Col fucile li guardavo dall'alto in basso mentre scavavano, e ce la mettevano tutta. Forse pensavano che se avessero scavato bene li avremmo risparmiati."

"E tu saresti ancora disposto ad obbedire agli ordini?"

"Dipende da chi me li da questi ordini."

"Se te li do io che sono il capo del tuo sindacato, obbediresti?"

"Certo che sì."

"Bene. Il mio primo ordine è che da ora in poi un decimo del tuo traffico lo dovrai dare a me. Per il resto, tieniti a disposizione per quando ti manderò a chiamare."

"Va bene."

E così, iniziai a dipingere navi per Cirillo. Se non fosse chiaro, Rosario Cirillo non era solo il capo di un sindacato. Rosario gestiva il contrabbando di sigarette attraverso il porto, a cui si aggiungevano il contrabbando di materiale pornografico, due bische clandestine, e il traffico di eroina verso gli Stati Uniti, che però non gestiva da solo, ma in società coi corsi e i siciliani.

Ma a me non interessava granché di cosa faceva Cirillo, per me era come essere tornato nell'esercito, eseguivo gli ordini. Cirillo mi diceva di dare un messaggio ad un imprenditore che minacciava di licenziare un suo delegato sindacale, e io recapitavo il messaggio assieme ad un candelotto di dinamite; Cirillo mi diceva di occuparmi di un negoziante che si rifiutava di piazzare la sua merce, e io gli facevo qualche buco sulla vetrina; Cirillo mi diceva che secondo lui un nostro uomo poteva parlare coi magistrati, e io convincevo quella persona a tacere. Infilandola in una macchina trita-alberi.

Per me era lavoro, non c'era nulla di personale, ed ero molto bravo a fare quello che facevo. Cirillo infatti per ogni lavoro che facevo mi ricompensava molto bene, e dopo dieci anni che lavoravo per lui, nel 1967 venni ufficialmente affiliato alla sua famiglia.

Tutto andava bene, finché... All'inizio degli anni '70 il governo americano iniziò a perseguire seriamente il traffico di eroina, e molti boss italo-americani nostri clienti finirono dietro le sbarre. Anche il governo di Costantinopoli diede un giro di vite al traffico di eroina, mandando l'esercito sui monti dell'Anatolia a snidare le coltivazioni di oppio. Cambiò anche l'atteggiamento della nostra Marina, che iniziò a punire molto più severamente gli atti di corruzione e collusione nel traffico d'eroina.

Insomma, l'eroina, che fino a quel momento era una licenza per stampare soldi, non rendeva più come prima.

E questo causò parecchi problemi, perché senza i soldi dell'eroina la società tra noi, i siciliani e i corsi si ruppe. E rotta la società, i corsi e i siciliani pensarono di approfittare della divisione delle famiglie camorriste per imporsi a Napoli. Rosario infatti grazie al sindacato controllava il porto, ma a parte quello la sua autorità non si estendeva oltre Chiaia.
Così nel 1972 a Napoli scoppiò la prima vera guerra di camorra.

La guerra contro i siciliani e i corsi non fu semplice. Mi sembrò di tornare ai tempi dell'Algeria, quando a qualsiasi ora del giorno e della notte dovevamo correre di qua e di là, a dare manforte ai compagni che si trovavano sotto al fuoco nemico.

Vidi morire molti amici, e dovetti passare molte notti lontano da casa, a dormire in una casa sicura vicino al porto, pronto a rispondere alle chiamate di Rosario e ad andare là dove ci fosse bisogno; assieme a me c'era una bella squadra che avevo messo su personalmente: innanzitutto c'era il mio fratellino Ciro Gargiulo, che chiamavo fratello anche se in realtà siamo cugini, ma in Romania si usa così; poi c'erano Gaetano Pollio e Anastasio Zito, ex paracadutisti come me veterani dell'Algeria. Li avevo tirati dentro grazie ad alcuni debiti di gioco nelle bische di Rosario, di cui accettai di farmi carico se loro avessero iniziato a lavorare per me. Non mi pentii di quella decisione, divennero subito i miei uomini migliori: avevano nervi d'acciaio e ghiaccio nelle vene, uccidere non gli faceva né caldo né freddo, erano abituati a eseguire gli ordini e soprattutto sapevano quando bisognava fare rumore e quando bisognava fare silenzio.

Oltre a loro tre, con me c'era Totò Franzese, un ragazzo del sindacato che aveva già all'attivo parecchie azioni, e che avevo tirato dentro dopo aver visto come sistemava un gruppo di sindacalisti comunisti. Loro non erano i soli, all'epoca della guerra coi siciliani avevo già più di venti persone alle mie dipendenze; però loro quattro erano i miei uomini più fidati, quelli di cui mi servivo più spesso. Gli altri erano mercenari che andavano e venivano, e non vale nemmeno la pena menzionarli.

Per quella guerra non badai a spese: mi procurai apparecchiature elettroniche per le intercettazioni, e le usai per controllare i telefoni dei siciliani e dei corsi, e assunsi due russi ex agenti del KGB per utilizzare quelle apparecchiature. Assoldai gli uomini necessari a pedinare e a seguire quegli infami, e convinsi le poste a far passare prima da me tutta la loro corrispondenza, dove avevo uomini che aprivano le lettere col vapore, fotografavano tutto e richiudevano le buste. Tutto questo mi costò molti soldi è vero, ma nel 1971 avevamo rapito Achille Lauro, e il riscatto che ci avevano pagato per liberarlo bastava a coprire cento anni di quelle spese. Rosario ovviamente ebbe la sua fetta, ma anche così erano molti soldi.

La guerra fin da subito volse in nostro favore: gli scornacchiati siciliani nel 1974 tentarono di ribaltare la situazione mandando a Napoli trenta uomini guidati da Ninni Buscetta; uomini d'onore, non mercenari, che nelle intenzioni dei siciliani dovevano dare nuova linfa ai loro uomini sul continente. Però grazie al lavoro della mia squadra li individuammo quasi subito, e a Napoli non rimasero a lungo; tornarono in Sicilia, ma coi piedi in avanti. Solo Buscetta si salvò, per un mezzo miracolo: piazzammo una bomba nella sua automobile, solo che però il nostro esperto di esplosivi in quel periodo non era disponibile perché stava scontando una condanna per il furto di un camion; così furono Pollio e Zito a piazzare l'autobomba, solo che essendo poco pratici sbagliarono a piazzarla e la misero sotto al sedile del passeggero anziché sotto a quello del guidatore, e peggio ancora sbagliarono a calcolare la quantità di esplosivo necessaria, e ne misero troppo poco. Così quando Buscetta salì in macchina e infilò la chiave, l'auto prese fuoco anziché esplodere, e Buscetta poté saltare fuori dall'abitacolo e salvarsi. Tuttavia raggiungemmo comunque lo scopo, perché Buscetta tornò subito in Sicilia e non mise mai più piede a Napoli.

Avevamo vinto, e per suggellare la nostra vittoria e il nostro dominio su Napoli io e Rosario pensammo di far eleggere Carmine sindaco della città. Non avevamo opposizione, persino Lauro, che era stato sindaco e muoveva parecchi voti con le sue clientele, era dei nostri e appoggiò la candidatura di Carmine Cirillo. Lauro! Io lo avevo rapito e veniva da noi a offrirci i voti per far eleggere sindaco il cugino del capo dell'uomo che lo aveva rapito! Ma a Napoli gli affari si fanno anche così, e Lauro aveva i suoi interessi da tutelare, che lo costringevano a dimenticare il passato e venire da noi.

E poi... Nel 1976 Carmine era appena stato eletto sindaco, la cerimonia d'inaugurazione si stava concludendo e dalla folla partirono tre colpi. Carmine fu colpito due volte alla testa e una al petto; sarebbe rimasto in coma per tre anni senza mai riprendere conoscenza prima di morire.

La guerra, che pensavamo finita, era appena ricominciata. Stavolta contro di noi non c'erano i siciliani, ma la Nuova Onorata Società di Gabriele Curto, che tutti chiamavano semplicemente O' Professore.

Curto aveva iniziato la sua carriera in carcere, dove era finito perché durante una rissa aveva ucciso un uomo che aveva fatto a sua sorella un complimento che non gli era piaciuto; in carcere aveva iniziato a farsi una reputazione, soprattutto dopo aver sfidato un boss alla molletta, e a costruirsi un seguito, e grazie ad alcuni amici che erano fuori riuscì, dal carcere, a creare fuori dal carcere la propria organizzazione criminale. Non è che sia molto difficile se si hanno i soldi: se le guardie sanno che sei danaroso, sono loro a venire in cella a chiederti se possono fare qualcosa per te.

Curto non era stupido: sapeva che noi lo avremmo strangolato nella culla se avessimo avuto sentore che una nuova organizzazione criminale stava nascendo. Così agì sotto traccia, alleandosi coi calabresi, dai quali fu anche affiliato, e reclutando nella propria organizzazione i negri della sabbia, gli arabi, oltre ai napoletani. Anche per questo noi non avevamo idea di cosa stesse facendo.

L'attacco a Carmine fu un fulmine a ciel sereno. Oltretutto l'attentatore era un arabo, un cazzo di algerino che io e Totò facemmo sparire subito, non un napoletano, e quindi non capimmo subito che dietro c'era Curto.

Ma avremmo dovuto capirlo, del resto gli indizi c'erano tutti. Pochi giorni dopo che Carmine fu sparato, Curto evase dal carcere; era riuscito a ottenere l'infermità mentale e ad essere trasferito in un ospedale psichiatrico, da dove non fu difficile scappare.

Poi nello stesso giorno io e Rosario fummo vittime di un attentato; io riuscii a salvarmi, ma mio fratello Ciro che era con me fu colpito a morte. Anche Rosario si salvò, ma era messo male. Per puro miracolo una pallottola gli trapassò il petto senza prendere né il cuore né i polmoni; si sarebbe ripreso, ma per un bel po' di tempo non fu in grado di dare ordini.
Così, mio malgrado, fui costretto ad assumere la reggenza della famiglia. Non ho mai voluto essere il numero uno, perché mi sono sempre trovato a mio agio ad essere il numero due; molta meno pressione, molti meno grattacapi, molta più libertà d'azione.

Non ero abituato ad essere boss, ad avere gli altri capi che venivano a chiedermi ordini, o che venivano da me a dirimere le loro dispute. Rosario queste cose le sapeva fare molto meglio di me, e non ho mai avuto problemi ad avere lui come mio superiore.

Lasciai a Pollio e Zito la gestione della mia squadra, per potermi dedicare appieno alla gestione della famiglia. E questo fu un errore, perché quando venne fuori che dietro gli attentati c'era Curto, Pollio e Zito iniziarono ad ordinare ritorsioni contro i suoi senza badare troppo a finezze tipo non fare morti innocenti. E senza venire prima a chiedere il mio consenso, perché entrambi avevano inteso che gli avevo dato carta bianca nella gestione della mia squadra.

Così cominciarono a cadere teste, sia nostre che nemiche. E la guerra divenne in poco tempo un bagno di sangue.

A rendere quella guerra più sanguinosa delle altre fu il fatto che era un tutti contro tutti: quando contro di noi c'erano i siciliani, le altre famiglie di Napoli ci sostenevano, o comunque non ci ostacolavano. Ora era tutti contro tutti, le vecchie alleanze erano saltate, e tutti intravedevano la possibilità di emergere alla guida della camorra napoletana.

Curto tentò di negoziare con me, e mi offrì la guida della famiglia di Rosario e il mantenimento del porto e di Chiaia se avessi accettato che lui era il capo dei capi delle famiglie di Napoli; rifiutai, anche perché essendo reggente per conto di Rosario non mi consideravo autorizzato ad accettare una simile proposta.

Ma comunque, quella guerra non sarebbe durata a lungo.

Nel 1978 l'Imperatore Paolo per ripristinare l'ordine mandò a Napoli un intera legione; a Napoli non c'erano mai stati tanti soldati tutti insieme. D'un tratto ci ritrovammo i carri armati nelle strade, i militari a controllare il porto e a ispezionare ogni singolo carico, i posti di blocco. Non si poteva più lavorare, non si poteva fare nulla.

Poi arrivarono le leggi speciali, e dopo di quelle iniziarono i processi.

Tutti finimmo sotto processo per qualcosa. E alcuni di noi per salvarsi pensarono a rompere il giuramento di omertà.

Franzese fu visto entrare in tribunale; non c'era nulla di sbagliato in questo, il problema però è che non aveva detto nulla. Nessuno sapeva che quel giorno sarebbe andato in tribunale, e questo fece sorgere più di un sospetto.

Ne parlai con Rosario, che era ancora in ospedale però si era già molto ripreso rispetto a subito dopo l'attentato:

"Totò è un bravo ragazzo, è uno dei nostri. Probabilmente si sarà dimenticato di dirci che era stato chiamato per essere interrogato."

"Io la penso come te, ma perché rischiare? Almeno, così è come la vedo io."

Quello stesso giorno io e Pollio andammo a prendere Totò Franzese sotto casa, e lo facemmo sparire.

Nella Nuova Onorata Società fu molto peggio, perché Curto iniziò a uccidere persone senza più distinguere tra traditori veri e traditori presunti. Tutti i giorni saltava fuori il cadavere di qualche affiliato curtiano, e alla fine la paranoia di Curto causò la fine della Nouva Onorata Società; anche i suoi fedelissimi andavano dai giudici a dire quello che sapevano, e in pochi mesi l'organizzazione fu smantellata. Curto venne trovato nel 1980, nascosto in un bunker a Ottaviano, e per espressa volontà dell'Imperatore fu sottoposto ad un regime carcerario speciale, che lo isolò completamente dal mondo esterno e dai pochi affiliati che ancora lo seguivano.

Io andai a processo per vari omicidi, rapimenti, corruzione, associazione a delinquere, appropriazione indebita, frode, frode ai danni dello stato, terrorismo, contrabbando, evasione fiscale e traffico di stupefacenti. Tuttavia riuscirono a incastrarmi solo per la mia auto; era una Mercedes-Benz W115 del 1975 che mi era stata regalata da un imprenditore a cui il sindacato prestava lavoratori. In cambio, come dirigente del sindacato, avevo chiuso un occhio sul fatto che pagava i suoi dipendenti meno del minimo salariale previsto dalla legge. Adoravo quella macchina, anche perché a Chiaia erano poche le persone ad avere un'automobile, però non valeva i nove anni di carcere che mi feci per averla presa.

Rosario uscì dall'ospedale nel '79, ma già un anno dopo era in carcere. Lo avevano incastrato perché aveva ordinato l'omicidio di un imprenditore a cui aveva prestato soldi a strozzo e che rifiutava di restituirli. Queste sono cose che non fai con Rosario Cirillo, se lui ti viene a chiedere di restituirgli dei soldi glieli ridai e basta, senza negoziare sugli interessi. Aveva ragione lui, però la persona a cui aveva ordinato di compiere l'omicidio lo aveva venduto ai giudici e stava indossando un microfono; lo condannarono all'ergastolo per associazione a delinquere finalizzata all'omicidio.

Pollio, che era presente a quella conversazione, fu condannato anche lui per la stessa ragione, mentre Zito venne condannato per una bisca clandestina che gestiva.

Tutti e quattro eravamo nello stesso carcere, a Pelagosa, nello stesso regime carcerario speciale nel quale era detenuto Curto.

Passavamo le giornate a giocare a bocce, e vedevamo i nostri corpi marcire lentamente. Pollio nel 1983 iniziò a tossire, e continuava a tossire senza fermarsi, finché ad un certo punto non iniziò a tossire sangue. Lo riportarono sul continente, e gli trovarono un tumore ai polmoni al quarto stadio; morì due mesi dopo, attaccato all'ossigeno.

Rosario non si riprese mai completamente dall'attentato del '76; gli tremavano le mani, faceva fatica a camminare e a parlare, e dal 1985 venne messo su una sedia a rotelle. Poche settimane dopo lo vidi che lo portavano in ospedale, e poi anche lui finì al cimitero.

A Zito nell'84 trovarono un tumore allo stomaco; fece un'operazione chirurgica e diversi cicli di chemioterapia senza risultati, e morì nel 1986. Negli ultimi mesi non riusciva più a controllare la vescica, e dovettero mettergli un catetere.

Io in carcere ho sviluppato il diabete; avrei avuto bisogno dei farmaci, ma l'amministrazione carceraria ha iniziato a passarmeli troppo tardi per tenere la malattia sotto controllo. Nel 1984 dovettero amputarmi un piede; avrei avuto bisogno delle stampelle per camminare, ma l'amministrazione carceraria non me le passava, perché secondo loro potevano essere usate come arma. Così anche io dovetti usare la sedia a rotelle.

In carcere, sempre per il diabete, ho iniziato a perdere la vista. Uscito dal carcere iniziai a usare le stampelle, e per un po' di tempo sono tornato a casa mia, dove c'era ancora mia moglie. Ma anche lei è morta di lì a pochi mesi per un infarto, e poco tempo dopo, rimasto solo in casa inciampai in un tappeto, e cadendo mi ruppi il femore.

Da allora vivo in una casa di riposo, fuori da Napoli, fuori dal mondo, fuori da tutto. La famiglia di Rosario non esiste più, il sindacato è stato sciolto, e io sono solo un anziano decrepito, un superstite di un'epoca morta e sepolta.

Dario Carcano

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L'Imperatore Medico

I

L’Imperatore Medico di Roma: Paolo VIII tra mito, guerra e ombre inquietanti (New York Times, 1985)
Un sovrano che riscrive la storia, combatte in Algeria e, secondo voci mai smentite, sperimenta sul corpo umano

Roma, agosto 1985 – A 76 anni, Sua Maestà Imperiale Paolo VIII Giraldini domina una nazione che non dovrebbe esistere: la Romania, l’Impero Romano d’Occidente. In un’Europa moderna di democrazie e stati-nazione, Roma resta una monarchia teocratica e militarizzata, guidata da un imperatore che si presenta come il custode di due millenni di continuità.
Il volto di Paolo VIII è onnipresente: nei cinegiornali, nei colossal patriottici che egli stesso, sotto pseudonimo, dirige, nelle trasmissioni televisive che celebrano la grandezza imperiale. “È un maestro della propaganda visiva,” spiega Michael Harriman, docente di storia contemporanea a Columbia. “Ha capito che nell’era della televisione le immagini contano più delle istituzioni. In questo, è più moderno di molti leader democratici.”
Dietro la facciata, però, si nasconde una biografia fatta di omissioni e contraddizioni.

Una giovinezza da riscrivere
Secondo la versione ufficiale, il giovane principe Paolo fu perseguitato dallo zio, l’imperatore Giovanni Battista Giraldini, e trascorse anni di prigionia. Ma archivi e testimonianze raccontano altro: il futuro sovrano partecipò attivamente al governo dello zio, prendendo parte a decisioni cruciali. Solo più tardi, una volta incoronato, cancellò accuratamente quel capitolo, costruendo per sé l’immagine di vittima e non di complice.

Il cesare negli Stati Uniti
Negli anni ’30, mentre il padre Marciano VI tornava al trono, l’erede imperiale visse per anni negli Stati Uniti, sotto falsa identità. Frequentò università prestigiose, studiando medicina e neurochirurgia. Roma afferma che si trattò di una scelta per offrirgli la migliore formazione possibile; ma molti osservatori leggono l’episodio come un esilio di fatto. “Il padre lo mandò via non per proteggerlo, ma per allontanarlo,” sostiene James Porter, ex diplomatico americano a Roma. “I loro rapporti erano deteriorati al punto da diventare politicamente pericolosi.”

La guerra senza fine in Algeria
Dal 1983, Paolo VIII ha ripreso con vigore la campagna di repressione in Algeria – che l’Impero insiste a chiamare Mauritania – tentando di cancellarne l’identità araba e islamica. Quella che avrebbe dovuto essere un’operazione rapida è diventata una guerra logorante. Nel 1985, i combattimenti continuano, con perdite costanti tra i legionari romani e un crescente isolamento diplomatico di Roma.
“Gli italiani del nord credono ancora all’idea imperiale, ma nelle province africane questo significa occupazione e violenza,” osserva Susan Klein, analista del Council on Foreign Relations.

I sospetti di esperimenti umani
Le accuse più oscure riguardano presunti esperimenti militari. Secondo rapporti diffusi da dissidenti, prigionieri algerini sarebbero sottoposti a interventi chirurgici crudeli, diretti in parte dall’imperatore stesso. Obiettivo: creare supersoldati in grado di resistere al freddo, alla fame e al dolore. Nessuna prova è stata finora confermata, e l’ONU non è mai riuscita a inviare ispettori nei laboratori militari romani.
“Non sappiamo dove finisce la leggenda e dove inizia la realtà,” ammette un funzionario occidentale a Bruxelles. “Ma il fatto che queste storie esistano e non vengano smentite è già un segnale preoccupante.”

Il regista del proprio mito
Nonostante tutto, Paolo VIII resta immensamente popolare a Roma. Nato nel 1909, sovrano dal 1956, ha trasformato il tricolore nero-rosso-nero con la Croce delle Sette Spade in un’icona quasi religiosa. La Commissione Speciale di Difesa (CoSDi), polizia politica e servizio segreto insieme, reprime ogni opposizione, ma la propaganda trasforma il sovrano in un padre rassicurante.
Paolo VIII ama discutere con gli ospiti di filosofia, di storia navale o di cinema americano, e lascia spesso l’impressione di un intellettuale rinascimentale. Ma dietro l’erudizione resta un imperatore moderno e inquietante: medico e dittatore, ingegnere dei corpi e regista delle masse.
“Paolo VIII vive di simboli,” conclude Harriman. “Il problema è che sotto quei simboli c’è un impero in guerra, e un uomo che sembra disposto a tutto pur di mantenerlo.”

Mappa dell'Impero nel 1985

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II

CENTRAL INTELLIGENCE AGENCY
Transcript Report – Source Audio
Cassette ID:
84-IT-092
Acquired from: [REDACTED]
Date: [REDACTED]
Location: presumed medical facility, Rome, ROM
Classification: TOP SECRET / EYES ONLY

[Inizio trascrizione – qualità audio: parziale, interferenze di fondo]
(rumore metallico di strumenti chirurgici posati su vassoio inox; bip regolare monitor ECG)

Anestesista: Saturazione stabile, 96%. Pressione arteriosa media 72.
Primario: Bene. Incisione parasagittale anteriore, due centimetri dalla linea mediana. Bisturi.

(suono netto di taglio, aspiratore in funzione)

Medico 1: Emostasi controllata. Aspiro.
Infermiere-Assistente: Cotone vaselinato pronto.
Medico 2: (a bassa voce) Sta aprendo veloce oggi...
Primario: Silenzio. Dissezione per strati, non per spettacolo. Retrattore.

(metallico di leve craniali, lieve cigolio)

Medico 1: L’osso è sottile, trapano a bassa velocità.

(rumore perforazione ossea, vibrazioni nel microfono)

Anestesista: Frequenza 88, stabile.
Primario: Bene. Placca frontale rimossa. Avanziamo. Callosotomia.
Medico 2: [inudibile]... sei millimetri oltre il fornice.
Primario: Troppo vicino! Mantieni la linea. Non stiamo giocando con un cadavere di laboratorio.

(clac! suono strumento gettato con forza sul tavolo)

Medico 1: Atrio ventricolare in vista. Ependima intatto.
Primario: Incidi.

(aspiratore, gorgoglio liquido cerebrospinale)

Anestesista: PIC in aumento, 28.
Primario: Spingi mannitolo. Svelto.
Medico 2: Ecco il VLPO. Visuale parziale.
Primario: Non mi serve “parziale”. Voglio accesso completo. Allarga!
Medico 1: Rischio di danneggiare il setto pellucido.
Primario: Fallo comunque. Abbiamo bisogno della finestra.

(rumore secco, retrattori regolati; tono del bip cardiaco accelera)

Anestesista: Tachicardia, 132.
Infermiere-Assistente: Pressione scesa a 58/40!
Medico 2: Malposizionamento dell’innesto, non si ancora al tessuto!
Primario: (urlando) IMPOSSIBILE! Ho dato coordinate precise! Correggi l’asse!
Medico 1: Tentativo di riposizionamento... [interferenza]... si lacera la parete ventricolare!

(allarme acustico del monitor; rumore concitato di ferri chirurgici spostati)

Anestesista: Saturazione in caduta libera! 62%!
Primario: MALEDIZIONE! Fermate l’emorragia. SUBITO!
Medico 2: Non risponde, non risponde!

(rumore caotico, più voci sovrapposte, incomprensibili; bip continuo di arresto cardiaco)

Anestesista: Arresto! Sto ventilando manualmente!
Primario: (voce rabbiosa) BASTARDI INCOMPETENTI! Tutto questo per niente... anni persi! Adesso dovremo ricominciare da zero. Questo fallimento ci costa mesi... mesi di ritardo sul [inaudibile].

(colpo violento su superficie metallica; suono oggetti rovesciati a terra)

Primario: Non tollererò un altro disastro del genere. Se volete restare in vita, imparate. Questo corpo è perduto. Avanti il prossimo.

[Fine trascrizione – 00:17:43]

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III

Roma 1985: l’Impero che non doveva esistere (Le Monde, 1985)
Reportage dalla Romania, un sistema sospeso tra paternalismo autoritario, petrolio africano e le prime crepe interne

Un sistema “fuori dal tempo” - Nel cuore dell’Europa, circondata da stati-nazione democratici, la Romania – come viene informalmente chiamato l’Impero Romano d’Occidente – continua a sopravvivere nel 1985 come se fosse rimasta immune dalle rivoluzioni politiche del XIX e del XX secolo.
Le istituzioni imperiali ruotano attorno a un sistema definito dagli storici francesi “neo-romano corporativo”. Leone IV Buonaparte, nel XIX secolo, gettò le basi di una monarchia militarizzata e centralizzata, che i successivi imperatori hanno modellato in un equilibrio instabile tra paternalismo autoritario, produttivismo industriale e socialismo nazionale.
Lo Stato imperiale promette a tutti i cittadini un livello minimo di benessere: pane, alloggio popolare, accesso alle cure mediche e all’istruzione primaria. Ma questa promessa è gerarchizzata. Chi ha servito nell’esercito gode di una priorità quasi sacrale. Veterani e vedove di guerra ottengono la precedenza nelle graduatorie per gli alloggi, licenze commerciali semplificate e accesso privilegiato ai prestiti statali.
“È la versione romana del welfare,” spiega l’economista Jean-Paul Béraud dell’ENS di Parigi. “Ma mentre in Francia la protezione sociale è un diritto universale, a Roma è una ricompensa per il servizio militare. È una società costruita sulla logica della legione, non della cittadinanza moderna.”
Il risultato è una popolazione disciplinata, abituata a vedere nella divisa non solo un dovere, ma un lasciapassare sociale. Gli economisti francesi parlano di un “corporativismo d’acciaio”: i sindacati, almeno quelli fedeli, partecipano a tavoli corporativi in cui discutono salari e condizioni di lavoro insieme a industriali e funzionari pubblici. Tuttavia, non rappresentano un contrappeso al potere imperiale, ma un suo ingranaggio.
“È una forma estrema di cogestione,” osserva Béraud. “Ma a differenza del modello renano, qui il conflitto sociale è sostituito dalla disciplina militare.”

Politica senza costituzione – Dal punto di vista politico, la Romania appare come un’eccezione. Non esiste una Costituzione moderna. Solo un insieme di “leggi costituzionali” stratificate, spesso incoerenti, che definiscono vagamente gli organi ausiliari dell’Imperatore. Ne risulta un sistema instabile, in cui conflitti di competenze sono risolti sempre da un unico arbitro: il sovrano.
Il Partito Social-Popolare dei Romani (PSPdR) è l’unica forza politica rilevante, e de facto il partito unico dell’Impero. Nato nel 1921 per difendere la monarchia contro la crescente influenza del comunismo, si è trasformato nel braccio organizzativo dell’Imperatore. Nel parlamento bicamerale – Congresso dei Rappresentanti e Senato Imperiale – i candidati PSPdR dominano costantemente. Formalmente eletto a suffragio universale ogni cinque anni, l’organo legislativo non ha reale potere.
“È un teatro repubblicano dentro un impero,” commenta Claire Vautrin, politologa alla Sorbona. “La partecipazione elettorale serve a mostrare consenso, non a determinare scelte politiche.”
La Commissione Speciale di Difesa (CoSDi), una sorta di fusione tra KGB e CIA, controlla la fedeltà della popolazione. Dissidenti e minoranze religiose vivono in condizioni difficili, anche se raramente vengono mostrati processi pubblici: più spesso la repressione avviene in silenzio.

L’astro nascente: Francesco Stefani – Il volto nuovo del regime è Francesco Saverio Salvio-Stefani, conosciuto come Francesco Stefani. Presidente del PSPdR e ministro della Sanità, è considerato da molti osservatori occidentali il “primo ministro de facto” dell’Impero, benché una tale carica non esista.
Figlio dell’ammiraglio Marco Antonio Salvio-Stefani, veterano della seconda guerra d’Algeria (1947-1967), Stefani si presenta come il tribuno delle classi popolari. I suoi comizi, affollati e coreografati, mescolano nazionalismo, retorica sociale e attacchi alla “finanza internazionale”.
A Verona, davanti a una folla di veterani e piccoli proprietari, ha scandito:

“Noi siamo per la proprietà privata,” esordisce Stefani, “ma non per la proprietà privata dei banchieri e della finanza internazionale, che si arricchiscono senza produrre valore. Noi siamo per la proprietà delle famiglie che hanno risparmiato, degli agricoltori che hanno strappato con le proprie mani la terra alle pietre, dei soldati che dopo aver servito la Patria hanno diritto a una casa e a un campo.” […] “Il marxismo ci dice che la storia è una lotta di classe. Noi diciamo: no! Non ci sono due Italie, due Afriche, due province divise tra oppressi e oppressori. C’è una sola comunità imperiale, indivisibile, in cui ognuno ha un posto e un compito. Non esiste il conflitto di classe, esiste il sacrificio comune. Chi ha vestito la divisa lo sa: in una legione non ci sono borghesi o proletari, ci sono soltanto romani che combattono fianco a fianco.
Così dev’essere la nostra economia: una legione del lavoro, dove ciascuno dà ciò che può e riceve ciò che serve.”

Il discorso ha suscitato ovazioni.
“Stefani è il più abile politico della nuova generazione,” osserva Marc Delmas, deputato socialista francese. “Concilia l’autoritarismo imperiale con un linguaggio quasi populista. Riesce a far sembrare il regime vicino al popolo, nonostante la sua natura profondamente militarista.”
Stefani guida una squadra di quarantenni – ex ufficiali, tecnocrati, dirigenti sindacali – che incarnano la “linea verde” del Sistema Imperiale. Il loro compito è mantenere il consenso tra i piccoli proprietari e i veterani, la base sociale del regime.

Le prime crepe – Nonostante la forza apparente, crepe profonde attraversano l’edificio imperiale.
Il Partito Comunista dei Romani (PCdR), mai messo al bando ma ormai marginale, denuncia da anni la dipendenza economica dal petrolio nordafricano. “Tutto il sistema si regge sugli introiti libici e tunisini,” dichiara un militante intervistato clandestinamente a Marsiglia. “Senza quel petrolio, non ci sarebbero case popolari né stipendi statali. È per questo che l’Algeria è cruciale: senza la Mauritania, Roma muore di fame.”
La terza guerra algerina, avviata nel 1983, si è già trasformata in un conflitto logorante. Ogni settimana, i giornali romani pubblicano necrologi di legionari caduti. L’opinione pubblica, tuttavia, resta patriottica.
Un viaggio nell’entroterra, nel Piceno, mostra le contraddizioni del sistema. Qui vivono i piccoli proprietari, veterani premiati con lotti di terra dopo anni di servizio. “Questa terra è il mio orgoglio,” dice Lorenzo, 63 anni, ex legionario. “Ma l’inflazione ci divora, e il grano statunitense entra nei mercati a prezzi che noi non possiamo competere.”
Molti giovani preferiscono emigrare a Roma o nelle colonie africane per cercare un impiego statale. I villaggi si spopolano, mentre la propaganda continua a mostrare la campagna come la “spina dorsale dell’Impero”.
“Se crolla la classe dei piccoli proprietari, crolla il mito imperiale,” avverte l’economista François Chevalier. “E oggi, tra inflazione e concorrenza estera, questo rischio è reale.”
“Roma vive ancora di mito,” conclude Claire Vautrin. “Ma i miti non pagano i debiti, e l’economia mondiale non aspetta. La vera domanda è: per quanto tempo ancora il sistema potrà sostenersi?”

Bandiera imperiale nel 1985

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IV

Commissione Speciale di Difesa (CoSDi)
Dipartimento Intercettazioni – Sezione Roma Nord
Codice fascicolo:
85-INT-442
Oggetto: Conversazione telefonica tra Soggetto “Aquila” (Paolo VIII) e Soggetto “Vittoria” (Francesco Saverio Salvio-Stefani)
Data: 14 ottobre 1985
Classificazione: SEGRETISSIMO – NON DIVULGARE

[Inizio trascrizione – ore 22:17]
(rumore linea telefonica, scatto della cornetta sollevata; sottofondo indistinto: passi e voce femminile in lontananza, presumibilmente residenza Stefani)

Vittoria: Pronto?

(pausa, fruscio statico)

Aquila: (voce bassa, rauca, irritata) Sei da solo?
Vittoria: Sì, Augusto, nessuno ascolta.
Aquila: (tono brusco) Nessuno ascolta? Sei sicuro? Qui tutti ascoltano. Persino le mura. Ma non importa. Ascolta bene tu: i medici che mi hai mandato in TITAN-51 sono degli incapaci. Degli imbecilli patentati!

(colpo secco, probabilmente pugno sul tavolo; fruscio linea)

Vittoria: Mi avevi chiesto i migliori, e io—
Aquila: Tu mi avevi garantito che erano i migliori del mondo! Del mondo! Ed ecco il risultato: esperimenti falliti, corpi persi, mesi bruciati! Ogni volta lo stesso: non seguono ordini, sbagliano parametri, confondono protocolli. Una legione di ciarlatani in camice bianco!
Vittoria: (voce più cauta) Augusto, io dissi che erano i migliori dell’Impero. Questo non significa del mondo. Sai bene che il mondo non ci offre i suoi specialisti.
Aquila: (ringhia) Allora dimmi, che cosa devo fare? Continuare a perdere tempo con incapaci che mi fanno sembrare un macellaio?
Vittoria: Non è semplice sostituirli. Lo sai meglio di me: trovare medici addestrati, fidati, pronti a… certe procedure, non è un compito facile.

(breve silenzio, rumore accendino – Stefani probabilmente accende una sigaretta)

Aquila: E tu, Francesco, sei qui per risolvere questi problemi, non per giustificarli.
Vittoria: (esita) Forse… c’è un nome. Un uomo. Ma non so se è ancora vivo.
Aquila: (tagliente) Chi?
Vittoria: Un neurologo. Geniale, dicono. Un talento che avrebbe fatto tremare le accademie. Ma l’ultima volta che ho sentito parlare di lui… era nelle mani del tuo stesso CoSDi.
Aquila: (sbuffo) Perché?
Vittoria: Gli trovarono in casa un volume… il Libretto Rosso di Mao.

(silenzio lungo; solo il crepitio della linea)

Aquila: (voce bassa, minacciosa) Un traditore.
Vittoria: O forse solo un uomo curioso, Augusto. Uno che legge troppo. Ma se è ancora vivo, potresti avere finalmente quello che cerchi.
Aquila: (sospira pesantemente) In TITAN-51 non c’è spazio per errori. Voglio risultati. Trovalo. E se respira ancora… portamelo.

(rumore netto di cornetta sbattuta giù, linea interrotta)
[Fine trascrizione – ore 22:31]

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V

Commissione Speciale di Difesa (CoSDi)
Dipartimento Intercettazioni – Sezione Roma Nord
Codice fascicolo:
85-INT-447
Oggetto: Conversazione telefonica tra Soggetto “Vittoria” (Francesco Saverio Salvio-Stefani) e Soggetto “Tridente” (Ammiraglio Pietro Paolo Messalla, Direttore generale CoSDi)
Data: 15 ottobre 1985
Classificazione: SEGRETISSIMO – NON DIVULGARE

[Inizio trascrizione – ore 09:12]
(scatto della cornetta sollevata; rumore di stoviglie e passi, probabilmente cucina di residenza Stefani. Linea che fischia leggermente prima dell’aggancio.)
Tridente: (voce calma, impostata) Pronto.
Vittoria: Ammiraglio, sono io.
Tridente: (pausa) Ministro. È piuttosto presto per una chiamata.
Vittoria: Non amo lasciare le questioni in sospeso.
Tridente: (neutro) Capisco. Di quale questione si tratta?
Vittoria: Voglio sapere di un uomo. Un medico. Si chiama Eugenio Rambaldi.

(silenzio di linea; rumore leggero di matita che batte, come se Messalla stesse prendendo appunti)

Tridente: Nome interessante. Posso chiederle perché questo interesse?
Vittoria: Non è affar suo.
Tridente: Tutto ciò che riguarda persone detenute dal CoSDi è affare mio, Ministro.
Vittoria: (tono secco) Le sto chiedendo solo se è vivo.
Tridente: (pausa prolungata) Non confermo né smentisco. I registri sono riservati. E poi, ministro, lei dirige la Sanità, non la Giustizia.
Vittoria: (sbuffo) Non giochiamo a carte coperte, Ammiraglio. È il vecchio che vuole Rambaldi.

(rumore improvviso di statico, come se il tono di voce di Vittoria avesse fatto vibrare la linea. Dopo una lunga pausa, Messalla riprende con voce meno glaciale.)

Tridente: Se è così, allora parliamo seriamente. Rambaldi è vivo.
Vittoria: In che condizioni?
Tridente: (breve tosse) Non perfette. Due anni in isolamento non giovano a nessuno. Ma la mente funziona, e le mani — che sono ciò che contano — ancora meglio di quanto si creda.
Vittoria: Quindi può lavorare.
Tridente: (secco) Può lavorare. A patto che non gli venga data troppa libertà.
Vittoria: Questo non sarà un problema. Il vecchio non ama le libertà.

(leggera risata trattenuta di Messalla, immediatamente soffocata)

Tridente: Bene. Allora si fa così: io autorizzo il trasferimento temporaneo sotto la sua custodia ministeriale. Rambaldi passa formalmente a lei. Ma restano due condizioni.
Vittoria: Sentiamo.
Tridente: Primo: lui non deve mai sapere che il CoSDi lo ha lasciato andare. Ufficialmente, è solo un cambio di regime detentivo. Secondo: riferirà a me, non solo al vecchio, di ogni suo progresso.
Vittoria: (tono freddo) Ammiraglio, non ha idea di che rischi stia correndo trattenendo questo nome.
Tridente: (con un mezzo sorriso nella voce) Oh, li ho ben chiari, Ministro. E proprio per questo voglio restare vicino al fuoco, non lontano.
Vittoria: D’accordo. Prepari i documenti. Lo prendo in consegna entro tre giorni.
Tridente: Tre giorni sono pochi.
Vittoria: L’Imperatore non aspetta.

(silenzio lungo, poi un sospiro pesante di Messalla)

Tridente: Va bene. Tre giorni. Ma allora, Ministro, saremo complici.
Vittoria: No, Ammiraglio. Saremo indispensabili.

(rumore secco: cornetta sbattuta giù da parte di Stefani. Linea interrotta.)

[Fine trascrizione – ore 09:28]

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VI

Commissione Speciale di Difesa (CoSDi)
Direzione Sicurezza Interna – Settore Operazioni Riservate
Codice fascicolo:
85-INT/RMB-01b
Oggetto: Resoconto incontro soggetto RAMBALDI, Eugenio con Ministro Francesco Saverio Salvio-Stefani
Classificazione: SEGRETISSIMO – NON DIVULGARE

1. Dati generali
    • Data: 19 ottobre 1985
    • Ora: 09:12 – 10:04
    • Luogo: Ministero della Sanità, palazzo distaccato Via dei Serpenti 41, Roma – Sala riunioni riservata (piano -1).
    • Presenti:
        > Francesco Saverio Salvio-Stefani (Ministro della Sanità, Presidente PSPdR)
        > Eugenio Vittorio Rambaldi (soggetto)
        > due agenti CoSDi (sorveglianza armata)
        > Agente [REDACTED] (autore del rapporto, in sala come tecnico).

2. Trascrizione dialogo (estratto principale)

Stefani: (tono calmo, controllato) “Dottor Rambaldi, immagino sappia quanto sia eccezionale la sua presenza qui. È stato voluto. Non da me soltanto.”
Rambaldi: (sogghigna, allungandosi sulla sedia) “Oh, il vecchio. Lo sento perfino da qui, il suo fiato dietro le mie spalle. Gli mancano i giocattoli, e manda il suo medico di famiglia a prenderli dal solaio.”

(si alza di scatto, sale sulla sedia, rimane in equilibrio instabile. Gli agenti muovono la mano verso la fondina. Stefani alza la mano, imponendo calma.)

Stefani: (freddo, ma con voce ferma) “Le conviene restare con i piedi a terra, dottore. Letteralmente.”
Rambaldi: (ride sommessamente, rimane in piedi) “A terra stanno i morti. Io sono vivo, Ministro. Vivo dopo due anni di buio e silenzio. Voi credete di potermi rinchiudere ancora? Questa stanza è una gabbia dorata, ma sempre gabbia resta.”

(si abbassa improvvisamente, si siede con le gambe incrociate sulla sedia come in posizione da meditazione, fissando Stefani negli occhi senza battere ciglio.)

Stefani: “Lei non è qui per discutere di gabbie. È qui per lavorare. Il resto non interessa a nessuno.”
Rambaldi: (tono mellifluo, quasi sussurrato) “Ah, sì… lavorare. Scavare nei cervelli come nei templi antichi. Aprire le ossa come porte segrete. Voi volete l’uomo nuovo, Ministro? Io posso darvelo. Ma attento: ciò che nasce dall’oscurità non sempre obbedisce.”

(si protende in avanti, poggia entrambe le mani sul tavolo, le dita magre che tremano leggermente, poi di colpo si lascia cadere all’indietro, ridendo sommessamente. I due agenti si irrigidiscono. Stefani resta immobile, lo osserva.)

Stefani: (tono basso, ma freddo) “Dottore, le sarà dato ciò che chiede: strumenti, sala operatoria, uomini. Ma una cosa deve essere chiara. Lei è qui perché io l’ho chiesto. Se sbaglia… io non potrò proteggerla.”
Rambaldi: (si raddrizza, improvvisamente serio) “Proteggermi? Oh no, Ministro. Io non voglio protezione. Io voglio vedere fino a che punto un uomo può spezzarsi e ricomporsi. Voi dite di servire Roma. Io servo solo la mia curiosità.”

(lungo silenzio; il soggetto lo mantiene fissandolo, occhi lucidi, sorriso accennato. Stefani si passa lentamente una mano sul volto, visibilmente a disagio, ma non lo interrompe.)

Rambaldi: (più piano, con tono grave) “E se pensate di controllarmi come si controlla un cane… vi sbagliate. Io non sono un cane. Sono la lama che vi tenete alla gola.”

(pausa. Stefani inspira profondamente, non replica. Appare, per la prima volta, realmente teso.)

3. Osservazioni dell’agente

    Comportamento soggetto: fortemente provocatorio, posture teatrali (in piedi sulla sedia, posizione yoga, sbalzi repentini).
    Impressione sul Ministro: visibilmente scosso, pur mantenendo calma formale. Ha evitato di alzare la voce, ma il suo linguaggio non verbale denotava tensione crescente.
    Valutazione generale: il soggetto sembra testare deliberatamente i limiti della sua nuova condizione, alternando atteggiamenti docili a sfide apertamente minacciose. Stefani appariva consapevole di trovarsi di fronte a un individuo che non può essere trattato come un semplice subordinato.

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VII

CENTRAL INTELLIGENCE AGENCY
Directorate of Operations
Intercettazione audio – fonte [REDACTED]
Data: 22 ottobre 1985
Luogo:
Roma, Basilica di Santa Maria in Cosmedin (navata laterale, altare della Vergine)
Classificazione: TOP SECRET / EYES ONLY

Trascrizione parziale – Codice nastro 85-RM/22-Σ
Oggetto: Trascrizione colloquio tra On. Francesco Saverio Stefani (Ministro della Sanità) e Longino Ramelli (Agente CoSDi)

[Rumori di fondo]: canto corale in latino (liturgia aquileiana), incenso, voci sommesse dei fedeli.
[Nota trascrittore]: I due soggetti parlano a bassa voce, inginocchiati davanti all’altare laterale.

STEFANI (sussurrato): Le cose al ministero… non ti nascondo che sono peggiori del previsto. I ragazzi… l’eroina li sta ammazzando più della guerra. E ora dagli Stati Uniti arriva questa nuova malattia… una peste senza nome. Dicono attacca soprattutto gli omosessuali e i tossicodipendenti. È come un’ombra che cresce.
RAMELLI: Ho sentito qualcosa… voci confuse. Ma tu sembri più agitato del solito, Francesco. Non è solo droga o malattia, vero?
STEFANI (pausa, rumore di tosse per coprire la voce): No. C’è anche… l’altro progetto. Sai quale. E poi c’è quell’uomo… il medico. (sospira) Non sono tranquillo.
RAMELLI (più vicino, quasi un mormorio): Non sei mai stato uno che si lascia spaventare da un uomo solo. Allora dimmi la verità: perché mi hai chiesto di vederti qui, in ginocchio davanti alla Vergine, in mezzo a decine di fedeli?

(pausa – si sente il coro salmodiare, campanello dell’incensiere)

STEFANI:
Perché ieri ho trovato… una cimice. Dentro la cornetta del telefono di casa.
RAMELLI (a bassa voce, ma con tono duro): Ne sei sicuro?
STEFANI: L’ho smontata io stesso. Era lì. Una microfonatura professionale, non roba da dilettanti.
RAMELLI: Chi può essere stato?
STEFANI (tono teso): È questo che voglio tu scopra. Se è stato il vecchio… o Messalla… o qualcun altro che gioca contro di me. Io non posso muovermi senza sapere di chi fidarmi.
RAMELLI: Francesco… capisci bene in che terreno stai entrando. Io indago, ma se davvero è partito dall’alto…
STEFANI (interrompendolo, con forza trattenuta): Appunto perché è rischioso mi serve un uomo come te. Noi abbiamo condiviso il cielo d’Algeria, fianco a fianco. Io non chiedo di proteggermi… chiedo solo la verità.

(pausa lunga – si ode il sacerdote cantare il Prefazio. I due rimangono in silenzio.)

RAMELLI (sussurrato, quasi impercettibile): Va bene. Controllerò. Ma se scopro che viene da lui… non sarai tu a rischiare soltanto.
STEFANI (più basso, quasi un sospiro): Lo so, Longino. Ma senza sapere chi mi ascolta… sono già morto.

[Rumori di fondo]: Coro “Sanctus, Sanctus, Sanctus”, campane lontane. Fine conversazione.

FINE TRASCRIZIONE
Analisi preliminare: la conferma del ritrovamento di una microfonatura nel telefono di residenza privata del Ministro della Sanità indica una possibile frattura interna tra lui e i vertici imperiali. Probabile conflitto di potere legato al “progetto” in corso e alla figura di “un medico” recentemente rilasciato.

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VIII

COMMISSIONE SPECIALE DI DIFESA (CoSDi)
Direzione Generale – Sicurezza Interna
Classificazione: SEGRETISSIMO – MASSIMA URGENZA
Protocollo:
85/Σ-URG/117
Data: 24 ottobre 1985
Destinatario: Ammiraglio Pietro Paolo Messalla – Direttore Generale CoSDi
Mittente: Ufficio Controspionaggio, Settore Roma

Oggetto: Presenza in Roma di individuo operante sotto falsa identità di agente CoSDi – trasmissione informazioni a potenze straniere (CIA)

1. Sintesi
Con la presente si segnala, con carattere di massima urgenza, la presenza accertata in area urbana di Roma di un soggetto attualmente non identificato che opera spacciandosi per funzionario operativo del CoSDi. Il soggetto risulta aver stabilito canali di contatto con personale civile e militare, dai quali ha estratto informazioni classificate e semi-classificate. Le evidenze raccolte indicano che tali informazioni sono state trasmesse a canali riconducibili alla Central Intelligence Agency (CIA).

2. Profilo provvisorio del soggetto
    • Probabile background: ex militare (grado non identificato, verosimilmente sottufficiale).
    • Competenze: dimostrata conoscenza di lessico, procedure e comportamenti tipici di agenti CoSDi; tale competenza è ritenuta frutto dell’esperienza militare pregressa.
    • Modus operandi: il soggetto non dichiara mai esplicitamente di appartenere al CoSDi, ma adotta posture, linguaggio e atteggiamenti tali da indurre gli interlocutori a crederlo agente in servizio. L’equivoco è sistematicamente lasciato nascere dal contesto.
    • Obiettivo: infiltrarsi in ambienti civili e militari di basso-medio livello per raccogliere notizie logistiche, movimenti di personale, disposizioni operative non strategiche ma utili per finalità di intelligence straniera.

3. Stato delle indagini
    Fonti riservate hanno confermato che almeno tre ufficiali subalterni dell’Esercito hanno scambiato il soggetto per un agente CoSDi e gli hanno riferito informazioni non autorizzate.
    Contatti di HUMINT indicano che rapporti raccolti dal soggetto sono stati veicolati a terze persone legate a strutture diplomatiche occidentali.
    Alto rischio che il materiale raccolto sia già giunto a Washington.

4. Valutazione
La capacità del soggetto di impersonare un agente CoSDi senza mai dichiararlo apertamente rappresenta una minaccia concreta alla sicurezza interna. L’uso di conoscenze militari pregresse e di un comportamento perfettamente calibrato rende difficile l’individuazione immediata da parte del personale meno esperto.
Rischio prioritario: compromissione di operazioni riservate in area romana e smascheramento di personale reale CoSDi attraverso false associazioni.

5. Raccomandazioni operative
1. Attivazione immediata di caccia riservata al soggetto in collaborazione con la Polizia Militare.
2. Diffusione di circolare interna riservata al personale in servizio, avvisando circa la presenza di un imitatore e precisando la necessità di verificare sempre l’identità di chi si dichiara o appare come agente CoSDi.
3. Incarico diretto al settore SIGINT per monitorare eventuali trasmissioni anomale verso canali statunitensi.
4. Una volta individuato, il soggetto dovrà essere neutralizzato con urgenza, previo interrogatorio approfondito per determinare l’estensione del danno informativo.

Per disposizione del Direttore Generale
[Firma autografa illeggibile]
Capo Ufficio Controspionaggio – Settore Roma

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IX

THE WHITE HOUSE
Washington D.C.
Classificazione: TOP SECRET – EYES ONLY
Data:
29 ottobre 1985
Oggetto: Verbale riunione Studio Ovale – situazione Impero Romano d’Occidente (“Romania”) / Progetto TITAN-51

Partecipanti
    Ronald Reagan, Presidente degli Stati Uniti
    George H. W. Bush, Vicepresidente
    George Shultz, Segretario di Stato
    Caspar Weinberger, Segretario alla Difesa
    William J. Casey, Director of Central Intelligence (DCI)
    Robert McFarlane, Consigliere per la Sicurezza Nazionale
    James Baker, Capo di Gabinetto
    Jeane Kirkpatrick, Ambasciatrice USA presso l’ONU

Sintesi dei lavori
Ore 09:02 – Apertura riunione da parte del Presidente Reagan.
Il DCI Casey introduce il materiale audio ricevuto dalla CIA tramite fonte [REDACTED]. Si tratta di una registrazione clandestina effettuata durante un’operazione neurochirurgica condotta personalmente dall’Imperatore Paolo VIII all’interno del programma noto come TITAN-51.

Ore 09:07 – 09:28 – Ascolto del nastro.
L’audio (trascrizione parziale allegata al fascicolo CIA 85-TITAN/Σ) mostra chiaramente:
    procedure chirurgiche non autorizzate su prigioniero presumibilmente algerino;
    tentativo di impianto cerebrale fallito, con danni irreversibili al soggetto;
    tono aggressivo del “Primario” che accusa l’équipe medica di incompetenza e allude a un “progetto ritardato”.

Durante l’ascolto, i presenti sono visibilmente a disagio.
Il Presidente Reagan scuote ripetutamente la testa, a un certo punto alza la mano interrompendo la riproduzione: “That’s enough. I don’t need to hear more of this.”

Discussione
Casey (DCI): “Abbiamo conferma di ciò che sospettavamo: esperimenti medici condotti con finalità militari su prigionieri. L’Impero non è solo una dittatura nazionalista, sta giocando con la biologia umana.”
Weinberger (Difesa): “Se avessero successo, potrebbero creare truppe modificate. Non parliamo di fantascienza, signor Presidente, parliamo di un rischio concreto per la NATO.”
Kirkpatrick (ONU): “Non possiamo reagire in modo impulsivo. Roma rimane un contrappeso fondamentale ai sovietici nel Mediterraneo. Paolo VIII è brutale, ma un brutale anticomunista. Il nostro compito è recuperarlo, non spingerlo nelle braccia di Mosca.”
Bush (Vicepresidente): “Jeane, con tutto il rispetto, questo non è un normale caso di diritti umani violati. Qui parliamo di uomini aperti vivi su tavoli operatori. C’è una linea che non possiamo permettere venga oltrepassata senza conseguenze.”
Shultz (Stato): “Dobbiamo considerare le opzioni diplomatiche. Esporre la questione in sede ONU, proporre ispezioni, spingere l’Impero a collaborare. Ma sappiamo che non accetteranno facilmente.”
Baker (Capo Staff): “Qualsiasi azione, diplomatica o militare, rischia di far crollare rapporti costruiti in quarant’anni. Ma il silenzio ci renderebbe complici.”
McFarlane (Sicurezza Nazionale): “Signor Presidente, dobbiamo definire una ‘red line’. Se accettiamo che Roma possa torturare prigionieri per crearne supersoldati, stiamo dicendo al mondo libero che tutto è permesso. Non possiamo permetterlo.”

Reazione del Presidente
Il Presidente Reagan appare profondamente scosso. Tiene per diversi secondi il volto tra le mani, quindi interviene con tono grave:
“I grew up with stories of barbarism in the Old World. I never imagined we’d be sitting here in 1985 listening to something even darker. This isn’t just wrong. It’s evil.”
“What I heard on that tape… it’s not just a crime against those poor men, it’s a crime against humanity itself.”

Reagan sottolinea che il problema non può essere ridotto a un semplice calcolo geopolitico:
“If we pretend this didn’t happen, we sell our soul for short-term strategy. And I won’t do that.”

Decisione Presidenziale
Reagan (conclusione, ore 10:02):
“Roma ha varcato una linea rossa che non doveva essere superata. Non possiamo ignorarlo, non possiamo insabbiarlo.
Daremo istruzioni per preparare un pacchetto di opzioni: diplomatiche, economiche, e, se necessario, anche militari.
Il mondo libero deve sapere che ci sono limiti che non si oltrepassano. Non sotto la mia presidenza.”

Esito
1. DCI incaricato di fornire entro 48 ore ulteriori analisi su TITAN-51 e valutazione delle capacità reali del programma.
2. Dipartimento di Stato incaricato di preparare schema di azione diplomatica multilaterale (ONU, NATO).
3. Dipartimento della Difesa incaricato di predisporre scenari di risposta militare “in extremis”.

Verbale redatto da: [REDACTED]
Classificazione: TOP SECRET – EYES ONLY

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X

COMMISSIONE SPECIALE DI DIFESA (CoSDi)
DIREZIONE MONITORAGGIO COMUNICAZIONI
Classificazione: SEGRETISSIMO
Protocollo:
SIGINT/85-Σ-442
Data: 2 novembre 1985
Oggetto: Trascrizione di comunicato radiofonico ostile – emittente clandestina algerina

[Inizio trascrizione]
(segnale disturbato, voce maschile forte e scandita, con inflessione maghrebina; rumore di sottofondo, probabile registratore a nastro)

“Lode ad Allāh, Signore dei mondi, Colui che ha promesso vittoria ai credenti sinceri e umiliazione ai tiranni. Benedizione e pace sul nostro Profeta Muḥammad, sulla sua famiglia e sui suoi compagni, lampade della guida.”

“O musulmani dell’Algeria e dell’intero Maghreb! Ascoltate la parola della verità. Il falso imperatore di Roma non è che un servo di Iblīs. Si veste d’oro, ma il suo cuore è fatto di tenebra. Egli pretende di essere padre del suo popolo, ma è padre solo delle menzogne e dei torturatori.”

“I suoi soldati, che profanano la terra dell’Islam e si credono eredi di Cesare, non sono che cani al guinzaglio del Maledetto. Essi scaveranno da soli la loro fossa, e il fuoco della Geenna li attende. E colui che oggi porta la corona di Roma sarà ricacciato tra i servi di Satana, incatenato per l’eternità.”

“Noi giuriamo davanti ad Allāh che Cartagine, che essi hanno osato chiamare colonia, sarà liberata. Cartagine diventerà cittadella dell’Islam, trampolino di lancio per la grande invasione che spezzerà le mura di Roma. Così come Annibale marciò un tempo sulle Alpi, così i figli del Profeta marceranno attraverso il mare per abbattere l’idolo imperiale.”

“O voi giovani musulmani, non temete la morte, ché la morte sulla via di Allāh è vita eterna! Unitevi alla resistenza, portate il ferro e il fuoco contro l’usurpatore. I vostri fratelli già combattono e cadono, e ogni goccia del loro sangue è luce che ci indica la vittoria.”

“Allāhu akbar! Allāhu akbar! Allāhu akbar!”

*(trasmissione interrotta, segnale sfumato)
[Fine trascrizione]


Analisi preliminare:
    • Voce: attribuita a Sayyid Muḥammad Mujāhid al-Barqī, leader della resistenza islamica in Mauritania.
    • Contenuti: attacco diretto all’Imperatore e all’esercito, con toni religiosi-apocalittici; dichiarazione d’intenti su Cartagine come obiettivo militare-strategico.
    • Funzione: propaganda e reclutamento.

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XI

CoSDi – Ufficio Stenografico Riservato
Classificazione: SEGRETISSIMO
Protocollo:
TRS-51/INT-PR-1
Luogo: Palazzo Imperiale, Roma – Sala Consiliare Annessa al Gabinetto di Guerra
Data: 29 ottobre 1985
Oggetto: Resoconto incontro tra S.M. l’Imperatore e il dott. Eugenio Rambaldi (scarcerato)

[Inizio trascrizione]
(rumore di sedie; brusio soffocato. Porta che si chiude con colpo secco. Silenzio prolungato.)

Imperatore: (tono freddo) “Dottor Rambaldi. Le è stato concesso l’onore di trovarsi davanti a me. Non sprechi questa occasione.”
Rambaldi: (voce roca, ironica) “Onore? Oh, maestà, dopo due anni in una cella di isolamento, l’onore è già quello di rivedere un volto umano. Anche se… non proprio il volto che speravo.”

(si ode un lieve colpo di tosse di Stefani; Messalla resta impassibile.)

Imperatore: (stringendo le labbra) “Le parlerò chiaro. Abbiamo avviato un programma d’avanguardia. Chirurgia neuro-cerebrale applicata a soggetti selezionati. Procedure precise, calcolate. Lei dovrà attenersi ai protocolli che le verranno forniti.”
Rambaldi: (sorride, tono mellifluo) “Protocolli… sì, ho sentito parlare delle vostre ‘procedure’. A giudicare dai risultati… cadaveri mutilati e fallimenti su fallimenti. Complimenti, maestà. Degni di un manuale da dilettanti.”

(silenzio improvviso. Stefani abbassa lo sguardo, visibilmente teso. Messalla rimane immobile, ma con un lampo ironico negli occhi.)

Imperatore: (tono contenuto, glaciale) “Lei osa…? Ricordi bene a chi sta parlando. Non mi interessa la sua arroganza. Qui non siamo a un simposio di Harvard, ma nell’Impero Romano. Qui le sue teorie devono produrre risultati. E subito.”
Rambaldi: (si alza di scatto, posa le mani sul tavolo, inclinato in avanti) “Oh, ma io non discuto i suoi risultati, maestà. Li derido. Perché sono patetici.”

(colpo secco sul tavolo. La voce dell’Imperatore sale di tono.)

Imperatore: “BASTA! NON TOLLERERÒ ULTERIORI INSOLENZE! Lei non ha idea della portata di ciò che stiamo costruendo. NON UNA SOLA IDEA! Crede di potermi trattare come un allievo in difficoltà? Io sono l’Imperatore di Roma!”

(pausa lunga; rumore di sedia spinta bruscamente indietro. Passi rapidi verso la porta. Stefani si irrigidisce, sussurra a bassa voce un “Dio mio…”)

Rambaldi: (voce melliflua, quasi calma) “Ed è proprio perché lei è l’Imperatore che non può più permettersi di sbagliare. Vuole sapere perché i suoi innesti hanno fallito? Glielo dico io.”

(l’Imperatore si ferma, mano sulla maniglia; silenzio teso.)

Rambaldi: “Voi avete sbagliato l’accesso. Parasagittale, certo… ma l’approccio transcalloso che avete usato? Troppo traumatico. Il VLPO non tollera quel tipo di aggressione. Bisogna ridurre l’edema iniziale, isolare i fasci nervosi circostanti, e soprattutto—” (fa un gesto con la mano, indicando una mappa cerebrale su un fascicolo) “—non impiantare a crudo. Serve una micro-coltura di cellule gliali, pre-condizionate, altrimenti l’innesto viene rigettato in ore.”
Imperatore: (voce bassa, cupa) “…e perché dovrei crederle?”
Rambaldi: (sorriso sottile) “Perché io sono l’unico qui dentro che sa come farcela. Lei ha bisogno di me, maestà. E io… non vedo l’ora di mettere le mani sui suoi giocattoli.”

(silenzio prolungato. L’Imperatore resta immobile, schiena rigida. Stefani trattiene il respiro; Messalla abbassa lo sguardo, ma dietro la sua maschera di pietra traspare un lampo divertito.)

Imperatore: (secco) “Benissimo. Allora da oggi lei è parte di TITAN-51. Non mi deluda, dottor Rambaldi. Non mi deluda mai.”

(porta che si richiude con colpo deciso. Fine colloquio.)
[Fine trascrizione]

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XII

Central Intelligence Agency – Directorate of Operations
SIGINT / HUMINT Joint Report
Data intercettazione:
3 novembre 1985
Luogo: Roma, orinatoio pubblico in Via Flaminia
Fonte tecnica: [REDACTED]
Oggetto: Trascrizione colloquio tra On. Francesco Saverio Stefani (Ministro della Sanità) e Longino Ramelli (Agente CoSDi)

[Inizio trascrizione]
(rumore di passi; porta che cigola; eco di ambiente angusto. Acqua che scorre in un vecchio tubo. I due uomini parlano a bassa voce, fingendo di urinare.)

Ramelli: (tono basso) “Francesco… prima di tutto, una cosa che ti farà sorridere. Pare ci sia in giro un tizio che si spaccia per uno di noi. Non lo dice mai apertamente, ma si comporta, parla, si muove come un agente del CoSDi. E la gente ci casca.”
Stefani: (ironico, ma nervoso) “Un impostore… ecco cosa ci mancava. Ma dimmi la verità, Longino, non è per questo che hai chiesto di vedermi qui, come due ragazzini a fumare di nascosto.”

(pausa, solo gocciolii e lo scorrere dell’acqua nei tubi.)

Ramelli: (sospira) “Hai ragione. Sono andato avanti con l’indagine sulla cimice nel tuo telefono. E il nome che viene fuori… è quello che temevamo: ordine diretto di Messalla. Vuole sapere tutto quello che dici, a chi, quando.”
Stefani: (sussurra, con rabbia contenuta) “…quel cane. Sempre lui. Ma ero certo che non fosse iniziativa del Vecchio. Lui non spreca così i suoi strumenti.”
Ramelli: (ironico) “Ah, ecco… ed è qui che viene la parte interessante. Pare che il Vecchio… non si fidi di nessuno. Nemmeno di Messalla.”
Stefani: (interdetto) “…che vuoi dire?”
Ramelli: “Che da anni si è costruito un servizio segreto personale. Roba sua. Nessun legame formale col CoSDi. Tutta gente presa dai nostri scarti: ex agenti, ex militari. Li paga come se fossero idraulici, giardinieri, tecnici di palazzo. Ma in realtà fanno da occhi e orecchie solo per lui. E controllano tutti.”
Stefani: (quasi incredulo) “…tutti?”
Ramelli: “Tutti. Messalla, te, gli altri ministri, i capi di stato maggiore. Lo so da due fonti, entrambe attendibili.”

(silenzio pesante. Si sente solo un colpo d’acqua nello scarico. La voce di Stefani arriva strozzata, più che sussurrata.)

Stefani: “…E tu mi stai dicendo che questo va avanti da…?”
Ramelli: “Da diversi anni, Francesco. Non è nato ieri. È lì, silenzioso, sotto le nostre narici. E funziona. Funziona meglio di noi, a quanto pare.”

(pausa lunga. Stefani prende fiato, tono cupo, quasi un rantolo.)

Stefani: “Dio mio… e se allora… se questo fosse solo il preludio? Se il Vecchio stesse preparando… una purga? Una purga totale?”
Ramelli: (silenzio, poi un sussurro glaciale) “Io temo che tu abbia appena detto l’unica verità che conta.”

(lunga pausa. Rumore di zip chiuse. Passi che si allontanano sul cemento. Porta che cigola. Silenzio.)
[Fine trascrizione]

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XIII

Commissione Speciale di Difesa (CoSDi)
Sezione Intercettazioni Riservate – Ufficio Operazioni Interne
Classificazione: SEGRETISSIMO – AD USO ESCLUSIVO DEL DIRETTORE GENERALE
Data:
9 novembre 1985
Luogo: Ministero della Sanità, Roma
Oggetto: Trascrizione incontro tra On. Francesco Saverio Stefani (Ministro della Sanità) e Amm. Pietro Paolo Messalla (Direttore Generale CoSDi)

[Inizio trascrizione]
(rumore di porta che si chiude; passi su pavimento in marmo; sedie che strisciano. Silenzio breve, poi voci maschili.)

Stefani: (tono cordiale, ma impostato) “Ammiraglio, grazie per essere venuto. Volevo aggiornarla sul… nostro uomo. Rambaldi.”
Messalla: (voce grave, controllata) “Parli pure.”
Stefani: “È stato operativo solo pochi giorni dentro il programma, ma… i progressi sono stati tangibili. Il lavoro di mesi, forse anni, si è sbloccato in una manciata d’ore. È una mente disturbata, certo, ma con un talento fuori dal comune.”
Messalla: “Disturbata… non è un termine da poco per uno che lavora in un’area così delicata. E tuttavia… mi pare che lei sia soddisfatto.”
Stefani: (accenna un sorriso) “Soddisfatto, sì. Prudente, anche. Vede, Ammiraglio… in certi casi il genio è un coltello a doppio taglio. E un coltello, se lo tieni male, prima o poi ti recide la mano.”

(breve silenzio. Fruscio di carte che vengono sistemate sulla scrivania.)

Messalla: “Venga al punto, Ministro. Perché mi sembra che ci sia qualcos’altro che desidera dirmi.”
Stefani: (voce bassa, lenta) “Un capo dei servizi segreti che non sa di essere spiato… probabilmente non fa troppo bene il proprio lavoro.”

(silenzio improvviso; rumore distante di orologio da parete. La voce di Messalla resta ferma, ma più tagliente.)

Messalla: “Attento a come parla, Ministro.”
Stefani: (serio, senza cambiare tono) “Non ho fatto nomi. Ma, se io fossi lei, mi chiederei: chi ha interesse a sapere ogni mia mossa, ogni mio respiro? E, soprattutto… chi avrebbe i mezzi per farlo senza che io lo scopra?”

(breve pausa. Rumore di penna che cade sul tavolo. Voce di Messalla più dura, ma incrinata.)

Messalla: “…Capisco. Dunque, lei suggerisce che non è il mio apparato… ma il suo.”
Stefani: (calmo) “Non suggerisco nulla, Ammiraglio. Dico solo che ci sono reti che vanno oltre il CoSDi. Reti molto vicine al palazzo. E che, a quanto pare, funzionano da anni senza che nessuno se ne accorgesse.”

(pausa lunga. Si percepisce un respiro profondo di Messalla. La voce successiva ha perso per un istante la sua solita freddezza.)

Messalla: “…Notevole. Devo ammettere che non me l’aspettavo.”

(silenzio pesante. Poi Messalla si ricompone: tono glaciale, controllato, ma più basso e confidenziale.)

Messalla: “Allora ascolti, Ministro. Le nostre divergenze sono note, ma una cosa è certa: se ciò che lei lascia intendere è vero… ci sarà tempesta. E quando arriverà, non basterà fare finta di nulla. Meglio affrontarla… insieme. Lei ed io.”

(fruscio di sedie spinte all’indietro; passi che si allontanano. Porta che si apre e si richiude. Fine conversazione.)
[Fine trascrizione]

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XIV

[TRASCRIZIONE AUDIO – CLASSIFICATO “TITAN-51” – A USO ESCLUSIVO DI SUA MAESTÀ IMPERIALE]
Data:
12 novembre 1985 – ore 09:17 – Centro Chirurgico Riservato
Luogo: [REDACTED] – Area di Ricerca Neurochirurgica
Partecipanti in sala operatoria:
    Primario: Dott. Eugenio Rambaldi
    Medico 1
    Medico 2
    Anestesista
    Infermiere Assistente

Nota preliminare: Sua Maestà Imperiale Paolo VIII segue l’operazione da stanza adiacente, tramite circuito audio-video diretto.

[09:17 – Rumore metallico, strumenti chirurgici disposti sul tavolo. Il nastro inizia con la voce del Primario.]

Rambaldi (Primario): Incisione parasagittale anteriore completata. Falce cerebrale esposta. Preparate l’aspiratore, campo asciutto. Bene… bene. Ora procediamo.
Medico 1: Emostasi in corso. Parametri vitali stabili: pressione 120/80, frequenza cardiaca 72.
Rambaldi: Buono. Non facciamo sciocchezze, oggi non deve esserci sangue perso inutilmente. Bisturi bipolare. [pausa – rumore di cauterizzazione] Ottimo.
Medico 2: Accesso transcalloso pronto, Primario.
Rambaldi: Entriamo nel ventricolo laterale… delicatamente… [mormora] vedi? Non è difficile, basta non avere mani da macellaio. Siamo dentro. Identifico il fornice… eccolo.
Medico 1: Saturazione 98%, nessuna variazione significativa.
Anestesista: Paziente stabile, Primario.
Rambaldi: Bene. Ci siamo. Adesso la parte delicata: raggiungere il nucleo preottico ventrolaterale. [pausa lunga, solo rumori di aspirazione] Eccolo… eccolo… sì. È lì.
Medico 2: Campo operatorio chiaro.
Rambaldi: Prendete l’innesto. Con calma. [rumore metallico – strumenti passati] Ora vedete, colleghi… [tono quasi ironico] questo è il punto in cui i vostri “migliori del mondo” hanno sempre fallito. Ma non oggi.

[Silenzio concentrato, solo il suono degli strumenti. Si percepisce la tensione.]

Rambaldi: Innesto introdotto. Posizionato… perfettamente in sede. [pausa] Lo fissiamo. Non si muove. È stabile.
Medico 1 (con emozione): Parametri ancora invariati. Non ci sono segni di rigetto immediato.
Medico 2: Connessioni bioelettriche regolari. Stimolazione risponde.
Rambaldi (quasi trionfante): Funziona. Finalmente funziona. Segnate l’orario: ore 09:46, primo impianto stabile completato con successo.
Anestesista: Paziente stabile, pressione 118/79. Non c’è crisi.
Rambaldi: [ride sommessamente] Avete visto? Non era impossibile. Solo incompetenza e paura vi fermavano.

[09:50 – voci confuse, brusio tra i medici.]

Rambaldi: Sua Maestà avrà ciò che voleva. Oggi abbiamo aperto la porta. Da qui in avanti, non si torna indietro.
Medico 1: Intervento concluso. Suturiamo.

[Rumori metallici, strumenti riposti. Voce di Rambaldi, più bassa, come parlasse a sé stesso:]
Questo è solo l’inizio. Oggi nasce il primo dei nuovi uomini.

[TRASCRIZIONE TERMINATA – NASTRO CLASSIFICATO]
Nota finale:
Nessuna complicazione intraoperatoria. L’innesto appare stabile. Si raccomanda monitoraggio continuativo nelle prossime 72 ore.

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XV

[Canale 1 – Telegiornale della Sera, 20:00 – Roma, 12 novembre 1985]
(Sigla d’apertura, musica marziale. Lo studio è illuminato, il conduttore siede con espressione grave, sfoglia i fogli sul tavolo e si rivolge alla telecamera.)

Conduttore:
“Buonasera, cittadini dell’Impero. Apriamo questa edizione straordinaria con notizie appena giunte dalla Mauritania.
Secondo rapporti frammentari, le forze islamiste hanno lanciato una vasta offensiva contro le nostre guarnigioni. Non si tratta di scaramucce isolate: da quanto emerge, l’intera regione è sotto attacco, inclusa la città di Algeri.
Le sensazioni che trapelano dallo Stato Maggiore non sono buone: la pressione nemica è forte e i nostri reparti stanno opponendo resistenza, ma la situazione appare critica. Non abbiamo ancora un quadro chiaro delle perdite né delle posizioni in mano ai ribelli, ma possiamo affermare che—”

(Improvvisamente un boato fortissimo scuote lo studio. La telecamera vibra, alcuni fogli volano dal banco. Silenzio di gelo, il conduttore resta immobile per qualche secondo, poi si guarda attorno. Si ode un brusio fuori campo.)

Conduttore:
“(confuso) …Un’esplosione… un’esplosione qui a Roma. Avete sentito chiaramente… (porta la mano all’auricolare) …Sì, dalla regia mi confermano: si tratta di una bomba. Si vede fumo in direzione del Gianicolo…”

(Momenti di esitazione, il conduttore cerca nuovi fogli appena consegnati. La tensione è palpabile.)

Conduttore:
“Attenzione, signore e signori, è appena arrivato un primo dispaccio dalle agenzie. Non si tratta di un solo ordigno: due bombe sono esplose nella capitale.
La più potente ha devastato la caserma di Castro Pretorio. Una seconda, di minore intensità, è esplosa presso l’ossario del Gianicolo. Le prime stime parlano già di tredici morti accertati, tutti militari, ma le fonti avvertono che il numero delle vittime è destinato a salire nelle prossime ore.
Ripetiamo: due esplosioni, una alla caserma Castro Pretorio, una al Gianicolo. Roma è stata colpita.”

(Silenzio pesante. Il conduttore abbassa lo sguardo, le immagini si interrompono bruscamente. Schermo nero.)

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XVI

IL MESSAGGERO - 13 novembre 1985
Roma ferita, ma non piegata: il giorno più buio dell’Impero

Un attacco coordinato senza precedenti ha colpito ieri il cuore dell’Impero, seminando morte e paura nelle nostre città.
Mentre in Mauritania infuriava la più grave offensiva islamista mai registrata in vent’anni di occupazione, con migliaia di soldati romani caduti sul campo, Roma e altre grandi città della penisola venivano scosse da esplosioni devastanti.

Il fronte esterno: la peggiore offensiva di sempre
Da Algeri a Orano, intere guarnigioni romane sono state attaccate da milizie islamiste con una violenza che i nostri comandi non esitano a definire “senza precedenti”. È la più grande offensiva da quando la Mauritania è sotto il controllo romano.
Le prime stime parlano di migliaia di soldati caduti e di postazioni strategiche perse, seppur temporaneamente. Fonti militari confermano che reparti corazzati e aviazione imperiale sono stati lanciati in massa per contenere l’avanzata, ma la battaglia è ancora in corso e il bilancio si aggrava di ora in ora. Lo stato maggiore non ha ancora diffuso notizie ufficiali, ma si sa per certo che Bescera e gli avamposti a sud dell’Atlante sono stati travolti dall’offensiva islamista, mentre Algeri, Orano e gli avamposti costieri sarebbero sotto assedio.

Roma sotto le macerie
Alle 20:11 di ieri sera una deflagrazione ha squassato il centro della capitale, colpendo la Caserma di Castro Pretorio. Due minuti dopo, un altro ordigno è esploso all’Ossario del Gianicolo.
La scena che si è presentata ai primi soccorritori è stata di una devastazione inimmaginabile: muri crollati, fumo, corpi estratti dalle macerie.
Il bilancio provvisorio è drammatico: 291 morti solo a Roma, in gran parte militari di stanza alla caserma, ma anche civili coinvolti dalle esplosioni.
E la capitale non è stata l’unico bersaglio: ordigni sono esplosi anche a Milano, Napoli e Torino, causando decine di vittime e gettando l’intera nazione nel panico.
“È come se la guerra fosse entrata in casa nostra”, ha detto un testimone, con il volto ancora coperto di polvere, dopo aver aiutato i vigili del fuoco a estrarre i sopravvissuti dalle macerie del Gianicolo.

La paura dei cittadini
Per la prima volta dopo decenni, i romani si sentono vulnerabili. Lunghe file di cittadini si sono radunate davanti agli ospedali per donare sangue, mentre altri, presi dal panico, stanno abbandonando la capitale.
In tutte le città colpite si registra un clima di paura, con scuole chiuse e strade presidiate dai militari. “Non ci sentiamo più sicuri – racconta un giovane in piazza Venezia – se possono colpire qui, possono colpire ovunque.”

Le parole dei leader
Poche ore dopo le esplosioni, l’Imperatore Paolo VIII è apparso in televisione con un messaggio solenne alla nazione:

“I nemici dell’Impero hanno colpito vigliaccamente, ma non piegheranno la nostra civiltà. Roma ha resistito a invasioni ben più grandi e continuerà a resistere. Il nostro popolo deve restare unito e saldo. La risposta dell’Impero sarà implacabile.”

Anche il ministro della Sanità, Francesco Saverio Stefani, ha preso la parola in una dichiarazione pubblica dai toni accorati:

“Oggi non parlo da politico, ma da padre e da cittadino. La paura che molti di voi provano è la stessa che provano i miei figli. Ma non dobbiamo lasciarci avvelenare dalla disperazione. L’Impero è ferito, ma non è sconfitto. E noi guariremo questa ferita, insieme.”

Una nazione in lutto e in attesa
Mentre Roma conta i morti e i feriti, e le forze armate cercano di reagire in Mauritania, l’Impero intero è sospeso in un silenzio drammatico. I funerali di Stato per le vittime di Castro Pretorio sono previsti già nei prossimi giorni.
L’attacco del 12 novembre rimarrà come una data incisa nella carne dell’Impero: il giorno in cui la guerra è arrivata a casa nostra.

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XVII

IMPERIUM ROMANUM
SEGRETERIA IMPERIALE – UFFICIO DEL CAPO SEGRETERIA
CLASSIFICAZIONE: SEGRETISSIMO // USO RISERVATO

VERBALE DELLA RIUNIONE D’EMERGENZA DEL GABINETTO IMPERIALE
Data:
12 novembre 1985 – ore 23:55
Luogo: Sala del Consiglio, Palazzo Imperiale, Roma
Redatto da: Costantino Loggia, Capo della Segreteria Imperiale

PARTECIPANTI
    S.M. l’Imperatore Paolo VIII Giraldini
    Marco Aurelio Ambrosino, Capo della Polizia
    On. Germano Anicio, Sottosegretario alla Difesa
    Proconsole Generale Paolo Anastasi, Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate
    On. Cassio Concordia, Sottosegretario agli Interni
    Ammiraglio Francesco Tullio-Cicerone, Capo di Stato Maggiore della Marina
    Ammiraglio Pietro Paolo Messalla, Direttore Generale del CoSDi
    On. Francesco Saverio Salvio-Stefani, Ministro della Sanità
    Propretore Generale Sesto Silla, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito
    Raffaele Taranto, Ministro degli Esteri
    Costantino Loggia, Capo della Segreteria Imperiale

SVOLGIMENTO DEI LAVORI
Ore 23:55 – Apertura

L’Imperatore, rientrato in urgenza dal centro operativo di TITAN-51, apre la riunione dopo aver appena concluso il discorso a reti unificate. Durante la sua allocuzione televisiva è giunta la rivendicazione ufficiale di Muhammad al-Barqī, confermando la matrice islamista degli attentati.
Il bilancio provvisorio delle vittime a Roma è già salito a 116 morti, tra cui civili; si registrano ulteriori vittime a Milano, Napoli e Torino.

Relazione militare (Gen. Anastasi, Gen. Silla)
    Situazione in Mauritania “gravissima”: cadute Bescera (Biskra), Vienna Mauritana (Sidi Bel Abbès), Augusta degli Zenati (El Menia) e numerosi avamposti a sud della catena dell’Atlante.
    Le città di Algeri, Orano, Cesarea di Mauritania (Cherchell) sotto assedio.
    Perdite stimate: decine di migliaia di caduti militari, centinaia di migliaia di civili romani sfollati.
    Richiesta immediata: predisporre evacuazioni di massa.
Intervento Amm. Tullio-Cicerone
Conferma che la Marina è pronta a predisporre una forza navale straordinaria per il trasferimento di civili in Italia, Cartagine o Tripolitania.

Clima e responsabilità interne
Discussione accesa tra i vertici:
    Silla e Anastasi accusano il CoSDi di non aver previsto l’offensiva.
    Ambrosino ribatte sull’inefficacia del controllo territoriale e la mancanza di intelligence militare.
    Messalla respinge le accuse, attribuendo a Polizia ed Esercito il fallimento nel filtraggio dei traffici e nell’interdizione logistica.

L’Imperatore interrompe con durezza: “Non siamo qui per contare i vostri fallimenti, ma per decidere come annientare chi ha osato colpirci, perché non ho intenzione di passare alla Storia come l’Imperatore che regnava quando un branco di pastori algerini violentatori di capre [sic] hanno messo fine a ventuno secoli di controllo romano dell’Africa!”

Dichiarazione dell’Imperatore
Afferma che i progressi in TITAN-51 garantiranno all’Impero la vendetta definitiva.
“La risposta sarà totale. Chiunque dubiti dell’Impero, finirà peggio dei nostri nemici.”

Proposta Stefani-Messalla
Stefani: “Maestà, però servono risposte immediate, e serve coordinamento. Non possiamo permetterci catene di comando parallele. L’efficacia richiede che i ministeri dell’Interno e della Difesa siano affidati a figure operative, non gestiti direttamente dalla Maestà.”
Messalla: “Non è una questione di prerogative, ma di funzionalità. Senza una linea univoca, l’Impero rischia la paralisi.”
Anastasi concorda: “Condivido. Un comando politico chiaro rafforza anche l’autorità militare.”
Taranto media: “L’Imperatore non perderebbe nulla in autorità, ma guadagnerebbe strumenti più agili di governo.”

(Silenzio pesante. Tutti attendono la reazione dell’Imperatore.)

Risposta dell’Imperatore
Dopo una lunga pausa, SM dichiara:
“Va bene. Se l’Impero deve sopravvivere, la sua macchina deve funzionare. Lascio ai miei segretari l’onere di valutare i nomi. Ma sia chiaro: la responsabilità resta mia, e mia soltanto.”

(Nota stenografica: Messalla e Stefani si guardano, colti di sorpresa dalla risposta di SM)

Decisioni operative immediate
    Richiamo dei riservisti e trattenimento in servizio delle classi di leva attuali.
    Richiamo urgente delle classi congedate negli ultimi due anni.
    Preparazione immediata della Marina per evacuazioni civili da Algeri, Orano e Cesarea verso Italia, Cartagine e Tripolitania.
    Intensificazione delle operazioni di controspionaggio interno per neutralizzare reti islamiste in territorio metropolitano.

Ore 01:30 – Chiusura della riunione
L’Imperatore chiude:
“Roma è stata colpita, ma Roma non cadrà. I nostri nemici hanno aperto la loro stessa tomba.”

FIRMATO:
Costantino Loggia
Capo della Segreteria Imperiale

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XVIII

Diario personale di Francesco Saverio Salvio-Stefani
Roma, notte tra il 12 e il 13 novembre 1985


Questa giornata rimarrà scolpita nella mia memoria come un presagio.

La mattina, mentre uscivo da casa, fui avvicinato da uno straniero. Un americano, lo capii subito: la pronuncia tradiva la sua origine, anche se parlava un italiano sorprendentemente corretto. Non fece mai riferimento esplicito a nulla, ma il senso delle sue parole era chiaro: se a Roma ci fosse stato un cambio al vertice, Washington non ne sarebbe stata scontenta.
Non ho idea di chi fosse, né se agisse davvero per conto del suo governo. Ma quel messaggio era un macigno.

Più tardi, nel mio ufficio, udii il boato. Le pareti tremarono e la finestra vibrò. Mi affacciai subito: dal Gianicolo saliva una colonna di fumo scuro, e dalle strade sottostanti si levava un concerto di sirene, ambulanze e autopompe. Allora compresi che la guerra non era più solo in Mauritania. Era qui, a Roma.

La seduta di gabinetto, ore dopo, fu un campo di battaglia senza armi. Generali e funzionari si accusavano a vicenda, la voce di Anastasi contro quella di Messalla, la polizia contro il CoSDi. E sopra tutto ciò, il vecchio: implacabile, freddo, eppure stranamente disposto a cedere.
Quando annunciò che avrebbe trasferito il controllo degli Interni e della Difesa, sentii un brivido. Non era un segno di apertura, ma di imminente chiusura. È il preludio della purga. Il vecchio sta preparando il colpo definitivo.

Dopo, mi sono visto con Messalla. Gli ho raccontato dell’americano. Il suo volto, solitamente impassibile, si è indurito: “Se a Washington conoscono le nostre fratture interne, allora la falla è molto più grave di quanto pensassimo. Il finto agente CoSDi non è più un semplice impostore: è una talpa che ha aperto varchi enormi.” Temo abbia ragione.
In generale, siamo arrivati alla stessa conclusione: la purga è vicina.

Non mi fido di Messalla. Non del tutto, almeno. Ma non ho altra scelta che fidarmi. Per ora.
Domani sera saremo tutti al Teatro Imperiale della Lirica, per il Don Giovanni di Mozart. Ci sarà il vecchio, ci sarà Messalla, ci sarò io, ci saranno Anastasi e molti altri generali e ministri. L’occasione perfetta per agire.
E per capire chi potrà essere dei nostri.

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XIX

PROGETTO TITAN-51 – RAPPORTO CLINICO POST-OPERATORIO
Classificazione: SEGRETISSIMO – A uso esclusivo di Sua Maestà Imperiale
Data:
13 novembre 1985 – ore 08:00
Redatto da: Dott. Eugenio Rambaldi

SOGGETTO 1
Maschio, 27 anni, prigioniero di guerra, sottoposto a intervento di craniotomia parasagittale anteriore con approccio transcalloso-transventricolare. Impianto di innesto nel nucleo preottico ventrolaterale (VLPO).

Decorso immediato (prime 24 ore)
    Parametri vitali stabili: nessuna crisi ipertensiva o emorragica post-operatoria.
    Nessun segno di rigetto immediato né complicazioni infettive.
    Ripresa rapida della coscienza, con livello di vigilanza superiore al previsto.

Osservazioni cliniche straordinarie
1. Assenza di sonno:
       a. Nelle 24 ore successive all’intervento, il soggetto non ha manifestato alcun bisogno di dormire.
       b. Tentativi di indurre sonno farmacologico (benzodiazepine a dosaggio standard e potenziato) risultati inefficaci.
       c. EEG dimostra attività continua di stato di veglia, senza transizioni verso fasi ipnagogiche.
2. Percezione del dolore alterata:
       a. Stimolazioni nocicettive (punture, pressioni, stimoli termici) ricevute senza reazioni comportamentali né verbali.
       b. Parametri fisiologici (frequenza cardiaca, respirazione, pressione) invariati durante stimoli dolorosi.
       c. Il soggetto dichiara: “Sento qualcosa… ma non mi riguarda.”
3. Efficienza motoria e cognitiva:
       a. Capacità motorie integre.
       b. Tempi di reazione motoria e cognitiva ridotti del 30% rispetto al pre-operatorio.
       c. Nessun deficit linguistico o mnemonico osservato.

Conclusioni provvisorie
    L’intervento del 12 novembre 1985 può essere considerato un successo pieno:
    L’innesto nel VLPO ha abolito il bisogno fisiologico di sonno.
    È stata indotta una significativa riduzione della percezione del dolore.
    Non sono state osservate complicanze neurologiche maggiori.

Nota del responsabile (Rambaldi):
Il Soggetto 1 rappresenta la prima prova concreta della possibilità di trasformare l’uomo in qualcosa di superiore, capace di superare i limiti biologici naturali. Questi risultati costituiscono una pietra miliare per TITAN-51.

Firmato:
Dott. Eugenio Rambaldi
Responsabile Clinico, Progetto TITAN-51

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XX

Commissione Speciale di Difesa (CoSDi)
Ufficio Analisi e Contropropaganda
Documento riservato – ad uso esclusivo del Direttore Generale

Oggetto:
Pasquinata apparsa nella notte tra il 12 e il 13 novembre, affissa alla statua del cosiddetto Pasquino (piazza di Parione, Roma).

Testo integrale della pasquinata (trascrizione):

Al-Barqī una nuova Cartago ha fondato,
tra sabbie e moschee ha il suo ferro affilato.
E Roma? Risponde con vuoti proclami,
ma i monti d’Atlante li ha persi stamani.

Oh! Gli avi domarono Annibale ultore.
Oh! Scipio trionfò con il braccio e col cuore.
Ed oggi? Ruggiscono tanti leoni,
ma restano in scacco le nostre legioni.

Il Vecchio promette vendetta ed orgoglio,
ma l’ombre si staglian già sul Campidoglio.
“Cartago ritorna,” sorride Pasquino,
“ma manca Scipione, che amaro destino!”


Analisi contenutistica:
1. Simbolismo storico: il testo stabilisce un parallelo diretto tra le offensive islamiste in Mauritania e le guerre puniche dell’antichità, suggerendo che l’Impero si trovi oggi nella posizione di una Roma debole e senza condottieri.
2. Attacco all’Imperatore: il riferimento al “Vecchio” che promette “vendetta sovrana” è interpretato come allusione diretta a Sua Maestà Imperiale. L’accusa implicita è di retorica vuota e inefficacia militare.
3. Riferimento al morale interno: il verso “restano vuote le nostre legioni” riflette le recenti perdite e il crollo di interi settori in Mauritania, colpendo la fiducia della popolazione nella capacità difensiva dell’esercito.
4. Pericolosità del messaggio:
La pasquinata non si limita a satireggiare: mina la legittimità storica dell’Impero, affermando che manchi oggi un “nuovo Scipione”.
È altamente diffusiva: il richiamo alla storia romana classica rende il testo immediatamente comprensibile e ripetibile tra la popolazione.
Rischio elevato che venga riprodotta e diffusa clandestinamente, specie in ambienti universitari e militari.

Ipotesi sugli autori:
    Probabile matrice intellettuale, con solida conoscenza storica.
    Stile compatibile con precedenti pasquinate circolate negli ultimi mesi (indagine aperta, dossier P/83-17).
    Non si esclude collegamento indiretto con la cosiddetta “fonte anonima” che fornisce informazioni alla CIA; la coincidenza temporale con gli attentati e l’offensiva in Mauritania potrebbe indicare coordinamento esterno.

Raccomandazioni operative:
    Intensificare la sorveglianza notturna delle statue “parlanti” e dei luoghi noti di diffusione di pasquinate.
    Attivare immediata contropropaganda sui giornali e alla televisione, enfatizzando la fermezza dell’Imperatore e il richiamo alla tradizione militare romana.
    Avviare indagini interne su docenti universitari e ufficiali con formazione umanistica, possibile bacino di provenienza dei testi.

Firmato:
Ten. Col. Arturo De Marchis
Direttore dell’Ufficio Analisi CoSDi

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XXI

Appunti personali di Julius van Roosendaal, giornalista olandese residente a Roma – 13 novembre 1985
Teatro Imperiale della Lirica – Don Giovanni (Mozart)


    Sala gremita. Pubblico selezionato, molti ufficiali e ministri. L’Imperatore presente nel palco centrale, circondato da tutto il suo seguito. Atmosfera apparentemente solenne, ma… tesa. Si percepisce un nervosismo sotterraneo.
    Durante l’intervallo ho notato due gruppi separati di persone che si sono addensati attorno a Francesco Saverio Salvio-Stefani (riconosciuto con certezza, presidente del PSPdR e ministro della Sanità) e all’ammiraglio Pietro Paolo Messalla (direttore del CoSDi). Non si trattava di conversazioni di cortesia: atteggiamenti nervosi, molti sguardi guardinghi, mani che si muovono come a proteggere lo spazio.
    Alcuni generali (credo Silla e forse Anastasi) hanno fatto scivolare dei biglietti piegati nelle mani di Stefani. Più tardi li ho visti disfarsene gettandoli in un cestino nel corridoio laterale. Ho finto di cercare un fazzoletto e ne ho recuperati due. Trascrivo testualmente:
        > “Il vecchio non ha eredi. Come la mettiamo?”
        > “L’Impero ha già avuto una Tetrarchia, ed ha anche avuto un periodo elettivo. Il nuovo regime sarà collegiale.”
    Parole pesanti, senza equivoci. Anche se mi sbagliassi, sarebbero comunque di natura eversiva. Eppure, erano scritte con naturalezza, come fossero parte di un discorso già avviato da tempo.
    Nel secondo atto, scena finale: Don Giovanni e la statua del Commendatore. Il teatro intero è rapito dalla musica, mentre Leporello scongiura Don Giovanni di rifiutare l’offerta della statua. Io no. Osservavo i palchi laterali. Ho visto più di uno scambio di cenni e strette di mano tra uomini in uniforme e civili di alto profilo. Non sembravano saluti casuali. Sembrava piuttosto una sorta di rito: discreto, ma concertato.
    Conclusione provvisoria: qualcosa si sta muovendo nelle viscere del potere romano. Io, estraneo, vedo solo la superficie di un lago agitato da correnti invisibili. Gli italiani presenti non sembrano accorgersi, o forse fingono di non vedere. Forse Don Giovanni non sarà l’unico ad andare all’Inferno, dopo questa serata.

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XXII

TELEX RISERVATI
14 novembre 1985 – Trasmissioni dal Complesso Chirurgico Riservato, [REDACTED]

09:12 CET
Da:
Sala Operativa – Complesso TITAN-51
A: Stato Maggiore Difesa, Roma
Oggetto: Segnalazione Anomala – SOGGETTO 1

Durante ispezione mattutina, si riscontra assenza di SOGGETTO 1 dal settore post-operatorio. Possibile elusione sorveglianza. Tutto personale allertato. Per il momento escluso contatto esterno. Si richiedono ulteriori istruzioni.


10:45 CET
Da:
Comando di Sicurezza Locale – TITAN-51
A: CoSDi, Roma – Ufficio Amm. Messalla
Oggetto: Aggiornamento situazione SOGGETTO 1

Ricerche interne ancora in corso. Nessun segno di effrazione. Porte blindate rimaste chiuse. Incongruenze nei registri di accesso settori sotterranei. Possibile complicità interna. Richiesto invio squadra speciale CoSDi per affiancare personale presente.


12:27 CET
Da:
Sala Operativa – Complesso TITAN-51
A: Stato Maggiore Difesa, Roma – Ufficio Silla
Oggetto: Emergenza Sicurezza – URGENTE

Confermata sparizione di materiale sensibile: due pistole Beretta M92, un fucile d’assalto AR70, tre caricatori pieni. Nessuna traccia di SOGGETTO 1. Allerta di livello massimo. Rischio di compromissione struttura. Evacuazione parziale personale civile in corso.


14:10 CET
Da:
Comando Locale TITAN-51
A: Ufficio Imperiale, Roma
Oggetto: Nuova segnalazione – Gravità Estrema

Non riusciamo a localizzare l’Imperatore. Sua Maestà era in osservazione stanza adiacente, ma non risponde a chiamate né risulta tra personale in evacuazione. Ultimo avvistamento ore 12:02 corridoio settore C. Tutti accessi bloccati. Priorità assoluta ritrovamento.


15:36 CET
Da:
Sala Operativa – Complesso TITAN-51
A: Stato Maggiore Difesa – Anicio / Concordia / Messalla
Oggetto: Codice Nero – DISPONIBILITÀ RINFORZI

Situazione fuori controllo. SOGGETTO 1 addestrato, potenzialmente armato, condizione neurologica sconosciuta. Imperatore irrintracciabile da tre ore. Presente panico tra personale. Richiesto invio immediato:
1. Reparto corazzato pronto intervento
2. Unità NBC (non escluse manipolazioni sostanze biologiche)
3. Elicotteri sorveglianza area esterna

RIPETO: Imperatore NON localizzato.


17:58 CET
Da:
Direzione Sicurezza Locale – TITAN-51
A: Roma, Tutti Destinatari di Livello 1
Oggetto: Codice Massimo – “AURORA NERA”

Allerta totale. Non vi è più distinzione tra ricerca SOGGETTO 1 e ricerca Sua Maestà. I due casi sono collegati. Ipotesi estrema: contatto diretto tra soggetto ed Imperatore.
Urgente predisporre catena di comando alternativa in caso di conferma peggior scenario.

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XXIII

COORDINAMENTO SERVIZI DI SICUREZZA IMPERIALE
CLASSIFICAZIONE: OCCHI SOLO DIRETTORE GENERALE – MASSIMA URGENZA
Data:
14 novembre 1985 – ore 18:32 CET
Destinatario: Ammiraglio Pietro Paolo Messalla, Direttore Generale CoSDi
Mittente: Direzione Sicurezza Locale – Complesso TITAN-51

OGGETTO: Primo Rapporto Sintetico – Evento Critico Complesso TITAN-51

1. Stato Imperatore
    Sua Altezza Imperiale ritrovata priva di vita alle ore 18:07 nel corridoio di collegamento tra settore B e settore C del complesso.
    Condizioni riscontrate: ferite compatibili con impiego di arma da fuoco a distanza ravvicinata. Analisi balistica in corso.
    Circostanze attuali: assenza di testimoni diretti; tracciati di sorveglianza video compromessi (sistemi risultano oscurati per circa 27 minuti).

2. Stato SOGGETTO 1
    Non rintracciabile. Ultimo segnale certo: ore 11:53, settore C.
    Possesso di armi confermato: fucile AR70 + pistole M92, munizioni complete.
    Potenzialità: addestramento avanzato, alterazioni neurofisiologiche post-innesto non ancora definite.
    Classificato come estremamente pericoloso.

3. Stato dott. Eugenio Rambaldi
    Medico responsabile ultimo intervento.
    Non presente al briefing mattutino. Ricerca interna ed esterna senza esito.
    Ultimo avvistamento documentato: ore 09:15, settore operatorio.
    Possibile connessione con la fuga di SOGGETTO 1 non esclusa.

4. Situazione complessiva
    Ordine ristabilito con arrivo rinforzi.
    Complesso TITAN-51 in stato di blocco operativo.
    Personale non essenziale evacuato.
    Morale delle unità residue compromesso dalla notizia della morte dell’Imperatore.

RICHIESTE IMMEDIATE
1. Istituzione di comitato ristretto di crisi con autorità decisionale piena.
2. Autorizzazione per operazione di cattura/neutralizzazione SOGGETTO 1 con regole d’ingaggio speciali.
3. Direttive su gestione comunicazione ufficiale (necessità urgente di copertura narrativa per decesso Imperatore).

Firmato:
Col. [REDACTED]
Direzione Sicurezza Locale – Complesso TITAN-51

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XXIV

TRASMISSIONE STRAORDINARIA A RETI UNIFICATE – 14 Novembre 1985 – 19.37 CET
(Schermata nera. Breve suono dell’inno imperiale, interrotto dopo poche note. Inquadratura: sala austera, bandiera nero-rosso-nero con la Croce delle Sette Spade dietro. I presenti sono in piedi, in uniforme o in abito scuro. Stefani al centro, davanti al microfono, volto severo. Accanto a lui, in ordine: Messalla, Anastasi, Silla, Tullio-Cicerone, Taranto, Loggia. Silenzio totale nello studio. Stefani parla con tono grave e fermo)

Francesco Saverio Salvio-Stefani:
*“Popolo romano, cittadini dell’Impero.
È con immenso dolore e con profonda commozione che vi annunciamo la morte improvvisa del nostro amato Sovrano, Sua Maestà Imperiale Paolo VIII.
L’Imperatore è stato colpito, nelle prime ore di questo pomeriggio, da un ictus cerebrale fulminante. Ogni tentativo di soccorso si è purtroppo rivelato vano. La sua scomparsa lascia un vuoto incolmabile, in un momento già difficile per la nostra Patria.
Ma Roma non cade. Roma non può cadere.
In assenza di eredi diretti al trono, e per garantire senza esitazione la continuità del governo e delle istituzioni imperiali, noi, riuniti oggi in seduta straordinaria, abbiamo deciso all’unanimità la costituzione di un Comitato Imperiale per lo Stato d’Emergenza.
Questo Comitato assumerà con effetto immediato e a tempo indeterminato la responsabilità del governo dell’Impero.
Ne fanno parte:
    il sottoscritto, in qualità di Presidente;
    il Proconsole Generale Paolo Anastasi, Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate;
    il Capo della Segreteria Imperiale Costantino Loggia
    l’Ammiraglio Pietro Paolo Messalla, Direttore Generale della Commissione Speciale di Difesa;
    il Propretore Generale Sesto Silla, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito;
    il Ministro degli Esteri Raffaele Taranto;
    e l’Ammiraglio Francesco Tullio-Cicerone, Capo di Stato Maggiore della Marina.
Romani, il momento è grave. L’Impero è sotto attacco. Ma sappiate questo: noi saremo la vostra guida, la vostra difesa, il vostro baluardo. Con disciplina e fede, come i nostri padri, sapremo resistere e vincere.
Vi chiediamo unità, silenzio e fiducia. Non date ascolto alle voci, non lasciatevi smarrire dal dolore.
L’Imperatore Paolo VIII ci ha lasciato: ma Roma vive, e Roma vincerà. Sempre.”*

(Silenzio. I presenti chinano leggermente il capo. La telecamera indugia sul volto fermo di Stefani, poi stacco improvviso alla schermata con la Croce delle Sette Spade e la scritta: “COMITATO IMPERIALE PER LO STATO D’EMERGENZA – ROMA, 14 NOVEMBRE 1985”. L’inno imperiale suona a volume basso, dissolvenza in nero.)

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XXV

Commissione Speciale di Difesa (CoSDi)
Rapporto riservato – ad uso esclusivo del Comitato Imperiale per lo Stato d’Emergenza (CISE)
Oggetto:
Situazione ordine pubblico – 24h successive al decesso dell’Imperatore Paolo VIII
Data: 15 novembre 1985 – ore 19.00

1. Quadro generale
Nelle ventiquattro ore successive all’annuncio ufficiale della morte dell’Imperatore Paolo VIII, l’ordine pubblico nella capitale e nelle principali città del territorio metropolitano è rimasto nel complesso sotto controllo.
    Roma: affluenza massiccia di cittadini in prossimità del Palazzo Imperiale e lungo Via del Corso, stimata in circa 120.000 persone nell’arco della giornata.
    Le presenze hanno assunto carattere prevalentemente commemorativo e religioso: processioni spontanee, recite del rosario, deposizioni di fiori e ceri votivi. Numerosi i messaggi di cordoglio lasciati davanti ai cancelli del Palazzo, spesso scritti sul retro di santini e immagini sacre.
    Nessuna manifestazione di protesta registrata; la popolazione appare colpita e in stato di lutto.

2. Ordine pubblico
    Le forze di polizia e le unità ausiliarie dispiegate (circa 7.500 uomini nella capitale) hanno garantito ordine e fluidità nei raduni.
    Non si segnalano incidenti gravi, se non alcuni svenimenti dovuti ad affollamento e malori.
    Arrestati 12 militanti comunisti sorpresi a distribuire volantini ostili durante la notte in zona Testaccio; materiale sequestrato.

3. Opinione popolare
    Sentimento diffuso di smarrimento per la morte improvvisa del Sovrano.
    In molti quartieri popolari si sono tenute veglie spontanee, con forte partecipazione femminile e giovanile.
    Numerose le testimonianze raccolte dai nostri informatori su voci e sospetti riguardo alla “vera causa” del decesso, ma nessun assembramento ostile o manifestazione sovversiva collegata.

4. Attività sovversiva e pasquinate
Nel corso della giornata sono apparse nuove pasquinate su statue e muri del centro. Particolare attenzione ha destato un poema in rima affisso nottetempo nei pressi di Piazza Navona, subito rimosso ma già circolato in copie manoscritte:

“É freddo ora il Vecchio, è caldo il suo trono,
già i Diadochi pensano a chi lo avrà in dono.
Non son più Scipioni, ma eredi divisi,
son pronti a scannarsi tra inganni e sorrisi.
Or Roma non piange, ora Roma sospira:
e se tutta l'Urbe incendiasse la pira?”


L’autore resta ignoto. Analisi interna indica matrice intellettuale ostile, probabilmente ambienti universitari.

5. Conclusioni
    Situazione capitale e province sotto controllo.
    La popolazione manifesta dolore e smarrimento ma non ostilità attiva.
    Clima politico: le pasquinate segnalano una percezione diffusa di lotta interna per la successione; monitorare con attenzione.
    Si raccomanda mantenimento di alta vigilanza e stretta sorveglianza dei circuiti culturali e intellettuali potenzialmente generatori di dissenso.

Firmato:
Col. Vittore Manlio
Direzione Operazioni Interne – CoSDi

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XXVI

ROMA MARCIA, L’IMPERO RESPIRA (De Telegraaf)
Dal nostro inviato a Roma, Julius van Roosendaal – 21 aprile 1987

Roma ha celebrato oggi il suo 2.740° compleanno con una grandiosa parata militare che ha riempito Via dei Fori Imperiali e Piazza Venezia di carri armati, battaglioni in parata e migliaia di cittadini assiepati lungo i viali alberati. È stato il Natale di Roma più politico e più militare degli ultimi decenni, organizzato dal Comitato Imperiale per lo Stato d’Emergenza (CISE), che da diciassette mesi guida il Paese dopo la morte improvvisa dell’imperatore Paolo VIII.

La parata
Le prime luci del mattino hanno visto sorvolare la capitale da squadriglie di cacciabombardieri, mentre sul terreno si sono susseguite brigate corazzate e reparti della Guardia Palatina. Gli applausi più fragorosi sono scoppiati al passaggio dei veterani delle campagne nordafricane: uomini temprati da due anni di guerra logorante, che hanno riportato al centro del discorso politico la dimensione imperiale della potenza romana.

I successi militari
Se il Natale di Roma è stato celebrato con tanto sfarzo, è perché il CISE ha bisogno – e vuole – mostrare risultati. E in effetti, sul piano militare, i risultati non mancano:
    Le città di Algeri, Orano e Cesarea di Mauritania sono state liberate dai lunghi assedi degli islamisti.
    L’Operazione Gaio Mario, lanciata nell’estate scorsa, ha riconquistato Bescera e numerosi avamposti a sud dell’Atlante.
Fonti militari riconoscono l’uso massiccio di bombe a grappolo e napalm, strumenti devastanti che hanno permesso di piegare la resistenza nemica a costo di duri colpi alla popolazione civile.
A oggi, la guerra resta lontana dall’essere conclusa, ma il governo può rivendicare di aver invertito una tendenza che, al momento della morte dell’imperatore, sembrava inarrestabile.

Economia e politica
Sul fronte interno, la situazione è più sfumata. L’economia resta stagnante: l’industria bellica regge la domanda, ma i consumi civili non decollano. Alcune prime riforme economiche hanno liberalizzato comparti secondari, ma già circolano insistenti voci su una prossima “terapia d’urto”: privatizzazioni di larga parte del patrimonio statale, da anni pilastro del sistema imperiale.
Sul piano internazionale, la diplomazia di Raffaele Taranto ha prodotto i suoi frutti. Dopo mesi di gelo seguiti agli attentati del novembre 1985, USA, Francia e Regno Unito hanno ripreso i contatti con Roma, vedendo nel CISE un argine contro l’espansione islamista e sovietica in Nordafrica.

Le ombre
Eppure, sotto i vessilli e le fanfare, restano aperte ferite e domande. Sempre più cittadini parlano di teorie del complotto sulla morte di Paolo VIII: secondo queste voci, le bombe al Gianicolo e al Castro Pretorio sarebbero state un “inside job”, orchestrato dagli uomini che oggi siedono nel CISE per creare il clima di paura necessario a giustificare il cambio di regime. L’imperatore, sostengono i più radicali, sarebbe stato in realtà assassinato.
Nessuna prova a sostegno di queste accuse è emersa, ma la loro diffusione mostra come la legittimità del CISE non sia accettata da tutti.

Stefani: “Un’era di stabilità”
La parata si è conclusa con un discorso del presidente del CISE, Francesco Saverio Salvio-Stefani, che ha parlato dal palco eretto davanti all’Altare della Patria:
“Popolo romano, popolo dell’Impero,
diciassette mesi fa siamo stati colpiti al cuore: bombe nelle nostre città, un imperatore caduto, il nemico alle porte. Ma non ci siamo piegati, non ci siamo arresi. Oggi, grazie al sacrificio dei nostri soldati e alla volontà incrollabile di questa nazione, l’Impero si rialza.
Guardiamo al futuro: non più paura, non più incertezza. Questa non è solo la fine di una crisi. È l’inizio di una nuova era di stabilità e di forza. L’Impero Romano vivrà, e con esso vivranno i suoi cittadini, padroni del proprio destino.”
Tra le note dell’orchestra militare e lo sventolio delle bandiere nere-rosso-nere, il messaggio è arrivato forte e chiaro: il CISE vuole essere non solo un governo d’emergenza, ma la guida di lungo corso dell’Impero.

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Appendice:

Pasquinata – Natale di Roma, 1987

Dicon “stabilità”, ma vendono l’Impero,
tra privatizzazioni e tagli sul pensiero.
Il Vecchio se ne andò, ma il CISE adesso incombe,
riman solo ai romani la pace… delle tombe.

Dario Carcano

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Appendice

Linea del Tempo dell’Impero Romano d’Occidente

   ▪  472 – Vittoria di Antemio su Ricimero → fondazione della dinastia antemiana.
   ▪  VI secolo – Deposizione degli Antemii → nuova dinastia non riconosciuta da Costantinopoli.
   ▪  553 – Scisma tricapitolino: rottura tra Roma e Bisanzio; papi in esilio a Costantinopoli; nascita della Chiesa Aquileiana.
   ▪  VII–X secolo – Pressioni arabe in Africa (perdita temporanea di Tripolitania); invasioni di Longobardi, Ungari e Slavi lungo il Danubio.
   ▪  XI secolo – Breve conquista araba di Cartagine; l’Impero la riconquista ma perde l’Algeria e lo stretto di Gibilterra.
   ▪  XI–XIII secolo – Nuova età dell’oro:
        o Frontiera riportata al Danubio.
        o Influenza romana su Francia e Spagna visigota.
        o Conquista temporanea di Gerusalemme.
   ▪  1527 – Sacco di Roma da parte dei francesi → apice dell’“Anarchia dei Trent’anni”.
   ▪  XVI secolo – L’Impero perde l’occasione di colonizzare le Americhe.
   ▪  XVII secolo – Dinastia veneta: riforme e rilancio.
   ▪  Fine XVIII secolo – Estinzione dei Veneti; sconfitte contro la Francia rivoluzionaria; occupazione della Pianura Padana.
   ▪  1800 – Ascesa al trono di Leone IV Buonaparte, generale corso → inizio della dinastia corsa; riconquista della Provenza e di Marsiglia.
   ▪  XIX secolo – Rinascita militare ed economica dell’Impero, ma con forti contraddizioni sociali.

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Successione ininterrotta degli imperatori romani

Dinastia giulio-claudia (27 a.C. - 68 d.C.)
1) Augusto (27 a.C. – 14 d.C.)
2) Tiberio I (14-37)
3) Caligola (37-41)
4) Claudio I (41-54)
5) Nerone (54-68)

Non dinastici (anno dei quattro imperatori)
6) Galba (68-69)
7) Otone (69)
8) Vitellio (69)

Dinastia Flavia (69-96)
9) Vespasiano I (69-79)
10) Vespasiano II (79-81)
11) Domiziano (81-96)

Dinastia ispanica (96-192)
12) Nerva (96-98)
13) Traiano (98-117)
14) Adriano I (117-138)
15) Antonino I Pio (138-161)
16-17) Antonino II (161-180), insieme a Lucio Vero (161-169)
18) Antonino III (180-192)

Non dinastici (anno dei tre imperatori)
19-20) Pertinace (193), insieme a Clodio Albino (193-197)
21) Giuliano I (193)

Dinastia Severa (193-211)
22) Settimio I (193-211)
23-24) Antonino IV (211-217), insieme a Settimio II (211)

Non dinastici
25-26) Macrino (217-218), insieme a Diadumeniano (218)

Dinastia Severa – II periodo (218-235)
27) Antonino V (218-222)
28) Alessandro I (222-235)

Non dinastici (anarchia militare)
29) Massimino I il Trace (235-238)
30-31) Pupieno (238), insieme a Balbino (238)

Dinastia Gordiana (238-244)
32-33) Gordiano I (238), insieme a Gordiano II (238)
34) Gordiano III (238-244)

Non dinastici (anarchia dei nove anni)
35-36) Filippo I l’Arabo (244-249), insieme a Filippo II (247-249)
37-38) Decio I (249-251), insieme a Decio II (251)
39-41) Gallo (251-253), insieme a Ostiliano (251) e Volusiano (251-253)
42) Emiliano (253)

Dinastia Valeriana (253-268)
43-44) Valeriano I (253-260), insieme a Valeriano II (258)
45-46) Gallieno (253-268), insieme a Salonino (260)

Non dinastici (imperatori illirici e anarchia militare)
47) Claudio II il Gotico (268-270)
48) Claudio III (270)
49) Aureliano (270-275)
50) Claudio IV (275-276)
51) Floriano (276)
52) Probo (276-282)

Dinastia Numeriana
53) Caro (282-283)
54-55) Carino (283-285), insieme a Numeriano (283-284)

Tetrarchia (284-306)
56-57) Diocleziano (284-305), insieme a Massimiano I (286-305)
58-59) Costanzo I Pio (305-306), insieme a Massimiano II (305-311)

Non dinastici
60) Severo I (306-307)
61) Massimino II (311-313)
62) Licinio (308-324)

Dinastia Costantiniana (306-363)
63) Costantino I (306-337)
64-66) Costanzo II (337-361), insieme a Costantino II (337-340) e Costante I (337-350)
67) Giuliano II (361-363)

Non dinastico
68) Gioviano (363-364)

Dinastia Valentiniana (364-392)
69-70) Valentiniano I (364-375), insieme a Valente (364-378)
71-72) Graziano (375-383), insieme a Valentiniano II (375-392)
73) Massimiano III (383-388)

Dinastia Teodosiana (379-423)
74) Teodosio I (379-395)
75-77) Onorio (395-423), insieme a Costanzo III (421) e Costantino III (407-411)

Non dinastico (interregno)
78) Giovanni I (423-425)

Dinastia Teodosiana – II periodo (423-455)
79) Valentiniano III (425-455)

Non dinastici
80) Petronio Massimo (455)
81) Avito (455-456)
82) Maggioriano (457-461)
83) Libio Severo (461-465)

Dinastia Costantiniana – II periodo (465-524)
84) Antemio (465-482)
85) Marciano (482-506)
86) Procopio (506-511)
87) Marciano II (511-519)
88) Giovanni II (519-524)

Non dinastico
89) Leone I (524-527)

Dinastia Costantiniana – III periodo (527-549)
90) Giovanni II (524-531)
91) Costantino IV (531-549)

Non dinastico
92) Teodosio II (549-550)

Dinastia Leoniana (550-607)
93) Leone II (550-563)
94) Costantino V (563-587)
95) Costanzo IV (587-588)
96) Giovanni III (588-607)
97) Giovanni IV (607)

Non dinastici
98) Filippo III (607-608)
99) Marcello Severo (608)

Dinastia pannonica (608-693)
100) Pietro I (608-632)
101) Stefano I (632-647)
102) Giovanni V (647-674)
103) Pietro II (674-691, 1° regno)

Non dinastici (Anarchia dei vent’anni)
104) Leone III (691-696)
105) Adriano II (693-697)
103) Pietro II (697-704, 2° regno)
106) Stefano II (704-707)
107) Marciano III (707-711)

Dinastia friulana (711-788)
108) Giovanni VI (711-744)
109) Stefano III (744-749)
110) Nicola I (749-756)
111) Pietro III (756-774)
112) Nicola II (774-788)

Dinastia aostana (788-887)
113) Paolo I (788-821)
114) Adriano III (821-844)
115) Paolo II (844-875)
116) Costantino VI (875-877)
117) Costanzo V (877-880)
118) Costantino VII (880-887)

Non dinastici (crisi del X secolo)
119) Sergio I (887-924)
120) Niceta (924-926)
121) Marcellino (926-947)
122) Paolo III (947-950)
123) Sergio II (950-961)

Dinastia provenzale (961-1066)
124) Marcellino II (961-983)
125) Costanzo VI (983-987)
126) Anastasio I (987-1024)
127) Marcello II (1024-1066)

Non dinastico
128) Callisto (1066-1071)

Dinastia sicula (1071-1266)
129) Ciriaco (1071-1101)
130) Simone (1101-1105)
131) Alessandro II (1105-1154)
132) Costanzo VII (1154-1166)
133) Costanzo VIII (1166-1189)
134) Teodoro I (1189-1194)
135) Costantino VIII (1194)
136) Costanza Porfirogenita (1194-1250)
137) Anastasio II (1250-1266)

Non dinastici (primo interregno)
138) Eugenio (1266-1275)
139) Damaso (1275-1282)
140) Teodoro II (1282-1290)

Dinastia slavonica (1290-1390)
141) Pietro IV (1290-1334)
142) Costantino IX (1334-1342)
143) Alessandro III (1342-1365)
144) Costantino X (1365-1382)
145) Alessandro IV (1382-1390)

Non dinastici (secondo interregno)
146) Costanzo IX (1390-1391)
147) Teodoro III (1390-1397)
148) Nicola III (1397-1403)
149) Francesco I (1403-1405)
150) Giovanni VII Maria il Malvagio (1405-1429)
151) Marciano IV (1429-1434)

Dinastia mugellana (1434-1494)
152) Cosimo I (1434-1464)
153) Pietro V il Gottoso (1464-1469)
154) Lorenzo I il Magnifico (1469-1492)
155) Pietro VI (1492-1494)

Non dinastici (anarchia dei trent’anni)
156) Aloisio I il Moro (1494-1500, 1° regno)
vacante (1500-1502)
157) Paolo IV (1502-1507)
156) Aloisio I il Moro (1507-1508, 2° regno)
158) Lorenzo II (1508-1511)
159) Massimiano IV (1511-1518)
160) Francesco II (1518-1522)
161) Antonino VI (1522-1525)

Dinastia trevigiana (1525-1576)
162) Marco Antonio I (1525-1566)
163) Marco Antonio II (1566-1569)
164) Marco Antonio III (1569-1576)

Dinastia Aurelia (1576-1669)
165) Marco Aurelio I Contarini (1576-1599)
166) Marco Aurelio II Contarini (1599-1604)
167) Domenico I Contarini (1604-1607)
168) Nicola IV Contarini (1607-1631)
169) Marco Aurelio III Contarini (1631-1656)
170) Domenico II Contarini (1656-1669)

Non dinastici (periodo elettorale)
171) Nicola V Sagredo (1669-1676)
172) Aloisio II Sallustio (1676-1684)
173) Marco Antonio IV Salvio (1684-1688)
174) Francesco III Morosini (1688-1694)
175) Cornelio I Scipioni (1694-1700)
176) Aloisio III Messalla (1700-1709)
177) Giovanni VIII Borromeo (1709-1716)

Dinastia veneta (1716-1791)
178) Paolo V Morosini (1716-1740)
179) Paolo VI Morosini (1740-1786)
180) Pietro VII Morosini (1786-1791)

Non dinastici (anarchia dei nove anni)
181) Cornelio II Scipioni (1791-1792)
182) Claudio V Silla (1792-1795)
183) Anastasio III Sallustio (1795)
184) Marciano V Berlinghieri (1795-1797)
185) Teodoro IV (1797-1800)

Dinastia corsa (1800-1905)
186) Leone IV Buonaparte (1800-1821)
187) Leone V Buonaparte (1821-1832)
188) Giuseppe I Buonaparte (1832-1844)
189) Aloisio IV Buonaparte (1844-1846)
190) Leone VI Bonaparte (1846-1861)
191) Giovanni Pio I Buonaparte (1861-1884)
192) Paolo VII Buonaparte (1884-1905)

Non dinastico
193) Nicola VI Scipioni (1905-1917)

Dinastia istriana (1917-1985)
194) Marciano VI Giraldini (1917-1924, 1° regno)
195) Giovanni Battista I Giraldini (1924-1935)
196) Marciano VI Giraldini (1935-1959, 2° regno)
197) Paolo VIII Giraldini (1959-1985)

Interregno del Comitato Imperiale per lo Stato d’Emergenza (1985-...)

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Questo è il parere in proposito di Bhrghowidhon:

"Il Cesare Paolo" è un’ucronia notevolmente distopica e mi fa impressione che questo sia il prodotto di un Ucronista che non ha mai fatto mistero del proprio interesse per la Romanità. Invece, presa per quanto dichiara, l’ucronia del Cesare Paolo è una (forse involontaria) dimostrazione che uno dei miti più popolari, la nostalgia di Roma come occasione perduta per la Nazione Italiana, quando viene svolto in dettaglio produce effetti molto distanti dalle quasi messianiche attese che ha spesso suscitato.

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Invece Paolo commenta:

Io sono un per-nulla-fan dei mondi pseudo-distopici con gusto per la discesa progressiva agli inferi. L so, è il tuo pane, ma che ci devi fare, sò gusti. Per la cronaca, per questo di solito evito di commentare ciò che produci, ho paura che il mio bias influenzi quello che direi. Nonostante ciò, devo dire che ho comunque apprezzato davvero tanto. Il ritmo secco e serrato dei telex dà una nota avvincente che anima la volontà del lettore di proseguire e capire che succederà. Diciamo che l'intreccio tra il contesto globale e le vicende umane dei singoli protagonisti è di grande qualità, anche se, in sincerità, in alcune occasioni avrei desiderato una maggior chiarezza di ciò che fa da sfondo (e per questo ti sono immensamente grato per le appendici).

Molto sapiente anche lasciare diversi nodi aperti per il seguito, nonostante avrei pagato per conoscere un po' di più il background e i pendieri di soggetto 1 e in parte anche del buon(?) dottore. All in all, ti ringrazio per avermi davvero accattivato con qualcosa a cui di solito mi approccio con molta diffidenza.

Una nota a margine: sarò io che sono fissato su certe cose, ma quanto è autarchico culturalmente l'impero? No, perché, la parola 'background' in un documento ufficiale segreto mi suonava un tantino strana...(in parte così come il nome del progetto, 'Titan'. Ma quella è solo colpa mia... Continuava a venirmi in mente Stockton Rush e il suo sommergibile.

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E Dario gli risponde:

Ti ringrazio per i complimenti, rispondendo alla domanda ti dico che in parte è vero che ogni tanto mi sono scappati degli inglesismi di troppo (come nell'esempio da te citato) però l'imperatore Paolo VIII ha comunque studiato negli USA, conosce la lingua, e negli anni del suo regno sono giunti in Romania molti film americani, per cui il fatto che il nome del progetto sia in inglese non mi sembra implausibile.

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Cliccando qui potrete scaricare l'intero racconto "L'Imperatore Medico" in formato pdf. Invece, cliccando qui potrete scaricare l'intero ciclo di racconti di Dario Carcano ambientati in questo universo. Se volete dirci che ne pensate, scriveteci a questo indirizzo.


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