
Non sono uso a scrivere in prosa, oltretutto in questa modalità; tuttavia, ritengo che, vista la natura della storia che mi accingo a narrare, uno stile asciutto sia quello più adeguato.
Sono nato in Abruzzo nel 1863, in una famiglia di modeste condizioni economiche, presso Aterno Pescarese; fin da bambino ho avuto una grande passione per le lettere e la scrittura, e un grande piacere nello studio della letteratura latina. Tuttavia, la povertà della mia famiglia spinse i miei genitori a prendere l’unica decisione che una famiglia povera possa prendere per far studiare un figlio dotato nelle lettere: farmi entrare in seminario.
Avevo dodici anni quando entrai nel seminario della diocesi di Penne, e ci rimasi per cinque anni, fino a quando ebbi completato gli studi; per essere ordinato sacerdote avrei dovuto studiare teologia per altri tre anni, ma rinunciai perché sentivo che non era la mia strada.
Infatti non mi sentivo adeguato al sacerdozio, e non ero interessato alla cura spirituale delle anime; la mia ambizione era – ed è tuttora – diventare un grande artista, passare alla Storia per i miei scritti e i miei poemi.
Già negli anni in cui studiavo in seminario avevo inviato alcune mie poesie a delle riviste letterarie, riuscendo a farmele pubblicare, e subito dopo la mia uscita dal seminario un editore si offrì di pubblicare una raccolta di mie poesie. Accettai, e le mie poesie furono date alle stampe, col titolo "Primo Vere".
Il "Primo Vere" mi diede varie soddisfazioni: ottenne un buon successo di critica e fu apprezzato dal pubblico, dandomi dei discreti guadagni che mi permisero di trasferirmi a Roma, la capitale imperiale.
A Roma speravo non solo di trovare opportunità di carriera, ma anche un pubblico più colto, capace non solo di apprezzare il mio lavoro, ma di darmi nuovi stimoli.
Arrivai a Roma nel 1881, mentre erano in corso i festeggiamenti per i vent’anni di regno di sua Maestà Imperiale, l’Imperatore dei Romani Giovanni Pio I, sempre Augusto. La capitale era addobbata a festa, e ad ogni angolo veniva offerto vino con cui brindare alla salute dell’Imperatore; ogni giorno c’era una strada su cui l’esercito sfilava in parata, e ogni sera una processione religiosa che ringraziava Dio per il regno saggio e illuminato dell’Imperatore, e chiedeva di avere la grazia di altri dieci anni di questo regno; alcune di queste processioni erano guidate dal vescovo di Ostia, ma in una occasione fu Sua Santità, il patriarca di Aquileia Silvestro V, a guidare la processione dopo essere venuto appositamente nella capitale.
Le celebrazioni oltretutto erano più fastose del solito, perché in quegli stessi giorni le truppe imperiali avevano riconquistato Algeri, ponendo fine a settecento e ventidue anni di dominio arabo e musulmano sulla città; anche per questo il fervore patriottico era alle stelle.
Tuttavia, non si potevano non notare le contraddizioni della capitale: Roma è l’unica città dell’Impero ad avere ogni singola strada illuminata da lampade a gas (nelle altre città solo le strade principali sono illuminate), ma ci sono molte famiglie che non hanno combustibile per cucinare o scaldarsi, e si vedono donne e bambini poveri andare in cerca di legna da ardere; a Roma ci sono fontane ornamentali in ogni strada, e giochi d’acqua in ogni giardino pubblico, ma l’acqua potabile è un problema per molte famiglie. Quella portata dagli acquedotti è monopolio della potente Società Anonima Acque Urbane, azienda di proprietà dei principi Scipioni, che ne fornisce una quota per uso pubblico al governo imperiale e alla prefettura urbana; tuttavia, per avere accesso come privato all’acqua degli acquedotti è necessario pagare alla SAAU un canone annuale.
I cittadini poveri sono costretti a bere l’acqua del Tevere, piena di fango e di ogni altra melma; la prassi è di lasciare decantare queste acque melmose dentro delle caraffe, e aspettare che si depositi la parte solida, bevendo poi la parte liquida. Tuttavia, a coloro che non ci sono abituati quest’acqua causerà la diarrea.
Lo scoprii a mie spese, perché nei primi mesi in cui vissi a Roma dovetti vivere in povertà; quello che avevo lo avevo speso per acquistare casa, un appartamento in zona Trastevere, in un edificio senza ascensore e senza gabinetti in casa, per cui dovetti pagare comunque un prezzo esagerato. Quei primi mesi furono tremendi: senz’acqua pulita, senza riscaldamento, e per mangiare dovevo andare in una mensa diocesana.
Poi, dopo circa quattro mesi, le cose cambiarono. Nonostante la povertà avevo continuato a pubblicare poesie, e una di queste catturò l’attenzione del principe Filippo Anastasio II Sallustio, capo di una delle più antiche e ricche casate nobiliari di Roma, risalente addirittura al I secolo a.C.
Questo quello che dicono i genealogisti pagati dalla famiglia, in realtà le origini dei principi Sallusti sono molto più recenti, e risalgono al XV secolo, da un cambiavalute proprietario di un podere in Umbria denominato pomposamente Castel Sallustio, che durante l’anarchia dei trent’anni divenne oscenamente ricco grazie all’usura e al contrabbando, e che ottenne il titolo principesco pagando una cospicua tangente all’Imperatore Paolo IV.
Tornando a noi, grazie al principe Filippo Anastasio entrai dentro i circoli della nobiltà romana, e conobbi lui, il vero protagonista di questa Storia, sua Altezza Imperiale, il Cesare Porfirogenito Paolo Giovanni Stefano Pio, Despota Imperiale ed erede al trono.
Io avevo diciotto anni, lui venticinque; ci conoscemmo a palazzo Scipioni, durante una delle feste date dal principe Cornelio XIII Scipioni. Le feste dei principi Scipioni già all’epoca erano considerate leggendarie: le voci popolari parlavano di intere piscine piene di vino francese dove si combattevano battaglie navali, nelle quali gli equipaggi delle navi erano scimmie ammaestrate e armate con armi vere; di intere stanze e corridoi piene di opere d’arte, il cui contenuto era stato distrutto per trasformare quegli ambienti in enormi piste da ballo.
Rispetto a queste descrizioni, la festa a cui partecipai io era sottotono: fui portato da un cameriere – che inizialmente dalla cadenza nella parlata credetti sardo, salvo poi scoprire essere di Cartagine – fino ad una stanza spoglia, piena di gente e dove stava suonando un’orchestrina da osteria. Tutta l’attenzione era rivolta verso una finestra da cui era stato rimosso l’infisso.
Seduto sul davanzale di quella finestra c’era un uomo, sui venticinque anni, che senza toccare il muro con le mani e sedendosi come su una altalena stava tracannando una intera bottiglia di spumante; eravamo al terzo piano, sarebbe stato sufficiente un movimento brusco perché quell’uomo cadesse di sotto.
Tutti guardavano in silenzio, anche l’orchestrina per la tensione stava perdendo il ritmo; poi l’uomo tirò dietro di sé la bottiglia vuota, che si ruppe sul pavimento di marmo, senza usare le mani si mise in piedi sul davanzale, si girò di scatto e urlò “Ho vinto bastardi! Datemi un’altra bottiglia!”
L’intera sala scoppiò a ridere e applaudì entusiasticamente; all’uomo fu portata un’altra bottiglia e fu allora che riconobbi in lui il Cesare Paolo.
La bottiglia che gli fu portata non era spumante, ma acquavite; tuttavia, il Cesare ne bevve metà come se fosse acqua, e poi disse:
“A chiunque avrà il coraggio di fare quello che ho appena fatto io, pagherò dieci solidi d’oro. Chi si offre volontario?”
La somma in palio era grossa, ma il rischio dietro quell’impresa non era indifferente. Nessuno si fece avanti.
Il Cesare, frustrato, puntò il dito a caso tra gli spettatori, dicendo:
“Tu, perché non ti offri volontario?”
Dall’altra parte del dito c’ero io, e inizialmente non seppi cosa rispondere al Cesare, ma incalzato dovetti per forza farmi avanti.
Il principe prese un’altra bottiglia di spumante, la stappò coi denti e mi disse:
“Per fare questo gioco bisogna saper bere, saper stare in equilibrio, e saper fare l’una mentre si è sotto l’effetto dell’altra.”
Presi la bottiglia e salii sul davanzale. Provai una prima volta a mettermi a sedere senza usare le mani, ma rischiai di cadere di sotto; la vista del vuoto sotto di me mi fece venire le vertigini, ma riuscii a mettermi a sedere.
Iniziai a bere, sorso dopo sorso. Era un vino dolce, si beveva molto facilmente; a metà mi fermai perché le bollicine pretesero di venire fuori, poi però ricominciai a bere fino a vuotare tutta la bottiglia.
Euforico per l’alcool, buttai la bottiglia di sotto senza curarmi se passasse qualcuno, mi rimisi in piedi sul davanzale senza usare le mani, e mi girai mentre dal basso giungeva una bestemmia ai miei danni da parte di qualcuno che si era visto piovere davanti una bottiglia vuota.
Io ridevo, il Cesare rideva, e tutti i presenti ridevano; sceso dal davanzale, il Cesare Paolo mi invitò a prendere un sorso dalla sua bottiglia, cosa che dopo mi fu spiegato essere un grande onore, mi pagò i dieci solidi e mi diede un’altra bottiglia di spumante, che bevvi praticamente subito.
Venuto a sapere dal principe Sallustio che ero un poeta esperto nel latino, iniziò a declamare versi latini, in parte di autori classici in parte improvvisati sul momento da lui, sfidandomi a fare altrettanto. A causa dell’alcool non ho molti ricordi di quella serata, però devo essermela cavata bene perché il Cesare Paolo rimase molto impressionato da me, e mi permise addirittura di dargli del tu, evitando di chiamarlo Altezza Imperiale.
Credo di non aver mai bevuto così tanto come quella serata; uscito da palazzo Scipioni vomitai due volte sulla strada verso casa, e per i successivi due giorni ebbi dei postumi tremendi che mi impedirono di scrivere.
Tuttavia, il Cesare Paolo rimase bene impressionato da me, e mi fece cercare. Due settimane dopo quella festa, ero nel suo seguito come segretario.
* * *
Le mie mansioni al servizio del cesare Paolo variavano a seconda della giornata; un giorno gli facevo da segretario, il giorno dopo da poeta di corte, il giorno dopo ancora da cancelliere, altri giorni ero semplicemente un amico.
Per mettermi al suo servizio lasciai la mia casa di Trastevere, per trasferirmi in un appartamento dentro a palazzo Silio, nel rione Regola, dove il cesare aveva preso residenza al compimento dei diciotto anni d’età; quell’appartamento era grande quattro volte la mia casa di Trastevere, avevo due bagni con acqua corrente calda e fredda, tutti i giorni la servitù veniva a pulire e se avevo fame, mi bastava chiamare la cucina per farmi portare un intero pasto.
Vivevo come un principe, e avevo anche iniziato a frequentare principi. Ero infatti entrato a far parte del più ristretto cerchio di amici del cesare Paolo; c’erano persone che avrebbero dato tutti i loro possedimenti per avere quel livello di intimità con l’erede al trono, io lo avevo avuto riuscendo a bere una bottiglia di spumante mentre ero in equilibrio su un davanzale.
Del principe Sallustio ho già parlato, perché fu lui a farmi conoscere il cesare Paolo; gli altri che conobbi stando al servizio del cesare furono il principe Marco Antonio IX Salvio, suo cognato Andrea Volpi e il principe Luciano III Messalla.
Il principe Salvio era un personaggio particolare, che merita una digressione. Apparteneva ad una antichissima famiglia della nobiltà romana; mentre altre famiglie principesche simili parentele le millantavano e basta, lui quelle parentele poteva effettivamente dimostrarle, e nell’atrio d’ingresso di palazzo Salvio un gigantesco mosaico mostra tutta la genealogia della famiglia, dall’imperatore Otone al principe Marco Antonio VII, nonno paterno del principe Marco Antonio IX.
Tuttavia, il principe Marco Antonio IX aveva dilapidato il patrimonio familiare, spendendolo in feste, banchetti, scommesse sui cavalli e, soprattutto, donne. Si racconta che – prima della sua caduta in povertà – a una delle sue amanti il principe abbia regalato il suo peso in diamanti, e a un’altra abbia regalato tre pellicce di visone al giorno per tre anni di relazione, così da non vederla mai vestita allo stesso modo per più di due ore al giorno.
Finiti i soldi, l’unica cosa che restava al principe era il nome della famiglia, e siccome aveva una sorella minore in età da marito, decise di mettere all’asta la mano della sorella. Chi avesse offerto di più, avrebbe potuto imparentarsi con una delle più antiche famiglie nobili di Roma, e ottenerne il prestigio e una parte dei titoli.
Il vincitore dell’asta fu Andrea Volpi, cinquantaseienne imprenditore veronese, proprietario di macelli, acciaierie, fabbriche di indumenti, cantieri navali, industrie conserviere, caseifici, terreni agricoli e allevamenti.
Volpi era un uomo molto ricco, ma aveva la colpa di essere nato in povertà in una famiglia di macellai, e di essersi costruito da solo la propria fortuna, lavorando duramente prima per mettersi in proprio e aprire un proprio macello, e poi espandendo la propria attività, diventando attivo in altri settori. La nobilità romana non poteva guardarlo senza sentire la puzza dei macelli.
Il matrimonio con la principessa Elia Salvia fu il modo con cui Volpi si tolse la puzza dei macelli, ed entrò a tutti gli effetti a far parte della nobiltà romana. Inoltre, Marco Antonio IX Salvio era amico d’infanzia del cesare Paolo; quindi, grazie a quel matrimonio entrò in confidenza con l’erede al trono.
Non solo vivevo come un principe, e frequentavo principi, ma grazie al servizio presso il cesare Paolo divenni ricco come un principe. Una delle mie molte mansioni stando al servizio dell’erede al trono era gestire la sua agenda degli appuntamenti, leggere la posta e “scremare” gli scocciatori, durante le udienze decidere chi avrebbe dovuto aspettare in anticamera e chi sarebbe stato ricevuto subito, e chi non sarebbe stato ricevuto affatto.
Insomma, chi voleva guadagnarsi i favori del futuro imperatore doveva per forza passare da me; se ritenevo che una persona non fosse degna delle simpatie del cesare, il cesare non avrebbe neanche saputo dell’esistenza di questa persona. L’unica persona più potente di un Imperatore è colui che decide chi può parlare con l’Imperatore.
C’erano molte persone che desideravano parlare con il cesare Paolo, e guadagnarsi le sue simpatie, nella speranza – una volta iniziato il suo regno – di ottenere incarichi, appalti e favori vari. Ma l’amicizia di un futuro imperatore è molto costosa, e quella del suo segretario anche di più.
Ricevetti regali di ogni genere da parte di persone che desideravano arrivare al cesare: posate e saliere d’oro forgiate da Benvenuto Cellini, dipinti di Leonardo Da Vinci, Raffaello Sanzio e Caravaggio, statue di Gian Lorenzo Bernini, Taddeo Landini e Michelangelo Buonarroti, ville progettate da Andrea Palladio, e un palazzo disegnato da Federico Zuccari, che divenne la mia residenza nei periodi in cui – per mia scelta – non alloggiavo assieme al cesare Paolo a palazzo Silio.
Ricevevo anche denaro, cavalli di razza, terreni agricoli, quote di società e titoli azionari, e addirittura interi stabilimenti industriali.
Qualcuno parlerebbe di tangenti, ma quando si paga una tangente a una persona di potere, sei già d’accordo con quella persona su quale sarà la contropartita di quel pagamento.
Le persone che mi facevano quei regali lo facevano unicamente perché volevano la mia amicizia; per potere avere in futuro il privilegio di pagarmi una tangente.
Ovviamente il servizio presso il cesare Paolo aveva anche dei lati sgradevoli; innanzitutto, gli incontri tra il cesare Paolo e suo padre, l’Imperatore Giovanni Pio I, erano carichi di tensione e molto pesanti da sopportare. L’Imperatore era deluso da suo figlio, in cui vedeva un perdigiorno buono a nulla, e il cesare Paolo era genuinamente dispiaciuto di non avere la stima di suo padre, ma al tempo stesso gli rinfacciava di averlo abbandonato a sé stesso, di non essersi dedicato alla cura del proprio primogenito; a loro modo credo che si volessero bene, tuttavia gli incontri tra loro degeneravano molto spesso, e non era raro si arrivasse a dei veri e propri scontri verbali, nei quali l’Imperatore e l’erede al trono si insultavano apertamente.
Per provare a disciplinare il figlio, l’Imperatore nel 1883 gli assegnò il comando di un reggimento dell’esercito di stanza nei pressi di Frosinone e il grado di colonnello, minacciandolo di una severa punizione se non si fosse dedicato al servizio con l’impegno necessario.
Questa era la seconda cosa sgradevole del servizio presso il cesare Paolo: il doverlo seguire nei suoi spostamenti ovunque andasse, e quindi dover lasciare Roma per seguirlo in Ciociaria.
Mi mancava la mia libertà, anche perché temevo che lì non sarei riuscito a scrivere i miei poemi. Tuttavia, il principe Luciano III Messalla non ci mise molto a ideare una soluzione per liberare il cesare e noi altri da quell’esilio.
Assumemmo nello staff del cesare due ufficiali poveri, appena usciti dall’accademia militare, che facevano il lavoro al posto del cesare Paolo. Inoltre, pagavamo generose mance agli ufficiali e ai sottufficiali del reggimento, così quando l’Imperatore mandava gli ufficiali della Guardia Palatina a controllare se effettivamente il cesare Paolo svolgesse il suo lavoro, questi si sentivano rispondere “Era qui fino a un attimo fa, è uscito a cercare un terreno buono per fare delle esercitazioni” oppure “è uscito per seguire l’addestramento di un gruppo di reclute”.
L’Imperatore non aveva motivo per dubitare di questi resoconti, perché tutti i giorni leggeva i documenti firmati dal figlio durante la giornata, e vedeva come il cesare Paolo fosse impegnatissimo ad addestrare reclute, ordinare munizioni per i fucili – e addirittura scrivere al produttore suggerendo delle migliorie, punire soldati indisciplinati, dirigere le esercitazioni, ecc.
Però quei documenti non erano del cesare Paolo, ma dei due ufficiali che lavoravano al posto suo, che ogni sera andavano da lui per fargli firmare una pila di scartoffie.
Il cesare, infatti, aveva preso residenza in uno degli alberghi più belli e lussuosi della zona, pagando profumatamente per restare in incognito, e tutto quello che faceva come comandante di reggimento era firmare una pila di scartoffie ogni sera, ed essere presente ai pochi eventi pubblici dove doveva farsi vedere in uniforme alla guida del suo reggimento.
Si potrebbe pensare che il cesare si annoiasse a morte a stare lì, in mezzo alla campagna, senza poter tornare a Roma, ma in realtà il cesare Paolo imparò molto presto ad apprezzare la campagna e le sue bellezze.
Me ne resi conto una mattina, quando entrando nella sua camera per portargli la posta, lo sorpresi in compagnia di una ragazza. Aveva le cosce sode tipiche di svolge il lavoro nei campi, e un fisico molto robusto, con dei seni prosperosi; da questo e dalla biancheria che portava capii subito che era una contadina.
Non era la prima volta che la mattina lo trovavo con una donna, ma si era sempre trattato di donne dell’alta società romana, mai di contadine.
Il cesare Paolo quasi non fece caso a me, e si limitò a prendermi la posta; la ragazza, imbarazzatissima, corse a nascondersi.
Sul momento non diedi troppo peso all’episodio, poi però anche le mattine successive lo trovavo sempre con una donna nel letto, sempre diversa da quella del giorno prima, e sempre vestita poveramente.
Finché non iniziai a vedere lei. Si chiamava Chiara, ma tutti la chiamavano Cesarina, perché era nata il giorno del dodicesimo compleanno del cesare Paolo; lui aveva ventisette anni, lei quindici. La prima cosa che notai rispetto alle altre fu che, mentre le altre ragazze erano imbarazzate quando mi vedevano entrare per portare la posta, lei no. Lei non si nascondeva, e anche se la trovavo nuda insieme al cesare non si faceva problemi a farsi guardare. E, onestamente, facevo molta fatica a non guardarla.
Aveva capelli marroni con sfumature rosse, occhi verdi, e un fisico molto prosperoso, ma al tempo stesso rassodato e reso tonico dal lavoro nei campi; a guardarla non si sarebbe mai detto che aveva quindici anni.
Ogni mattina la trovavo sempre lì, a fianco del cesare Paolo, e rapidamente divenne una presenza fissa; cominciai addirittura a chiedermi se quella del cesare fosse solo attrazione erotica o qualcosa di più, e magari intendesse rendere Cesarina molto più di una semplice amante, una volta che lei fosse divenuta maggiorenne e lui Imperatore.
Poi però cominciai a notare dei lividi sul corpo di Cesarina. Inizialmente non ci feci caso, anche perché tra loro vedevo sempre molta tenerezza e molto affetto, poi però notai che quei lividi erano quasi sempre negli stessi punti, e iniziai a notare sul corpo di Cesarina anche graffi e bruciature di sigaretta.
Poi vidi dei lividi sul collo, chiaramente con la forma di dita, che Cesarina copriva con un fazzoletto. Tuttavia, sia il cesare Paolo che la stessa Cesarina mi rassicuravano quando esponevo le mie preoccupazioni, così non ci feci più caso.
* * *
Nella mia vita ho dimenticato molte cose, ma non dimenticherò mai quello che è successo il 17 novembre 1884; quel giorno è impresso a fuoco nella mia memoria, e continuerò a ricordarmelo finché vivrò.
La relazione tra il Cesare Paolo e Cesarina ormai andava avanti da quasi un anno, ed era passato un anno e mezzo da quando l’Imperatore Giovanni Pio I aveva mandato il Cesare in Ciociaria; la competenza e lo zelo mostrato dal Cesare nel comando del proprio reggimento avevano convinto l’Imperatore che Paolo poteva tornare a Roma. Di lì a poco, infatti, il Cesare avrebbe lasciato la Ciociaria per tornare nella capitale, dove suo padre gli avrebbe conferito un incarico di governo.
Quel giorno a Roma si teneva un trionfo in onore del principe Claudio VIII Silla, Proconsole generale tornato vincitore dall’Africa, dove aveva sconfitto la resistenza algerina e riconquistato Ceuta e Tangeri; l’Imperatore avrebbe voluto la presenza del figlio ed erede, per dare un segnale di unità dinastica e familiare, ma il Cesare Paolo aveva già deciso di dare buca, adducendo a impegni inderogabili che lo trattenevano in Ciociaria presso il reggimento.
Gli impegni inderogabili in questione erano il fatto che il Cesare Paolo non aveva intenzione di separarsi da Cesarina, e stava escogitando un modo per portarsela a Roma, senza che il padre venisse a sapere del suo amore. Nei giorni precedenti avevamo vagliato alcune ipotesi, ma non si era deciso nulla di concreto.
Quel 17 novembre come sempre mi ero alzato prima del Cesare, e nella mia camera mi ero messo a scremare la posta, mettendo da parte le lettere degli scocciatori; poi, ogni fine del mese, aprivo quelle lettere per accertarmi che non ci fossero soldi o assegni, e bruciavo il tutto dentro la stufa.
Terminato quel lavoro, presi la posta e passai all’ingresso dell’albergo dove presi una copia de "L’osservatore Imperiale" già preparata dal portiere, e andai nel corridoio dove si trovava la camera del Cesare, dove il cameriere con la colazione mi aspettava affinché gli dessi anche la posta e il giornale; non facevo mai entrare da solo il cameriere, lo facevo sempre aspettare finché non arrivavo io.
Entrato nella camera con la colazione, fui sorpreso nel trovare il Cesare già vestito e pronto per uscire; anche Cesarina – che di solito trovavo ancora nuda – era già pronta, e salutò il Cesare con un bacio prima di andare via.
Il Cesare mangiò in fretta la colazione, e non toccò né la posta né il giornale, che rimasero lì nella stanza; pensai che il Cesare Paolo ci avesse ripensato, e avesse deciso di andare a Roma per partecipare al trionfo del principe Silla, ma fu lo stesso Cesare a far decadere questa teoria, quando mi disse:
“Oggi mi sento molto zingaro. Ho voglia di uscire.”
“Per andare dove, Paolo? Hai in mente un posto dove andare?”
“No, nessun piano prestabilito. Oggi si improvvisa. Gli altri sono pronti?”
Gli altri in questione erano i principi Salvio, Messalla, Sallustio e Andrea Volpi.
“Andrea l’ho visto uscire per andare a prendere il tabacco, il principe Messalla ieri sera era con una donna che ancora non ho visto andare via, il principe Salvio l’ho visto nel salone mentre faceva colazione col principe Sallustio.”
“Beh, allora radunali perché tra un quarto d’ora si esce.”
Eseguii l’ordine, e quando Cesare scese nell’atrio i quattro erano tutti lì insieme a me; il principe Sallustio, che era quello che conosceva meglio il Cesare Paolo, disse:
“So cos’hai in mente, e se permetti avrei una mezza idea su cosa fare.”
Cosa proponi?”
“A tempo debito Paolo, fuori c’è una carrozza che ci aspetta.”
Il principe Sallustio nei suoi giri nella zona si era imbattuto in un paesino mezzo diroccato, di quattro case più una chiesetta, abitato da contadini e pecore; più pecore che contadini.
Pensò quindi che fosse una buona idea spaventare a morte gli abitanti del villaggio fingendosi impiegati della potente SONAFER (Società Nazionale Ferrovie); guidai io la carrozza, dopo circa un’ora arrivammo al villaggio, e dalla carrozza prendemmo vari strumenti che il principe Sallustio aveva preparato, nel caso avesse effettivamente attuato i suoi propositi.
Il Cesare Paolo prese un telemetro con cui si mise a valutare le distanze, il principe Sallustio e il principe Messalla si finsero rispettivamente un ingegnere e il suo assistente, mentre io, Andrea Volpi e il principe Salvio facevamo misurazioni con un metro a nastro, e ogni tanto con un gesso marchiavamo degli edifici a caso.
Subito quel movimento attirò l’attenzione degli abitanti del villaggio, e uno di loro, forse l’anziano del villaggio, venne a chiedere cosa stessimo facendo. Il principe Messalla rispose:
“Siamo della SONAFER, l’ingegnere qui presente è venuto a studiare il terreno su cui dovrà passare la nuova ferrovia Roma-Bari, e le case che stiamo marcando dovranno essere demolite per far passare i binari.”
Sentita quella notizia, immediatamente intorno a noi si formò una piccola folla di gente, molti impauriti e preoccupati, altri arrabbiati. Quando vedemmo dei contadini tirare fuori delle doppiette, capimmo fosse il caso di cambiare aria; in fretta caricammo gli strumenti sulla carrozza e ce ne andammo di corsa mentre dietro di noi sentivamo degli spari.
Poco più avanti trovammo una sorgente d’acqua, e ci fermammo per abbeverarci. Lì il principe Salvio disse:
“Uno dei cavalli ha un nuovo buco per cagare.”
E indicò uno dei cavalli che tiravano la carrozza, che aveva una ferita ad una natica. Niente di serio per fortuna, la ferita era superficiale; ci mettemmo a ridere, la lavammo e proseguimmo il viaggio.
Stavolta eravamo davvero senza meta e senza idee, finché il Cesare Paolo non sentì il bisogno di scendere dalla carrozza a pisciare.
Ci fermammo nei pressi di quella che ci sembrò un'edicola votiva; tuttavia, nonostante ci fossero fiori e piccole candele, non c’era nessuna traccia di immagini mariane o devozionali. C’era solo una scritta, resa però illeggibile dalla muffa.
Il Cesare pensò di mettersi a pisciare davanti a quell’edicola, e intanto che pisciava arrivò un omino anziano, vestito dignitosamente ma coi colori del lutto, e che aveva con sé un mazzetto di fiori.
L’omino guardava il Cesare con un misto di perplessità e stupore, e il Cesare Paolo, resosi conto dello sguardo dell’anziano, gli chiese brutalmente:
“Che fai, guardi, zozzone?”
“No, è che non potete mettervi lì a pisciare.”
“E perché? Non si può più pisciare?”
“Ma piscia dove ti pare, però non davanti alla tomba di mia figlia.”
“Beh, allora curala meglio questa tomba, che non si capisce che qua c’è sepolto qualcuno.”
Il Cesare, che intanto aveva finito di urinare, si rimise a posto i pantaloni e risalì in carrozza; l’omino lo lasciammo lì, davanti all’edicola, a osservare impietrito la chiazza lasciata dalla minzione del Cesare Paolo.
Riprendemmo il viaggio, e ci mettemmo a parlare di quello che era successo a Roma negli ultimi mesi, e specialmente dei fatti del suo belmondo. Raccontai di quando, due settimane prima, essendomi separato dal Cesare per alcuni giorni, avessi preso parte ad un’asta benefica organizzata dal principe Leone IV Porcio in favore dei poveri della capitale.
“E cos'ha di speciale quell’asta?” chiese il Cesare Paolo.
“Beh, la cosa speciale erano i premi in palio. Un esempio: 50 solidi d’oro per poter bere champagne dalla stessa coppa in cui aveva bevuto la principessa Teodora Nevia, lasciando il bordo macchiato di rossetto.”
“Le cose si fanno interessanti!” commentò il principe Messalla pensando alla principessa Nevia.
“Oppure 200 solidi d’oro per un sigaro toccato dalle cosce della principessa Elena Licinia.”
“Beh, mi sembra un prezzo ragionevole.” disse ridendo il Cesare Paolo.
“Ma c’è di più: il principe Cornelio XIII Scipioni ha offerto 500 solidi d’oro affinché il sigaro fosse toccato dalle labbra della vagina.”
“Che spreco…” disse Volpi.
La nostra conversazione si interruppe lì, perché la nostra attenzione fu attirata da un gruppo di donne che bloccavano la strada. Erano operaie di una vicina fabbrica tessile, che erano in sciopero contro la proprietà della loro fabbrica e per protesta stavano picchettando la strada.
Dovetti fermare la carrozza perché non potevamo passare, e una delle operaie venne da me a chiedermi se volessi comprare un giornale socialista; per quieto vivere accettai, e iniziai a fare inversione di marcia con la carrozza. Mentre ero impegnato in questa operazione, gli altri erano scesi e a bordo della strada osservavano le operaie, ogni tanto lasciandosi scappare commenti sull’aspetto delle ragazze.
Una di queste dovette sentire uno dei commenti, e ci urlò contro “Porci!”, tirando all’indirizzo del Cesare Paolo quello che a prima vista credetti essere un sasso, ma in realtà era un uovo marcio. Anche le altre si unirono alla loro compagna, e dovemmo fuggire in fretta e furia.
Rimontati in carrozza, lo sguardo di Andrea Volpi capitò sul giornale socialista che mi aveva dato l’operaia, e sul suo titolo “Contro la guerra imperialista!” Volpi lo prese e iniziò a leggere ad alta voce l’articolo:
“La guerra in Algeria e in Marocco deve essere condannata con la massima forza dal movimento operaio etc. etc. come disse Carlo Marx nel libro tal dei tali etc. etc. trattandosi dell’ennesimo esempio di guerra imperialista tra morti di fame contro altri morti di fame etc. etc. il nostro governo si rifiuta di fornire cure mediche alle migliaia di persone che ogni anno muoiono di malaria, morbillo e pellagra, ma trova i soldi per una guerra coloniale e così via.
Ci vorrebbe il bastone per canaglie simili. Anche nelle mie fabbriche avevo questi problemi coi rossi, poi ho assunto delle squadre di mazzieri per rimetterli al loro posto; da lì in poi non ho mai più visto un sindacalista.”
“Anche voi industriali dovete essere rimessi a posto” disse ridendo il Cesare Paolo.
Ormai era sera, e con la carrozza tornammo verso l’albergo. Arrivammo che il sole era già tramontato, e siccome per tutto il giorno non avevo mangiato nulla, andai verso il salone nella speranza che la cucina fosse ancora aperta, e di poter prendere qualcosa da mangiare. Gli altri mi imitarono, a parte il Cesare Paolo.
Nell’atrio aveva trovato Cesarina ad aspettarlo, ci aveva detto di non avere fame ed era salito in camera insieme a lei.
Dopo un po’, mentre mangiavamo, sentimmo un urlo provenire dalle camere. Ebbi subito una sensazione orrenda, e corsi su di sopra, fino alla camera del Cesare.
Entrai e trovai il Cesare sconvolto a fissare Cesarina; lei era nuda, intorno al collo aveva un laccio rosso. Mi avvicinai e vidi che non respirava, e che il polso non aveva battito. Era morta.
Nel frattempo, erano saliti anche gli altri, e fu il principe Messalla a prendere in mano la situazione; ci disse di rivestirla, e subito lo aiutammo a rimettere i vestiti al cadavere. Poi prendemmo il corpo, lo portammo fuori dalla stanza del Cesare, assicurandoci che nessuno ci vedesse, e lo portammo fino ad un punto dove c’era una finestra. Aprimmo la finestra, e buttammo giù il cadavere.
“Ora non è più omicidio, ma suicidio.” disse il principe Messalla.
Il Cesare Paolo era ancora sconvolto, e gli altri pensarono fosse il caso di portarlo a Roma e fargli cambiare aria per qualche giorno.
Io rimasi lì, ad aspettare che arrivasse la polizia e i genitori della povera Cesarina. Non sospettavano nulla della relazione della figlia col Cesare, e per loro quel suicidio era inspiegabile; rimasi con loro e gli offrii anche del denaro, che loro però rifiutarono. La loro unica preoccupazione era dare un degno funerale alla figlia.
Siccome ufficialmente quella morte era un suicidio, la Chiesa non poteva dare un funerale cristiano a Cesarina, ma i due coniugi sapevano già a chi chiedere aiuto.
Nell’Impero ci sono circa ventimila famiglie nobili. Di queste, duecento posseggono fortune multimiliardarie, e duemila hanno rendite dignitose; le altre diciassettemila e ottocento sono povere in canna, e campano con rendite più misere del salario di un operaio.
Una di queste famiglie erano i conti Sanseverini, che avevano il loro palazzo a poca distanza dall’albergo dove era morta Cesarina; il padre della sciagurata si presentò di fronte al palazzo col cadavere della figlia e due polli, chiedendo al conte la cortesia di allestire un funerale per la figlia, e offrendo i due polli come ringraziamento.
Il conte era magrissimo, persino più magro di molti contadini che ho visto, e la sua testa mi sembrò un teschio con attaccati dei capelli bianchi; il conte accettò di fare quel favore al padre di Cesarina, e dopo essersi scusato per il fatto che la servitù era già stata congedata per la sera (in realtà i conti Sanseverini non potevano permettersi di pagare nemmeno un cameriere), chiamò la contessa e la figlia.
Le due donne immediatamente si misero al lavoro sul cadavere, mentre il conte portava i polli in cucina; la contessa vestì il cadavere con uno dei propri abiti da sera (l’unico abito buono che possedesse), mentre la figlia truccava il cadavere per nascondere le ferite e i lividi.
Sentii il conte dire al padre di Cesarina che il funerale sarebbe stato celebrato il giorno successivo, dal cappellano della famiglia, e che la carrozza di famiglia sarebbe stata usata come carro funebre, poi uscii.
Presi una carrozza, diedi una buona mancia al cocchiere per il servizio notturno, e andai anch’io a Roma. Arrivai a palazzo Silio che albeggiava, e fui subito raggiunto dal principe Sallustio, che mi chiese:
“Ma non sai cos’è successo?”
“No, sono stato a Frosinone fino a poche ore fa. Cos’è successo?”
Mi disse che, quando loro e il Cesare erano tornati a palazzo, trovarono dentro gli ufficiali della Guardia Palatina; pensarono che l’Imperatore avesse scoperto tutti i loro giochetti e li avesse mandati ad arrestarli, ma in realtà quando videro il Cesare si inginocchiarono di fronte a lui e gli giurarono fedeltà.
Infatti, durante il trionfo di quel giorno, l’Imperatore Giovanni Pio I era stato assassinato da un anarchico, tale Giovanni Passannante, subito arrestato e imprigionato in attesa della condanna a morte.
Il Cesare Paolo non era più l’erede al trono, era diventato Sua Maestà Imperiale Paolo VII, Imperatore dei Romani.
Rimasi al servizio dell’Imperatore per cinque anni, fino alla mia caduta in disgrazia; come in tutte le cadute in disgrazia nella corte imperiale, tutto avvenne senza una ragione precisa.
Uno dei miei amici dentro la polizia mi avvertì che mi stavano venendo ad arrestare, così riuscii a prendere con me una borsa piena d’oro e a fuggire.
Persi tutto: il mio palazzo, le mie ville, le mie fabbriche e i miei terreni, i miei cavalli, le mie opere d’arte; tutto quanto fu sequestrato e venduto all’asta.
Dovetti cercare rifugio in un paese di barbari: gli Stati Uniti d’America.
Un tempo avevo tutto, e se volevo qualcosa me lo prendevo. Ora sono di nuovo una nullità che deve fare la coda per avere da mangiare, ed è così che dovrò vivere il resto dei miei giorni.

L'Imperatore dei Romani Giovanni Pio I (creata con openart.ai)
Nota:
Questo racconto nasce dalla lettura de "Il
piacere" di D'Annunzio, dove il Vate descrive la decadente e dissoluta nobiltà
della Roma umbertina, attraverso le vicende amorose di Andrea Sperelli.
Leggendo quel romanzo mi sono chiesto:
"E se questa nobiltà fosse la classe dirigente di un Impero Romano sopravvissuto
fino al XIX secolo?"
E quella è stata l'idea da cui è nato questo racconto.
Due parole su questa TL: il PoD principale è quello che avevo teorizzato qualche
tempo fa per una sopravvivenza dell'Impero Romano limitata all'Italia, ossia la
vittoria di Antemio nella guerra civile contro Ricimero.
Antemio quindi instaura una sua dinastia che governa l'Italia tra V e VI secolo,
in luogo di Odoacre e sovrani ostrogoti; la dinastia antemiana viene poi deposta
e sostituita da una nuova dinastia, sempre romana. Questa nuova dinastia non
viene però riconosciuta da Costantinopoli, e l'inimicizia tra le due corti
imperiali fa sì che lo scisma tricapitolino causi - con cinque secoli di
anticipo - una rottura tra cristianità greca e cristianità latina; il papa di
Roma tuttavia riconosce il II Concilio di Costantinopoli, e sarà costretto
dall'Imperatore d'occidente a lasciare Roma per andare in esilio a
Costantinopoli, dove i successivi papi continueranno a risiedere in esilio. Lo
scisma causa un conflitto tra i due imperi, con Giustiniano che cerca di
reinsediare il papa con la forza, tuttavia la guerra si conclude in un nulla di
fatto e ha l'unico effetto di stremare entrambi gli Imperi (soprattutto quello
d'Oriente).
Nei territori dell'Impero d'Occidente l'Imperatore favorisce il Patriarca di
Aquileia come capo della Chiesa, e per evidenziare questo ruolo la diocesi di
Roma viene completamente soppressa, e la sua giurisdizione ripartita tra le
diocesi suburbicarie.
Gli arabi mettono alle strette l'Impero d'Oriente, ma quello d'Occidente riesce
a tenere, anche se la Tripolitania sarà persa e riconquistata più volte, ma
intanto l'Impero deve affrontare la pressione dei Longobardi, degli Ungari e
degli Slavi, che premono per entrare nel bacino del Danubio, che nei secoli
VII-X sarà una frontiera caldissima per l'Impero, con numerose incursioni
barbariche che penetreranno fino in Italia.
Nell'XI secolo Cartagine viene brevemente conquistata dagli arabi, alleatisi coi
berberi, ma sarà rapidamente riconquistata, tuttavia questa conquista apre la
strada all'espansione araba nel Maghreb, e - complice un periodo di instabilità
e guerra civile - i possedimenti africani dell'Impero si ridurranno a Cartagine
e alla costa tunisina, con l'odierna Algeria che sarà completamente persa in
favore degli arabi, così come Ceuta e Tangeri.
Nonostante queste perdite, tra XI e XIII secolo l'Impero d'Occidente vive una
nuova età dell'oro, durante la quale una serie di vittorie contro Longobardi,
Croati e Ungheresi permettono all'Impero di riportare la frontiera al Danubio, e
di estendere l'influenza romana anche sugli altri regni cristiani (Francia e
Spagna visigota); in questo periodo c'è anche un tentativo di una spedizione in
Terrasanta per conquistare Gerusalemme, che avrà un iniziale successo per poi
fallire entro poche decadi (non ci sono invece le crociate come ci sono state in
HL, quindi non c'è il sacco di Costantinopoli del 1204).
Il XV e il XVI secolo rappresentano invece un periodo di crisi per l'Impero,
scosso da controversie religiose, instabilità dinastica e crisi economica, il
tutto culminato nell'Anarchia dei trent'anni, uno dei punti più bassi della
storia imperiale, durante il quale nel 1527 un esercito francese sceso in Italia
ad appoggiare uno dei molti pretendenti al trono, poté saccheggiare impunemente
la città di Roma.
L'Impero, anche a causa di questi fallimenti, perderà la finestra di opportunità
per colonizzare massicciamente le Americhe, che saranno invece dominate da
spagnoli, inglesi e francesi.
L'Impero riesce a riprendersi nel XVII secolo grazie alla dinastia dalmata, che
farà delle riforme che permetteranno a Roma di tornare competitiva con le altre
potenze, tuttavia l'estinzione della suddetta dinastia alla fine del XVIII
secolo e una serie di rovesci militari contro la Francia rivoluzionaria (che
riesce addirittura ad occupare momentaneamente la pianura padana) causano un
nuovo periodo di instabilità, che ha termine nel 1801, con l'ascesa al trono di
un generale corso di umili origini, che ribalta le sorti della guerra contro la
Francia, riportando Marsiglia e l'intera Provenza sotto controllo imperiale. Con
la dinastia corsa ha inizio un nuovo ciclo espansivo, sia da un punto vista
militare che economico, ma è un epoca caratterizzata anche da molte
contraddizioni e molte disuguaglianze, che prima o poi potrebbero esplodere...
Più che Dumas e Hugo, credo che nel mio racconto ci sia Curzio Malaparte, spero che lo
abbiate apprezzato.
.
In seguito, Dario ha scritto altri racconti, ambientati nello stesso universo:
Lettera ai Sovietici
Ai compagni dell’Internazionale Comunista.
Sono stato mandato in Italia ormai nel lontano 1921, da Lenin in persona, con il compito di riferire sullo stato del movimento operaio all’interno dell’Impero Romano, e di essere il tramite tra l’Unione Sovietica e il suo partito comunista e l’allora neonato Partito Comunista dei Romani. Da oltre quindici anni non metto più piede in Unione Sovietica, sia per gli impegni che mi sono derivati da questa responsabilità, sia per le frequenti incarcerazioni da parte del governo imperiale.
Mi sono trovato a essere molto più di un semplice ambasciatore del partito bolscevico: essendo un italiano che si è formato politicamente a Mosca, all’interno del Partito bolscevico e dell’Internazionale Comunista, ero uno dei dirigenti più esperti sia nella teoria marxista-leninista che nella prassi rivoluzionaria del partito bolscevico. Per questo, nell’arco di pochi anni, da semplice emissario di Mosca sono diventato prima consigliere della Segreteria, poi dirigente di rilievo, e infine Segretario generale del Partito.
In questo incarico sono sempre stato leale a Mosca, e ho sempre dato il massimo per seguire le direttive dell’Internazionale comunista; tuttavia, dopo quasi vent’anni spesi in Italia a fare lotta politica e attività organizzativa, a coordinare scioperi e occupazioni di fabbrica, e dopo otto anni spesi nelle carceri imperiali sotto il regno dell’imperatore Giovanni Battista Giraldini, devo dire qualcosa che potrebbe causare tensione tra Mosca e i comunisti italiani, ossia che i dirigenti dell’Internazionale Comunista mancano delle conoscenze necessarie a capire la situazione particolare dell’Impero Romano, e le ragioni per cui una rivoluzione proletaria in Italia è improbabile, se non totalmente impossibile.
L’Impero Romano è un paese estremamente arretrato, un relitto del Medioevo che per ragioni a noi incomprensibili è ancora in piedi. Un paese nel quale un vero proletariato industriale esiste solo nel Lazio – escludendo però Roma – in Liguria, nel Milanese e nel Veneto; un paese in cui la maggioranza della popolazione è composta non da operai o braccianti, ma da piccoli proprietari terrieri veterani dell’esercito. Un paese in cui ci sono disuguaglianze economiche enormi, e non ci si fa troppi problemi a deporre e uccidere brutalmente un imperatore se incapace, ma in cui il sistema imperiale gode di un consenso enorme presso il popolo, perché nel sistema il popolo vede una garanzia di benessere.
Eppure, nonostante tutte queste contraddizioni, proprio l’arretratezza dell’Impero è ciò che lo rende impermeabile ad una rivoluzione proletaria.
Innanzitutto, nell’Impero è molto forte la devozione religiosa verso la Chiesa Cattolica Aquileiana: quasi tutti i romani sono credenti, gli atei – o anche solo gli agnostici – sono pochissimi e oggetto di scherno da parte della popolazione. I membri del clero godono di enorme considerazione presso le masse popolari, e nelle città è frequente imbattersi nelle clausure, celle abitate da individui che rinunciano al contatto col mondo esterno per avvicinarsi a Dio, tenuti in vita dalla carità delle persone che abitano vicino a loro.
Nessuno mette in discussione la Chiesa, e nemmeno Leone IV Bonaparte, l’imperatore che lanciato le riforme più audaci, è riuscito a scalfire il potere della Chiesa.
Tuttavia, per il popolo ciò non è affatto un male: la Chiese riceve donazioni da individui di ogni ceto, e queste donazioni sono usate per tenere operativi ricoveri per i senzatetto, mense comuni, ospedali.
L’istruzione oltre l’educazione elementare non è garantita dallo Stato, perciò per le famiglie di modeste condizioni economiche l’unica opzione per far studiare i figli, senza indebitarsi o dilapidare il proprio modesto patrimonio, sono i seminari ecclesiastici, che oltretutto aprono la possibilità di una carriera all’interno della Chiesa.
Inoltre, l’Impero Romano è un paese fortemente corporativo, ossia ci sono categorie sociali che sono tenute in una considerazione più alta da parte dello Stato. Dall’epoca di Leone IV i veterani, al termine del loro servizio nell’esercito, ricevono dallo stato un lotto di terra coltivabile di cui diventano proprietari; questi lotti sono ricavati dal demanio pubblico, ma più spesso sono frutto della divisione delle proprietà espropriate ai nobili caduti in disgrazia presso l’Imperatore.
Gli operai, tramite i sindacati, hanno passato decenni a richiedere miglioramenti nelle loro condizion sia salariali che contrattuali. Molto astutamente, l’Imperatore Marciano VI Giraldini accolse gran parte delle richieste degli operai, creando anche tavoli di contrattazione collettiva tra sindacati e industriali mediati dallo Stato; facendo ciò, l’Imperatore puntava a spaccare il movimento proletario e comunista, avvicinando a sé i sindacati e integrandoli nel sistema corporativo, e allontanando gli operai da Mosca e dalle influenze comuniste.
Noi come PCdR ci siamo opposti a questi tentativi, ma i sindacati hanno ceduto alle sirene imperiali, e ora la Confederazione Generale del Lavoro, il principale sindacato dell’Impero, che fino a vent’anni fa era l’organo attraverso cui organizzavamo la lotta proletaria, è diventato una colonna del sistema Imperiale.
Ho visto troppi compagni del Partito arrestati su segnalazione dei sindacalisti della CGdL; perciò, verso il sindacato ho solo fiele e parole al veleno. Mi dispiace, perché molti sindacalisti sono stati compagni di lotta per molti anni, ma non posso dimenticare come quegli stessi volti poi siano passati a urlare "Viva l’Imperatore!" negli anniversari dell’ascesa al trono dell’imperatore Marciano.
Forse è solo la stanchezza a parlare, e a rendermi così pessimista verso le prospettive del movimento operaio nell’Impero; avevamo grandi speranze nel 1935, quando riuscimmo a deporre l’imperatore Giovanni Battista assieme ai militari. Tuttavia, questi ultimi salvarono l’istituzione imperiale, restaurando il deposto Marciano VI, e la CGdL organizzò una grande manifestazione con cui celebrò il ritorno di Marciano, l’imperatore buono che ascoltava i sindacati e pensava agli operai.
Una rivoluzione deve avvenire sia dal basso che dall’alto; è così per tutte le rivoluzioni della Storia. Se il popolo contesta la classe dirigente, hai una rivolta; se la classe dirigente vuole sostituire il regime, hai un colpo di Stato. Una rivoluzione avviene solo quando contro il regime si mobilitano contemporaneamente il popolo e pezzi del ceto dirigente, con un movimento che è sia dal basso verso l’alto che dall’alto verso il basso. Neanche la Rivoluzione russa fa eccezione a questa regola: la rivoluzione del 1905 fu repressa perché avvenne quando il ceto dirigente russo non metteva in discussione l’istituto imperiale; quando lo zar fu deposto dai suoi stessi ufficiali e la monarchia rimpiazzata dal governo provvisorio, segnale di come lo stesso ceto dirigente esigesse un cambiamento, si aprì la finestra di opportunità che permise a Lenin di guidare la Rivoluzione di Ottobre.
Ebbene, in questo momento nell'Impero non c’è alcuno spiraglio per una rivoluzione; il popolo sostiene l’Imperatore e l’istituto imperiale, l’esercito può mettere in discussione un imperatore (e a volte un’intera dinastia) ma mai la monarchia in sé, gli industriali non sono abbastanza potenti da costituire un pericolo per l’imperatore, e alla nobiltà è concesso arricchirsi finché rimane leale alla corona. Tutti, in un modo o nell’altro, beneficiano dal sistema imperiale, per questo nessuno lo mette in discussione.
Noi comunisti siamo l’unica vera opposizione al regime imperiale. Nonostante le incarcerazioni di dirigenti e militanti, il Partito resta comunque molto presente nelle città, ma purtroppo nelle campagne e nei villaggi rurali – dove abita la grande maggioranza dei sudditi dell’imperatore – praticamente non esistiamo. È difficile spiegare ai veterani, che hanno avuto dall’Imperatore il pezzo di terra che coltivano, le ragioni della rivoluzione proletaria.
Ho sentito che a Mosca molti dirigenti dell’Internazionale si stupiscono di come il PCdR non sia stato formalmente messo al bando, e io stesso sia libero di muovermi e pubblicare articoli su giornali. Ma mettere al bando il partito semplicemente non è necessario, l’Imperatore può semplicemente ignorarci.
Spero che questa mia lettera chiarisca le ragioni del fallimento della lotta operaia nell’Impero Romano.
Saluti, compagni. W la Rivoluzione! W l'Internazionale!
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L'intervista
Sono arrivato in Romania nel 1979. All’epoca ero già famoso come giornalista e Martin Scorsese, all’epoca regista emergente, mi aveva chiesto – ovviamente dietro compenso economico – di andare in Italia a studiare la Roman Connection, ossia la rete internazionale del traffico dell’eroina che partiva dalle fabbriche clandestine in Grecia, passava per Taranto con la complicità di ufficiali corrotti della Marina Romana, giungeva ai clan mafiosi della Sicilia, della Campania e della Calabria, e arrivava negli Stati Uniti d’America, a New York.
Martin Scorsese voleva fare un film incentrato su questo traffico, così mi inviò in Romania a raccogliere informazioni e dati che poi sarebbero confluiti nella sceneggiatura del film. Quel progetto, dopo varie modifiche, sarebbe diventato Goodfellas, uscito nelle sale americane nel 1990.
Tuttavia, questa non è la storia di Goodfellas e della sua scrittura. Questa è la storia del mio viaggio in Italia, e della scoperta di uno dei fatti più raccapriccianti nella storia della Romania.
Come dicevo, sono arrivato in Italia nel 1979, a settembre. Quando uscii dall’aeroporto pioveva a dirotto, e sul taxi che mi doveva portare all’albergo trasmettevano una canzone che recitava “Chist’è ‘o paese d’ ‘o sole!”; passai le prime due giornate a Roma in albergo, non solo per organizzare le interviste che dovevo fare, ma anche perché speravo di poter vedere le meraviglie della capitale imperiale. Il terzo giorno, mentre stavo uscendo dall’albergo, trovai nell’albergo due ufficiali della guardia imperiale che, con mia sorpresa, mi stavano aspettando. Mi chiesero se fossi io il giornalista americano vincitore di un premio Pulitzer che collaborava con Martin Scorsese; gli risposi di sì e mi dissero che l’imperatore Paolo VIII voleva conoscermi e mi stava aspettando al Quirinale, nel Gran Palazzo, dove quel giorno avremmo pranzato insieme.
Non mi aspettavo che fossi così famoso anche in Romania, poi però mi ricordai che l’imperatore Paolo VIII era notoriamente appassionato di cinema, tanto che si diceva che i film prodotti dal Ministero per l’Educazione e la Propaganda Imperiale fossero diretti da lui usando pseudonimi. Probabilmente – pensai – l’imperatore era rimasto impressionato da Taxi Driver, e quando aveva sentito che lavoravo con Scorsese si era incuriosito e aveva voluto conoscermi; così, durante il tragitto dall’albergo al palazzo, mi preparai a rispondere a domande su Scorsese e sul suo cinema.
Arrivai al Gran Palazzo che era passato mezzogiorno, e un cameriere in livrea mi accompagnò dall’ingresso alla sala dove l’Imperatore mi attendeva.
Mi aspettavo una sala gigantesca con un tavolo enorme, invece era una saletta abbastanza intima, con un tavolo che per quattro persone sarebbe stato piccolo; l’imperatore era già seduto e mi stava aspettando per iniziare a mangiare. Quando mi vide mi venne incontro per stringermi la mano, e mi salutò con grande cordialità. Non ero a disagio, anzi: le gigantografie e i ritratti della propaganda che ovunque tappezzavano i muri di Roma, mi avevano abituato all’Imperatore e alla sua fisionomia; per cui non mi sembrava di essere assieme ad uno degli uomini più potenti del pianeta, ma di trovarmi assieme ad un vecchio amico.
La conversazione tra noi partì praticamente subito, e durò ben oltre la durata reale del pranzo; come previsto, la conversazione partì dal cinema; tuttavia, l’imperatore parlò soprattutto di come lui, durante il suo regno, avesse creato dal nulla un’industria cinematografica capace di sfidare Hollywood. Sembrava di parlare con Samuel Goldwyn, e non con un imperatore romano.
Ma del resto, l’imperatore Paolo era un intellettuale rinascimentale. Poteva parlare di cinema come un produttore di Hollywood, di Storia romana come un docente universitario, della marina e delle sue navi come un ingegnere navale, di religione come un teologo, e di politica come un sociologo.
Non era uno stupido, l’imperatore: se pensate che il cinema fosse per lui un gioco sbagliereste di grosso. L’imperatore si rendeva conto che il cinema, come anche la televisione, era il veicolo ideale per far passare la propria agenda politica, e si rendeva conto che, se l’Impero non fosse stato in grado di competere col cinema americano, avrebbe perso la più importante delle battaglie. Quella culturale.
A un certo punto della conversazione, quando il pranzo era già finito, l’imperatore disse: “So qual è il vero motivo della sua visita in Romania. L’incarico di Scorsese le ha dato un pretesto, ma lei ha una ragione personale per trovarsi nel mio impero. Suo padre.”
Credevo che l’aver cambiato cognome ottenuta la cittadinanza americana mi avrebbe evitato che qualcuno riconoscesse in me il figlio di mio padre, ma evidentemente mi sbagliavo.
Mio padre, il conte Anastasio Sampaoli, era stato diplomatico e ministro sotto numerosi imperatori, ed era sparito nel nulla durante il regno dell’imperatore Giovanni Battista Giraldini, lo zio dell’imperatore Paolo.
Non c’era stato un processo, e a me e mia madre non risultava fosse stato detenuto in carcere. Semplicemente un giorno era sparito nel nulla, e né io né mia madre avevamo mai più avuto sue notizie; non era nemmeno l’unico caso, molti altri ministri e funzionari erano spariti nel nulla durante il regno di Giovanni Battista.
Mio padre, che forse aveva intuito la fine che stava per fare, pochi mesi prima della sua scomparsa aveva spedito me, mia madre e i miei fratelli negli Stati Uniti, dove siamo cresciuti. Poi, dopo qualche settimana dal nostro arrivo, smettemmo di ricevere sue lettere, e gli amici rimasti in Romania ci confermarono che anche loro non avevano più sue notizie.
L’imperatore, dopo una pausa di silenzio, riprese a parlare e disse: “Lei probabilmente immagina qual è stata la fine di suo padre, il conte Anastasio, e devo informarla che i suoi timori purtroppo sono fondati. Suo padre è stato arrestato con l’accusa di tradimento, detenuto per tre anni nel campo di lavoro di Atella, e poi giustiziato. Non so dirle se sia stato seppellito, ma visti gli usi dell’epoca ne dubito.”
“Cosa intende dire con usi dell’epoca?”
“Il regno di mio zio è stato un periodo diciamo… complicato. Forse lei non è a conoscenza, avendo vissuto fuori dalla Romania, ma in quel periodo nessuno era al sicuro e molte persone sono state trasformate in fertilizzante per piante. Anch’io ho rischiato la vita in quel periodo.”
“Anche lei? Un principe di sangue reale?”
“Gliel’ho detto, nessuno era al sicuro. Il potere di mio zio era assoluto, e anche la sua paranoia era assoluta; tutti i giorni mio zio sottoponeva me e mio padre ad un rituale che chiamava ‘la mezz’ora’.”
“E in cosa consisteva?”
“Beh, in pratica faceva entrare me e mio padre nel suo studio, un ambiente gigantesco fatto apposta per intimorire, dove appesi al soffitto c’erano dei lampadari di cristallo talmente enormi che, se uno di questi si fosse staccato e qualcuno si fosse trovato sotto di esso, sarebbe finito spiaccicato.
In questo ambiente c’erano lui e tutta la sua corte di adulatori ed esecutori; la mezz’ora iniziava effettivamente quando mio zio poneva al suo segretario la domanda ‘Cosa si dice oggi nelle strade?’ e il segretario gli rispondeva “Il popolo è insoddisfatto del governo di sua maestà imperiale, e vorrebbe il ritorno sul trono dell’imperatore Marciano”. Dopo questo scambio rituale iniziava la mezz’ora, e mio zio si alzava in piedi e di fronte a tutta la corte faceva un elenco di tutte le malefatte compiute da mio padre durante il suo regno; omicidi politici, tangenti, accordi diplomatici svantaggiosi per l’impero, appalti truccati, sconfitte militari, nulla veniva risparmiato, vero o falso che fosse. Poi ci congedava sempre con la stessa frase: ‘Io vi compatisco per la fine che vi farò fare. Ora andate, ma ricordate che domani questa fine potrebbe arrivare.’
“Tutti i giorni era così?”
“Ogni singolo giorno sottoponeva me e mio padre a quel rituale. Sapeva che mio padre era troppo popolare per poterlo uccidere impunemente, così lo umiliava ogni giorno con la mezz’ora. Poi, quando compii sedici anni, fui allontanato dalla corte e mandato nel campo di lavoro di Atella, sotto falso nome, cosicché non ricevessi trattamenti di favore. Avevo paura che mio padre non mi avrebbe mai più rivisto, né vivo né morto.
Rimasi ad Atella finché mio zio fu deposto e mio padre restaurato sul trono.”
“Atella? Ma non è dove c’era anche mio padre?”
“Infatti, io ad Atella ho incontrato tuo padre, dormivamo anche nella stessa baracca. Ricordo benissimo il giorno in cui arrivò al campo, perché mio zio aveva predisposto una cerimonia ‘di benvenuto’, per umiliarlo.”
“Addirittura?”
“Sì, mio zio era un sadico che traeva piacere dall’umiliare il prossimo, e spesso si recava ad Atella per umiliare i prigionieri politici. Secondo alcune voci non faceva solo quello…”
“E cosa consistette la ‘cerimonia’ con cui umiliò mio padre?”
“Io vidi tutto dalla finestra della mia baracca, assieme agli altri prigionieri. Quando arrivò il treno su cui aveva viaggiato tuo padre, mio zio lo separò dal resto dei prigionieri, che furono messi in fila nel piazzale del campo a fare da pubblico. Mio zio nel piazzale aveva fatto preparare un palco, attorno a cui erano disposte le guardie del campo, e alcuni membri della sua scorta personale. Ora che ci ripenso, mi rendo conto che mio zio quel giorno aveva la stessa faccia gelida, e al tempo stesso piena di disprezzo, che aveva Klaus Kinski in ‘Aguirre, furore di Dio’.
Tornando a noi, tuo padre fu portato nel piazzale, di fronte a mio zio. Tuo padre era ancora vestito in borghese, così mio zio ordinò che gli fossero strappati tutti i vestiti, e tuo padre rimase nudo, senza neanche le mutande, solo con un paio di occhiali. Vidi mio zio avvicinarsi a tuo padre, togliergli gli occhiali, buttarli a terra e schiacciarli coi suoi stivali, e poi sputare in faccia a tuo padre. Fecero venire il barbiere del campo, che rasò tuo padre a zero, e poi gli misero in mano la divisa a righe del campo e due scarpacce di legno.
Tuo padre non fu l’unico a essere umiliato quel giorno, dopo di lui fu la volta di un'altra mezza dozzina di ex ministri e industriali. Come ho detto prima, mio zio si divertiva a umiliare il prossimo, e circolano molte leggende secondo cui nelle sue visite nei campi non faceva solo quello.”
“A questo punto glielo devo chiedere: cosa dicono queste leggende?”
“Mi sorprende che lei non sappia davvero nulla, evidentemente agli americani queste storie non piacciono; secondo le leggende, mio zio nei campi non solo umiliava i prigionieri, e non solo partecipava direttamente alle torture sui prigionieri – che ad Atella si facevano eccome, e non solo per estorcere confessioni – ma teneva banchetti a base di carne umana dei prigionieri del campo, a cui partecipavano membri di un culto segreto di cui era membro.”
“E secondo lei, queste leggende sono vere?”
“Guardi, che io sappia mio zio non era membro di nessun culto segreto. Però è vero che lo zio era membro di alcune organizzazioni… strane, che negli anni del suo regno hanno avuto una forte influenza sul governo.”
“E quali sarebbero queste organizzazioni?”
“La principale di cui sono a conoscenza era la Fratellanza degli Ottimi Perfetti, che, come ho detto, era… strana. L’ordine venerava una versione idealizzata dell’Impero Romano, nella fattispecie l’Impero dell’epoca augustea, ritenendo che da lì in poi sia iniziata una decadenza irreversibile che poteva essere arrestata solo restaurando l’Impero di Augusto. Lo zio, influenzato da quest’ordine, riteneva di essere la reincarnazione di Germanico, il vendicatore di Teutoburgo, e di essere stato mandato nel mondo per arrestare il declino dell’Impero e riportarlo alla sua antica gloria.”
“Ah.”
“Se già questo le sembra strano, si prepari al resto. Lo zio prese alla lettera il compito di restaurare l’Impero di Augusto; abolì il sistema delle prefetture creato da Leone IV e reintrodusse il sistema amministrativo dell’epoca augustea. Il problema è che anche gli storici non sanno con esattezza quale fosse questo sistema, così l’amministrazione dell’Impero divenne un caos di organi locali che si pestavano i piedi a vicenda. Fu abolita anche la monetazione decimale, e venne reintrodotto il sistema monetario bimetallico dell’epoca alto-imperiale, col risultato che anche solo per avere una moneta che avesse senso molti cittadini dovettero iniziare a ricorrere al mercato nero, dove si sviluppò una vera e propria valuta parallela a quella legale. Questo a cascata ebbe conseguenze disastrose sulle entrate fiscali, ulteriormente aggravate dalla decisione di reintrodurre l’appalto ai privati dell’esazione delle imposte, con tutta la corruzione e le ruberie sulle spalle dei cittadini che ne conseguivano. La cosa paradossale è che le azioni di mio zio scontentarono una platea così vasta di gruppi di potere e ceti sociali, che solo dopo undici anni riuscirono a mettere da parte le proprie divergenze e coalizzarsi per deporre mio zio e restaurare mio padre.”
“E poi, una volta restaurato suo padre cosa fece?”
“Ovviamente la prima cosa fu venire ad Atella a cercarmi; la seconda fu un editto con cui dichiarò ‘nulli, illegittimi e mai avvenuti’ gli atti di mio zio come imperatore.”
“E suo zio?”
“La fine di mio zio è un segreto, e tale deve restare. Posso però dirle che, a differenza sua, siamo stati magnanimi e non lo abbiamo giustiziato.”
Poi l’imperatore si alzò, andò verso un mobile e da un cassetto tirò fuori un faldone pieno di documenti su mio padre, e sulla sua prigionia. Me lo diede e mi disse:
“Si è fatto tardi, e purtroppo la devo lasciare. Questi documenti renderanno molto più semplice la ricerca su suo padre. Se vuole potrà scrivere di questo nostro colloquio, e della sua ricerca.”
Per poi andare via. Solo due mesi dopo, ultimato l’incarico ricevuto da Scorsese, mi avventurai nella ricerca sulla prigionia di mio padre e sulla fine dei suoi resti.
Purtroppo, quest’ultima parte è stata infruttuosa, perché l’imperatore Paolo non esagerava quando parlava di persone trasformate in concime. Come molte altre persone che hanno perso dei cari durante il regno di Giovanni Battista Giraldini, non ho una tomba su cui piangere mio padre, ma dal mio viaggio in Italia mi sono portato dietro una busta del terreno del campo di Atella, dove mio padre ha incontrato il suo destino.
Prima di lasciare Roma, mentre prendevo la metropolitana che mi avrebbe portato in aeroporto, dove avrei preso l’aereo per New York, un uomo attirò la mia attenzione. Era un uomo di circa novant’anni, che indossava una divisa da guardiano dei gabinetti della metropolitana; fu la sua faccia a catturare la mia attenzione, perché mi ricordava moltissimo Klaus Kinski in Aguirre, solo molto più anziano. Mentre lo guardavo stava pulendo il pavimento in marmo della stazione con un mocio, e ad un certo punto anche lui iniziò a guardarmi, e mi guardò come se in me avesse riconosciuto qualcuno che conosceva. Guardò me, lanciandomi saette con gli sguardi, e poi si voltò alla mia destra, dove vidi due uomini in impermeabile che lo tenevano d’occhio.
Poi arrivò il treno, io salii, le porte si chiusero e il treno partì. E mentre il treno si allontanava vedevo che continuava a guardare verso di me, e che i due uomini in impermeabile gli si erano avvicinati e avevano iniziato a rimproverarlo.
Non tornai mai più in Romania.
.
L'imbianchino
Molti anni fa ero convinto
che gli imbianchini pitturassero le navi. Ma del resto cosa potevo saperne? Ero
un portuale come gli altri; ero nato a Chiaia, ero stato battezzato nella chiesa
di Santa Maria di Piedigrotta, avevo studiato e svolto il servizio militare,
avevo fatto la guerra in Algeria, e tornato a Napoli avevo iniziato a faticare
come portuale, come gli altri iscritto al sindacato.
E questa era la mia vita finché... finché anch'io non iniziai a pitturare navi.
Era il 1957, erano quasi cinque anni che ero tornato a Napoli a faticare al
porto. Per guadagnare dei soldi in più avevo messo in piedi un traffico di merce
rubata; niente di più semplice: togli la merce dalle navi, e anziché caricarla
sui camion che la portano a destinazione la nascondi, poi la vendi al mercato
nero. Sulle bolle di trasporto scrivi che i camion li hai caricati e una parte
dei soldi li dai ai camionisti per fare finta di niente.
Tutto filava a gonfie vele, finché un giorno uno scornacchiato di camionista non
si fa prendere mentre fa il mio stesso giochetto, e per provare a togliersi dal
casino fa il mio nome. Finì a processo, e mi rivolsi a Carmine Cirillo,
l'avvocato del sindacato, che era anche cugino di Rosario Cirillo, il capo del
sindacato.
Carmine fu molto diretto, e mi rassicurò dicendo che se le accuse contro di me
non potevano essere provate non avevo nulla da temere.
"Se la testimonianza di quel camionista è l'unica cosa che hanno, non hanno
alcuna speranza di vincere. Possiamo facilmente sostenere che la confessione è
stata estorta, e questo dovrebbe bastare a convincere il giudice. Ci sono altre
ragioni che potrebbero giustificare un tuo licenziamento?"
"Per esempio?"
"Bevi sul lavoro?"
"No."
"Arrivi al lavoro in ritardo?"
"No."
"Abusi dei giorni di malattia?"
"No."
"Fai a pugni sul lavoro?"
"No, sul lavoro no."
"Allora sei a posto, non devi preoccuparti. Comunque... a me lo puoi dire se li
derubi o no. Per me non fa nessuna differenza, in tribunale ti difendo lo
stesso."
"Beh, faccio tanto per loro quando non li derubo."
Carmine fu di parola, da quel processo ne uscì completamente pulito, e l'azienda
fu condannata per condotta antisindacale. Un processo che avrebbe potuto
distruggermi e farmi passare anni in carcere, si concluse con la mia
assoluzione.
Non so cosa fece Carmine per farmi vincere, ma alcuni giorni dopo la sentenza
Rosario Cirillo chiese di me. Così andai nel suo ufficio, e dopo avermi fatto
entrare mi disse:
"Ho sentito che sei stato legionario."
"Sì, in Algeria. Due volte, dal 1946 al 1948 e dal 1950 al 1952, ossia quando è
scaduta la ferma e sono tornato a casa."
"E com'era? Hai avuto paura?"
"Si ha sempre paura in guerra, e chi dice il contrario sta mentendo. Algeri era
un inferno: pattugli una strada e all'improvviso ti ritrovi in mezzo ad un
combattimento, con donne che sparano dalle finestre e bambini che tirano sassi
dai tetti. In quel momento preghi la Madonna e daresti qualsiasi cosa per uscire
vivo da lì. Poi però, passato il momento di terrore, se sopravvivi torni alla
routine di sempre, ed esegui gli ordini. Come quando ti danno un gruppo di
prigionieri e ti dicono solo di portarli fuori città a scavare. Col fucile li
guardavo dall'alto in basso mentre scavavano, e ce la mettevano tutta. Forse
pensavano che se avessero scavato bene li avremmo risparmiati."
"E tu saresti ancora disposto ad obbedire agli ordini?"
"Dipende da chi me li da questi ordini."
"Se te li do io che sono il capo del tuo sindacato, obbediresti?"
"Certo che sì."
"Bene. Il mio primo ordine è che da ora in poi un decimo del tuo traffico lo
dovrai dare a me. Per il resto, tieniti a disposizione per quando ti manderò a
chiamare."
"Va bene."
E così, iniziai a dipingere navi per Cirillo. Se non fosse chiaro, Rosario
Cirillo non era solo il capo di un sindacato. Rosario gestiva il contrabbando di
sigarette attraverso il porto, a cui si aggiungevano il contrabbando di
materiale pornografico, due bische clandestine, e il traffico di eroina verso
gli Stati Uniti, che però non gestiva da solo, ma in società coi corsi e i
siciliani.
Ma a me non interessava granché di cosa faceva Cirillo, per me era come essere
tornato nell'esercito, eseguivo gli ordini. Cirillo mi diceva di dare un
messaggio ad un imprenditore che minacciava di licenziare un suo delegato
sindacale, e io recapitavo il messaggio assieme ad un candelotto di dinamite;
Cirillo mi diceva di occuparmi di un negoziante che si rifiutava di piazzare la
sua merce, e io gli facevo qualche buco sulla vetrina; Cirillo mi diceva che
secondo lui un nostro uomo poteva parlare coi magistrati, e io convincevo quella
persona a tacere. Infilandola in una macchina trita-alberi.
Per me era lavoro, non c'era nulla di personale, ed ero molto bravo a fare
quello che facevo. Cirillo infatti per ogni lavoro che facevo mi ricompensava
molto bene, e dopo dieci anni che lavoravo per lui, nel 1967 venni ufficialmente
affiliato alla sua famiglia.
Tutto andava bene, finché... All'inizio degli anni '70 il governo americano
iniziò a perseguire seriamente il traffico di eroina, e molti boss
italo-americani nostri clienti finirono dietro le sbarre. Anche il governo di
Costantinopoli diede un giro di vite al traffico di eroina, mandando l'esercito
sui monti dell'Anatolia a snidare le coltivazioni di oppio. Cambiò anche
l'atteggiamento della nostra Marina, che iniziò a punire molto più severamente
gli atti di corruzione e collusione nel traffico d'eroina.
Insomma, l'eroina, che fino a quel momento era una licenza per stampare soldi,
non rendeva più come prima.
E questo causò parecchi problemi, perché senza i soldi dell'eroina la società
tra noi, i siciliani e i corsi si ruppe. E rotta la società, i corsi e i
siciliani pensarono di approfittare della divisione delle famiglie camorriste
per imporsi a Napoli. Rosario infatti grazie al sindacato controllava il porto,
ma a parte quello la sua autorità non si estendeva oltre Chiaia.
Così nel 1972 a Napoli scoppiò la prima vera guerra di camorra.
La guerra contro i siciliani e i corsi non fu semplice. Mi sembrò di tornare ai
tempi dell'Algeria, quando a qualsiasi ora del giorno e della notte dovevamo
correre di qua e di là, a dare manforte ai compagni che si trovavano sotto al
fuoco nemico.
Vidi morire molti amici, e dovetti passare molte notti lontano da casa, a
dormire in una casa sicura vicino al porto, pronto a rispondere alle chiamate di
Rosario e ad andare là dove ci fosse bisogno; assieme a me c'era una bella
squadra che avevo messo su personalmente: innanzitutto c'era il mio fratellino
Ciro Gargiulo, che chiamavo fratello anche se in realtà siamo cugini, ma in
Romania si usa così; poi c'erano Gaetano Pollio e Anastasio Zito, ex
paracadutisti come me veterani dell'Algeria. Li avevo tirati dentro grazie ad
alcuni debiti di gioco nelle bische di Rosario, di cui accettai di farmi carico
se loro avessero iniziato a lavorare per me. Non mi pentii di quella decisione,
divennero subito i miei uomini migliori: avevano nervi d'acciaio e ghiaccio
nelle vene, uccidere non gli faceva né caldo né freddo, erano abituati a
eseguire gli ordini e soprattutto sapevano quando bisognava fare rumore e quando
bisognava fare silenzio.
Oltre a loro tre, con me c'era Totò Franzese, un ragazzo del sindacato che aveva
già all'attivo parecchie azioni, e che avevo tirato dentro dopo aver visto come
sistemava un gruppo di sindacalisti comunisti. Loro non erano i soli, all'epoca
della guerra coi siciliani avevo già più di venti persone alle mie dipendenze;
però loro quattro erano i miei uomini più fidati, quelli di cui mi servivo più
spesso. Gli altri erano mercenari che andavano e venivano, e non vale nemmeno la
pena menzionarli.
Per quella guerra non badai a spese: mi procurai apparecchiature elettroniche
per le intercettazioni, e le usai per controllare i telefoni dei siciliani e dei
corsi, e assunsi due russi ex agenti del KGB per utilizzare quelle
apparecchiature. Assoldai gli uomini necessari a pedinare e a seguire quegli
infami, e convinsi le poste a far passare prima da me tutta la loro
corrispondenza, dove avevo uomini che aprivano le lettere col vapore,
fotografavano tutto e richiudevano le buste. Tutto questo mi costò molti soldi è
vero, ma nel 1971 avevamo rapito Achille Lauro, e il riscatto che ci avevano
pagato per liberarlo bastava a coprire cento anni di quelle spese. Rosario
ovviamente ebbe la sua fetta, ma anche così erano molti soldi.
La guerra fin da subito volse in nostro favore: gli scornacchiati siciliani nel
1974 tentarono di ribaltare la situazione mandando a Napoli trenta uomini
guidati da Ninni Buscetta; uomini d'onore, non mercenari, che nelle intenzioni
dei siciliani dovevano dare nuova linfa ai loro uomini sul continente. Però
grazie al lavoro della mia squadra li individuammo quasi subito, e a Napoli non
rimasero a lungo; tornarono in Sicilia, ma coi piedi in avanti. Solo Buscetta si
salvò, per un mezzo miracolo: piazzammo una bomba nella sua automobile, solo che
però il nostro esperto di esplosivi in quel periodo non era disponibile perché
stava scontando una condanna per il furto di un camion; così furono Pollio e
Zito a piazzare l'autobomba, solo che essendo poco pratici sbagliarono a
piazzarla e la misero sotto al sedile del passeggero anziché sotto a quello del
guidatore, e peggio ancora sbagliarono a calcolare la quantità di esplosivo
necessaria, e ne misero troppo poco. Così quando Buscetta salì in macchina e
infilò la chiave, l'auto prese fuoco anziché esplodere, e Buscetta poté saltare
fuori dall'abitacolo e salvarsi. Tuttavia raggiungemmo comunque lo scopo, perché
Buscetta tornò subito in Sicilia e non mise mai più piede a Napoli.
Avevamo vinto, e per suggellare la nostra vittoria e il nostro dominio su Napoli
io e Rosario pensammo di far eleggere Carmine sindaco della città. Non avevamo
opposizione, persino Lauro, che era stato sindaco e muoveva parecchi voti con le
sue clientele, era dei nostri e appoggiò la candidatura di Carmine Cirillo.
Lauro! Io lo avevo rapito e veniva da noi a offrirci i voti per far eleggere
sindaco il cugino del capo dell'uomo che lo aveva rapito! Ma a Napoli gli affari
si fanno anche così, e Lauro aveva i suoi interessi da tutelare, che lo
costringevano a dimenticare il passato e venire da noi.
E poi... Nel 1976 Carmine era appena stato eletto sindaco, la cerimonia
d'inaugurazione si stava concludendo e dalla folla partirono tre colpi. Carmine
fu colpito due volte alla testa e una al petto; sarebbe rimasto in coma per tre
anni senza mai riprendere conoscenza prima di morire.
La guerra, che pensavamo finita, era appena ricominciata. Stavolta contro di noi
non c'erano i siciliani, ma la Nuova Onorata Società di Gabriele Curto, che
tutti chiamavano semplicemente O' Professore.
Curto aveva iniziato la sua carriera in carcere, dove era finito perché durante
una rissa aveva ucciso un uomo che aveva fatto a sua sorella un complimento che
non gli era piaciuto; in carcere aveva iniziato a farsi una reputazione,
soprattutto dopo aver sfidato un boss alla molletta, e a costruirsi un seguito,
e grazie ad alcuni amici che erano fuori riuscì, dal carcere, a creare fuori dal
carcere la propria organizzazione criminale. Non è che sia molto difficile se si
hanno i soldi: se le guardie sanno che sei danaroso, sono loro a venire in cella
a chiederti se possono fare qualcosa per te.
Curto non era stupido: sapeva che noi lo avremmo strangolato nella culla se
avessimo avuto sentore che una nuova organizzazione criminale stava nascendo.
Così agì sotto traccia, alleandosi coi calabresi, dai quali fu anche affiliato,
e reclutando nella propria organizzazione i negri della sabbia, gli arabi, oltre
ai napoletani. Anche per questo noi non avevamo idea di cosa stesse facendo.
L'attacco a Carmine fu un fulmine a ciel sereno. Oltretutto l'attentatore era un
arabo, un cazzo di algerino che io e Totò facemmo sparire subito, non un
napoletano, e quindi non capimmo subito che dietro c'era Curto.
Ma avremmo dovuto capirlo, del resto gli indizi c'erano tutti. Pochi giorni dopo
che Carmine fu sparato, Curto evase dal carcere; era riuscito a ottenere
l'infermità mentale e ad essere trasferito in un ospedale psichiatrico, da dove
non fu difficile scappare.
Poi nello stesso giorno io e Rosario fummo vittime di un attentato; io riuscii a
salvarmi, ma mio fratello Ciro che era con me fu colpito a morte. Anche Rosario
si salvò, ma era messo male. Per puro miracolo una pallottola gli trapassò il
petto senza prendere né il cuore né i polmoni; si sarebbe ripreso, ma per un bel
po' di tempo non fu in grado di dare ordini.
Così, mio malgrado, fui costretto ad assumere la reggenza della famiglia. Non ho
mai voluto essere il numero uno, perché mi sono sempre trovato a mio agio ad
essere il numero due; molta meno pressione, molti meno grattacapi, molta più
libertà d'azione.
Non ero abituato ad essere boss, ad avere gli altri capi che venivano a
chiedermi ordini, o che venivano da me a dirimere le loro dispute. Rosario
queste cose le sapeva fare molto meglio di me, e non ho mai avuto problemi ad
avere lui come mio superiore.
Lasciai a Pollio e Zito la gestione della mia squadra, per potermi dedicare
appieno alla gestione della famiglia. E questo fu un errore, perché quando venne
fuori che dietro gli attentati c'era Curto, Pollio e Zito iniziarono ad ordinare
ritorsioni contro i suoi senza badare troppo a finezze tipo non fare morti
innocenti. E senza venire prima a chiedere il mio consenso, perché entrambi
avevano inteso che gli avevo dato carta bianca nella gestione della mia squadra.
Così cominciarono a cadere teste, sia nostre che nemiche. E la guerra divenne in
poco tempo un bagno di sangue.
A rendere quella guerra più sanguinosa delle altre fu il fatto che era un tutti
contro tutti: quando contro di noi c'erano i siciliani, le altre famiglie di
Napoli ci sostenevano, o comunque non ci ostacolavano. Ora era tutti contro
tutti, le vecchie alleanze erano saltate, e tutti intravedevano la possibilità
di emergere alla guida della camorra napoletana.
Curto tentò di negoziare con me, e mi offrì la guida della famiglia di Rosario e
il mantenimento del porto e di Chiaia se avessi accettato che lui era il capo
dei capi delle famiglie di Napoli; rifiutai, anche perché essendo reggente per
conto di Rosario non mi consideravo autorizzato ad accettare una simile
proposta.
Ma comunque, quella guerra non sarebbe durata a lungo.
Nel 1978 l'Imperatore Paolo per ripristinare l'ordine mandò a Napoli un intera
legione; a Napoli non c'erano mai stati tanti soldati tutti insieme. D'un tratto
ci ritrovammo i carri armati nelle strade, i militari a controllare il porto e a
ispezionare ogni singolo carico, i posti di blocco. Non si poteva più lavorare,
non si poteva fare nulla.
Poi arrivarono le leggi speciali, e dopo di quelle iniziarono i processi.
Tutti finimmo sotto processo per qualcosa. E alcuni di noi per salvarsi
pensarono a rompere il giuramento di omertà.
Franzese fu visto entrare in tribunale; non c'era nulla di sbagliato in questo,
il problema però è che non aveva detto nulla. Nessuno sapeva che quel giorno
sarebbe andato in tribunale, e questo fece sorgere più di un sospetto.
Ne parlai con Rosario, che era ancora in ospedale però si era già molto ripreso
rispetto a subito dopo l'attentato:
"Totò è un bravo ragazzo, è uno dei nostri. Probabilmente si sarà dimenticato di
dirci che era stato chiamato per essere interrogato."
"Io la penso come te, ma perché rischiare? Almeno, così è come la vedo io."
Quello stesso giorno io e Pollio andammo a prendere Totò Franzese sotto casa, e
lo facemmo sparire.
Nella Nuova Onorata Società fu molto peggio, perché Curto iniziò a uccidere
persone senza più distinguere tra traditori veri e traditori presunti. Tutti i
giorni saltava fuori il cadavere di qualche affiliato curtiano, e alla fine la
paranoia di Curto causò la fine della Nouva Onorata Società; anche i suoi
fedelissimi andavano dai giudici a dire quello che sapevano, e in pochi mesi
l'organizzazione fu smantellata. Curto venne trovato nel 1980, nascosto in un
bunker a Ottaviano, e per espressa volontà dell'Imperatore fu sottoposto ad un
regime carcerario speciale, che lo isolò completamente dal mondo esterno e dai
pochi affiliati che ancora lo seguivano.
Io andai a processo per vari omicidi, rapimenti, corruzione, associazione a
delinquere, appropriazione indebita, frode, frode ai danni dello stato,
terrorismo, contrabbando, evasione fiscale e traffico di stupefacenti. Tuttavia
riuscirono a incastrarmi solo per la mia auto; era una Mercedes-Benz W115 del
1975 che mi era stata regalata da un imprenditore a cui il sindacato prestava
lavoratori. In cambio, come dirigente del sindacato, avevo chiuso un occhio sul
fatto che pagava i suoi dipendenti meno del minimo salariale previsto dalla
legge. Adoravo quella macchina, anche perché a Chiaia erano poche le persone ad
avere un'automobile, però non valeva i nove anni di carcere che mi feci per
averla presa.
Rosario uscì dall'ospedale nel '79, ma già un anno dopo era in carcere. Lo
avevano incastrato perché aveva ordinato l'omicidio di un imprenditore a cui
aveva prestato soldi a strozzo e che rifiutava di restituirli. Queste sono cose
che non fai con Rosario Cirillo, se lui ti viene a chiedere di restituirgli dei
soldi glieli ridai e basta, senza negoziare sugli interessi. Aveva ragione lui,
però la persona a cui aveva ordinato di compiere l'omicidio lo aveva venduto ai
giudici e stava indossando un microfono; lo condannarono all'ergastolo per
associazione a delinquere finalizzata all'omicidio.
Pollio, che era presente a quella conversazione, fu condannato anche lui per la
stessa ragione, mentre Zito venne condannato per una bisca clandestina che
gestiva.
Tutti e quattro eravamo nello stesso carcere, a Pelagosa, nello stesso regime
carcerario speciale nel quale era detenuto Curto.
Passavamo le giornate a giocare a bocce, e vedevamo i nostri corpi marcire
lentamente. Pollio nel 1983 iniziò a tossire, e continuava a tossire senza
fermarsi, finché ad un certo punto non iniziò a tossire sangue. Lo riportarono
sul continente, e gli trovarono un tumore ai polmoni al quarto stadio; morì due
mesi dopo, attaccato all'ossigeno.
Rosario non si riprese mai completamente dall'attentato del '76; gli tremavano
le mani, faceva fatica a camminare e a parlare, e dal 1985 venne messo su una
sedia a rotelle. Poche settimane dopo lo vidi che lo portavano in ospedale, e
poi anche lui finì al cimitero.
A Zito nell'84 trovarono un tumore allo stomaco; fece un'operazione chirurgica e
diversi cicli di chemioterapia senza risultati, e morì nel 1986. Negli ultimi
mesi non riusciva più a controllare la vescica, e dovettero mettergli un
catetere.
Io in carcere ho sviluppato il diabete; avrei avuto bisogno dei farmaci, ma
l'amministrazione carceraria ha iniziato a passarmeli troppo tardi per tenere la
malattia sotto controllo. Nel 1984 dovettero amputarmi un piede; avrei avuto
bisogno delle stampelle per camminare, ma l'amministrazione carceraria non me le
passava, perché secondo loro potevano essere usate come arma. Così anche io
dovetti usare la sedia a rotelle.
In carcere, sempre per il diabete, ho iniziato a perdere la vista. Uscito dal
carcere iniziai a usare le stampelle, e per un po' di tempo sono tornato a casa
mia, dove c'era ancora mia moglie. Ma anche lei è morta di lì a pochi mesi per
un infarto, e poco tempo dopo, rimasto solo in casa inciampai in un tappeto, e
cadendo mi ruppi il femore.
Da allora vivo in una casa di riposo, fuori da Napoli, fuori dal mondo, fuori da
tutto. La famiglia di Rosario non esiste più, il sindacato è stato sciolto, e io
sono solo un anziano decrepito, un superstite di un'epoca morta e sepolta.

Mappa dell'Impero nel 1985
.
L'Imperatore Medico
Prima Parte
I

L’Imperatore Medico di
Roma: Paolo VIII tra mito, guerra e ombre inquietanti
(New York Times,
1985)
Un sovrano che riscrive la storia, combatte in Algeria e, secondo voci mai
smentite, sperimenta sul corpo umano
Roma, agosto 1985 – A 76 anni, Sua Maestà Imperiale Paolo VIII
Giraldini domina una nazione che non dovrebbe esistere: la Romania, l’Impero
Romano d’Occidente. In un’Europa moderna di democrazie e stati-nazione, Roma
resta una monarchia teocratica e militarizzata, guidata da un imperatore che si
presenta come il custode di due millenni di continuità.
Il volto di Paolo VIII è onnipresente: nei cinegiornali, nei colossal
patriottici che egli stesso, sotto pseudonimo, dirige, nelle trasmissioni
televisive che celebrano la grandezza imperiale. “È un maestro della propaganda
visiva,” spiega Michael Harriman, docente di storia contemporanea a Columbia.
“Ha capito che nell’era della televisione le immagini contano più delle
istituzioni. In questo, è più moderno di molti leader democratici.”
Dietro la facciata, però, si nasconde una biografia fatta di omissioni e
contraddizioni.
Una giovinezza da riscrivere
Secondo la versione ufficiale, il giovane principe Paolo fu perseguitato
dallo zio, l’imperatore Giovanni Battista Giraldini, e trascorse anni di
prigionia. Ma archivi e testimonianze raccontano altro: il futuro sovrano
partecipò attivamente al governo dello zio, prendendo parte a decisioni
cruciali. Solo più tardi, una volta incoronato, cancellò accuratamente quel
capitolo, costruendo per sé l’immagine di vittima e non di complice.
Il cesare negli Stati Uniti
Negli anni ’30, mentre il padre Marciano VI tornava al trono, l’erede
imperiale visse per anni negli Stati Uniti, sotto falsa identità. Frequentò
università prestigiose, studiando medicina e neurochirurgia. Roma afferma che si
trattò di una scelta per offrirgli la migliore formazione possibile; ma molti
osservatori leggono l’episodio come un esilio di fatto. “Il padre lo mandò via
non per proteggerlo, ma per allontanarlo,” sostiene James Porter, ex diplomatico
americano a Roma. “I loro rapporti erano deteriorati al punto da diventare
politicamente pericolosi.”
La guerra senza fine in Algeria
Dal 1983, Paolo VIII ha ripreso con vigore la campagna di repressione in
Algeria – che l’Impero insiste a chiamare Mauritania – tentando di cancellarne
l’identità araba e islamica. Quella che avrebbe dovuto essere un’operazione
rapida è diventata una guerra logorante. Nel 1985, i combattimenti continuano,
con perdite costanti tra i legionari romani e un crescente isolamento
diplomatico di Roma.
“Gli italiani del nord credono ancora all’idea imperiale, ma nelle province
africane questo significa occupazione e violenza,” osserva Susan Klein, analista
del Council on Foreign Relations.
I sospetti di esperimenti umani
Le accuse più oscure riguardano presunti esperimenti militari. Secondo
rapporti diffusi da dissidenti, prigionieri algerini sarebbero sottoposti a
interventi chirurgici crudeli, diretti in parte dall’imperatore stesso.
Obiettivo: creare supersoldati in grado di resistere al freddo, alla fame e al
dolore. Nessuna prova è stata finora confermata, e l’ONU non è mai riuscita a
inviare ispettori nei laboratori militari romani.
“Non sappiamo dove finisce la leggenda e dove inizia la realtà,” ammette un
funzionario occidentale a Bruxelles. “Ma il fatto che queste storie esistano e
non vengano smentite è già un segnale preoccupante.”
Il regista del proprio mito
Nonostante tutto, Paolo VIII resta immensamente popolare a Roma. Nato nel
1909, sovrano dal 1956, ha trasformato il tricolore nero-rosso-nero con la Croce
delle Sette Spade in un’icona quasi religiosa. La Commissione Speciale di Difesa
(CoSDi), polizia politica e servizio segreto insieme, reprime ogni opposizione,
ma la propaganda trasforma il sovrano in un padre rassicurante.
Paolo VIII ama discutere con gli ospiti di filosofia, di storia navale o di
cinema americano, e lascia spesso l’impressione di un intellettuale
rinascimentale. Ma dietro l’erudizione resta un imperatore moderno e
inquietante: medico e dittatore, ingegnere dei corpi e regista delle masse.
“Paolo VIII vive di simboli,” conclude Harriman. “Il problema è che sotto quei
simboli c’è un impero in guerra, e un uomo che sembra disposto a tutto pur di
mantenerlo.”
.
II

CENTRAL INTELLIGENCE
AGENCY
Transcript Report – Source Audio
Cassette ID: 84-IT-092
Acquired from: [REDACTED]
Date: [REDACTED]
Location: presumed medical facility, Rome, ROM
Classification: TOP SECRET / EYES ONLY
[Inizio trascrizione – qualità audio: parziale, interferenze di fondo]
(rumore metallico di strumenti chirurgici posati su vassoio inox; bip
regolare monitor ECG)
Anestesista: Saturazione stabile, 96%. Pressione arteriosa media 72.
Primario: Bene. Incisione parasagittale anteriore, due centimetri dalla
linea mediana. Bisturi.
(suono netto di taglio, aspiratore in funzione)
Medico 1: Emostasi controllata. Aspiro.
Infermiere-Assistente: Cotone vaselinato pronto.
Medico 2: (a bassa voce) Sta aprendo veloce oggi...
Primario: Silenzio. Dissezione per strati, non per spettacolo.
Retrattore.
(metallico di leve craniali, lieve cigolio)
Medico 1: L’osso è sottile, trapano a bassa velocità.
(rumore perforazione ossea, vibrazioni nel microfono)
Anestesista: Frequenza 88, stabile.
Primario: Bene. Placca frontale rimossa. Avanziamo. Callosotomia.
Medico 2: [inudibile]... sei millimetri oltre il fornice.
Primario: Troppo vicino! Mantieni la linea. Non stiamo giocando con un
cadavere di laboratorio.
(clac! suono strumento gettato con forza sul tavolo)
Medico 1: Atrio ventricolare in vista. Ependima intatto.
Primario: Incidi.
(aspiratore, gorgoglio liquido cerebrospinale)
Anestesista: PIC in aumento, 28.
Primario: Spingi mannitolo. Svelto.
Medico 2: Ecco il VLPO. Visuale parziale.
Primario: Non mi serve “parziale”. Voglio accesso completo. Allarga!
Medico 1: Rischio di danneggiare il setto pellucido.
Primario: Fallo comunque. Abbiamo bisogno della finestra.
(rumore secco, retrattori regolati; tono del bip cardiaco accelera)
Anestesista: Tachicardia, 132.
Infermiere-Assistente: Pressione scesa a 58/40!
Medico 2: Malposizionamento dell’innesto, non si ancora al tessuto!
Primario: (urlando) IMPOSSIBILE! Ho dato coordinate precise! Correggi
l’asse!
Medico 1: Tentativo di riposizionamento... [interferenza]... si lacera la
parete ventricolare!
(allarme acustico del monitor; rumore concitato di ferri chirurgici spostati)
Anestesista: Saturazione in caduta libera! 62%!
Primario: MALEDIZIONE! Fermate l’emorragia. SUBITO!
Medico 2: Non risponde, non risponde!
(rumore caotico, più voci sovrapposte, incomprensibili; bip continuo di
arresto cardiaco)
Anestesista: Arresto! Sto ventilando manualmente!
Primario: (voce rabbiosa) BASTARDI INCOMPETENTI! Tutto questo per
niente... anni persi! Adesso dovremo ricominciare da zero. Questo fallimento ci
costa mesi... mesi di ritardo sul [inaudibile].
(colpo violento su superficie metallica; suono oggetti rovesciati a terra)
Primario: Non tollererò un altro disastro del genere. Se volete restare
in vita, imparate. Questo corpo è perduto. Avanti il prossimo.
[Fine trascrizione – 00:17:43]
.
III

Roma 1985: l’Impero che non
doveva esistere (Le Monde, 1985)
Reportage dalla Romania, un sistema sospeso tra paternalismo autoritario,
petrolio africano e le prime crepe interne
Un sistema “fuori dal tempo” - Nel cuore dell’Europa, circondata da
stati-nazione democratici, la Romania – come viene informalmente chiamato
l’Impero Romano d’Occidente – continua a sopravvivere nel 1985 come se fosse
rimasta immune dalle rivoluzioni politiche del XIX e del XX secolo.
Le istituzioni imperiali ruotano attorno a un sistema definito dagli storici
francesi “neo-romano corporativo”. Leone IV Buonaparte, nel XIX secolo, gettò le
basi di una monarchia militarizzata e centralizzata, che i successivi imperatori
hanno modellato in un equilibrio instabile tra paternalismo autoritario,
produttivismo industriale e socialismo nazionale.
Lo Stato imperiale promette a tutti i cittadini un livello minimo di benessere:
pane, alloggio popolare, accesso alle cure mediche e all’istruzione primaria. Ma
questa promessa è gerarchizzata. Chi ha servito nell’esercito gode di una
priorità quasi sacrale. Veterani e vedove di guerra ottengono la precedenza
nelle graduatorie per gli alloggi, licenze commerciali semplificate e accesso
privilegiato ai prestiti statali.
“È la versione romana del welfare,” spiega l’economista Jean-Paul Béraud
dell’ENS di Parigi. “Ma mentre in Francia la protezione sociale è un diritto
universale, a Roma è una ricompensa per il servizio militare. È una società
costruita sulla logica della legione, non della cittadinanza moderna.”
Il risultato è una popolazione disciplinata, abituata a vedere nella divisa non
solo un dovere, ma un lasciapassare sociale. Gli economisti francesi parlano di
un “corporativismo d’acciaio”: i sindacati, almeno quelli fedeli, partecipano a
tavoli corporativi in cui discutono salari e condizioni di lavoro insieme a
industriali e funzionari pubblici. Tuttavia, non rappresentano un contrappeso al
potere imperiale, ma un suo ingranaggio.
“È una forma estrema di cogestione,” osserva Béraud. “Ma a differenza del
modello renano, qui il conflitto sociale è sostituito dalla disciplina
militare.”
Politica senza costituzione – Dal punto di vista politico, la Romania appare
come un’eccezione. Non esiste una Costituzione moderna. Solo un insieme di
“leggi costituzionali” stratificate, spesso incoerenti, che definiscono
vagamente gli organi ausiliari dell’Imperatore. Ne risulta un sistema instabile,
in cui conflitti di competenze sono risolti sempre da un unico arbitro: il
sovrano.
Il Partito Social-Popolare dei Romani (PSPdR) è l’unica forza politica
rilevante, e de facto il partito unico dell’Impero. Nato nel 1921 per difendere
la monarchia contro la crescente influenza del comunismo, si è trasformato nel
braccio organizzativo dell’Imperatore. Nel parlamento bicamerale – Congresso dei
Rappresentanti e Senato Imperiale – i candidati PSPdR dominano costantemente.
Formalmente eletto a suffragio universale ogni cinque anni, l’organo legislativo
non ha reale potere.
“È un teatro repubblicano dentro un impero,” commenta Claire Vautrin, politologa
alla Sorbona. “La partecipazione elettorale serve a mostrare consenso, non a
determinare scelte politiche.”
La Commissione Speciale di Difesa (CoSDi), una sorta di fusione tra KGB e CIA,
controlla la fedeltà della popolazione. Dissidenti e minoranze religiose vivono
in condizioni difficili, anche se raramente vengono mostrati processi pubblici:
più spesso la repressione avviene in silenzio.
L’astro nascente: Francesco Stefani – Il volto nuovo del regime è Francesco
Saverio Salvio-Stefani, conosciuto come Francesco Stefani. Presidente del PSPdR
e ministro della Sanità, è considerato da molti osservatori occidentali il
“primo ministro de facto” dell’Impero, benché una tale carica non esista.
Figlio dell’ammiraglio Marco Antonio Salvio-Stefani, veterano della seconda
guerra d’Algeria (1947-1967), Stefani si presenta come il tribuno delle classi
popolari. I suoi comizi, affollati e coreografati, mescolano nazionalismo,
retorica sociale e attacchi alla “finanza internazionale”.
A Verona, davanti a una folla di veterani e piccoli proprietari, ha scandito:
“Noi siamo per la proprietà privata,” esordisce Stefani, “ma non per la
proprietà privata dei banchieri e della finanza internazionale, che si
arricchiscono senza produrre valore. Noi siamo per la proprietà delle famiglie
che hanno risparmiato, degli agricoltori che hanno strappato con le proprie mani
la terra alle pietre, dei soldati che dopo aver servito la Patria hanno diritto
a una casa e a un campo.” […] “Il marxismo ci dice che la storia è una lotta di
classe. Noi diciamo: no! Non ci sono due Italie, due Afriche, due province
divise tra oppressi e oppressori. C’è una sola comunità imperiale, indivisibile,
in cui ognuno ha un posto e un compito. Non esiste il conflitto di classe,
esiste il sacrificio comune. Chi ha vestito la divisa lo sa: in una legione non
ci sono borghesi o proletari, ci sono soltanto romani che combattono fianco a
fianco.
Così dev’essere la nostra economia: una legione del lavoro, dove ciascuno dà ciò
che può e riceve ciò che serve.”
Il discorso ha suscitato ovazioni.
“Stefani è il più abile politico della nuova generazione,” osserva Marc Delmas,
deputato socialista francese. “Concilia l’autoritarismo imperiale con un
linguaggio quasi populista. Riesce a far sembrare il regime vicino al popolo,
nonostante la sua natura profondamente militarista.”
Stefani guida una squadra di quarantenni – ex ufficiali, tecnocrati, dirigenti
sindacali – che incarnano la “linea verde” del Sistema Imperiale. Il loro
compito è mantenere il consenso tra i piccoli proprietari e i veterani, la base
sociale del regime.
Le prime crepe – Nonostante la forza apparente, crepe profonde attraversano
l’edificio imperiale.
Il Partito Comunista dei Romani (PCdR), mai messo al bando ma ormai marginale,
denuncia da anni la dipendenza economica dal petrolio nordafricano. “Tutto il
sistema si regge sugli introiti libici e tunisini,” dichiara un militante
intervistato clandestinamente a Marsiglia. “Senza quel petrolio, non ci
sarebbero case popolari né stipendi statali. È per questo che l’Algeria è
cruciale: senza la Mauritania, Roma muore di fame.”
La terza guerra algerina, avviata nel 1983, si è già trasformata in un conflitto
logorante. Ogni settimana, i giornali romani pubblicano necrologi di legionari
caduti. L’opinione pubblica, tuttavia, resta patriottica.
Un viaggio nell’entroterra, nel Piceno, mostra le contraddizioni del sistema.
Qui vivono i piccoli proprietari, veterani premiati con lotti di terra dopo anni
di servizio. “Questa terra è il mio orgoglio,” dice Lorenzo, 63 anni, ex
legionario. “Ma l’inflazione ci divora, e il grano statunitense entra nei
mercati a prezzi che noi non possiamo competere.”
Molti giovani preferiscono emigrare a Roma o nelle colonie africane per cercare
un impiego statale. I villaggi si spopolano, mentre la propaganda continua a
mostrare la campagna come la “spina dorsale dell’Impero”.
“Se crolla la classe dei piccoli proprietari, crolla il mito imperiale,” avverte
l’economista François Chevalier. “E oggi, tra inflazione e concorrenza estera,
questo rischio è reale.”
“Roma vive ancora di mito,” conclude Claire Vautrin. “Ma i miti non pagano i
debiti, e l’economia mondiale non aspetta. La vera domanda è: per quanto tempo
ancora il sistema potrà sostenersi?”

Bandiera imperiale nel 1985
.
IV
Commissione Speciale di
Difesa (CoSDi)
Dipartimento Intercettazioni – Sezione Roma Nord
Codice fascicolo: 85-INT-442
Oggetto: Conversazione telefonica tra Soggetto “Aquila” (Paolo VIII) e Soggetto
“Vittoria” (Francesco Saverio Salvio-Stefani)
Data: 14 ottobre 1985
Classificazione: SEGRETISSIMO – NON DIVULGARE
[Inizio trascrizione – ore 22:17]
(rumore linea telefonica, scatto della cornetta sollevata; sottofondo
indistinto: passi e voce femminile in lontananza, presumibilmente residenza
Stefani)
Vittoria: Pronto?
(pausa, fruscio statico)
Aquila: (voce bassa, rauca, irritata) Sei da solo?
Vittoria: Sì, Augusto, nessuno ascolta.
Aquila: (tono brusco) Nessuno ascolta? Sei sicuro? Qui tutti ascoltano. Persino
le mura. Ma non importa. Ascolta bene tu: i medici che mi hai mandato in
TITAN-51 sono degli incapaci. Degli imbecilli patentati!
(colpo secco, probabilmente pugno sul tavolo; fruscio linea)
Vittoria: Mi avevi chiesto i migliori, e io—
Aquila: Tu mi avevi garantito che erano i migliori del mondo! Del mondo! Ed ecco
il risultato: esperimenti falliti, corpi persi, mesi bruciati! Ogni volta lo
stesso: non seguono ordini, sbagliano parametri, confondono protocolli. Una
legione di ciarlatani in camice bianco!
Vittoria: (voce più cauta) Augusto, io dissi che erano i migliori dell’Impero.
Questo non significa del mondo. Sai bene che il mondo non ci offre i suoi
specialisti.
Aquila: (ringhia) Allora dimmi, che cosa devo fare? Continuare a perdere tempo
con incapaci che mi fanno sembrare un macellaio?
Vittoria: Non è semplice sostituirli. Lo sai meglio di me: trovare medici
addestrati, fidati, pronti a… certe procedure, non è un compito facile.
(breve silenzio, rumore accendino – Stefani probabilmente accende una sigaretta)
Aquila: E tu, Francesco, sei qui per risolvere questi problemi, non per
giustificarli.
Vittoria: (esita) Forse… c’è un nome. Un uomo. Ma non so se è ancora vivo.
Aquila: (tagliente) Chi?
Vittoria: Un neurologo. Geniale, dicono. Un talento che avrebbe fatto tremare le
accademie. Ma l’ultima volta che ho sentito parlare di lui… era nelle mani del
tuo stesso CoSDi.
Aquila: (sbuffo) Perché?
Vittoria: Gli trovarono in casa un volume… il Libretto Rosso di Mao.
(silenzio lungo; solo il crepitio della linea)
Aquila: (voce bassa, minacciosa) Un traditore.
Vittoria: O forse solo un uomo curioso, Augusto. Uno che legge troppo. Ma se è
ancora vivo, potresti avere finalmente quello che cerchi.
Aquila: (sospira pesantemente) In TITAN-51 non c’è spazio per errori. Voglio
risultati. Trovalo. E se respira ancora… portamelo.
(rumore netto di cornetta sbattuta giù, linea interrotta)
[Fine trascrizione – ore 22:31]
.
V
Commissione Speciale di
Difesa (CoSDi)
Dipartimento Intercettazioni – Sezione Roma Nord
Codice fascicolo: 85-INT-447
Oggetto: Conversazione telefonica tra Soggetto “Vittoria” (Francesco Saverio
Salvio-Stefani) e Soggetto “Tridente” (Ammiraglio Pietro Paolo Messalla,
Direttore generale CoSDi)
Data: 15 ottobre 1985
Classificazione: SEGRETISSIMO – NON DIVULGARE
[Inizio trascrizione – ore 09:12]
(scatto della cornetta sollevata; rumore di stoviglie e passi, probabilmente
cucina di residenza Stefani. Linea che fischia leggermente prima dell’aggancio.)
Tridente: (voce calma, impostata) Pronto.
Vittoria: Ammiraglio, sono io.
Tridente: (pausa) Ministro. È piuttosto presto per una chiamata.
Vittoria: Non amo lasciare le questioni in sospeso.
Tridente: (neutro) Capisco. Di quale questione si tratta?
Vittoria: Voglio sapere di un uomo. Un medico. Si chiama Eugenio Rambaldi.
(silenzio di linea; rumore leggero di matita che batte, come se Messalla stesse
prendendo appunti)
Tridente: Nome interessante. Posso chiederle perché questo interesse?
Vittoria: Non è affar suo.
Tridente: Tutto ciò che riguarda persone detenute dal CoSDi è affare mio,
Ministro.
Vittoria: (tono secco) Le sto chiedendo solo se è vivo.
Tridente: (pausa prolungata) Non confermo né smentisco. I registri sono
riservati. E poi, ministro, lei dirige la Sanità, non la Giustizia.
Vittoria: (sbuffo) Non giochiamo a carte coperte, Ammiraglio. È il vecchio che
vuole Rambaldi.
(rumore improvviso di statico, come se il tono di voce di Vittoria avesse fatto
vibrare la linea. Dopo una lunga pausa, Messalla riprende con voce meno
glaciale.)
Tridente: Se è così, allora parliamo seriamente. Rambaldi è vivo.
Vittoria: In che condizioni?
Tridente: (breve tosse) Non perfette. Due anni in isolamento non giovano a
nessuno. Ma la mente funziona, e le mani — che sono ciò che contano — ancora
meglio di quanto si creda.
Vittoria: Quindi può lavorare.
Tridente: (secco) Può lavorare. A patto che non gli venga data troppa libertà.
Vittoria: Questo non sarà un problema. Il vecchio non ama le libertà.
(leggera risata trattenuta di Messalla, immediatamente soffocata)
Tridente: Bene. Allora si fa così: io autorizzo il trasferimento temporaneo
sotto la sua custodia ministeriale. Rambaldi passa formalmente a lei. Ma restano
due condizioni.
Vittoria: Sentiamo.
Tridente: Primo: lui non deve mai sapere che il CoSDi lo ha lasciato andare.
Ufficialmente, è solo un cambio di regime detentivo. Secondo: riferirà a me, non
solo al vecchio, di ogni suo progresso.
Vittoria: (tono freddo) Ammiraglio, non ha idea di che rischi stia correndo
trattenendo questo nome.
Tridente: (con un mezzo sorriso nella voce) Oh, li ho ben chiari, Ministro. E
proprio per questo voglio restare vicino al fuoco, non lontano.
Vittoria: D’accordo. Prepari i documenti. Lo prendo in consegna entro tre
giorni.
Tridente: Tre giorni sono pochi.
Vittoria: L’Imperatore non aspetta.
(silenzio lungo, poi un sospiro pesante di Messalla)
Tridente: Va bene. Tre giorni. Ma allora, Ministro, saremo complici.
Vittoria: No, Ammiraglio. Saremo indispensabili.
(rumore secco: cornetta sbattuta giù da parte di Stefani. Linea interrotta.)
[Fine trascrizione – ore 09:28]
.
VI
Commissione Speciale di
Difesa (CoSDi)
Direzione Sicurezza Interna – Settore Operazioni Riservate
Codice fascicolo: 85-INT/RMB-01b
Oggetto: Resoconto incontro soggetto RAMBALDI, Eugenio con Ministro Francesco
Saverio Salvio-Stefani
Classificazione: SEGRETISSIMO – NON DIVULGARE
1. Dati generali
• Data: 19 ottobre 1985
• Ora: 09:12 – 10:04
• Luogo: Ministero della Sanità, palazzo distaccato Via dei Serpenti 41, Roma –
Sala riunioni riservata (piano -1).
• Presenti:
> Francesco Saverio Salvio-Stefani (Ministro della Sanità, Presidente PSPdR)
> Eugenio Vittorio Rambaldi (soggetto)
> due agenti CoSDi (sorveglianza armata)
> Agente [REDACTED] (autore del rapporto, in sala come tecnico).
2. Trascrizione dialogo (estratto principale)
Stefani: (tono calmo, controllato) “Dottor Rambaldi, immagino sappia quanto sia
eccezionale la sua presenza qui. È stato voluto. Non da me soltanto.”
Rambaldi: (sogghigna, allungandosi sulla sedia) “Oh, il vecchio. Lo sento
perfino da qui, il suo fiato dietro le mie spalle. Gli mancano i giocattoli, e
manda il suo medico di famiglia a prenderli dal solaio.”
(si alza di scatto, sale sulla sedia, rimane in equilibrio instabile. Gli agenti
muovono la mano verso la fondina. Stefani alza la mano, imponendo calma.)
Stefani: (freddo, ma con voce ferma) “Le conviene restare con i piedi a terra,
dottore. Letteralmente.”
Rambaldi: (ride sommessamente, rimane in piedi) “A terra stanno i morti. Io sono
vivo, Ministro. Vivo dopo due anni di buio e silenzio. Voi credete di potermi
rinchiudere ancora? Questa stanza è una gabbia dorata, ma sempre gabbia resta.”
(si abbassa improvvisamente, si siede con le gambe incrociate sulla sedia come
in posizione da meditazione, fissando Stefani negli occhi senza battere ciglio.)
Stefani: “Lei non è qui per discutere di gabbie. È qui per lavorare. Il resto
non interessa a nessuno.”
Rambaldi: (tono mellifluo, quasi sussurrato) “Ah, sì… lavorare. Scavare nei
cervelli come nei templi antichi. Aprire le ossa come porte segrete. Voi volete
l’uomo nuovo, Ministro? Io posso darvelo. Ma attento: ciò che nasce
dall’oscurità non sempre obbedisce.”
(si protende in avanti, poggia entrambe le mani sul tavolo, le dita magre che
tremano leggermente, poi di colpo si lascia cadere all’indietro, ridendo
sommessamente. I due agenti si irrigidiscono. Stefani resta immobile, lo
osserva.)
Stefani: (tono basso, ma freddo) “Dottore, le sarà dato ciò che chiede:
strumenti, sala operatoria, uomini. Ma una cosa deve essere chiara. Lei è qui
perché io l’ho chiesto. Se sbaglia… io non potrò proteggerla.”
Rambaldi: (si raddrizza, improvvisamente serio) “Proteggermi? Oh no, Ministro.
Io non voglio protezione. Io voglio vedere fino a che punto un uomo può
spezzarsi e ricomporsi. Voi dite di servire Roma. Io servo solo la mia
curiosità.”
(lungo silenzio; il soggetto lo mantiene fissandolo, occhi lucidi, sorriso
accennato. Stefani si passa lentamente una mano sul volto, visibilmente a
disagio, ma non lo interrompe.)
Rambaldi: (più piano, con tono grave) “E se pensate di controllarmi come si
controlla un cane… vi sbagliate. Io non sono un cane. Sono la lama che vi tenete
alla gola.”
(pausa. Stefani inspira profondamente, non replica. Appare, per la prima volta,
realmente teso.)
3. Osservazioni dell’agente
• Comportamento soggetto: fortemente provocatorio, posture teatrali (in piedi
sulla sedia, posizione yoga, sbalzi repentini).
• Impressione sul Ministro: visibilmente scosso, pur mantenendo calma formale.
Ha evitato di alzare la voce, ma il suo linguaggio non verbale denotava tensione
crescente.
• Valutazione generale: il soggetto sembra testare deliberatamente i limiti
della sua nuova condizione, alternando atteggiamenti docili a sfide apertamente
minacciose. Stefani appariva consapevole di trovarsi di fronte a un individuo
che non può essere trattato come un semplice subordinato.
.
VII

CENTRAL INTELLIGENCE AGENCY
Directorate of Operations
Intercettazione audio – fonte [REDACTED]
Data: 22 ottobre 1985
Luogo: Roma, Basilica di Santa Maria in Cosmedin (navata laterale, altare della
Vergine)
Classificazione: TOP SECRET / EYES ONLY
Trascrizione parziale – Codice nastro 85-RM/22-Σ
Oggetto: Trascrizione colloquio tra On. Francesco Saverio Stefani (Ministro
della Sanità) e Longino Ramelli (Agente CoSDi)
[Rumori di fondo]: canto corale in latino (liturgia aquileiana), incenso, voci
sommesse dei fedeli.
[Nota trascrittore]: I due soggetti parlano a bassa voce, inginocchiati davanti
all’altare laterale.
STEFANI (sussurrato): Le cose al ministero… non ti nascondo che sono peggiori
del previsto. I ragazzi… l’eroina li sta ammazzando più della guerra. E ora
dagli Stati Uniti arriva questa nuova malattia… una peste senza nome. Dicono
attacca soprattutto gli omosessuali e i tossicodipendenti. È come un’ombra che
cresce.
RAMELLI: Ho sentito qualcosa… voci confuse. Ma tu sembri più agitato del solito,
Francesco. Non è solo droga o malattia, vero?
STEFANI (pausa, rumore di tosse per coprire la voce): No. C’è anche… l’altro
progetto. Sai quale. E poi c’è quell’uomo… il medico. (sospira) Non sono
tranquillo.
RAMELLI (più vicino, quasi un mormorio): Non sei mai stato uno che si lascia
spaventare da un uomo solo. Allora dimmi la verità: perché mi hai chiesto di
vederti qui, in ginocchio davanti alla Vergine, in mezzo a decine di fedeli?
(pausa – si sente il coro salmodiare, campanello dell’incensiere)
STEFANI: Perché ieri ho trovato… una cimice. Dentro la cornetta del telefono di
casa.
RAMELLI (a bassa voce, ma con tono duro): Ne sei sicuro?
STEFANI: L’ho smontata io stesso. Era lì. Una microfonatura professionale, non
roba da dilettanti.
RAMELLI: Chi può essere stato?
STEFANI (tono teso): È questo che voglio tu scopra. Se è stato il vecchio… o
Messalla… o qualcun altro che gioca contro di me. Io non posso muovermi senza
sapere di chi fidarmi.
RAMELLI: Francesco… capisci bene in che terreno stai entrando. Io indago, ma se
davvero è partito dall’alto…
STEFANI (interrompendolo, con forza trattenuta): Appunto perché è rischioso mi
serve un uomo come te. Noi abbiamo condiviso il cielo d’Algeria, fianco a
fianco. Io non chiedo di proteggermi… chiedo solo la verità.
(pausa lunga – si ode il sacerdote cantare il Prefazio. I due rimangono in
silenzio.)
RAMELLI (sussurrato, quasi impercettibile): Va bene. Controllerò. Ma se scopro
che viene da lui… non sarai tu a rischiare soltanto.
STEFANI (più basso, quasi un sospiro): Lo so, Longino. Ma senza sapere chi mi
ascolta… sono già morto.
[Rumori di fondo]: Coro “Sanctus, Sanctus, Sanctus”, campane lontane. Fine
conversazione.
FINE TRASCRIZIONE
Analisi preliminare: la conferma del ritrovamento di una microfonatura nel
telefono di residenza privata del Ministro della Sanità indica una possibile
frattura interna tra lui e i vertici imperiali. Probabile conflitto di potere
legato al “progetto” in corso e alla figura di “un medico” recentemente
rilasciato.
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VIII
COMMISSIONE SPECIALE DI
DIFESA (CoSDi)
Direzione Generale – Sicurezza Interna
Classificazione: SEGRETISSIMO – MASSIMA URGENZA
Protocollo: 85/Σ-URG/117
Data: 24 ottobre 1985
Destinatario: Ammiraglio Pietro Paolo Messalla – Direttore Generale CoSDi
Mittente: Ufficio Controspionaggio, Settore Roma
Oggetto: Presenza in Roma di individuo operante sotto falsa identità di agente
CoSDi – trasmissione informazioni a potenze straniere (CIA)
1. Sintesi
Con la presente si segnala, con carattere di massima urgenza, la presenza
accertata in area urbana di Roma di un soggetto attualmente non identificato che
opera spacciandosi per funzionario operativo del CoSDi. Il soggetto risulta aver
stabilito canali di contatto con personale civile e militare, dai quali ha
estratto informazioni classificate e semi-classificate. Le evidenze raccolte
indicano che tali informazioni sono state trasmesse a canali riconducibili alla
Central Intelligence Agency (CIA).
2. Profilo provvisorio del soggetto
•
Probabile background: ex militare (grado non identificato, verosimilmente
sottufficiale).
•
Competenze: dimostrata conoscenza di lessico, procedure e comportamenti tipici
di agenti CoSDi; tale competenza è ritenuta frutto dell’esperienza militare
pregressa.
•
Modus operandi: il soggetto non dichiara mai esplicitamente di appartenere al
CoSDi, ma adotta posture, linguaggio e atteggiamenti tali da indurre gli
interlocutori a crederlo agente in servizio. L’equivoco è sistematicamente
lasciato nascere dal contesto.
•
Obiettivo: infiltrarsi in ambienti civili e militari di basso-medio livello per
raccogliere notizie logistiche, movimenti di personale, disposizioni operative
non strategiche ma utili per finalità di intelligence straniera.
3. Stato delle indagini
• Fonti riservate hanno confermato che almeno tre ufficiali subalterni
dell’Esercito hanno scambiato il soggetto per un agente CoSDi e gli hanno
riferito informazioni non autorizzate.
• Contatti di HUMINT indicano che rapporti raccolti dal soggetto sono stati
veicolati a terze persone legate a strutture diplomatiche occidentali.
• Alto rischio che il materiale raccolto sia già giunto a Washington.
4. Valutazione
La capacità del soggetto di impersonare un agente CoSDi senza mai dichiararlo
apertamente rappresenta una minaccia concreta alla sicurezza interna. L’uso di
conoscenze militari pregresse e di un comportamento perfettamente calibrato
rende difficile l’individuazione immediata da parte del personale meno esperto.
Rischio prioritario: compromissione di operazioni riservate in area romana e
smascheramento di personale reale CoSDi attraverso false associazioni.
5. Raccomandazioni operative
1. Attivazione immediata di caccia riservata al soggetto in collaborazione con
la Polizia Militare.
2. Diffusione di circolare interna riservata al personale in servizio, avvisando
circa la presenza di un imitatore e precisando la necessità di verificare sempre
l’identità di chi si dichiara o appare come agente CoSDi.
3. Incarico diretto al settore SIGINT per monitorare eventuali trasmissioni
anomale verso canali statunitensi.
4. Una volta individuato, il soggetto dovrà essere neutralizzato con urgenza,
previo interrogatorio approfondito per determinare l’estensione del danno
informativo.
Per disposizione del Direttore Generale
[Firma autografa illeggibile]
Capo Ufficio Controspionaggio – Settore Roma
.
IX

THE WHITE HOUSE
Washington D.C.
Classificazione: TOP SECRET – EYES ONLY
Data: 29 ottobre 1985
Oggetto: Verbale riunione Studio Ovale – situazione Impero Romano d’Occidente
(“Romania”) / Progetto TITAN-51
Partecipanti
• Ronald Reagan, Presidente degli Stati Uniti
• George H. W. Bush, Vicepresidente
• George Shultz, Segretario di Stato
• Caspar Weinberger, Segretario alla Difesa
• William J. Casey, Director of Central Intelligence (DCI)
• Robert McFarlane, Consigliere per la Sicurezza Nazionale
• James Baker, Capo di Gabinetto
• Jeane Kirkpatrick, Ambasciatrice USA presso l’ONU
Sintesi dei lavori
Ore 09:02 – Apertura riunione da parte del Presidente Reagan.
Il DCI Casey introduce il materiale audio ricevuto dalla CIA tramite fonte
[REDACTED]. Si tratta di una registrazione clandestina effettuata durante
un’operazione neurochirurgica condotta personalmente dall’Imperatore Paolo VIII
all’interno del programma noto come TITAN-51.
Ore 09:07 – 09:28 – Ascolto del nastro.
L’audio (trascrizione parziale allegata al fascicolo CIA 85-TITAN/Σ) mostra
chiaramente:
• procedure chirurgiche non autorizzate su prigioniero presumibilmente algerino;
• tentativo di impianto cerebrale fallito, con danni irreversibili al soggetto;
• tono aggressivo del “Primario” che accusa l’équipe medica di incompetenza e
allude a un “progetto ritardato”.
Durante l’ascolto, i presenti sono visibilmente a disagio.
Il Presidente Reagan scuote ripetutamente la testa, a un certo punto alza la
mano interrompendo la riproduzione: “That’s enough. I don’t need to hear more of
this.”
Discussione
Casey (DCI): “Abbiamo conferma di ciò che sospettavamo: esperimenti medici
condotti con finalità militari su prigionieri. L’Impero non è solo una dittatura
nazionalista, sta giocando con la biologia umana.”
Weinberger (Difesa): “Se avessero successo, potrebbero creare truppe modificate.
Non parliamo di fantascienza, signor Presidente, parliamo di un rischio concreto
per la NATO.”
Kirkpatrick (ONU): “Non possiamo reagire in modo impulsivo. Roma rimane un
contrappeso fondamentale ai sovietici nel Mediterraneo. Paolo VIII è brutale, ma
un brutale anticomunista. Il nostro compito è recuperarlo, non spingerlo nelle
braccia di Mosca.”
Bush (Vicepresidente): “Jeane, con tutto il rispetto, questo non è un normale
caso di diritti umani violati. Qui parliamo di uomini aperti vivi su tavoli
operatori. C’è una linea che non possiamo permettere venga oltrepassata senza
conseguenze.”
Shultz (Stato): “Dobbiamo considerare le opzioni diplomatiche. Esporre la
questione in sede ONU, proporre ispezioni, spingere l’Impero a collaborare. Ma
sappiamo che non accetteranno facilmente.”
Baker (Capo Staff): “Qualsiasi azione, diplomatica o militare, rischia di far
crollare rapporti costruiti in quarant’anni. Ma il silenzio ci renderebbe
complici.”
McFarlane (Sicurezza Nazionale): “Signor Presidente, dobbiamo definire una ‘red
line’. Se accettiamo che Roma possa torturare prigionieri per crearne
supersoldati, stiamo dicendo al mondo libero che tutto è permesso. Non possiamo
permetterlo.”
Reazione del Presidente
Il Presidente Reagan appare profondamente scosso. Tiene per diversi secondi il
volto tra le mani, quindi interviene con tono grave:
“I grew up with stories of barbarism in the Old World. I never imagined we’d be
sitting here in 1985 listening to something even darker. This isn’t just wrong.
It’s evil.”
“What I heard on that tape… it’s not just a crime against those poor men, it’s a
crime against humanity itself.”
Reagan sottolinea che il problema non può essere ridotto a un semplice calcolo
geopolitico:
“If we pretend this didn’t happen, we sell our soul for short-term strategy. And
I won’t do that.”
Decisione Presidenziale
Reagan (conclusione, ore 10:02):
“Roma ha varcato una linea rossa che non doveva essere superata. Non possiamo
ignorarlo, non possiamo insabbiarlo.
Daremo istruzioni per preparare un pacchetto di opzioni: diplomatiche,
economiche, e, se necessario, anche militari.
Il mondo libero deve sapere che ci sono limiti che non si oltrepassano. Non
sotto la mia presidenza.”
Esito
1. DCI incaricato di fornire entro 48 ore ulteriori analisi su TITAN-51 e
valutazione delle capacità reali del programma.
2. Dipartimento di Stato incaricato di preparare schema di azione diplomatica
multilaterale (ONU, NATO).
3. Dipartimento della Difesa incaricato di predisporre scenari di risposta
militare “in extremis”.
Verbale redatto da: [REDACTED]
Classificazione: TOP SECRET – EYES ONLY
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X

COMMISSIONE SPECIALE DI
DIFESA (CoSDi)
DIREZIONE MONITORAGGIO COMUNICAZIONI
Classificazione: SEGRETISSIMO
Protocollo: SIGINT/85-Σ-442
Data: 2 novembre 1985
Oggetto: Trascrizione di comunicato radiofonico ostile – emittente clandestina
algerina
[Inizio trascrizione]
(segnale disturbato, voce maschile forte e scandita, con inflessione maghrebina;
rumore di sottofondo, probabile registratore a nastro)
“Lode ad Allāh, Signore dei mondi, Colui che ha promesso vittoria ai credenti
sinceri e umiliazione ai tiranni. Benedizione e pace sul nostro Profeta
Muḥammad, sulla sua famiglia e sui suoi compagni, lampade della guida.”
“O musulmani dell’Algeria e dell’intero Maghreb! Ascoltate la parola della
verità. Il falso imperatore di Roma non è che un servo di Iblīs. Si veste d’oro,
ma il suo cuore è fatto di tenebra. Egli pretende di essere padre del suo
popolo, ma è padre solo delle menzogne e dei torturatori.”
“I suoi soldati, che profanano la terra dell’Islam e si credono eredi di Cesare,
non sono che cani al guinzaglio del Maledetto. Essi scaveranno da soli la loro
fossa, e il fuoco della Geenna li attende. E colui che oggi porta la corona di
Roma sarà ricacciato tra i servi di Satana, incatenato per l’eternità.”
“Noi giuriamo davanti ad Allāh che Cartagine, che essi hanno osato chiamare
colonia, sarà liberata. Cartagine diventerà cittadella dell’Islam, trampolino di
lancio per la grande invasione che spezzerà le mura di Roma. Così come Annibale
marciò un tempo sulle Alpi, così i figli del Profeta marceranno attraverso il
mare per abbattere l’idolo imperiale.”
“O voi giovani musulmani, non temete la morte, ché la morte sulla via di Allāh è
vita eterna! Unitevi alla resistenza, portate il ferro e il fuoco contro
l’usurpatore. I vostri fratelli già combattono e cadono, e ogni goccia del loro
sangue è luce che ci indica la vittoria.”
“Allāhu akbar! Allāhu akbar! Allāhu akbar!”
*(trasmissione interrotta, segnale sfumato)
[Fine trascrizione]
Analisi preliminare:
•
Voce: attribuita a Sayyid Muḥammad Mujāhid al-Barqī, leader della resistenza
islamica in Mauritania.
•
Contenuti: attacco diretto all’Imperatore e all’esercito, con toni
religiosi-apocalittici; dichiarazione d’intenti su Cartagine come obiettivo
militare-strategico.
•
Funzione: propaganda e reclutamento.
.
XI
CoSDi – Ufficio
Stenografico Riservato
Classificazione: SEGRETISSIMO
Protocollo: TRS-51/INT-PR-1
Luogo: Palazzo Imperiale, Roma – Sala Consiliare Annessa al Gabinetto di
Guerra
Data: 29 ottobre 1985
Oggetto: Resoconto incontro tra S.M. l’Imperatore e il dott. Eugenio
Rambaldi (scarcerato)
[Inizio trascrizione]
(rumore di sedie; brusio soffocato. Porta che si chiude con colpo secco.
Silenzio prolungato.)
Imperatore: (tono freddo) “Dottor Rambaldi. Le è stato concesso l’onore
di trovarsi davanti a me. Non sprechi questa occasione.”
Rambaldi: (voce roca, ironica) “Onore? Oh, maestà, dopo due anni in una
cella di isolamento, l’onore è già quello di rivedere un volto umano. Anche se…
non proprio il volto che speravo.”
(si ode un lieve colpo di tosse di Stefani; Messalla resta impassibile.)
Imperatore: (stringendo le labbra) “Le parlerò chiaro. Abbiamo avviato un
programma d’avanguardia. Chirurgia neuro-cerebrale applicata a soggetti
selezionati. Procedure precise, calcolate. Lei dovrà attenersi ai protocolli che
le verranno forniti.”
Rambaldi: (sorride, tono mellifluo) “Protocolli… sì, ho sentito parlare
delle vostre ‘procedure’. A giudicare dai risultati… cadaveri mutilati e
fallimenti su fallimenti. Complimenti, maestà. Degni di un manuale da
dilettanti.”
(silenzio improvviso. Stefani abbassa lo sguardo, visibilmente teso. Messalla
rimane immobile, ma con un lampo ironico negli occhi.)
Imperatore: (tono contenuto, glaciale) “Lei osa…? Ricordi bene a chi sta
parlando. Non mi interessa la sua arroganza. Qui non siamo a un simposio di
Harvard, ma nell’Impero Romano. Qui le sue teorie devono produrre risultati. E
subito.”
Rambaldi: (si alza di scatto, posa le mani sul tavolo, inclinato in
avanti) “Oh, ma io non discuto i suoi risultati, maestà. Li derido. Perché sono
patetici.”
(colpo secco sul tavolo. La voce dell’Imperatore sale di tono.)
Imperatore: “BASTA! NON TOLLERERÒ ULTERIORI INSOLENZE! Lei non ha idea
della portata di ciò che stiamo costruendo. NON UNA SOLA IDEA! Crede di potermi
trattare come un allievo in difficoltà? Io sono l’Imperatore di Roma!”
(pausa lunga; rumore di sedia spinta bruscamente indietro. Passi rapidi verso
la porta. Stefani si irrigidisce, sussurra a bassa voce un “Dio mio…”)
Rambaldi: (voce melliflua, quasi calma) “Ed è proprio perché lei è
l’Imperatore che non può più permettersi di sbagliare. Vuole sapere perché i
suoi innesti hanno fallito? Glielo dico io.”
(l’Imperatore si ferma, mano sulla maniglia; silenzio teso.)
Rambaldi: “Voi avete sbagliato l’accesso. Parasagittale, certo… ma
l’approccio transcalloso che avete usato? Troppo traumatico. Il VLPO non tollera
quel tipo di aggressione. Bisogna ridurre l’edema iniziale, isolare i fasci
nervosi circostanti, e soprattutto—” (fa un gesto con la mano, indicando una
mappa cerebrale su un fascicolo) “—non impiantare a crudo. Serve una
micro-coltura di cellule gliali, pre-condizionate, altrimenti l’innesto viene
rigettato in ore.”
Imperatore: (voce bassa, cupa) “…e perché dovrei crederle?”
Rambaldi: (sorriso sottile) “Perché io sono l’unico qui dentro che sa
come farcela. Lei ha bisogno di me, maestà. E io… non vedo l’ora di mettere le
mani sui suoi giocattoli.”
(silenzio prolungato. L’Imperatore resta immobile, schiena rigida. Stefani
trattiene il respiro; Messalla abbassa lo sguardo, ma dietro la sua maschera di
pietra traspare un lampo divertito.)
Imperatore: (secco) “Benissimo. Allora da oggi lei è parte di TITAN-51.
Non mi deluda, dottor Rambaldi. Non mi deluda mai.”
(porta che si richiude con colpo deciso. Fine colloquio.)
[Fine trascrizione]
.
XII

Central Intelligence
Agency – Directorate of Operations
SIGINT / HUMINT Joint Report
Data intercettazione: 3 novembre 1985
Luogo: Roma, orinatoio pubblico in Via Flaminia
Fonte tecnica: [REDACTED]
Oggetto: Trascrizione colloquio tra On. Francesco Saverio Stefani
(Ministro della Sanità) e Longino Ramelli (Agente CoSDi)
[Inizio trascrizione]
(rumore di passi; porta che cigola; eco di ambiente angusto. Acqua che
scorre in un vecchio tubo. I due uomini parlano a bassa voce, fingendo di
urinare.)
Ramelli: (tono basso) “Francesco… prima di tutto, una cosa che ti farà
sorridere. Pare ci sia in giro un tizio che si spaccia per uno di noi. Non lo
dice mai apertamente, ma si comporta, parla, si muove come un agente del CoSDi.
E la gente ci casca.”
Stefani: (ironico, ma nervoso) “Un impostore… ecco cosa ci mancava. Ma
dimmi la verità, Longino, non è per questo che hai chiesto di vedermi qui, come
due ragazzini a fumare di nascosto.”
(pausa, solo gocciolii e lo scorrere dell’acqua nei tubi.)
Ramelli: (sospira) “Hai ragione. Sono andato avanti con l’indagine sulla
cimice nel tuo telefono. E il nome che viene fuori… è quello che temevamo:
ordine diretto di Messalla. Vuole sapere tutto quello che dici, a chi, quando.”
Stefani: (sussurra, con rabbia contenuta) “…quel cane. Sempre lui. Ma ero
certo che non fosse iniziativa del Vecchio. Lui non spreca così i suoi
strumenti.”
Ramelli: (ironico) “Ah, ecco… ed è qui che viene la parte interessante.
Pare che il Vecchio… non si fidi di nessuno. Nemmeno di Messalla.”
Stefani: (interdetto) “…che vuoi dire?”
Ramelli: “Che da anni si è costruito un servizio segreto personale. Roba
sua. Nessun legame formale col CoSDi. Tutta gente presa dai nostri scarti: ex
agenti, ex militari. Li paga come se fossero idraulici, giardinieri, tecnici di
palazzo. Ma in realtà fanno da occhi e orecchie solo per lui. E controllano
tutti.”
Stefani: (quasi incredulo) “…tutti?”
Ramelli: “Tutti. Messalla, te, gli altri ministri, i capi di stato
maggiore. Lo so da due fonti, entrambe attendibili.”
(silenzio pesante. Si sente solo un colpo d’acqua nello scarico. La voce di
Stefani arriva strozzata, più che sussurrata.)
Stefani: “…E tu mi stai dicendo che questo va avanti da…?”
Ramelli: “Da diversi anni, Francesco. Non è nato ieri. È lì, silenzioso,
sotto le nostre narici. E funziona. Funziona meglio di noi, a quanto pare.”
(pausa lunga. Stefani prende fiato, tono cupo, quasi un rantolo.)
Stefani: “Dio mio… e se allora… se questo fosse solo il preludio? Se il
Vecchio stesse preparando… una purga? Una purga totale?”
Ramelli: (silenzio, poi un sussurro glaciale) “Io temo che tu abbia
appena detto l’unica verità che conta.”
(lunga pausa. Rumore di zip chiuse. Passi che si allontanano sul cemento.
Porta che cigola. Silenzio.)
[Fine trascrizione]
.
XIII
Commissione Speciale di
Difesa (CoSDi)
Sezione Intercettazioni Riservate – Ufficio Operazioni Interne
Classificazione: SEGRETISSIMO – AD USO ESCLUSIVO DEL DIRETTORE GENERALE
Data: 9 novembre 1985
Luogo: Ministero della Sanità, Roma
Oggetto: Trascrizione incontro tra On. Francesco Saverio Stefani
(Ministro della Sanità) e Amm. Pietro Paolo Messalla (Direttore Generale CoSDi)
[Inizio trascrizione]
(rumore di porta che si chiude; passi su pavimento in marmo; sedie che
strisciano. Silenzio breve, poi voci maschili.)
Stefani: (tono cordiale, ma impostato) “Ammiraglio, grazie per essere
venuto. Volevo aggiornarla sul… nostro uomo. Rambaldi.”
Messalla: (voce grave, controllata) “Parli pure.”
Stefani: “È stato operativo solo pochi giorni dentro il programma, ma… i
progressi sono stati tangibili. Il lavoro di mesi, forse anni, si è sbloccato in
una manciata d’ore. È una mente disturbata, certo, ma con un talento fuori dal
comune.”
Messalla: “Disturbata… non è un termine da poco per uno che lavora in
un’area così delicata. E tuttavia… mi pare che lei sia soddisfatto.”
Stefani: (accenna un sorriso) “Soddisfatto, sì. Prudente, anche. Vede,
Ammiraglio… in certi casi il genio è un coltello a doppio taglio. E un coltello,
se lo tieni male, prima o poi ti recide la mano.”
(breve silenzio. Fruscio di carte che vengono sistemate sulla scrivania.)
Messalla: “Venga al punto, Ministro. Perché mi sembra che ci sia
qualcos’altro che desidera dirmi.”
Stefani: (voce bassa, lenta) “Un capo dei servizi segreti che non sa di
essere spiato… probabilmente non fa troppo bene il proprio lavoro.”
(silenzio improvviso; rumore distante di orologio da parete. La voce di
Messalla resta ferma, ma più tagliente.)
Messalla: “Attento a come parla, Ministro.”
Stefani: (serio, senza cambiare tono) “Non ho fatto nomi. Ma, se io fossi
lei, mi chiederei: chi ha interesse a sapere ogni mia mossa, ogni mio respiro?
E, soprattutto… chi avrebbe i mezzi per farlo senza che io lo scopra?”
(breve pausa. Rumore di penna che cade sul tavolo. Voce di Messalla più dura,
ma incrinata.)
Messalla: “…Capisco. Dunque, lei suggerisce che non è il mio apparato… ma
il suo.”
Stefani: (calmo) “Non suggerisco nulla, Ammiraglio. Dico solo che ci sono
reti che vanno oltre il CoSDi. Reti molto vicine al palazzo. E che, a quanto
pare, funzionano da anni senza che nessuno se ne accorgesse.”
(pausa lunga. Si percepisce un respiro profondo di Messalla. La voce
successiva ha perso per un istante la sua solita freddezza.)
Messalla: “…Notevole. Devo ammettere che non me l’aspettavo.”
(silenzio pesante. Poi Messalla si ricompone: tono glaciale, controllato, ma
più basso e confidenziale.)
Messalla: “Allora ascolti, Ministro. Le nostre divergenze sono note, ma
una cosa è certa: se ciò che lei lascia intendere è vero… ci sarà tempesta. E
quando arriverà, non basterà fare finta di nulla. Meglio affrontarla… insieme.
Lei ed io.”
(fruscio di sedie spinte all’indietro; passi che si allontanano. Porta che si
apre e si richiude. Fine conversazione.)
[Fine trascrizione]
.
XIV

[TRASCRIZIONE AUDIO –
CLASSIFICATO “TITAN-51” – A USO ESCLUSIVO DI SUA MAESTÀ IMPERIALE]
Data: 12 novembre 1985 – ore 09:17 – Centro Chirurgico Riservato
Luogo: [REDACTED] – Area di Ricerca Neurochirurgica
Partecipanti in sala operatoria:
• Primario: Dott. Eugenio Rambaldi
• Medico 1
• Medico 2
• Anestesista
• Infermiere Assistente
Nota preliminare: Sua Maestà Imperiale Paolo VIII segue l’operazione da
stanza adiacente, tramite circuito audio-video diretto.
[09:17 – Rumore metallico, strumenti chirurgici disposti sul tavolo. Il
nastro inizia con la voce del Primario.]
Rambaldi (Primario): Incisione parasagittale anteriore completata. Falce
cerebrale esposta. Preparate l’aspiratore, campo asciutto. Bene… bene. Ora
procediamo.
Medico 1: Emostasi in corso. Parametri vitali stabili: pressione 120/80,
frequenza cardiaca 72.
Rambaldi: Buono. Non facciamo sciocchezze, oggi non deve esserci sangue
perso inutilmente. Bisturi bipolare. [pausa – rumore di cauterizzazione]
Ottimo.
Medico 2: Accesso transcalloso pronto, Primario.
Rambaldi: Entriamo nel ventricolo laterale… delicatamente… [mormora]
vedi? Non è difficile, basta non avere mani da macellaio. Siamo dentro.
Identifico il fornice… eccolo.
Medico 1: Saturazione 98%, nessuna variazione significativa.
Anestesista: Paziente stabile, Primario.
Rambaldi: Bene. Ci siamo. Adesso la parte delicata: raggiungere il nucleo
preottico ventrolaterale. [pausa lunga, solo rumori di aspirazione]
Eccolo… eccolo… sì. È lì.
Medico 2: Campo operatorio chiaro.
Rambaldi: Prendete l’innesto. Con calma. [rumore metallico – strumenti
passati] Ora vedete, colleghi… [tono quasi ironico] questo è il punto
in cui i vostri “migliori del mondo” hanno sempre fallito. Ma non oggi.
[Silenzio concentrato, solo il suono degli strumenti. Si percepisce la
tensione.]
Rambaldi: Innesto introdotto. Posizionato… perfettamente in sede.
[pausa] Lo fissiamo. Non si muove. È stabile.
Medico 1 (con emozione): Parametri ancora invariati. Non ci sono segni di
rigetto immediato.
Medico 2: Connessioni bioelettriche regolari. Stimolazione risponde.
Rambaldi (quasi trionfante): Funziona. Finalmente funziona. Segnate
l’orario: ore 09:46, primo impianto stabile completato con successo.
Anestesista: Paziente stabile, pressione 118/79. Non c’è crisi.
Rambaldi: [ride sommessamente] Avete visto? Non era impossibile.
Solo incompetenza e paura vi fermavano.
[09:50 – voci confuse, brusio tra i medici.]
Rambaldi: Sua Maestà avrà ciò che voleva. Oggi abbiamo aperto la porta.
Da qui in avanti, non si torna indietro.
Medico 1: Intervento concluso. Suturiamo.
[Rumori metallici, strumenti riposti. Voce di Rambaldi, più bassa, come
parlasse a sé stesso:]
Questo è solo l’inizio. Oggi nasce il primo dei nuovi uomini.
[TRASCRIZIONE TERMINATA – NASTRO CLASSIFICATO]
Nota finale: Nessuna complicazione intraoperatoria. L’innesto appare
stabile. Si raccomanda monitoraggio continuativo nelle prossime 72 ore.
.
XV

[Canale 1 – Telegiornale
della Sera, 20:00 – Roma, 12 novembre 1985]
(Sigla d’apertura, musica marziale. Lo studio è illuminato, il conduttore
siede con espressione grave, sfoglia i fogli sul tavolo e si rivolge alla
telecamera.)
Conduttore:
“Buonasera, cittadini dell’Impero. Apriamo questa edizione straordinaria con
notizie appena giunte dalla Mauritania.
Secondo rapporti frammentari, le forze islamiste hanno lanciato una vasta
offensiva contro le nostre guarnigioni. Non si tratta di scaramucce isolate: da
quanto emerge, l’intera regione è sotto attacco, inclusa la città di Algeri.
Le sensazioni che trapelano dallo Stato Maggiore non sono buone: la pressione
nemica è forte e i nostri reparti stanno opponendo resistenza, ma la situazione
appare critica. Non abbiamo ancora un quadro chiaro delle perdite né delle
posizioni in mano ai ribelli, ma possiamo affermare che—”
(Improvvisamente un boato fortissimo scuote lo studio. La telecamera vibra,
alcuni fogli volano dal banco. Silenzio di gelo, il conduttore resta immobile
per qualche secondo, poi si guarda attorno. Si ode un brusio fuori campo.)
Conduttore:
“(confuso) …Un’esplosione… un’esplosione qui a Roma. Avete sentito chiaramente…
(porta la mano all’auricolare) …Sì, dalla regia mi confermano: si tratta di una
bomba. Si vede fumo in direzione del Gianicolo…”
(Momenti di esitazione, il conduttore cerca nuovi fogli appena consegnati. La
tensione è palpabile.)
Conduttore:
“Attenzione, signore e signori, è appena arrivato un primo dispaccio dalle
agenzie. Non si tratta di un solo ordigno: due bombe sono esplose nella
capitale.
La più potente ha devastato la caserma di Castro Pretorio. Una seconda, di
minore intensità, è esplosa presso l’ossario del Gianicolo. Le prime stime
parlano già di tredici morti accertati, tutti militari, ma le fonti avvertono
che il numero delle vittime è destinato a salire nelle prossime ore.
Ripetiamo: due esplosioni, una alla caserma Castro Pretorio, una al Gianicolo.
Roma è stata colpita.”
(Silenzio pesante. Il conduttore abbassa lo sguardo, le immagini si
interrompono bruscamente. Schermo nero.)
.
XVI

IL MESSAGGERO - 13
novembre 1985
Roma ferita, ma non piegata: il
giorno più buio dell’Impero
Un attacco coordinato senza precedenti ha colpito ieri il cuore dell’Impero,
seminando morte e paura nelle nostre città.
Mentre in Mauritania infuriava la più grave offensiva islamista mai registrata
in vent’anni di occupazione, con migliaia di soldati romani caduti sul campo,
Roma e altre grandi città della penisola venivano scosse da esplosioni
devastanti.
Il fronte esterno: la peggiore offensiva di sempre
Da Algeri a Orano, intere guarnigioni romane sono state attaccate da milizie
islamiste con una violenza che i nostri comandi non esitano a definire “senza
precedenti”. È la più grande offensiva da quando la Mauritania è sotto il
controllo romano.
Le prime stime parlano di migliaia di soldati caduti e di postazioni strategiche
perse, seppur temporaneamente. Fonti militari confermano che reparti corazzati e
aviazione imperiale sono stati lanciati in massa per contenere l’avanzata, ma la
battaglia è ancora in corso e il bilancio si aggrava di ora in ora. Lo stato
maggiore non ha ancora diffuso notizie ufficiali, ma si sa per certo che Bescera
e gli avamposti a sud dell’Atlante sono stati travolti dall’offensiva islamista,
mentre Algeri, Orano e gli avamposti costieri sarebbero sotto assedio.
Roma sotto le macerie
Alle 20:11 di ieri sera una deflagrazione ha squassato il centro della capitale,
colpendo la Caserma di Castro Pretorio. Due minuti dopo, un altro ordigno è
esploso all’Ossario del Gianicolo.
La scena che si è presentata ai primi soccorritori è stata di una devastazione
inimmaginabile: muri crollati, fumo, corpi estratti dalle macerie.
Il bilancio provvisorio è drammatico: 291 morti solo a Roma, in gran parte
militari di stanza alla caserma, ma anche civili coinvolti dalle esplosioni.
E la capitale non è stata l’unico bersaglio: ordigni sono esplosi anche a
Milano, Napoli e Torino, causando decine di vittime e gettando l’intera nazione
nel panico.
“È come se la guerra fosse entrata in casa nostra”, ha detto un testimone, con
il volto ancora coperto di polvere, dopo aver aiutato i vigili del fuoco a
estrarre i sopravvissuti dalle macerie del Gianicolo.
La paura dei cittadini
Per la prima volta dopo decenni, i romani si sentono vulnerabili. Lunghe
file di cittadini si sono radunate davanti agli ospedali per donare sangue,
mentre altri, presi dal panico, stanno abbandonando la capitale.
In tutte le città colpite si registra un clima di paura, con scuole chiuse e
strade presidiate dai militari. “Non ci sentiamo più sicuri – racconta un
giovane in piazza Venezia – se possono colpire qui, possono colpire ovunque.”
Le parole dei leader
Poche ore dopo le esplosioni, l’Imperatore Paolo VIII è apparso in
televisione con un messaggio solenne alla nazione:
“I nemici dell’Impero hanno colpito vigliaccamente, ma non piegheranno la
nostra civiltà. Roma ha resistito a invasioni ben più grandi e continuerà a
resistere. Il nostro popolo deve restare unito e saldo. La risposta dell’Impero
sarà implacabile.”
Anche il ministro della Sanità, Francesco Saverio Stefani, ha preso la parola in
una dichiarazione pubblica dai toni accorati:
“Oggi non parlo da politico, ma da padre e da cittadino. La paura che molti
di voi provano è la stessa che provano i miei figli. Ma non dobbiamo lasciarci
avvelenare dalla disperazione. L’Impero è ferito, ma non è sconfitto. E noi
guariremo questa ferita, insieme.”
Una nazione in lutto e in attesa
Mentre Roma conta i morti e i feriti, e le forze armate cercano di reagire
in Mauritania, l’Impero intero è sospeso in un silenzio drammatico. I funerali
di Stato per le vittime di Castro Pretorio sono previsti già nei prossimi
giorni.
L’attacco del 12 novembre rimarrà come una data incisa nella carne dell’Impero:
il giorno in cui la guerra è arrivata a casa nostra.
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XVII

IMPERIUM ROMANUM
SEGRETERIA IMPERIALE – UFFICIO DEL CAPO SEGRETERIA
CLASSIFICAZIONE: SEGRETISSIMO // USO RISERVATO
VERBALE DELLA RIUNIONE D’EMERGENZA DEL GABINETTO IMPERIALE
Data: 12 novembre 1985 – ore 23:55
Luogo: Sala del Consiglio, Palazzo Imperiale, Roma
Redatto da: Costantino Loggia, Capo della Segreteria Imperiale
PARTECIPANTI
• S.M. l’Imperatore Paolo VIII Giraldini
• Marco Aurelio Ambrosino, Capo della Polizia
• On. Germano Anicio, Sottosegretario alla
Difesa
• Proconsole Generale Paolo Anastasi, Capo di
Stato Maggiore delle Forze Armate
• On. Cassio Concordia, Sottosegretario agli
Interni
• Ammiraglio Francesco Tullio-Cicerone, Capo
di Stato Maggiore della Marina
• Ammiraglio Pietro Paolo Messalla, Direttore
Generale del CoSDi
• On. Francesco Saverio Salvio-Stefani,
Ministro della Sanità
• Propretore Generale Sesto Silla, Capo di
Stato Maggiore dell’Esercito
• Raffaele Taranto, Ministro degli Esteri
• Costantino Loggia, Capo della Segreteria
Imperiale
SVOLGIMENTO DEI LAVORI
Ore 23:55 – Apertura
L’Imperatore, rientrato in urgenza dal centro operativo di TITAN-51, apre la
riunione dopo aver appena concluso il discorso a reti unificate. Durante la sua
allocuzione televisiva è giunta la rivendicazione ufficiale di Muhammad
al-Barqī, confermando la matrice islamista degli attentati.
Il bilancio provvisorio delle vittime a Roma è già salito a 116 morti, tra cui
civili; si registrano ulteriori vittime a Milano, Napoli e Torino.
Relazione militare (Gen. Anastasi, Gen. Silla)
• Situazione in Mauritania “gravissima”: cadute
Bescera (Biskra), Vienna Mauritana (Sidi Bel Abbès), Augusta degli Zenati (El
Menia) e numerosi avamposti a sud della catena dell’Atlante.
• Le città di Algeri, Orano, Cesarea di Mauritania
(Cherchell) sotto assedio.
• Perdite stimate: decine di migliaia di caduti
militari, centinaia di migliaia di civili romani sfollati.
• Richiesta immediata: predisporre evacuazioni di
massa.
Intervento Amm. Tullio-Cicerone
Conferma che la Marina è pronta a predisporre una forza navale straordinaria per
il trasferimento di civili in Italia, Cartagine o Tripolitania.
Clima e responsabilità interne
Discussione accesa tra i vertici:
• Silla e Anastasi accusano il CoSDi di non aver
previsto l’offensiva.
• Ambrosino ribatte sull’inefficacia del controllo
territoriale e la mancanza di intelligence militare.
• Messalla respinge le accuse, attribuendo a Polizia
ed Esercito il fallimento nel filtraggio dei traffici e nell’interdizione
logistica.
L’Imperatore interrompe con durezza: “Non siamo qui per contare i vostri
fallimenti, ma per decidere come annientare chi ha osato colpirci, perché non ho
intenzione di passare alla Storia come l’Imperatore che regnava quando un branco
di pastori algerini violentatori di capre [sic] hanno messo fine a ventuno
secoli di controllo romano dell’Africa!”
Dichiarazione dell’Imperatore
Afferma che i progressi in TITAN-51 garantiranno all’Impero la vendetta
definitiva.
“La risposta sarà totale. Chiunque dubiti dell’Impero, finirà peggio dei nostri
nemici.”
Proposta Stefani-Messalla
Stefani: “Maestà, però servono risposte immediate, e serve coordinamento.
Non possiamo permetterci catene di comando parallele. L’efficacia richiede che i
ministeri dell’Interno e della Difesa siano affidati a figure operative, non
gestiti direttamente dalla Maestà.”
Messalla: “Non è una questione di prerogative, ma di funzionalità. Senza
una linea univoca, l’Impero rischia la paralisi.”
Anastasi concorda: “Condivido. Un comando politico chiaro rafforza anche
l’autorità militare.”
Taranto media: “L’Imperatore non perderebbe nulla in autorità, ma
guadagnerebbe strumenti più agili di governo.”
(Silenzio pesante. Tutti attendono la reazione dell’Imperatore.)
Risposta dell’Imperatore
Dopo una lunga pausa, SM dichiara:
“Va bene. Se l’Impero deve sopravvivere, la sua macchina deve funzionare. Lascio
ai miei segretari l’onere di valutare i nomi. Ma sia chiaro: la responsabilità
resta mia, e mia soltanto.”
(Nota stenografica: Messalla e Stefani si guardano, colti di sorpresa dalla
risposta di SM)
Decisioni operative immediate
• Richiamo dei riservisti e trattenimento in servizio
delle classi di leva attuali.
• Richiamo urgente delle classi congedate negli
ultimi due anni.
• Preparazione immediata della Marina per evacuazioni
civili da Algeri, Orano e Cesarea verso Italia, Cartagine e Tripolitania.
• Intensificazione delle operazioni di
controspionaggio interno per neutralizzare reti islamiste in territorio
metropolitano.
Ore 01:30 – Chiusura della riunione
L’Imperatore chiude:
“Roma è stata colpita, ma Roma non cadrà. I nostri nemici hanno aperto la loro
stessa tomba.”
FIRMATO:
Costantino Loggia
Capo della Segreteria Imperiale
.
XVIII

Diario personale di
Francesco Saverio Salvio-Stefani
Roma, notte tra il 12 e il 13 novembre 1985
Questa giornata rimarrà scolpita nella mia memoria come un presagio.
La mattina, mentre uscivo da casa, fui avvicinato da uno straniero. Un
americano, lo capii subito: la pronuncia tradiva la sua origine, anche se
parlava un italiano sorprendentemente corretto. Non fece mai riferimento
esplicito a nulla, ma il senso delle sue parole era chiaro: se a Roma ci fosse
stato un cambio al vertice, Washington non ne sarebbe stata scontenta.
Non ho idea di chi fosse, né se agisse davvero per conto del suo governo. Ma
quel messaggio era un macigno.
Più tardi, nel mio ufficio, udii il boato. Le pareti tremarono e la finestra
vibrò. Mi affacciai subito: dal Gianicolo saliva una colonna di fumo scuro, e
dalle strade sottostanti si levava un concerto di sirene, ambulanze e autopompe.
Allora compresi che la guerra non era più solo in Mauritania. Era qui, a Roma.
La seduta di gabinetto, ore dopo, fu un campo di battaglia senza armi. Generali
e funzionari si accusavano a vicenda, la voce di Anastasi contro quella di
Messalla, la polizia contro il CoSDi. E sopra tutto ciò, il vecchio:
implacabile, freddo, eppure stranamente disposto a cedere.
Quando annunciò che avrebbe trasferito il controllo degli Interni e della
Difesa, sentii un brivido. Non era un segno di apertura, ma di imminente
chiusura. È il preludio della purga. Il vecchio sta preparando il colpo
definitivo.
Dopo, mi sono visto con Messalla. Gli ho raccontato dell’americano. Il suo
volto, solitamente impassibile, si è indurito: “Se a Washington conoscono le
nostre fratture interne, allora la falla è molto più grave di quanto pensassimo.
Il finto agente CoSDi non è più un semplice impostore: è una talpa che ha aperto
varchi enormi.” Temo abbia ragione.
In generale, siamo arrivati alla stessa conclusione: la purga è vicina.
Non mi fido di Messalla. Non del tutto, almeno. Ma non ho altra scelta che
fidarmi. Per ora.
Domani sera saremo tutti al Teatro Imperiale della Lirica, per il Don Giovanni
di Mozart. Ci sarà il vecchio, ci sarà Messalla, ci sarò io, ci saranno Anastasi
e molti altri generali e ministri. L’occasione perfetta per agire.
E per capire chi potrà essere dei nostri.
.
XIX

PROGETTO TITAN-51 –
RAPPORTO CLINICO POST-OPERATORIO
Classificazione: SEGRETISSIMO – A uso esclusivo di Sua Maestà Imperiale
Data: 13 novembre 1985 – ore 08:00
Redatto da: Dott. Eugenio Rambaldi
SOGGETTO 1
Maschio, 27 anni, prigioniero di guerra, sottoposto a intervento di craniotomia
parasagittale anteriore con approccio transcalloso-transventricolare. Impianto
di innesto nel nucleo preottico ventrolaterale (VLPO).
Decorso immediato (prime 24 ore)
• Parametri vitali stabili: nessuna crisi ipertensiva
o emorragica post-operatoria.
• Nessun segno di rigetto immediato né complicazioni
infettive.
• Ripresa rapida della coscienza, con livello di
vigilanza superiore al previsto.
Osservazioni cliniche straordinarie
1. Assenza di sonno:
a. Nelle 24 ore successive all’intervento,
il soggetto non ha manifestato alcun bisogno di dormire.
b. Tentativi di indurre sonno farmacologico
(benzodiazepine a dosaggio standard e potenziato) risultati inefficaci.
c. EEG dimostra attività continua di stato
di veglia, senza transizioni verso fasi ipnagogiche.
2. Percezione del dolore alterata:
a. Stimolazioni nocicettive (punture,
pressioni, stimoli termici) ricevute senza reazioni comportamentali né verbali.
b. Parametri fisiologici (frequenza
cardiaca, respirazione, pressione) invariati durante stimoli dolorosi.
c. Il soggetto dichiara: “Sento qualcosa…
ma non mi riguarda.”
3. Efficienza motoria e cognitiva:
a. Capacità motorie integre.
b. Tempi di reazione motoria e cognitiva
ridotti del 30% rispetto al pre-operatorio.
c. Nessun deficit linguistico o mnemonico
osservato.
Conclusioni provvisorie
• L’intervento del 12 novembre 1985 può essere
considerato un successo pieno:
• L’innesto nel VLPO ha abolito il bisogno
fisiologico di sonno.
• È stata indotta una significativa riduzione della
percezione del dolore.
• Non sono state osservate complicanze neurologiche
maggiori.
Nota del responsabile (Rambaldi):
Il Soggetto 1 rappresenta la prima prova concreta della possibilità di
trasformare l’uomo in qualcosa di superiore, capace di superare i limiti
biologici naturali. Questi risultati costituiscono una pietra miliare per
TITAN-51.
Firmato:
Dott. Eugenio Rambaldi
Responsabile Clinico, Progetto TITAN-51
.
XX
Commissione Speciale di
Difesa (CoSDi)
Ufficio Analisi e Contropropaganda
Documento riservato – ad uso esclusivo del Direttore Generale
Oggetto: Pasquinata apparsa nella notte tra il 12 e il 13 novembre, affissa
alla statua del cosiddetto Pasquino (piazza di Parione, Roma).
Testo integrale della pasquinata (trascrizione):
Al-Barqī una nuova Cartago ha fondato,
tra sabbie e moschee ha il suo ferro affilato.
E Roma? Risponde con vuoti proclami,
ma i monti d’Atlante li ha persi stamani.
Oh! Gli avi domarono Annibale ultore.
Oh! Scipio trionfò con il braccio e col cuore.
Ed oggi? Ruggiscono tanti leoni,
ma restano in scacco le nostre legioni.
Il Vecchio promette vendetta ed orgoglio,
ma l’ombre si staglian già sul Campidoglio.
“Cartago ritorna,” sorride Pasquino,
“ma manca Scipione, che amaro destino!”
Analisi contenutistica:
1. Simbolismo storico: il testo stabilisce un parallelo diretto tra le offensive
islamiste in Mauritania e le guerre puniche dell’antichità, suggerendo che
l’Impero si trovi oggi nella posizione di una Roma debole e senza condottieri.
2. Attacco all’Imperatore: il riferimento al “Vecchio” che promette “vendetta
sovrana” è interpretato come allusione diretta a Sua Maestà Imperiale. L’accusa
implicita è di retorica vuota e inefficacia militare.
3. Riferimento al morale interno: il verso “restano vuote le nostre legioni”
riflette le recenti perdite e il crollo di interi settori in Mauritania,
colpendo la fiducia della popolazione nella capacità difensiva dell’esercito.
4. Pericolosità del messaggio:
La pasquinata non si limita a satireggiare: mina la legittimità storica
dell’Impero, affermando che manchi oggi un “nuovo Scipione”.
È altamente diffusiva: il richiamo alla storia romana classica rende il testo
immediatamente comprensibile e ripetibile tra la popolazione.
Rischio elevato che venga riprodotta e diffusa clandestinamente, specie in
ambienti universitari e militari.
Ipotesi sugli autori:
• Probabile matrice intellettuale, con solida
conoscenza storica.
• Stile compatibile con precedenti pasquinate
circolate negli ultimi mesi (indagine aperta, dossier P/83-17).
• Non si esclude collegamento indiretto con la
cosiddetta “fonte anonima” che fornisce informazioni alla CIA; la coincidenza
temporale con gli attentati e l’offensiva in Mauritania potrebbe indicare
coordinamento esterno.
Raccomandazioni operative:
• Intensificare la sorveglianza notturna delle statue
“parlanti” e dei luoghi noti di diffusione di pasquinate.
• Attivare immediata contropropaganda sui giornali e
alla televisione, enfatizzando la fermezza dell’Imperatore e il richiamo alla
tradizione militare romana.
• Avviare indagini interne su docenti universitari e
ufficiali con formazione umanistica, possibile bacino di provenienza dei testi.
Firmato:
Ten. Col. Arturo De Marchis
Direttore dell’Ufficio Analisi CoSDi
.
XXI

Appunti personali di
Julius van Roosendaal, giornalista olandese residente a Roma – 13 novembre 1985
Teatro Imperiale della Lirica – Don Giovanni (Mozart)
• Sala gremita. Pubblico selezionato, molti ufficiali
e ministri. L’Imperatore presente nel palco centrale, circondato da tutto il suo
seguito. Atmosfera apparentemente solenne, ma… tesa. Si percepisce un nervosismo
sotterraneo.
• Durante l’intervallo ho notato due gruppi separati
di persone che si sono addensati attorno a Francesco Saverio Salvio-Stefani
(riconosciuto con certezza, presidente del PSPdR e ministro della Sanità) e
all’ammiraglio Pietro Paolo Messalla (direttore del CoSDi). Non si trattava di
conversazioni di cortesia: atteggiamenti nervosi, molti sguardi guardinghi, mani
che si muovono come a proteggere lo spazio.
• Alcuni generali (credo Silla e forse Anastasi)
hanno fatto scivolare dei biglietti piegati nelle mani di Stefani. Più tardi li
ho visti disfarsene gettandoli in un cestino nel corridoio laterale. Ho finto di
cercare un fazzoletto e ne ho recuperati due. Trascrivo testualmente:
> “Il vecchio non ha eredi. Come la mettiamo?”
> “L’Impero ha già avuto una Tetrarchia, ed ha anche
avuto un periodo elettivo. Il nuovo regime sarà collegiale.”
• Parole pesanti, senza equivoci. Anche se mi
sbagliassi, sarebbero comunque di natura eversiva. Eppure, erano scritte con
naturalezza, come fossero parte di un discorso già avviato da tempo.
• Nel secondo atto, scena finale: Don Giovanni e la
statua del Commendatore. Il teatro intero è rapito dalla musica, mentre
Leporello scongiura Don Giovanni di rifiutare l’offerta della statua. Io no.
Osservavo i palchi laterali. Ho visto più di uno scambio di cenni e strette di
mano tra uomini in uniforme e civili di alto profilo. Non sembravano saluti
casuali. Sembrava piuttosto una sorta di rito: discreto, ma concertato.
• Conclusione provvisoria: qualcosa si sta muovendo
nelle viscere del potere romano. Io, estraneo, vedo solo la superficie di un
lago agitato da correnti invisibili. Gli italiani presenti non sembrano
accorgersi, o forse fingono di non vedere. Forse Don Giovanni non sarà l’unico
ad andare all’Inferno, dopo questa serata.
.
XXII

TELEX RISERVATI
14 novembre 1985 – Trasmissioni dal Complesso Chirurgico Riservato, [REDACTED]
09:12 CET
Da: Sala Operativa – Complesso TITAN-51
A: Stato Maggiore Difesa, Roma
Oggetto: Segnalazione Anomala – SOGGETTO 1
Durante ispezione mattutina, si riscontra assenza di SOGGETTO 1 dal settore
post-operatorio. Possibile elusione sorveglianza. Tutto personale allertato. Per
il momento escluso contatto esterno. Si richiedono ulteriori istruzioni.
10:45 CET
Da: Comando di Sicurezza Locale – TITAN-51
A: CoSDi, Roma – Ufficio Amm. Messalla
Oggetto: Aggiornamento situazione SOGGETTO 1
Ricerche interne ancora in corso. Nessun segno di effrazione. Porte blindate
rimaste chiuse. Incongruenze nei registri di accesso settori sotterranei.
Possibile complicità interna. Richiesto invio squadra speciale CoSDi per
affiancare personale presente.
12:27 CET
Da: Sala Operativa – Complesso TITAN-51
A: Stato Maggiore Difesa, Roma – Ufficio Silla
Oggetto: Emergenza Sicurezza – URGENTE
Confermata sparizione di materiale sensibile: due pistole Beretta M92, un fucile
d’assalto AR70, tre caricatori pieni. Nessuna traccia di SOGGETTO 1. Allerta di
livello massimo. Rischio di compromissione struttura. Evacuazione parziale
personale civile in corso.
14:10 CET
Da: Comando Locale TITAN-51
A: Ufficio Imperiale, Roma
Oggetto: Nuova segnalazione – Gravità Estrema
Non riusciamo a localizzare l’Imperatore. Sua Maestà era in osservazione stanza
adiacente, ma non risponde a chiamate né risulta tra personale in evacuazione.
Ultimo avvistamento ore 12:02 corridoio settore C. Tutti accessi bloccati.
Priorità assoluta ritrovamento.
15:36 CET
Da: Sala Operativa – Complesso TITAN-51
A: Stato Maggiore Difesa – Anicio / Concordia / Messalla
Oggetto: Codice Nero – DISPONIBILITÀ RINFORZI
Situazione fuori controllo. SOGGETTO 1 addestrato, potenzialmente armato,
condizione neurologica sconosciuta. Imperatore irrintracciabile da tre ore.
Presente panico tra personale. Richiesto invio immediato:
1. Reparto corazzato pronto intervento
2. Unità NBC (non escluse manipolazioni sostanze biologiche)
3. Elicotteri sorveglianza area esterna
RIPETO: Imperatore NON localizzato.
17:58 CET
Da: Direzione Sicurezza Locale – TITAN-51
A: Roma, Tutti Destinatari di Livello 1
Oggetto: Codice Massimo – “AURORA NERA”
Allerta totale. Non vi è più distinzione tra ricerca SOGGETTO 1 e ricerca Sua
Maestà. I due casi sono collegati. Ipotesi estrema: contatto diretto tra
soggetto ed Imperatore.
Urgente predisporre catena di comando alternativa in caso di conferma peggior
scenario.
.
XXIII
COORDINAMENTO SERVIZI DI
SICUREZZA IMPERIALE
CLASSIFICAZIONE: OCCHI SOLO DIRETTORE GENERALE – MASSIMA URGENZA
Data: 14 novembre 1985 – ore 18:32 CET
Destinatario: Ammiraglio Pietro Paolo Messalla, Direttore Generale CoSDi
Mittente: Direzione Sicurezza Locale – Complesso TITAN-51
OGGETTO: Primo Rapporto Sintetico – Evento Critico Complesso TITAN-51
1. Stato Imperatore
• Sua Altezza Imperiale ritrovata priva di vita alle
ore 18:07 nel corridoio di collegamento tra settore B e settore C del complesso.
• Condizioni riscontrate: ferite compatibili con
impiego di arma da fuoco a distanza ravvicinata. Analisi balistica in corso.
• Circostanze attuali: assenza di testimoni diretti;
tracciati di sorveglianza video compromessi (sistemi risultano oscurati per
circa 27 minuti).
2. Stato SOGGETTO 1
• Non rintracciabile. Ultimo segnale certo: ore
11:53, settore C.
• Possesso di armi confermato: fucile AR70 + pistole
M92, munizioni complete.
• Potenzialità: addestramento avanzato, alterazioni
neurofisiologiche post-innesto non ancora definite.
• Classificato come estremamente pericoloso.
3. Stato dott. Eugenio Rambaldi
• Medico responsabile ultimo intervento.
• Non presente al briefing mattutino. Ricerca interna
ed esterna senza esito.
• Ultimo avvistamento documentato: ore 09:15, settore
operatorio.
• Possibile connessione con la fuga di SOGGETTO 1 non
esclusa.
4. Situazione complessiva
• Ordine ristabilito con arrivo rinforzi.
• Complesso TITAN-51 in stato di blocco operativo.
• Personale non essenziale evacuato.
• Morale delle unità residue compromesso dalla
notizia della morte dell’Imperatore.
RICHIESTE IMMEDIATE
1. Istituzione di comitato ristretto di crisi con autorità decisionale piena.
2. Autorizzazione per operazione di cattura/neutralizzazione SOGGETTO 1 con
regole d’ingaggio speciali.
3. Direttive su gestione comunicazione ufficiale (necessità urgente di copertura
narrativa per decesso Imperatore).
Firmato:
Col. [REDACTED]
Direzione Sicurezza Locale – Complesso TITAN-51
.
XXIV

TRASMISSIONE STRAORDINARIA
A RETI UNIFICATE – 14 Novembre 1985 – 19.37 CET
(Schermata nera. Breve suono dell’inno imperiale, interrotto dopo poche note.
Inquadratura: sala austera, bandiera nero-rosso-nero con la Croce delle Sette
Spade dietro. I presenti sono in piedi, in uniforme o in abito scuro. Stefani al
centro, davanti al microfono, volto severo. Accanto a lui, in ordine: Messalla,
Anastasi, Silla, Tullio-Cicerone, Taranto, Loggia. Silenzio totale nello studio.
Stefani parla con tono grave e fermo)
Francesco Saverio Salvio-Stefani:
*“Popolo romano, cittadini dell’Impero.
È con immenso dolore e con profonda commozione che vi annunciamo la morte
improvvisa del nostro amato Sovrano, Sua Maestà Imperiale Paolo VIII.
L’Imperatore è stato colpito, nelle prime ore di questo pomeriggio, da un ictus
cerebrale fulminante. Ogni tentativo di soccorso si è purtroppo rivelato vano.
La sua scomparsa lascia un vuoto incolmabile, in un momento già difficile per la
nostra Patria.
Ma Roma non cade. Roma non può cadere.
In assenza di eredi diretti al trono, e per garantire senza esitazione la
continuità del governo e delle istituzioni imperiali, noi, riuniti oggi in
seduta straordinaria, abbiamo deciso all’unanimità la costituzione di un
Comitato Imperiale per lo Stato d’Emergenza.
Questo Comitato assumerà con effetto immediato e a tempo indeterminato la
responsabilità del governo dell’Impero.
Ne fanno parte:
• il sottoscritto, in qualità di Presidente;
• il Proconsole Generale Paolo Anastasi, Capo di
Stato Maggiore delle Forze Armate;
• il Capo della Segreteria Imperiale Costantino
Loggia
• l’Ammiraglio Pietro Paolo Messalla, Direttore
Generale della Commissione Speciale di Difesa;
• il Propretore Generale Sesto Silla, Capo di Stato
Maggiore dell’Esercito;
• il Ministro degli Esteri Raffaele Taranto;
• e l’Ammiraglio Francesco Tullio-Cicerone, Capo di
Stato Maggiore della Marina.
Romani, il momento è grave. L’Impero è sotto attacco. Ma sappiate questo: noi
saremo la vostra guida, la vostra difesa, il vostro baluardo. Con disciplina e
fede, come i nostri padri, sapremo resistere e vincere.
Vi chiediamo unità, silenzio e fiducia. Non date ascolto alle voci, non
lasciatevi smarrire dal dolore.
L’Imperatore Paolo VIII ci ha lasciato: ma Roma vive, e Roma vincerà. Sempre.”*
(Silenzio. I presenti chinano leggermente il capo. La telecamera indugia sul
volto fermo di Stefani, poi stacco improvviso alla schermata con la Croce delle
Sette Spade e la scritta: “COMITATO IMPERIALE PER LO STATO D’EMERGENZA – ROMA,
14 NOVEMBRE 1985”. L’inno imperiale suona a volume basso, dissolvenza in nero.)
.
XXV
Commissione Speciale di
Difesa (CoSDi)
Rapporto riservato – ad uso esclusivo del Comitato Imperiale per lo Stato
d’Emergenza (CISE)
Oggetto: Situazione ordine pubblico – 24h successive al decesso
dell’Imperatore Paolo VIII
Data: 15 novembre 1985 – ore 19.00
1. Quadro generale
Nelle ventiquattro ore successive all’annuncio ufficiale della morte
dell’Imperatore Paolo VIII, l’ordine pubblico nella capitale e nelle principali
città del territorio metropolitano è rimasto nel complesso sotto controllo.
• Roma: affluenza massiccia di cittadini in
prossimità del Palazzo Imperiale e lungo Via del Corso, stimata in circa 120.000
persone nell’arco della giornata.
• Le presenze hanno assunto carattere prevalentemente
commemorativo e religioso: processioni spontanee, recite del rosario,
deposizioni di fiori e ceri votivi. Numerosi i messaggi di cordoglio lasciati
davanti ai cancelli del Palazzo, spesso scritti sul retro di santini e immagini
sacre.
• Nessuna manifestazione di protesta registrata; la
popolazione appare colpita e in stato di lutto.
2. Ordine pubblico
• Le forze di polizia e le unità ausiliarie
dispiegate (circa 7.500 uomini nella capitale) hanno garantito ordine e fluidità
nei raduni.
• Non si segnalano incidenti gravi, se non alcuni
svenimenti dovuti ad affollamento e malori.
• Arrestati 12 militanti comunisti sorpresi a
distribuire volantini ostili durante la notte in zona Testaccio; materiale
sequestrato.
3. Opinione popolare
• Sentimento diffuso di smarrimento per la morte
improvvisa del Sovrano.
• In molti quartieri popolari si sono tenute veglie
spontanee, con forte partecipazione femminile e giovanile.
• Numerose le testimonianze raccolte dai nostri
informatori su voci e sospetti riguardo alla “vera causa” del decesso, ma nessun
assembramento ostile o manifestazione sovversiva collegata.
4. Attività sovversiva e pasquinate
Nel corso della giornata sono apparse nuove pasquinate su statue e muri del
centro. Particolare attenzione ha destato un poema in rima affisso nottetempo
nei pressi di Piazza Navona, subito rimosso ma già circolato in copie
manoscritte:
“É freddo ora il Vecchio, è caldo il suo trono,
già i Diadochi pensano a chi lo avrà in dono.
Non son più Scipioni, ma eredi divisi,
son pronti a scannarsi tra inganni e sorrisi.
Or Roma non piange, ora Roma sospira:
e se tutta l'Urbe incendiasse la pira?”
L’autore resta ignoto. Analisi interna indica matrice intellettuale ostile,
probabilmente ambienti universitari.
5. Conclusioni
• Situazione capitale e province sotto controllo.
• La popolazione manifesta dolore e smarrimento ma
non ostilità attiva.
• Clima politico: le pasquinate segnalano una
percezione diffusa di lotta interna per la successione; monitorare con
attenzione.
• Si raccomanda mantenimento di alta vigilanza e
stretta sorveglianza dei circuiti culturali e intellettuali potenzialmente
generatori di dissenso.
Firmato:
Col. Vittore Manlio
Direzione Operazioni Interne – CoSDi
.
XXVI

ROMA MARCIA, L’IMPERO
RESPIRA (De Telegraaf)
Dal nostro inviato a Roma, Julius van Roosendaal – 21 aprile 1987
Roma ha celebrato oggi il suo 2.740° compleanno con una grandiosa parata
militare che ha riempito Via dei Fori Imperiali e Piazza Venezia di carri
armati, battaglioni in parata e migliaia di cittadini assiepati lungo i viali
alberati. È stato il Natale di Roma più politico e più militare degli ultimi
decenni, organizzato dal Comitato Imperiale per lo Stato d’Emergenza (CISE), che
da diciassette mesi guida il Paese dopo la morte improvvisa dell’imperatore
Paolo VIII.
La parata
Le prime luci del mattino hanno visto sorvolare la capitale da squadriglie di
cacciabombardieri, mentre sul terreno si sono susseguite brigate corazzate e
reparti della Guardia Palatina. Gli applausi più fragorosi sono scoppiati al
passaggio dei veterani delle campagne nordafricane: uomini temprati da due anni
di guerra logorante, che hanno riportato al centro del discorso politico la
dimensione imperiale della potenza romana.
I successi militari
Se il Natale di Roma è stato celebrato con tanto sfarzo, è perché il CISE ha
bisogno – e vuole – mostrare risultati. E in effetti, sul piano militare, i
risultati non mancano:
• Le città di Algeri, Orano e Cesarea di Mauritania
sono state liberate dai lunghi assedi degli islamisti.
• L’Operazione Gaio Mario, lanciata nell’estate
scorsa, ha riconquistato Bescera e numerosi avamposti a sud dell’Atlante.
Fonti militari riconoscono l’uso massiccio di bombe a grappolo e napalm,
strumenti devastanti che hanno permesso di piegare la resistenza nemica a costo
di duri colpi alla popolazione civile.
A oggi, la guerra resta lontana dall’essere conclusa, ma il governo può
rivendicare di aver invertito una tendenza che, al momento della morte
dell’imperatore, sembrava inarrestabile.
Economia e politica
Sul fronte interno, la situazione è più sfumata. L’economia resta stagnante:
l’industria bellica regge la domanda, ma i consumi civili non decollano. Alcune
prime riforme economiche hanno liberalizzato comparti secondari, ma già
circolano insistenti voci su una prossima “terapia d’urto”: privatizzazioni di
larga parte del patrimonio statale, da anni pilastro del sistema imperiale.
Sul piano internazionale, la diplomazia di Raffaele Taranto ha prodotto i suoi
frutti. Dopo mesi di gelo seguiti agli attentati del novembre 1985, USA, Francia
e Regno Unito hanno ripreso i contatti con Roma, vedendo nel CISE un argine
contro l’espansione islamista e sovietica in Nordafrica.
Le ombre
Eppure, sotto i vessilli e le fanfare, restano aperte ferite e domande. Sempre
più cittadini parlano di teorie del complotto sulla morte di Paolo VIII: secondo
queste voci, le bombe al Gianicolo e al Castro Pretorio sarebbero state un
“inside job”, orchestrato dagli uomini che oggi siedono nel CISE per creare il
clima di paura necessario a giustificare il cambio di regime. L’imperatore,
sostengono i più radicali, sarebbe stato in realtà assassinato.
Nessuna prova a sostegno di queste accuse è emersa, ma la loro diffusione mostra
come la legittimità del CISE non sia accettata da tutti.
Stefani: “Un’era di stabilità”
La parata si è conclusa con un discorso del presidente del CISE, Francesco
Saverio Salvio-Stefani, che ha parlato dal palco eretto davanti all’Altare della
Patria:
“Popolo romano, popolo dell’Impero,
diciassette mesi fa siamo stati colpiti al cuore: bombe nelle nostre città, un
imperatore caduto, il nemico alle porte. Ma non ci siamo piegati, non ci siamo
arresi. Oggi, grazie al sacrificio dei nostri soldati e alla volontà
incrollabile di questa nazione, l’Impero si rialza.
Guardiamo al futuro: non più paura, non più incertezza. Questa non è solo la
fine di una crisi. È l’inizio di una nuova era di stabilità e di forza. L’Impero
Romano vivrà, e con esso vivranno i suoi cittadini, padroni del proprio
destino.”
Tra le note dell’orchestra militare e lo sventolio delle bandiere
nere-rosso-nere, il messaggio è arrivato forte e chiaro: il CISE vuole essere
non solo un governo d’emergenza, ma la guida di lungo corso dell’Impero.
.
Seconda Parte
Pasquinata – Natale di
Roma, 1987
Dicon “stabilità”, ma vendono l’Impero,
tra privatizzazioni e tagli sul pensiero.
Il Vecchio se ne andò, ma il CISE adesso incombe,
riman solo ai romani la pace… delle tombe.
.
XXVII

MIXER INTERNATIONAL –
Roma, 16 maggio 1989
Intervista a Francesco Stefani, Presidente del Comitato Imperiale per lo
Stato d’Emergenza (CISE)
A cura di Jonathan Reed
[Voce narrante di Reed – tono da documentario, immagini di Roma, parate,
cantieri, aerei militari decollano]
REED (voce fuori
campo):
Quattro anni fa, Roma tremava.
Un impero ferito, un sovrano morto all’improvviso, attentati, guerra in Nord
Africa.
Oggi, l’Impero Romano d’Occidente appare più stabile, più sicuro, e — secondo
gli indici — anche più ricco.
Dietro questa metamorfosi c’è un uomo: Francesco Saverio Salvio-Stefani, per
tutti semplicemente Francesco Stefani.
Ex tenente colonnello dell’aeronautica, ministro della sanità, poi leader del
Partito Social-Popolare dei Romani, dal 1985 è la figura centrale del potere
romano.
A quarantasette anni, Stefani è visto da molti come l’artefice della rinascita
imperiale.
Per i suoi detrattori, invece, è solo l’uomo che ha sostituito un imperatore con
un comitato.
Oggi lo incontriamo nel suo ufficio del Palazzo Imperiale, tra bandiere e
ritratti di generali, ma anche una fotografia dei suoi tre figli sulla
scrivania.
[Inizia l’intervista – inquadratura fissa, toni sobri]
REED:
Presidente Stefani, quattro anni fa l’Impero sembrava sull’orlo del caos. Oggi i
numeri dicono crescita, stabilità, fiducia internazionale.
Come ci siete arrivati?
STEFANI:
Con decisione, e con pazienza.
Nel 1985 eravamo un Paese spaventato, fermo, troppo dipendente dallo Stato.
Abbiamo dovuto cambiare mentalità: meno assistenza cieca, più responsabilità
individuale.
La terapia d’urto non è stata facile, ma ha rimesso in moto la macchina romana.
Roma cresce, Roma lavora, Roma crede nel futuro.
REED:
Quella “terapia d’urto” però ha lasciato ferite. L’inflazione è sotto controllo,
ma la povertà è aumentata. Alcuni parlano di una nuova élite arricchita dalle
privatizzazioni.
STEFANI (riflette,
tono quasi paterno):
Le trasformazioni economiche non sono mai indolori.
Ma un sistema che non cambia muore.
Oggi abbiamo imprenditori che investono, aziende che esportano, giovani che
trovano lavoro per merito e non per raccomandazione.
È vero, qualcuno si è arricchito più in fretta. Ma non abbiamo tolto nulla a
nessuno: abbiamo dato a tutti la possibilità di provarci.
REED:
E i veterani delle forze armate, che sono ancora la spina dorsale dell’Impero?
STEFANI:
Quelli che hanno servito lo Stato meritano rispetto, sempre.
I nostri veterani hanno corsie preferenziali nei servizi pubblici, nell’edilizia
popolare, nel credito.
Chi ha difeso la patria non deve difendere anche il proprio futuro: quello
glielo garantiamo noi.
REED:
Sul fronte militare, la guerra in Mauritania sembra bloccata, ma il prezzo
pagato è altissimo. Ci sono state accuse di violazioni dei diritti umani: uso di
napalm, bombe a grappolo, rappresaglie.
STEFANI (più serio):
Chi parla di violazioni non ha mai visto un villaggio romano bruciare o un
soldato tornare senza un arto.
Noi difendiamo le nostre città, non le attacchiamo.
In guerra, ogni decisione è terribile. Ma la peggiore è non decidere affatto.
REED:
Lei non nega, però, che sia stata una guerra dura.
STEFANI:
Dura, sì. Ma giusta.
E oggi, grazie a quei sacrifici, i nostri cittadini a Orano o Algeri possono
vivere senza paura.
REED:
Parliamo di politica interna. Ci sono elezioni, suffragio universale, e persino
il Partito Comunista dei Romani siede in Parlamento. Ma nessuno sembra sfidarla
davvero.
STEFANI (sorridendo):
Forse perché nessuno sente il bisogno di farlo.
Quando le cose funzionano, la gente vuole stabilità, non avventure.
Io non impongo il consenso: lo conquisto, ogni giorno, lavorando.
REED:
Quindi lei considera il sistema romano democratico?
STEFANI:
Direi di sì. Con le sue regole, con la sua tradizione.
Abbiamo un parlamento eletto, un’opposizione presente, una stampa libera nei
limiti della responsabilità.
Non credo nei modelli importati: la nostra è una democrazia che parla latino.
REED:
E il Partito Social-Popolare dei Romani, il suo partito, controlla di fatto la
maggioranza assoluta.
STEFANI:
È vero. Ma non perché la gente non possa scegliere altro, bensì perché riconosce
nel PSPdR la continuità tra il passato imperiale e il futuro moderno.
Noi non siamo un partito: siamo una comunità politica.
REED:
Presidente, la stampa estera la descrive come un “riformista dell’ordine”. Si
riconosce in questa definizione?
STEFANI (riflette, poi
annuisce):
Sì, direi di sì.
Credo nelle riforme, ma non nel disordine.
Credo nel progresso, ma non nel caos.
Un Paese come il nostro, con due millenni di storia, non può permettersi
rivoluzioni. Solo evoluzioni.
REED:
Eppure qualcuno le rimprovera di aver trasformato il CISE in un potere
permanente, e di aver sostituito l’autorità dell’imperatore con la sua.
STEFANI:
L’Impero non è un uomo, è una civiltà.
L’imperatore era un simbolo, e quel simbolo vive nel nostro impegno.
Il CISE non comanda, coordina. È un ponte tra il passato e il futuro.
REED:
Lei ha tre figli, una vita familiare molto riservata. Si considera un uomo di
potere o un uomo di fede?
STEFANI (più umano):
Direi un uomo di responsabilità.
Chi guida un Paese non dorme mai tranquillo.
Ma quando la sera torno a casa e vedo i miei figli, penso che tutto questo ha un
senso.
Non faccio politica per me. La faccio per chi verrà dopo.
REED (fuori campo,
mentre scorrono le immagini della città, della parata del Natale di Roma e di
Stefani che saluta dal palco):
Francesco Stefani parla con calma, misura ogni parola, e non alza mai la voce.
Dice di non essere un uomo del passato, ma del futuro.
E quando gli chiediamo come immagina Roma tra dieci anni, sorride e risponde con
la sicurezza di chi non contempla alternative:
STEFANI (in camera):
Roma non cambierà mai nella sua essenza.
Cambierà il mondo, cambieranno i confini, cambieranno gli uomini.
Ma Roma… Roma resterà Roma.
.
XXVIII

Un bar di Trastevere, luci al
neon stanche, fumo di sigaretta sospeso nell’aria.
Un vecchio televisore trasmette la versione censurata dell’intervista di
Francesco Stefani: il montaggio è tagliato, il ritmo secco, le parti più scomode
sparite. Sul piccolo schermo:
“...Abbiamo cambiato
mentalità. Meno assistenza cieca, più responsabilità individuale...
Roma cresce, Roma lavora, Roma crede nel futuro.”
Seduti a un tavolo in fondo,
tre uomini in licenza, divisa dell’esercito mal stirata, bicchieri di birra:
Salvo, robusto, fronte segnata dal sole del Maghreb. Valerio, più giovane,
capelli biondi tagliati corti, occhi stanchi. Gianni, il più esile, ha l’aria
inquieta di chi pensa troppo.
VALERIO (masticando
una nocciolina, guardando lo schermo)
Guarda come parla l’uomo. Calmo, pulito. Manco fosse un prete.
SALVO: Prete? No, peggio. Quelli almeno dicono che devi avere fede. Lui
ti dice che devi credergli e basta.
GIANNI (ironico): Eh, però intanto il soldo arriva puntuale, e a casa mia
dicono che i prezzi si sono fermati.
SALVO: Sì, ma pure i lavori. Mio fratello è muratore, e non batte chiodo
da mesi.
Le ditte si sono fatte tutte "private", ma guarda caso dentro ci sono sempre gli
stessi: amici di ministri, generali o membri del Partito.
VALERIO: Non dire così. Qualcosa l’ha sistemato. L’anno scorso, in
Mauritania, ci davano scarponi nuovi e le razioni non scadute, per la prima
volta da quando ero di leva.
SALVO: Be’, se chiami "sistemato" bruciare mezzo deserto col napalm… sì,
l’ha sistemato.
(sorride amaro, guarda il televisore dove Stefani sorride in camera) Guarda che
faccia, Valè. Mica sembra uno che ha mai visto una bomba esplodere.
GIANNI (perentorio, abbassando la voce): Appunto. Forse perché le bombe
le ha fatte mettere lui.
(Silenzio. Gli altri due lo fissano. Il brusio del locale copre per un istante le loro parole)
VALERIO: Che hai
detto?
GIANNI: Io lo dico da tempo: Castro Pretorio, Gianicolo, pure quelle di
Milano e Napoli… roba interna.
Doveva morire l’imperatore, e serviva un po’ di panico per coprire il colpo.
E guarda caso chi è che "salva" la patria dopo? Stefani e il suo comitato.
Troppa coincidenza, ragazzi.
SALVO (batte il pugno sul tavolo, secco): Gianni, basta! Non dire
stronzate!
GIANNI: Ma senti, Salvo, tu lo sai meglio di me. Il CoSDi c’era ovunque.
Come fanno a non sapere niente, a non fermare nessuno? È logica, non complotto.
SALVO: È logica, sì. Ma a me della logica non frega niente.
Mio cugino era a Castro Pretorio.
Quando l’ho rivisto, era solo un elmetto e mezzo stivale.
(pausa, beve un sorso, fissa il vuoto)
SALVO (più sommesso):
Non voglio sentirti dire che l’ha ammazzato "lo Stato".
Perché, se è vero, allora vuol dire che là fuori non c’è più niente da
difendere.
VALERIO (interviene per stemperare): Dai, basta. Non serve litigare.
Io non so chi ha messo le bombe, e non so manco più per chi stiamo a combattere,
ma almeno adesso il Paese non è in ginocchio. Quando torno a casa, la gente non
ha paura di uscire la sera.
SALVO: No, non ha paura… solo che non parla. Hai mai provato a dire una
cosa storta su Stefani in un bar come questo? Ti guardano tutti. È come
bestemmiare in chiesa.
GIANNI: Eh, ma pure all’imperatore davano del "padre della patria", e
guarda com’è finito.
VALERIO: Forse adesso serve uno che tenga insieme tutto. Non un padre, ma
un direttore d’orchestra.
Lui ha scelto di essere quello.
SALVO: Già. Peccato che a suonare siamo sempre noi.
.
XXIX

EDITORIALE DI VALENTINO TULLIANI, DIRETTORE DEL QUOTIDIANO "IL RONZIO"
ROMA, 16 maggio 1989 – C’è un
curioso fenomeno che si ripete nella storia romana: ogni volta che un governo
proclama una “guerra alla corruzione”, il risultato non è la fine dei corrotti,
ma la selezione naturale dei colpevoli.
E come in tutte le selezioni, a sopravvivere non sono i migliori, ma i più
adatti: cioè, quelli che hanno imparato a respirare l’aria del potere senza
tossire.
Negli ultimi tre anni, la cosiddetta campagna di moralizzazione del presidente
Francesco Stefani ha decapitato generali, funzionari e ministri, eppure,
miracolo imperiale, nessuna delle teste cadute è rotolata troppo vicino al
trono.
Anzi, il potere ha mantenuto intatta la sua corona: solo qualche gemma di troppo
è stata sostituita.
L’operazione è stata
presentata come una rinascita etica. E certo, il termine “rinascita” è
appropriato: rinascere è un verbo che implica la morte di qualcosa. In questo
caso, a morire non è stata la corruzione, ma la concorrenza.
Prendiamo l’esempio dell’ammiraglio Pietro Paolo Messalla.
Ufficialmente rimosso per appropriazione indebita di fondi del CoSDi, una
definizione tanto generica da poter includere anche l’uso improprio della
cancelleria, l’ammiraglio è stato “invitato” a ritirarsi a vita privata in una
villa sul lago di Bracciano.
Un destino dolce per un uomo che fino a ieri comandava la polizia segreta, e
che, si mormora, sapeva molte più cose di quante fosse prudente ricordare.
Curioso, però, che le accuse a suo carico siano apparse così lievi: quasi un
pretesto, un elegante invito a lasciare la scena prima che il sipario crollasse.
Se la giustizia avesse voluto davvero occuparsi di Messalla, avrebbe trovato ben
altri capi d’imputazione.
Ma, si sa, nell’Impero moderno non è importante cosa hai fatto, ma chi decide
che tu l’abbia fatto.
Molto diversa la sorte di
chi, per disgrazia, ha avuto l’imprudenza di criticare il presidente o di
negargli un voto di fiducia. Per costoro la legge imperiale funziona con
un’efficienza quasi tedesca.
Le indagini partono al mattino, e la sera il cittadino in questione è già
diventato “nemico dello Stato”, “speculatore”, “corruttore”.
Un modello di rapidità giudiziaria che nemmeno Cicerone, nei suoi processi più
illustri, avrebbe osato sognare.
Ma la vera perla di questa moralizzazione selettiva è un nome che il popolo
conosce bene: Matteo Di Cesare, amministratore delegato dell’AICI, l’Azienda
Imperiale Carburanti e Idrocarburi, l’uomo che controlla il sangue nero
dell’Impero.
Nelle sue mani scorre il petrolio di Tripolitania e Mauritania, e da quelle
mani, dicono le voci, scorrono anche altre sostanze meno nobili: mazzette,
favori, contratti, concessioni.
Lo chiamano, non senza ironia, il ministro delle tangenti. Un’espressione
brillante, di cui vorrei poter dire di essere l’autore.
Eppure, tra tutte le teste
recise della purga, la sua resta miracolosamente al suo posto, diritta e ben
pettinata.
Di Cesare, a differenza di altri, ha saputo comprendere il tempo in cui vive:
non nega nulla, ma distribuisce con generosità.
Si direbbe quasi che la virtù civica, in questi anni, consista non nel rifiutare
la corruzione, ma nel saperla amministrare con discrezione.
Scriveva Tacito che “più uno Stato è corrotto, più leggi produce”. Negli ultimi
due anni, il governo Stefani ha varato trentadue decreti sulla trasparenza
amministrativa.
Fate voi i conti.
E così, la moralizzazione
procede a passo di marcia: colpisce gli avversari, risparmia gli amici e,
soprattutto, non disturba i petrolieri.
Ma c’è di più: il pubblico, stufo dei vecchi scandali, sembra quasi rassicurato
dal fatto che i nuovi corrotti almeno parlino un latino corretto.
È il grande paradosso romano: siamo pronti a tollerare tutto, purché chi ci
inganni lo faccia con eleganza.
E allora, quando ascolto il presidente Stefani parlare di “rinnovamento morale”,
non posso non pensare a un antico passo di Cicerone:
“Non c’è nulla di più ipocrita della virtù esibita per nascondere il vizio.”
Peccato che qui, più che un vizio nascosto, sembri un vizio di famiglia.
.
XXX

L’UOMO NELL’OMBRA DI ROMA
(di Alexandra Dubois, Le Monde)
Longino Ramelli, il misterioso vice che comanda il CoSDi e tiene insieme il
potere di Stefani
ROMA, 20 maggio 1989 – In un
Paese dove ogni figura di potere ama la ribalta, tra divise stirate, parate
militari e discorsi trasmessi in diretta nazionale, c’è un uomo che sembra aver
fatto del silenzio la propria forma di comando.
Si chiama Longino Ramelli, quarantuno anni, vicedirettore del CoSDi, la potente
Commissione Speciale di Difesa, cioè il servizio segreto interno dell’Impero
Romano d’Occidente.
Ufficialmente è il numero due. In pratica, è il numero due di tutto il regime.
Ramelli non appare mai in
pubblico, non rilascia interviste, e il suo nome è assente dai bollettini
ufficiali.
Eppure, secondo diverse fonti diplomatiche, è lui che decide su intercettazioni,
arresti, e operazioni “di sicurezza” tanto dentro quanto fuori dai confini
imperiali.
Un risolutore, come lo definiscono a Roma: colui che si occupa delle questioni
che non possono passare attraverso i canali ordinari.
Dalla sabbia della
Mauritania ai corridoi del potere – Nato nel 1948 in una famiglia della
piccola borghesia laziale, Ramelli entra giovanissimo nell’aeronautica.
È in Mauritania, nel 1967, durante la seconda guerra d’Algeria, che conosce il
suo futuro mentore: Francesco Stefani, allora ufficiale dell’aviazione e oggi
presidente del Comitato Imperiale per lo Stato d’Emergenza (CISE).
I due condividono la stessa base e, secondo i racconti di alcuni commilitoni, la
stessa mentalità: pragmatica, disciplinata, e priva di illusioni.
Uno dei piloti che li conobbe in quei giorni racconta che “Stefani parlava di
politica e Ramelli ascoltava. Ma quando parlava Ramelli, anche Stefani
ascoltava”.
Dopo la guerra, Ramelli
lascia l’aeronautica e si iscrive a Scienze Politiche all’Università di Roma.
Di quegli anni si sa pochissimo: niente articoli, nessuna fotografia, nemmeno un
indirizzo pubblico.
Nel 1975 risulta già in forza al CoSDi, il servizio segreto imperiale, dove
inizia la sua lunga carriera dietro le quinte.
Per più di un decennio, Ramelli si muove nell’ombra: missioni all’estero,
attività di controspionaggio, operazioni di “stabilizzazione interna” nei
territori coloniali del Nord Africa.
I documenti ufficiali lo menzionano appena, ma tra i funzionari romani circola
un soprannome: il fantasma di Mauritania.
La scalata – Nel 1986,
con la destituzione dell’ammiraglio Pietro Paolo Messalla e la purga che ne
seguì, Ramelli ricompare.
Il suo nome emerge tra le carte della nuova riorganizzazione del CoSDi. Quando
l’anziano Giuliano Di Paola, già direttore del CoSDi sotto Paolo VIII, viene
richiamato dalla pensione, Ramelli viene nominato vicedirettore.
Un ruolo apparentemente secondario, ma in realtà decisivo: Di Paola, malato e
costretto a dialisi regolari, lascia a Ramelli “ampia delega” su tutte le
operazioni correnti.
Da quel momento è lui a gestire l’agenzia.
Gli osservatori stranieri descrivono il nuovo assetto come una perfetta
architettura del potere: Stefani governa in pubblico, Ramelli garantisce
l’ordine nell’ombra.
Un diplomatico europeo lo definisce “il braccio operativo del presidente”,
aggiungendo con una punta di timore: “Quando sparisce qualcuno, Ramelli sa
sempre dov’è.”
L’uomo che risolve – A
Roma, il nome di Ramelli circola tra le redazioni e le ambasciate come un
enigma.
Non ha famiglia conosciuta, non frequenta eventi pubblici, e la sua vita privata
è una pagina bianca. C’è chi sostiene viva in una piccola palazzina del
quartiere Flaminio, senza guardie né seguito; altri giurano che dorma in una
stanza del CoSDi stesso, dietro porte blindate e sorveglianza 24 ore su 24. Le
sue apparizioni pubbliche si contano sulle dita di una mano.
Eppure, ogni volta che il regime si trova di fronte a una crisi — un’inchiesta
giornalistica, un attentato, un funzionario scomodo — il suo nome riemerge,
subito dopo che la questione viene “risolta”.
Un funzionario del Ministero dell’Interno, sotto anonimato, racconta:
“Quando arriva Ramelli, vuol dire che non ci saranno più problemi. Né con la stampa, né con gli imputati, né con le prove.”
Il numero due del regime –
Oggi, a meno di quarantadue anni, Longino Ramelli è considerato il secondo uomo
più potente dell’Impero.
La stampa vicina al governo lo dipinge come “un servitore dello Stato, esempio
di sobrietà e competenza”.
Ma tra le file diplomatiche straniere si parla di lui come dell’uomo che
“assicura la stabilità del sistema a qualunque costo”.
Valentino Tulliani de "Il Ronzio" lo ha definito "il silenzio che regge il
rumore di Roma".
E forse è proprio questo il segreto del suo potere: in un Paese di oratori e
tribuni, Longino Ramelli non parla mai.
.
XXXI

NETTUNO, sera, 3 giugno 1989
Il mare di Nettuno, al
tramonto, ha lo stesso colore del rame vecchio. La casa di Stefani è una villa
bassa, con grandi vetrate e un terrazzo che guarda verso la spiaggia.
Dall’interno si sente il rumore sommesso della televisione lasciata accesa in
salotto, un vecchio varietà della televisione imperiale, e l’odore di pesce alla
griglia che arriva dalla cucina.
Attorno al tavolo della veranda siedono in quattro:
Francesco Stefani, in maniche
di camicia, una bottiglia di vino davanti;
Longino Ramelli, composto e silenzioso come sempre, con lo sguardo che ogni
tanto si posa sulla figlia del capo;
Livia Stefani, 18 anni, jeans e una maglietta dei Simple Minds, piedi nudi sul
parapetto;
e Teodoro “Teo” Lori, impeccabile anche in vacanza, con il maglione blu piegato
sulle spalle e un’aria da turista inglese fuori stagione.
Sulla spiaggia, sotto di
loro, si sente ogni tanto la voce della scorta, chi ride, chi bestemmia piano.
Ramelli guarda verso il mare e rompe il silenzio.
RAMELLI (domanda
retorica): Tra una settimana, tutto a Cartagine, vero?
STEFANI (senza voltarsi): Sì. Lunedì prossimo arrivano gli americani. Poi
gli altri. Ci tengono tutti a vedere quanto “pacifico” sia diventato l’Impero.
LIVIA (sorridendo amaro): Pacifico come una bomba spenta.
RAMELLI (ghigna): O come una bomba che non hai ancora deciso dove far
esplodere.
Stefani ride, ma con metà del volto soltanto. Versa un po’ di vino nel bicchiere di Ramelli, poi nel proprio.
TEO (interviene,
ingenuo): Io credo che sia un grande onore, signore. Il G7 a Cartagine! Nessuno
se lo sarebbe aspettato. Dopo… tutto quello che c’è stato.
STEFANI (alza lo sguardo): Dopo tutto quello che abbiamo fatto, Teo. Non
c’è onore. C’è solo equilibrio. E per tenerlo, devi sempre pesare di più degli
altri.
TEO (sincero): Io non so come faccia, eccellenza. Io… mi stanco solo a
pensarlo, tutto quel peso.
LIVIA (pizzicandolo con ironia): Tu ti stanchi anche solo a stirare le
camicie di papà, Teo.
TEO (arrossendo): Eh, ma almeno quelle mi riescono dritte!
Stefani ride davvero
stavolta, un riso breve ma autentico. Ramelli si accende una sigaretta.
Il fumo si alza lento nella brezza marina. Livia lo guarda di sottecchi, poi
sospira.
LIVIA: Dite sempre che
questo Paese ha bisogno di stabilità. Ma non vi siete mai chiesti se invece si
sia solo abituato alla paura?
RAMELLI (senza voltarsi): La paura è la miglior forma di stabilità.
Finché la gente teme, non cambia nulla.
STEFANI (serio, fissando il bicchiere): Non è vero. La paura non basta.
Serve una speranza, anche piccola. Una bandiera, un’illusione, una promessa. Io
cerco di dargliela. Poi che ci credano o no, è affar loro.
LIVIA (alzandosi, appoggiata alla ringhiera): Sai, papà… quando parli
così sembri quasi onesto.
STEFANI (alza lo sguardo su di lei): Lo sono. Non sempre, ma lo sono. Non
puoi mentire per vent’anni senza dire, ogni tanto, un frammento di verità.
Ramelli ride piano. Teo, come al solito, non capisce del tutto.
TEO: E poi, insomma,
ora va tutto meglio, no? Gli americani ci rispettano, i francesi non ci guardano
più dall’alto in basso, le fabbriche lavorano di nuovo…
LIVIA (sottovoce, sarcastica): Sì, peccato che mezzo Paese lavori per
comprare la benzina dell’altra metà.
Stefani finge di non sentire. Ramelli invece sì: la guarda, con quell’attenzione troppo lunga per essere solo fastidio. Livia se ne accorge, si volta verso il mare e dice soltanto:
LIVIA: Andrò a fare
due passi.
STEFANI: Non allontanarti troppo.
LIVIA: Tranquillo. C’è lo zio Longino che mi controlla anche da qui.
Ramelli sorride, ma la battuta cade come una lama. Silenzio.
TEO (rompe la
tensione, servendosi un altro bicchiere): Davvero, signore, ci voleva una pausa.
Roma è così pesante, ultimamente…
STEFANI: Roma è sempre pesante. È una città che non dimentica nulla. E
quando una città non dimentica, ti costringe a fingere ogni giorno di essere un
uomo nuovo.
Si alza, finisce il bicchiere. Sul mare comincia a cadere la notte, le prime stelle.
RAMELLI: Sembra che
domani piova.
STEFANI (senza voltarsi, andando verso la riva): Forse. Ma dopodomani ci
sarà il sole. C’è sempre il sole quando arriva il G7.
Livia cammina sulla sabbia.
Dalla veranda si sentono ancora le voci di Ramelli e Teo, soffuse, come un
brusio domestico.
Stefani, a pochi passi dal mare, guarda verso l’orizzonte africano, invisibile
ma vicino.
Cartagine lo aspetta.
E con Cartagine, il mondo.
.
XXXII

NETTUNO, notte tra il 3 e il 4 giugno 1989
La casa dorme.
Il mare, che poche ore prima aveva il colore del rame, adesso è nero e piatto
come una lastra d’acciaio.
Solo il rumore ritmico delle onde e il frinire dei grilli riempiono il silenzio
della villa.
Poi, il trillo secco del telefono satellitare.
Stefani apre gli occhi di colpo.
Per un istante pensa sia un sogno, poi riconosce la luce verde che lampeggia sul
tavolo accanto al letto.
Si alza, indossa la camicia, risponde con voce roca.
STEFANI: Sì? Chi
parla?
TULLIO-CICERO (voce metallica): Eccellenza, sono l’ammiraglio
Tullio-Cicero. Mi scusi l’ora… ma temo che ci sia un problema grave.
STEFANI (già teso): Quale problema?
TULLIO-CICERO: Ho appena ricevuto notizie da Fiumicino. Reparti
dell’esercito, paracadutisti della ‘Pietro IV’, hanno occupato lo scalo. Dicono
di avere ordine di "mettere in sicurezza" le piste. Ma non rispondono né al
Comando Supremo, né a me.
STEFANI (silenzio, poi glaciale): Chi li comanda?
TULLIO-CICERO: Il generale Silla, credo. O Anastasi. Ma non ne ho
conferma. Mi dica, Eccellenza… lei ne è al corrente?
STEFANI: No. (una pausa) Mi ascolti bene ammiraglio. È in corso un colpo
di Stato.
L’ammiraglio non risponde subito. Solo un respiro pesante.
STEFANI (continuando):
Avete reparti vicini alla capitale?
TULLIO-CICERO: Sì, c’è una brigata di fanteria di marina ad Ostia, la
‘San Giorgio’. Operativa, addestrata, fedele.
STEFANI: Perfetto. La faccia muovere subito. Obiettivi: le stazioni
televisive, la radio imperiale, il Ministero della Difesa e il Quirinale.
Nessuno deve prendere la parola prima di me.
TULLIO-CICERO: Capito, Eccellenza. Mi metto in moto. Che il Signore ci
aiuti.
STEFANI: E anche Roma, ammiraglio.
Chiude la comunicazione.
Per un attimo resta immobile, col satellitare in mano, poi lo posa. Gli tremano
appena le dita.
Pochi minuti dopo Stefani entra nel corridoio, bussando forte alla porta di
Ramelli.
STEFANI: Longino! Sveglia. È successo.
Ramelli apre in maglietta, gli occhi già lucidi, la lucidità del predatore che sente l’odore del sangue.
RAMELLI: Chi?
STEFANI: Silla e Anastasi, credo. Hanno mosso i reparti su Fiumicino. Tu
chiama il CoSDi. Linea diretta. Voglio sapere chi si è schierato e chi no.
RAMELLI (subito operativo): Capito. E lei?
STEFANI: Io sveglio mia figlia e chiamo la scorta. Tra dieci minuti si
parte per Roma.
Stefani entra in camera della figlia, la scuote leggermente. Livia si sveglia di soprassalto.
LIVIA: Papà? Che
succede?
STEFANI: Un imprevisto. Vestiti. Noi torniamo a Roma, tu resti qui con
Teo.
LIVIA (ironica, anche nel panico): “Imprevisto”? Ti suona il telefono di
notte e parli come in un film di spie.
STEFANI (serio): Non è un film. È un colpo di Stato.
Livia sbianca, ma non dice
nulla.
In soggiorno Ramelli, con il telefono satellitare all’orecchio, parla rapido e
sottovoce.
Le frasi sono spezzate, militari, secche.
RAMELLI:
— bloccare accessi a via Flaminia…
— rintracciate Silla, se necessario usate forza letale…
— priorità: Palazzo del Governo e trasmissioni…
Stefani intanto scende al piano di sotto, trova due agenti della scorta svegli ad ascoltare la radio e fa svegliare il caposcorta.
STEFANI: Ci muoviamo ora. Roma. Subito. Nessuna deviazione.
L’uomo, ancora in tuta, non chiede spiegazioni. Solo:
CAPOSCORTA: Quanti
mezzi, Eccellenza?
STEFANI: Tutti. E pieni.
Poco dopo, nel buio della
notte, tre fuoristrada neri partono verso Roma.
Dentro il secondo, Stefani e Ramelli non parlano.
Solo ogni tanto, la voce del CoSDi gracchia dal telefono di Longino.
“Abbiamo contatti armati
sulla Cassia. Ripetiamo: contatti armati.”
“Il generale Anastasi ha lasciato il Comando Supremo.”
“Nessuna traccia di Silla.”
Stefani ascolta in silenzio. Livia e Teo, invece, li guardano partire dal cancello della villa, in pigiama, fermi accanto alla macchina di lei.
LIVIA: Io non resto
qui.
TEO: Va bene, andiamo al paese. C’è la pensione di mia cugina. Prendo il
mio satellitare.
Partono pochi minuti dopo. Le luci posteriori dell’auto spariscono tra gli alberi di pino, verso l’interno.
Ore 01:48
Una jeep con uomini armati entra nel vialetto della villa.
Sono paracadutisti della ‘Pietro IV’, in mimetica, visi coperti, fucili
automatici.
COMANDANTE (dando ordini): Due squadre dentro. Uno in copertura. Voglio il Presidente vivo.
Entrano sfondando la
porta.
Dentro, solo silenzio. I piatti ancora sul tavolo, i bicchieri del vino, la
televisione che gracchia.
In cucina, gli avanzi della sera prima.
Il comandante guarda la veranda vuota, poi scuote la testa.
COMANDANTE: Troppo tardi.
Uno dei soldati trova una
sigaretta ancora accesa nel posacenere di Ramelli.
Il fumo si alza, pigro.
.
XXXIII
VERBALE
RISERVATO
Consiglio Imperiale di Sicurezza – Seduta Straordinaria
Data: Notte tra il 3 e il 4 giugno 1989
Luogo: Palazzo del Quirinale, Studio Presidenziale
Classificazione: LIVELLO OMEGA / RISERVATISSIMO
Redatto da: Ufficio Verbali della Segreteria Imperiale
PARTECIPANTI:
1. Francesco Saverio Salvio-Stefani, Presidente del Comitato Imperiale per
lo Stato d’Emergenza (CISE)
2. Giuliano Di Paola, Direttore Generale della Commissione Speciale di Difesa
(CoSDi)
3. Gen. Emilio Paolo Mazurkiewicz, Propretore Generale, già comandante della 10ª
Brigata Paracadutisti d’Assalto “Tifone”
4. On. Cornelio Pisani, Ministro dell’Interno
5. Longino Ramelli, Vicedirettore Generale della Commissione Speciale di Difesa
(CoSDi)
6. Amm. Francesco Tullio-Cicero, Capo di Stato Maggiore della Marina Imperiale
1. Apertura della seduta
(ore 02:47)
Il Presidente Stefani apre la riunione straordinaria, convocata d’urgenza a
seguito del tentativo di colpo di Stato avviato da reparti infedeli
dell’Esercito nella tarda serata del 3 giugno.
L’atmosfera operativa è concitata ma controllata; nella stanza sono presenti
mappe aggiornate della capitale e linee telefoniche dirette con lo Stato
Maggiore e il CoSDi.
2. Situazione operativa
generale
L’Ammiraglio Tullio-Cicero riferisce che la Brigata di Fanteria di Marina
“San Giorgio”, mobilitata da Ostia su ordine diretto della Marina alle ore
00:45, ha assunto il controllo dei principali accessi alla capitale e dei
seguenti obiettivi strategici:
• Ministeri di Interni e Difesa;
• Sedi radiotelevisive nazionali;
• Palazzo del Quirinale e complesso del Parlamento;
• Ponti sul Tevere e vie consolari in entrata
(Aurelia, Appia, Salaria).
L’Ammiraglio precisa che le truppe sono in stato di allerta massima e che non si
sono registrati scontri nella zona urbana di Roma.
3. Intervento della 10ª
Brigata Paracadutisti “Tifone”
Il Gen. Mazurkiewicz riporta che, alle 02:05, la brigata da lui già
comandata ha ricevuto ordine di mobilitazione per convergere sulla capitale.
La “Tifone” ha assunto posizione di presidio presso Fiumicino, Ponte Galeria e i
depositi logistici dell’Esercito, dove ha intercettato movimenti sospetti di
reparti della 108ª Brigata Paracadutisti “Pietro IV”.
Al momento della relazione, le truppe lealiste controllano tutti i punti
nevralgici, inclusi i terminal aeroportuali.
4. Lealtà delle forze di
polizia
Il Ministro Pisani riferisce che i reparti di polizia e i corpi
militarizzati restano fedeli al governo legittimo.
Le Squadre di Intervento Rapido (SIR) sono pronte a muovere verso obiettivi
urbani in caso di necessità, ma la situazione appare sotto controllo.
Le comunicazioni interne del Ministero dell’Interno sono stabili; nessuna
defezione segnalata.
5. Stato operativo del
CoSDi
Il Direttore Di Paola prende la parola per lodare l’efficienza del
Vicedirettore Ramelli, che nelle ultime ore ha coordinato in maniera autonoma e
risolutiva le operazioni del CoSDi.
Di Paola dichiara di rammaricarsi di non aver potuto partecipare più attivamente
a causa delle proprie condizioni di salute, ma conferma di essere rimasto
costantemente informato sugli sviluppi.
6. Valutazione
complessiva: fallimento del golpe
Alle ore 03:25 il Presidente Stefani, ricevuta comunicazione che la capitale
è sotto il pieno controllo governativo, constata che il tentativo di colpo di
Stato è da considerarsi operativamente fallito.
Le forze lealiste controllano la totalità dei punti strategici della capitale; i
reparti ribelli risultano isolati e in fase di resa.
I generali Sesto Silla e Paolo Anastasi, identificati come principali ispiratori
del tentativo di golpe, risultano latitanti.
7. Sezione riservata –
Discussione sul destino dei generali Silla e Anastasi
(La seguente parte della seduta è verbalizzata come riservata a
circolazione limitata – LIVELLO OMEGA).
In previsione della cattura dei generali Silla e Anastasi, il Direttore Di
Paola solleva la questione della gestione giudiziaria e politica del caso.
L’eventuale processo pubblico, si osserva, potrebbe generare instabilità e
rivelazioni indesiderate.
Dopo breve discussione tra i presenti, il Direttore Di Paola propone
[OMISSIS].
La proposta è approvata all’unanimità dai presenti.
Il Vicedirettore Ramelli riceve incarico di predisporre le modalità operative e
di coordinare l’esecuzione della misura con la necessaria riservatezza.
8. Chiusura della riunione
Alle 04:15, il Presidente Stefani dichiara chiusa la seduta.
Si dispone che il verbale venga registrato e archiviato come verbale del
Consiglio Imperiale di Sicurezza in Seduta Straordinaria, e che le copie vengano
trasmesse esclusivamente ai partecipanti e alla Segreteria Imperiale.
Redatto da:
(firma illeggibile)
Funzionario addetto ai Verbali della Segreteria Imperiale
.
XXXIV

DIARIO PERSONALE DI FRANCESCO SAVERIO SALVIO-STEFANI
4 giugno 1989 – Roma, Palazzo del Quirinale
(Appunto scritto alle 05:18 del mattino, poco prima dell’intervento
televisivo a reti unificate)
“Ho vinto.”
Sono le uniche parole che mi vengono in mente mentre chiudo la comunicazione
con Livia.
Non so se le ho dette per convincere lei o per convincere me stesso.
L’atmosfera al Quirinale stanotte era surreale: sembrava di assistere a un
dramma romano, ma senza sceneggiatura. I corridoi illuminati a giorno, telefoni
che squillano senza tregua, stenografe che battono tasti come mitragliatrici,
ufficiali addormentati su sedie o stesi per terra, e in mezzo a tutto questo una
sensazione di febbre, di precarietà. Nessuno sa davvero cosa stia succedendo, ma
tutti vogliono dare l’impressione di sapere.
Quando io e Ramelli siamo
arrivati, c’era odore di caffè bruciato e sudore.
Ho trovato Pisani chino sul telefono, che parlava col capo della polizia come se
stesse domando un incendio.
L’ammiraglio Tullio-Cicero sembrava un uomo tornato giovane: dava ordini rapidi
e precisi, la voce ferma, il tono autoritario, persino elegante. Mazurkiewicz,
invece, stava in piedi davanti alla mappa della capitale, con le mani dietro la
schiena e quello sguardo che sembra vedere più in là del resto di noi.
Mazurkiewicz… Un uomo che ispira fiducia, e al tempo stesso la mette a dura
prova.
I suoi soldati lo adorano, lo chiamano “il vecchio comandante”, e parlano di lui
come di uno di loro. Professionale, disciplinato, freddo. Ma c’è qualcosa dietro
quegli occhi grigi che non riesco a leggere.
Durante la riunione l’ho osservato attentamente, mentre riferiva della
mobilitazione della "Tifone" e dei suoi uomini. Parlava in modo impeccabile, ma
avevo l’impressione che stesse pesando ogni parola, scegliendo con cura cosa
dire e cosa tacere.
È un uomo che non sbaglia mai una mossa, ma non sono ancora certo se giochi per
la mia squadra o per la sua.
La riunione nello studio
presidenziale è stata più breve di quanto mi aspettassi.
Il golpe è fallito, e questo lo si è capito presto. I reparti golpisti non
sapevano neppure di esserlo. Solo Anastasi e Silla, due uomini che un tempo ho
stimato, avevano chiaro il disegno, e lo hanno pagato.
La decisione sul loro destino è arrivata quasi da sola, come un gesto naturale,
inevitabile. Di Paola ha proposto, io ho approvato, e nessuno ha obiettato.
Ramelli, come sempre, ha preso nota in silenzio, ma ho colto il suo sguardo
complice: sa che certe cose non si fanno per rabbia, ma per necessità.
Quando la riunione è finita e tutti si sono dispersi tra telefoni e dispacci, mi
sono ritirato nello studio privato.
Ho chiamato Livia, sul satellitare di Teodoro. La voce di mia figlia era stanca,
tesa, ma lucida.
Le ho detto che era tutto finito, che poteva stare tranquilla.
Lei ha risposto solo: “Davvero, papà?”
E io, senza pensarci, ho detto: “Ho vinto.”
Non so se sia vero. Ho fermato un golpe, ma ogni volta che fermo qualcosa ne
creo un’altra. Forse questa notte ho solo rimandato il prossimo.
Adesso, mentre mi preparo a
parlare in televisione, provo una strana calma.
Roma dorme, o almeno ci prova.
Io invece non posso permettermelo: il sonno è per chi può dimenticare.
(Nota a margine, scritta
in grafia più frettolosa)
Mazurkiewicz va tenuto d’occhio. Uomo di grande valore, ma doppio fondo.
Ramelli lo capirà.
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XXXV

TRASMISSIONE A RETI
UNIFICATE
Data: 4 giugno 1989
Ora: 05:42
Luogo: Palazzo del Quirinale, Sala delle Colonne
Emittenti collegate: Canale 1, Canale 2, Canale Cartagine, Radio Roma
(Inquadratura fissa. La sala è sobria, illuminata da luci chiare e fredde. Sullo sfondo, la bandiera nero-rosso-nera dell’Impero con la Croce delle Sette Spade. Francesco Saverio Salvio-Stefani, in giacca grigia e cravatta scura, appare visibilmente stanco ma composto. Davanti a lui, il microfono d’ordinanza e la cartellina color avorio. Pausa di tre secondi. Poi, inizia a parlare con tono fermo e grave)
STEFANI:
«Romani, cittadini dell’Impero, fratelli e sorelle d’Italia.
Questa notte, uomini senza onore hanno tentato di colpire il cuore della nostra
Patria.
Con un’azione improvvisa e disorganica, reparti militari infedeli hanno cercato
di impadronirsi di alcuni nodi strategici della capitale e di minare la
stabilità dello Stato.
Desidero rassicurarvi
immediatamente: il tentativo è fallito. Roma è in piedi. L’Impero è in piedi.
Le Forze Armate, la Polizia e la Commissione Speciale di Difesa hanno agito con
rapidità e disciplina, ristabilendo l’ordine in ogni settore della capitale.
A quest’ora, tutti i principali edifici governativi, le stazioni
radiotelevisive, gli aeroporti e le infrastrutture vitali sono sotto il pieno
controllo delle forze leali.
Non vi è alcun pericolo per la popolazione civile, né alcuna minaccia alla
continuità del governo imperiale.
Nei prossimi giorni, la
magistratura militare accerterà le responsabilità di quanti si sono resi
complici di questo atto scellerato.
Sarà fatto tutto alla luce del sole, ma con la fermezza che il dovere impone.
Chi ha tradito il giuramento al proprio Paese sarà giudicato, e la giustizia
dell’Impero, che non è né vendetta né debolezza, farà il suo corso.
Non è il momento delle divisioni, ma dell’unità.
A tutti i cittadini, ai lavoratori, ai soldati, ai giovani, chiedo serenità e
disciplina.
A tutti i veterani che hanno servito la Patria in armi, chiedo di ricordare che
la nostra forza non è mai stata nelle baionette, ma nello spirito romano: nella
lealtà, nel sacrificio e nel rispetto della legge.
So che molti di voi si sono
spaventati, e non vi nascondo che le ore appena trascorse sono state difficili.
Ma da queste prove il nostro popolo è uscito più volte più forte. Oggi come
allora, la nostra civiltà non arretrerà di un passo. Io vi prometto questo:
nessuno spezzerà l’unità dell’Impero.
Non un colpo di fucile, non un tradimento, non un’ombra di paura potrà
cancellare duemila anni di storia e di fede nel destino di Roma.
L’Impero rimane saldo, e continuerà a lavorare per la pace, la giustizia e la prosperità di tutti.
Vi ringrazio per la vostra
fiducia, e vi chiedo di alzarvi domattina come sempre, di andare al lavoro, di
vivere la vostra vita.
Il miglior modo per sconfiggere chi voleva gettarci nel caos è dimostrare che
Roma non si piega mai.
Che Dio benedica voi, e che Dio benedica il nostro Impero.»
(Stefani chiude la cartellina, guarda per un istante la telecamera, poi un leggero cenno del capo. L’immagine resta fissa per cinque secondi, quindi dissolve sullo stemma imperiale e l’inno “Fede e Gloria”)
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XXXVI

Il Ronzio – Editoriale di
Valentino Tulliani
Edizione del 6 giugno 1989
Due generali, due morti e troppe
coincidenze
La cronaca ufficiale, quella che si racconta con voce impostata nei telegiornali e si stampa in grassetto sulle prime pagine, ci dice che nella notte tra domenica e lunedì il generale Paolo Anastasi e il generale Sesto Silla, rispettivamente ex capi di Stato Maggiore delle Forze Armate e dell’Esercito, sono “improvvisamente venuti a mancare per cause naturali”.
Due uomini in perfetta
salute, uno al Gianicolo, l’altro nella sua residenza di Viterbo, colti nello
stesso giro d’orologio da un malore fatale. Due generali su due.
Nessun arresto, nessuna indagine, nessuna connessione, solo “triste
coincidenza”.
Roma, si sa, è abituata alle
coincidenze.
Capita che due statue vengano restaurate lo stesso giorno, che due ministri
cadano in disgrazia la stessa settimana, e che due generali che fino a
quarantotto ore fa comandavano interi eserciti decidano all’unisono di morire
nel sonno, come se il fato avesse senso dell’umorismo.
Eppure, il destino ha un
tempismo strano.
Le morti arrivano appena ventiquattro ore dopo il tentativo di golpe che,
secondo la versione governativa, è stato “rapidamente represso” e “condotto da
elementi deviati delle Forze Armate”.
Nomi non se ne sono fatti, e forse non se ne faranno mai, ma chi conosce
l’ambiente militare sa bene che, in ogni rivoluzione abortita, ci sono sempre
due o tre nomi troppo importanti per essere pronunciati.
Che i due generali siano
morti davvero nel sonno, o che abbiano preferito un’altra via, non è dato
sapere. Quello che colpisce è la fretta con cui l’Impero ha archiviato la
questione.
Non un’inchiesta, non un’autopsia, non un cenno di dubbio.
Solo la voce impersonale di un comunicato: “i funerali si svolgeranno in forma
privata”.
Nel frattempo, in piazza, si
respira una calma che sa di ammonimento.
Le camionette della polizia davanti alle redazioni, le pattuglie nei quartieri
del centro, la gente che abbassa la voce quando sente pronunciare la parola
golpe.
L’Impero è in piedi, sì, ma pare camminare sulle uova.
Forse il Presidente Stefani ha davvero salvato Roma da una notte di caos e, se è così, nessuno gli negherà questo merito. Ma un regime che non tollera le domande non può chiedere fiducia, e un potere che nasconde le sue ferite sotto il cerone della compostezza non guarirà mai.
Per ora sappiamo soltanto che
due generali sono morti nello stesso giorno, per la stessa ragione, con la
stessa discrezione.
E che la storia, come sempre, si scrive meglio quando nessuno ha voglia di
rileggerla.
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XXXVII

ROMA, 4 GIUGNO: UN
GOLPE SENZA SPIEGAZIONE
(David
H. Merriman, The New York Times)
Dubbi a Washington e in Europa sull’“ammutinamento lampo” nell’Impero Romano. Quale fu il vero movente dei golpisti?
ROMA – Tre giorni dopo il tentato golpe militare che nella notte tra il 3 e il 4 giugno ha scosso l’Impero Romano, la situazione nella capitale sembra tornata alla normalità. Le strade sono sorvegliate da pattuglie della polizia e da reparti di marina, ma i negozi hanno riaperto, i trasporti funzionano e il presidente Francesco Saverio Stefani appare saldo al potere.
Eppure, dietro la calma apparente, molti interrogativi rimangono aperti.
Le informazioni ufficiali diffuse dal governo romano parlano di un “tentativo isolato” da parte di reparti paracadutisti guidati, si presume, da due generali: Sesto Silla e Paolo Anastasi, ufficialmente estranei ai fatti, ma morti entrambi a poche ore di distanza dal golpe con un tempismo molto sospetto.
Ma gli osservatori occidentali si chiedono che cosa abbia realmente spinto due degli ufficiali più decorati dell’esercito imperiale, fino a pochi mesi fa considerati fedelissimi del regime, a una mossa tanto disperata quanto priva di prospettive.
Tensioni al vertice
Fonti diplomatiche americane a Roma riferiscono che negli ultimi mesi i
rapporti tra il presidente Stefani e i vertici delle forze armate erano
diventati tesi.
Il motivo principale sarebbe la gestione della guerra in Algeria: dopo
l’operazione “Gaio Mario” la campagna militare è rimasta in una situazione di
stallo.
Molti ufficiali, in particolare quelli dell’aeronautica e dei paracadutisti, si sarebbero lamentati, anche pubblicamente, durante riunioni interne, per la mancanza di iniziativa politica e per i tagli al bilancio della difesa imposti dalle riforme economiche di Stefani.
Le forze armate romane, da sempre pilastro del sistema imperiale, hanno visto progressivamente ridimensionarsi il proprio peso, a vantaggio della polizia segreta (CoSDi) e dei nuovi organismi civili di sicurezza.
Il nodo del Ministero
della Difesa
Un’altra ferita mai rimarginata nei rapporti tra Stefani e i generali è
stata la nomina, lo scorso anno, a ministro della Difesa di Germano Anicio, un
economista e accademico già sottosegretario in quel dicastero sotto Paolo VIII,
ma privo di carriera militare.
Per la prima volta dopo decenni la guida della difesa non è affidata a un generale o a un ammiraglio.
Secondo una fonte vicina agli ambienti militari romani, “molti ufficiali hanno interpretato quella scelta come un segnale politico: Stefani non si fida dell’esercito, vuole tenerlo sotto controllo”.
Silla e Anastasi, in particolare, avrebbero espresso apertamente il proprio malcontento, chiedendo più autonomia per i comandi e un ritorno a un ruolo ‘centrale’ dell’esercito nella vita dello Stato.
Stefani, noto per il suo stile decisionista e per la sua diffidenza verso i corpi intermedi, avrebbe invece ridotto ulteriormente il margine di manovra dello Stato Maggiore.
Un golpe senza radici
Gli analisti militari americani faticano tuttavia a spiegare la logica
dell’azione.
Secondo le fonti ufficiali romane, le truppe coinvolte, in particolare la 108ª Brigata Paracadutisti “Pietro IV”, avrebbero occupato l’aeroporto di Fiumicino e alcuni nodi strategici della capitale nelle prime ore della notte, prima di essere neutralizzate all’alba dai reparti della marina e dalle unità d’assalto del CoSDi.
L’operazione, però, appare male organizzata, priva di coordinamento e senza alcun sostegno politico visibile.
“Non si tratta del colpo di mano di un esercito ribelle, ma di un gesto disperato, probabilmente nato da frustrazioni interne”, osserva un diplomatico europeo.
Un silenzio pesante
A complicare il quadro, il fatto che secondo la versione ufficiale entrambi
i generali Anastasi e Silla sarebbero morti improvvisamente “per cause
naturali”.
La coincidenza temporale ha sollevato più di un sopracciglio tra gli osservatori internazionali, ma il governo romano ha ribadito la piena trasparenza dell’indagine e chiuso ogni commento.
Un funzionario del Dipartimento di Stato americano, parlando in condizione di anonimato, ha definito la vicenda “un episodio opaco, difficile da valutare”, aggiungendo che “Washington segue con attenzione gli sviluppi e auspica che la leadership romana dia piena prova di stabilità e di rispetto per la legalità”.
Un regime che cambia pelle
Stefani, salito al potere nel 1985 dopo la crisi che seguì la morte
dell’imperatore Paolo VIII, ha progressivamente consolidato la propria
posizione.
Negli ultimi quattro anni ha ridisegnato la struttura politica dell’Impero, trasformandolo in una repubblica presidenziale di fatto, con elezioni regolari ma con un parlamento dominato dal suo partito.
Molti a Roma descrivono Stefani come “un modernizzatore autoritario”: un uomo che parla di democrazia ma governa come un generale.
La repressione del golpe, aggiungono alcuni osservatori, potrebbe offrirgli ora il pretesto per accentrare ulteriormente i poteri, nel nome dell’ordine e della stabilità.
Conclusione
Il tentativo di colpo di Stato del 4 giugno rimane dunque, per ora, un
mistero senza colpevoli né moventi certi.
A Washington, il giudizio prevalente è che non si sia trattato di una sfida organizzata al potere di Stefani, ma di un sintomo della crescente tensione fra la presidenza e l’apparato militare.
Un monito, forse, per un leader che ha fatto della disciplina e della fedeltà la propria bandiera.
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XXXVIII

Aereo presidenziale “Mercurius II”, 12 giugno 1989
TEO (con tono allegro): Direi che almeno oggi possiamo concederci un po’ di calma, eh? Il mare sotto sembra una lastra d’argento. Non so come faccia a dormire così tranquillo, presidente.
STEFANI (senza alzare lo sguardo dai documenti): Quando uno passa quarant’anni tra uniformi e carte, Teo, impara a dormire dove capita. Anche in volo.
LIVIA: O anche senza dormire, direi. È da due notti che non chiudi occhio.
STEFANI (accenna un sorriso): Dormirò a Cartagine. Mi dicono che l’hotel sia molto silenzioso.
TEO (servendo del caffè): Sì, presidente. Lì la stampa sarà tutta per lei. E gli americani… be’, credo che lei abbia già conquistato mezzo congresso, dopo il golpe sventato.
LIVIA (sospira, accavallando le gambe): Già, il golpe. Tutti a scrivere di “una vittoria della legalità”, “la fermezza dello Stato”, e via dicendo. Ma nessuno che dica quello che tutti pensano.
STEFANI (chiude lentamente la cartella): E cioè?
LIVIA: Che se davvero Silla e Anastasi sono morti “per cause naturali”, allora io sono la Madonna. Hai letto Il Ronzio, papà?
STEFANI (senza cambiare espressione): No. Non leggo i giornali di chi scrive per sentirsi più intelligente del potere che lo tollera.
LIVIA (ironica): Dovresti. Tulliani è velenoso, ma scrive bene. L’editoriale di oggi finisce così: “La storia, quando si scrive in fretta, non ha bisogno di riletture. Ma i segni di matita ai margini restano, come graffi su un vetro.”
[Pausa. Si sente il fruscio dei motori, poi un lieve ronzio dal sistema d’interfono]
PILOTA (voce metallica): Presidente, qui è il comandante. Stiamo passando sopra la costa africana. Atterraggio previsto tra trentotto minuti. Tempo sereno su Cartagine, ventidue gradi.
STEFANI (piglia il microfono): Ricevuto, comandante. Ottimo lavoro.
[Interfono si chiude]
TEO (cercando di cambiare tono): Io invece l’ho letto, l’articolo di Tulliani. Mi è sembrato… ehm, poetico, ecco. Un po’ troppo però, per un giornalista politico.
LIVIA: Poetico, ma vero. (guarda il padre) La gente non è stupida, papà. Sa che qualcosa è successo. Forse non vuole crederci, ma lo sa.
STEFANI (con calma, sistemando la cravatta): La gente non sa mai niente, Livia. Sa solo quello che le serve per dormire tranquilla. E se il paese ha dormito la notte dopo il golpe, allora ho fatto il mio dovere.
TEO (annuisce lentamente): Beh, dormire tranquilli è già molto, di questi tempi.
LIVIA (amara): Finché non si svegliano.
STEFANI (con un mezzo sorriso): Allora scriveranno che ero un sognatore.
[Nuovo silenzio. Si sente il motore abbassare i giri. Livia guarda fuori dal finestrino]
LIVIA (piano): Cartagine… sembra sempre una parola mitologica. E pensare che ora ci vanno i potenti a fare conferenze.
STEFANI (quasi per sé stesso): Cartagine è rinata dalle sue ceneri. Roma no. Roma deve fingere d’essere immortale perché, se ammettesse di essere viva, allora dovrebbe anche ammettere che può morire.
TEO (sorridendo, ingenuo): Mi perdoni, presidente, ma questo suonerebbe bene in un discorso.
STEFANI (ironico): Vedi, Teo, per quello ti tengo vicino: perché riesci ancora a credere che le parole possano salvare il mondo.
LIVIA (fredda): Io invece penso che lo rovinino.
[Si sente il segnale del pilota: “Cabin Crew, prepare for landing.” Il motore rallenta]
STEFANI (sottovoce): Ecco, la culla dei miti e delle rovine ci accoglie. Vediamo se il mondo ci guarda come vincitori o come superstiti.
LIVIA: Forse come entrambi.
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XXXIX

IL MESSAGGERO - 15 giugno 1989
Cartagine: l’Impero torna al
centro del mondo
di Enrico Altieri, inviato
speciale a Cartagine
CARTAGINE – Il vertice del G7 appena conclusosi nella capitale africana dell’Impero è stato, senza alcuna esagerazione, un trionfo per Francesco Saverio Salvio-Stefani e per la diplomazia romana.
Per la prima volta dopo decenni di marginalità e sospetti, Roma è tornata non solo a sedere tra i grandi, ma a guidarli, imponendo la propria agenda e offrendo al mondo l’immagine di un Paese stabile, sicuro e capace di parlare con voce chiara.
Il presidente Stefani ha avuto colloqui bilaterali di grande spessore con tutti i principali leader presenti, dal presidente statunitense George H. W. Bush al primo ministro britannico Margaret Thatcher, dal presidente francese François Mitterrand al cancelliere tedesco Helmut Kohl, fino al premier giapponese Noboru Takeshita, incontri che, a detta delle rispettive delegazioni, si sono svolti in un clima di reciproca stima e di “sincera cooperazione tra potenze sorelle”.
Secondo fonti vicine al Ministero degli Esteri, l’Impero avrebbe ottenuto l’appoggio unanime dei Paesi membri del G7 per la stabilizzazione del fronte mauritano, dove le forze imperiali stanno difendendo con successo il Mediterraneo dalla minaccia del terrorismo islamista. Il presidente Bush avrebbe espresso “piena solidarietà al popolo romano per la sua lotta contro il fanatismo religioso”.
Non sono mancati, accanto ai lavori ufficiali, momenti di forte simbolismo politico. Durante la cena di gala presso il Palazzo del Governatorato di Cartagine, Stefani ha brindato con i leader presenti dicendo:
“Roma non chiede di essere temuta. Chiede di essere compresa. E, una volta compresa, è impossibile non amarla.”
Parole che hanno colpito l’opinione pubblica internazionale e, che molti osservatori considerano il manifesto di una nuova stagione della politica estera romana: forte, moderna, ma non aggressiva.
Al suo fianco, la figlia Livia, elegante in un abito di seta color avorio, ha rappresentato la grazia e la continuità della prima famiglia di Roma, diventando in breve il volto più fotografato del vertice.
Cartagine ha mostrato al mondo un nuovo equilibrio, e l’Impero, sotto la guida di Stefani, appare più che mai il perno del Mediterraneo e un protagonista di primo piano nel nuovo ordine internazionale.
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XL

A Cartagine, Bush esprime riserve sulla direzione presa da Roma
(Michael R. Feldman, corrispondente esteri del The New York Times, 15 giugno 1989)
CARTAGINE — Si è concluso ieri il vertice del G7 ospitato dall’Impero Romano, il primo incontro di questo livello organizzato da Roma dopo oltre trent’anni. Le immagini ufficiali mostrano sorrisi, brindisi e dichiarazioni di amicizia, ma dietro la diplomazia formale si percepiva una certa tensione, soprattutto da parte della delegazione statunitense.
Il presidente George H. W. Bush ha avuto due colloqui privati con il presidente Francesco Saverio Salvio-Stefani, leader dell’Impero Romano dal 1985, il quale ha cercato di accreditarsi come figura pragmatica e moderata sulla scena internazionale. Tuttavia, secondo fonti vicine al Dipartimento di Stato, Washington resta profondamente preoccupata per gli sviluppi politici interni a Roma, in particolare per gli eventi delle ultime settimane.
Il riferimento è al tentativo di colpo di stato dello scorso 4 giugno, sventato dall’intervento delle forze lealiste. Gli Stati Uniti, pur congratulandosi ufficialmente con il governo romano per aver “difeso la stabilità istituzionale”, non nascondono perplessità sul clima di opacità che circonda la vicenda. “È difficile capire cosa sia realmente accaduto,” ha dichiarato in forma anonima un alto funzionario americano. “E in un sistema già privo di trasparenza, questo genera inquietudine.”
Durante i colloqui bilaterali, Stefani e il suo segretario personale Teodoro Lori hanno assicurato che “l’ordine è stato pienamente ristabilito” e che “la democrazia romana resta salda”, sottolineando i risultati economici ottenuti grazie alla sua “politica di modernizzazione” e la determinazione con cui l’Impero continua la guerra contro il terrorismo islamico in Mauritania.
Ma, come ha commentato un diplomatico europeo presente al vertice, “nessuno è completamente convinto che le riforme di Stefani siano davvero democratiche, o che il golpe sia stato solo un incidente militare.”
Le preoccupazioni di Washington riguardano anche la concentrazione di potere nelle mani del CISE, il Comitato Imperiale per lo Stato d’Emergenza, di cui Stefani è presidente e dominus incontrastato, e l’apparente marginalizzazione del parlamento romano, che continua a ratificare senza dibattito le decisioni governative.
Un dettaglio che non è passato inosservato tra i giornalisti stranieri è stata la presenza costante di Livia Stefani, la figlia maggiore del presidente, al fianco del padre in quasi tutte le occasioni ufficiali. Presentata come “accompagnatrice privata”, la giovane ha attirato l’attenzione dei media internazionali, suscitando speculazioni sulla possibilità di una futura successione dinastica, ipotesi smentita dai portavoce del governo romano ma non del tutto esclusa nei corridoi della diplomazia.
Nonostante le riserve, gli Stati Uniti e l’Impero hanno concordato su una serie di cooperazioni strategiche: condivisione di intelligence nel Nord Africa, programmi comuni di sicurezza energetica e una maggiore integrazione tra i rispettivi comandi militari nella regione mediterranea.
“Stefani è un uomo intelligente,” ha detto un alto funzionario dell’amministrazione Bush, “ma non è detto che condivida la nostra stessa idea di libertà.”
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XLI

Aereo presidenziale, pista di Cartagine, sera del 15 giugno 1989
All’interno del velivolo presidenziale “Mercurius II”, le luci della pista si riflettono sulle pareti metalliche. Livia siede accanto al finestrino, sfogliando una rivista internazionale con la foto del padre in copertina. Stefani è rilassato, in apparenza, un bicchiere di liquore tra le dita. Teodoro “Teo” Lori, con la sua inseparabile cartella di pelle, prende appunti svogliati.
STEFANI (ridacchiando)
…E allora il compagno
segretario dice al contadino: “Come va il raccolto di grano quest’anno?”
E il contadino: “Abbiamo raccolto tanto grano che arriverebbe fino a Dio!”
Stalin lo guarda e gli dice: “Compagno, Dio non esiste.”
E quello, senza scomporsi: “Lo so, compagno Stalin. Neanche il grano.”
[scoppia in una risata gutturale, picchia due dita sul bracciolo, compiaciuto della propria interpretazione]
TEO (ride, forse più per dovere che per convinzione): Ah! Ah! Molto… molto acuta, Eccellenza. Una barzelletta sovietica raccontata da un americano: questo sì che è un segno dei tempi.
LIVIA (alza lo sguardo dal giornale): Divertente, sì. (sospira) Però, papà, una curiosità: qual è la differenza tra te e Stalin?
[Silenzio improvviso. Il ronzio dei motori si fa più percepibile. Teo abbassa lentamente la penna.]
STEFANI (freddo): Mi stai paragonando a Stalin?
LIVIA: No, sto solo chiedendo… perché anche lui amava raccontare barzellette sui nemici. Solo che poi li faceva sparire.
STEFANI (trattenendo la voce, ironico): Ecco la differenza: io non ho nemici. Ho oppositori, critici, talvolta ingrati. Ma nessuno sparisce.
LIVIA (sottovoce, tagliente): Solo muoiono per cause naturali, giusto?
[Stefani posa lentamente il bicchiere. Il tono cambia, più basso, misurato, ma pieno di tensione.]
STEFANI: Attenta a non
confondere il cinismo con l’intelligenza, Livia.
Il mondo è governato da equilibri, non da barzellette. Io non sono Stalin, sono
un uomo che ha tenuto in piedi un impero che tutti davano per morto.
LIVIA: E quanto a lungo pensi di tenerlo in piedi, papà? Fino a quando non troverai qualcuno a cui passare la corona?
[Teo interviene, agitando le mani come se volesse sciogliere la tensione con un gesto.]
TEO: Signori, signori… vi prego! Non litighiamo dopo un vertice tanto importante. Il mondo intero ha parlato bene di voi, Presidente! E anche la signorina dev’essere orgogliosa…
LIVIA (cupa): Oh sì, orgogliosissima.
STEFANI (calmandosi, ma con un tono fermo): Basta così. (guarda fuori dal finestrino, poi torna verso Teo) Teodoro, voglio che tu mi prepari un discorso per le Camere. Qualcosa di sobrio, ma solenne.
TEO: Per annunciare…?
STEFANI: Per fare il punto sul G7, certo. E per annunciare una nuova riforma costituzionale. (pausa) È tempo che la nostra legge fondamentale rifletta la realtà. Non viviamo più nell’epoca dei compromessi. (abbassa la voce) Scrivilo come se fosse una carezza. Ma che si senta il pugno sotto.
TEO (scrivendo nervosamente): Sì, Eccellenza. Una carezza… col pugno dentro.
LIVIA (mormora, senza staccare lo sguardo dal finestrino): Proprio come la tua democrazia, papà.
[Stefani la guarda per un lungo istante, poi si volta verso la cabina.]
VOCE DEL PILOTA (interfono): Presidente, siamo pronti al decollo. Tempo stimato per Roma: un’ora e trenta.
[Stefani inspira lentamente. Livia continua a fissare il buio della pista. Teo, nel frattempo, scrive a penna la prima riga del discorso: “Cittadini dell’Impero, oggi il mondo riconosce la forza della nostra stabilità.”]
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XLII

RESOCONTO STENOGRAFICO DEL CONGRESSO DEI DEPUTATI – SEDUTA STRAORDINARIA DEL 27
GIUGNO 1989
Presiede: l’On. Publio Catone Ardigò, Presidente del Congresso
Interviene: S.E. Francesco Saverio Salvio-Stefani, Presidente del
Comitato Imperiale per lo Stato d’Emergenza (CISE)
Luogo: Aula Magna del Palazzo del Congresso – Roma, ore 10:32
IL PRESIDENTE ARDIGÒ (battendo il martelletto): La seduta è aperta. L’ordine del giorno reca la comunicazione del Presidente del CISE, Sua Eccellenza Francesco Saverio Salvio-Stefani, in merito ai risultati del vertice di Cartagine e alle prospettive di riforma costituzionale.
(Applausi prolungati dai banchi della maggioranza)
Ha facoltà di parlare il Presidente del Consiglio.
IL PRESIDENTE DEL CISE
STEFANI:
(in piedi, dal banco del governo)
Cittadini dell’Impero,
oggi il mondo riconosce la forza della nostra stabilità.
(Applausi dai banchi del Partito Social-Popolare dei Romani; alcuni deputati si alzano in piedi)
A Cartagine, per la prima
volta dopo molti anni, il nostro Paese non è stato un invitato, ma un
protagonista.
Abbiamo discusso da pari a pari con gli Stati Uniti, con la Germania, con la
Francia, con il Giappone, con il Regno Unito, con il Canada.
Abbiamo mostrato che Roma non è un ricordo del passato, ma una realtà viva del
presente, una potenza che crea equilibrio, non disordine.
(Applausi prolungati; mormorii dai banchi dell’opposizione)
Da quattro anni, la nostra
Nazione ha conosciuto una ricostruzione morale, economica e militare che pochi
avrebbero ritenuto possibile.
Abbiamo riportato sicurezza ai nostri confini meridionali, ponendo fine
all’incubo del terrorismo islamico che insanguinava la Mauritania.
L’Operazione Gaio Mario è stata un successo strategico e umano: le nostre forze
armate, grazie al coraggio dei nostri soldati e all’efficienza del comando,
hanno respinto e annientato le milizie estremiste, ristabilendo l’ordine e la
pace.
(Applausi; grida di “Onore ai nostri soldati!” dai banchi della destra; applausi generali)
Sul fronte economico, i risultati parlano da soli:
v il nostro PIL è cresciuto
del 7% negli ultimi tre anni;
v l’inflazione è scesa sotto il 2%;
v il Denario romano è oggi una valuta solida, rifugio per gli investitori
internazionali al pari del Dollaro statunitense.
v Le nostre esportazioni sono ai massimi storici, e la produzione industriale
non conosce crisi.
v Roma è oggi la quarta economia del pianeta, dopo Stati Uniti, Unione Sovietica
e Germania.
(Applausi fragorosi e prolungati; alcuni deputati dell’opposizione scuotono il capo; un deputato comunista viene richiamato all’ordine)
Ma i numeri, da soli, non
bastano. Ciò che conta è la fiducia ritrovata.
La fiducia di un popolo che, pur ferito, ha scelto di rialzarsi. La fiducia di
chi, anche nei momenti più oscuri, ha creduto che Roma dovesse vivere, non
sopravvivere.
(Applausi)
Ed è per questo, Onorevoli
Deputati, che oggi vi presento una nuova legge costituzionale.
Una riforma che chiude il periodo emergenziale aperto quattro anni fa con la
tragica scomparsa del compianto Imperatore Paolo VIII, e che apre una nuova
stagione di democrazia, ordine e stabilità.
(Mormorii in aula; il Presidente richiama all’attenzione)
Questa riforma prevede:
v L’abolizione del CISE – il
Comitato che ha guidato l’Impero nel periodo di transizione – e la nascita di
una Repubblica Romana moderna e stabile, fondata su un equilibrio chiaro tra
poteri.
v La creazione della carica di Presidente della Repubblica Romana, capo dello
Stato, garante dell’unità nazionale e rappresentante della Nazione nel mondo.
v L’istituzione della figura del Primo Ministro, capo del Governo, nominato dal
Presidente della Repubblica e approvato da questo Parlamento.
v Il Presidente della Repubblica Romana sarà eletto a suffragio universale dal
popolo ogni cinque anni, simbolo di una democrazia matura e di una fiducia
diretta tra cittadini e istituzioni.
(Applausi dai banchi della maggioranza; fischi sommessi dai deputati comunisti; il Presidente dell’Aula richiama all’ordine i deputati dell’opposizione)
Una volta approvata da questo Parlamento, la riforma sarà sottoposta al giudizio del popolo tramite referendum. E contestualmente, come in ogni grande passaggio della nostra storia, si terrà un plebiscito per eleggere il primo Presidente della Repubblica Romana.
(Applausi, grida di “Viva la Repubblica Romana!”; alcuni deputati si alzano in piedi)
Non è un atto di forza, ma di
fiducia. Non un gesto di potere, ma di responsabilità.
Oggi riconsegniamo al popolo il diritto di scegliere, dopo anni di instabilità e
sospetto.
(Applausi prolungati)
Cittadini dell’Impero o, da
domani, cittadini della Repubblica, questa è la nostra occasione di chiudere con
la paura e aprire con la speranza.
Di dire al mondo che Roma non è una reliquia, ma una guida.
E che la democrazia romana non teme di essere forte.
(Applausi in piedi da gran parte dell’aula; cori di “Stefani! Stefani!” dai banchi della maggioranza)
La Repubblica che nascerà da
questa riforma non sarà una negazione del passato, ma la sua evoluzione.
Così come Roma, nei secoli, ha saputo trasformarsi senza mai rinnegarsi.
Oggi, noi compiamo un passo in avanti nella storia. Un passo che porta con sé
tutto ciò che siamo stati, e tutto ciò che saremo.
(Applausi prolungati, con gran parte dell’aula in piedi; applausi anche da parte di alcuni deputati indipendenti)
Che il mondo sappia:
Roma non cade.
Roma cambia.
E resta eterna.
(Applausi fragorosi, l’aula si alza in piedi; cori “Viva Roma! Viva la Repubblica!”; il Presidente dell’Aula richiama alla calma)
IL PRESIDENTE ARDIGÒ:
Ringraziamo il Presidente del CISE per la sua comunicazione.
La seduta è sospesa per consentire ai gruppi parlamentari di riunirsi.
(Applausi prolungati. Ore 11:52 la seduta è sospesa.)
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XLIII

IL RONZIO – 28 GIUGNO 1989
Editoriale di Valentino Tulliani
Res Gestae Stefanorum
ovvero, come restaurare la Repubblica inventandosi un trono
C’è un passaggio, nelle "Res Gestae Divi Augusti", che andrebbe incorniciato e appeso negli uffici di ogni uomo di potere:
“Dopo aver spento le guerre civili, trasferii allo Stato dal mio potere l’amministrazione di tutte le cose; e da quel momento ebbi su tutti un potere superiore solo in autorità, non in magistratura.”
Era la frase con cui Ottaviano Augusto, il più abile attore politico della storia, spiegava con serafica naturalezza come avesse fondato un principato personale sotto l’apparenza di una repubblica restaurata.
Due millenni dopo, Francesco Saverio Salvio-Stefani pare averne tratto ispirazione diretta anche se, a differenza del Divino Augusto, ha il vantaggio del microfono e delle telecamere.
Il discorso di ieri al Congresso dei Deputati, con quel suo incipit solenne “Cittadini dell’Impero, oggi il mondo riconosce la forza della nostra stabilità” è la versione anni ’80 delle "Res Gestae".
Solo che al posto delle legioni di Actium, abbiamo i marò di Ostia; e invece di Virgilio, Stefani ha a disposizione un valente segretario che scrive discorsi che paiono carezze ma lasciano il segno delle dita.
Come Augusto, anche Stefani dice di “restituire al popolo i suoi poteri”.
E, come Augusto, nel farlo, se li tiene tutti per sé.
Ha abolito il CISE, il che sarebbe anche una buona notizia, se non lo avesse inventato lui.
Ha annunciato la nascita di una Repubblica, ma il Presidente sarà eletto con un plebiscito “contestuale”, che fa molto antica Roma, molto “volete voi che Francesco Stefani sia vostro padre e salvatore?”.
E ha promesso che la democrazia “non teme di essere forte”.
Già, non lo teme affatto, perché la democrazia, qui, dorme tranquilla.
Anestetizzata.
Il suo elenco di successi — PIL al 7%, inflazione al 2%, denario rifugio, esportazioni record — sembrava più il comunicato di un’agenzia pubblicitaria che di un governo.
Eppure, bisogna ammetterlo: è un capolavoro di retorica.
In una sola ora, Stefani è riuscito a presentare una concentrazione di potere personale come un atto di liberazione nazionale. L’ha fatto con toni paterni, misurati, da “tecnico della stabilità”.
Non ha mai alzato la voce. Non ha mai minacciato.
Ha sorriso.
Come Augusto.
E qui viene il punto più interessante: il paragone non è del tutto infondato.
Perché anche Stefani, come Augusto, non governa contro la legge, ma attraverso di essa. Anzi, la riscrive, la plasma, la amministra come un chirurgo maneggia un bisturi.
E come Augusto, costruisce il proprio potere nel nome della Repubblica, proclamandosi restauratore di libertà, mentre in realtà ne fonda una nuova, più ordinata, più disciplinata e, soprattutto, più obbediente.
L’unica differenza è che Augusto, almeno, aveva Virgilio.
Stefani ha i redattori di Canale 1.
D’altronde, in questo Paese abbiamo sempre avuto una certa nostalgia per il paternalismo illuminato.
Ci piace sentirci dire che siamo liberi, purché qualcuno ci spieghi come esercitare quella libertà.
E Stefani, che di antropologia romana ne capisce più di molti sociologi, lo sa bene.
A Roma si mormora che con la nuova Costituzione nascerà la “Seconda Repubblica Romana”.
Ma chi conosce la storia sa che la Seconda Repubblica di Augusto durò per tre secoli, e fu tutto tranne che una repubblica.
Stefani non è un imperatore. Non ne ha il titolo, né la toga, né la divinità.
Ma ha qualcosa di più efficace: il consenso.
Quello muto, quello stanco, quello che si ottiene promettendo pace, stabilità e un 7% di crescita.
Il mondo applaude la “nuova democrazia romana”.
Io, più modestamente, vedo un copione che conosciamo già: l’uomo che scioglie il Senato, che ricuce la Costituzione e che, con voce calma e rassicurante, ci spiega che è tutto per il nostro bene.
Le "Res Gestae" di Augusto finirono incise sul bronzo davanti al suo mausoleo.
Quelle di Stefani, invece, sono andate in diretta televisiva.
La tecnologia cambia, ma la sostanza resta.
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XLIV

SCENA: Casa Stefani, sera
del 30 giugno 1989.
È una serata tiepida, le finestre del salone sono aperte e si sente
lontano il rumore del traffico romano. Sul tavolo da pranzo, una tovaglia bianca
stirata con precisione, tre coperti già pronti. In cucina, Teodoro “Teo” Lori
armeggia con pentole e piatti. Nel salone, Francesco Stefani e la figlia Livia
sono seduti sul divano, entrambi con un bicchiere di vino in mano.
TEO (dalla cucina, con tono allegro): Allora, signorina Livia, com’è l’università? Sempre immersa nei libri o ha deciso di ribellarsi anche a quelli?
LIVIA (ridendo): Ah, se fosse così semplice… Mi ribello un giorno sì e l’altro pure, ma ai libri no. Quelli non mi fanno domande indiscrete.
STEFANI (sorridendo appena): Questa è una risposta che non avresti mai dato dieci anni fa.
LIVIA: Dieci anni fa avevo otto anni, papà. Tu eri già un generale dell’aria che parlava per slogan.
TEO (affacciandosi con il grembiule): E adesso parla per decreti. Però, stasera, il menù è democratico: pasta per tutti.
(Esce di nuovo verso la cucina. Livia resta un attimo in silenzio, poi si volta verso il padre con uno sguardo più serio.)
LIVIA: Hai letto l’articolo di Tulliani, papà?
STEFANI (sollevando un sopracciglio): Ah, quello sul “nuovo Augusto”? Certo che l’ho letto. (ride) Finalmente qualcuno con cultura classica!
LIVIA: L’hai letto fino in fondo? Non mi pare intendesse farti un complimento.
STEFANI (ancora divertito): Oh, cara, a Roma i complimenti sono sempre mascherati da insulti, e gli insulti da complimenti. Fa parte del folklore.
LIVIA: No, papà, lui dice che stai facendo la stessa cosa che fece Augusto. Che stai cambiando tutto per non cambiare niente.
STEFANI (smorza il sorriso): Augusto trasformò una repubblica corrotta in un impero stabile. Io sto cercando di fare il contrario.
LIVIA (ironica): E ci riuscirai?
STEFANI (secco): Sì. Perché, a differenza di lui, io non credo nella divinità del potere.
LIVIA (sottovoce): Solo nella sua utilità.
(Stefani la guarda con un’espressione tesa. Per qualche secondo tra i due cala un silenzio pesante, rotto solo dal rumore di Teo che si muove in cucina.)
TEO (da dentro): La cena è pronta! E vi avverto: se vi azzuffate prima del dolce, niente amaro per nessuno.
(Livia scoppia a ridere, e anche Stefani, dopo un attimo, si lascia andare a un sorriso forzato. Si alzano entrambi e si dirigono verso la tavola.)
DOPO CENA – SALOTTO
La tavola è sparecchiata, Livia si è ritirata nella sua stanza. Teo e
Stefani restano seduti nel salotto, le luci sono basse, un bicchiere di liquore
tra le mani.
STEFANI (a bassa voce): Teo… lei è la cosa che amo di più al mondo. Ma quando mi parla così, con quel tono, con quella distanza… ho paura di perderla.
TEO (sincero, pacato): Presidente, non la perderà. È solo… la sua età. Sta imparando a camminare da sola, e quando ci si abitua a guardarla dal basso, è difficile accettare che ti guardi dall’alto.
STEFANI (annuisce, lo sguardo perso): Io non l’ho mai voluta “piccola”. Volevo che fosse forte. Ma forse non avevo capito cosa significa davvero crescere una persona forte.
TEO (sorridendo bonariamente): Significa che a un certo punto non ti ascolta più, ma lo fa perché ti ha ascoltato troppo. Vedrà, tra qualche anno riderete di tutto questo.
STEFANI (accenna un sorriso): Forse. O forse sarò ancora Augusto e lei… il mio Bruto.
TEO (alzandosi): Bruto amava Cesare, Presidente. Solo che aveva una pessima tempistica.
(Stefani ride piano. Poi resta seduto, il bicchiere in mano, guardando il riflesso tremolante della lampada nel liquore. La casa è silenziosa, e per la prima volta da giorni, il Presidente sembra solo un padre stanco.)
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XLV

IL RONZIO – 17 SETTEMBRE
1989
Editoriale di Valentino Tulliani
L’Impero non è più Impero. È ufficiale, sancito dalle urne, dai proclami e dal giuramento solenne di Francesco Saverio Salvio-Stefani, che da ieri è, con la benedizione del parlamento, il primo Presidente della Repubblica Romana.
Un evento storico, ci dicono. Una svolta epocale. Una nuova alba per la democrazia.
Il popolo ha parlato, e lo ha fatto con una chiarezza che nemmeno la Sibilla avrebbe potuto eguagliare: 98% di affluenza, oltre l’80% di sì a tutti e tre i quesiti.
Un successo trionfale, anzi miracoloso, tanto che c’è chi sospetta che persino i santi abbiano votato.
Difficile, in effetti, ricordare un consenso così compatto da quando gli imperatori si facevano acclamare dal Senato e dal popolo romano.
La storia, si sa, è ciclica: prima veniva l’Imperatore per volontà divina, oggi abbiamo il Presidente per volontà popolare, oltretutto con un margine quasi identico.
Ieri, durante il suo discorso di insediamento, Stefani ha promesso “di consolidare la democrazia repubblicana e difendere la libertà di stampa e di opinione”. La platea si è alzata in piedi, applausi, lacrime, inni.
E io, ingenuamente, ho pensato di credergli. Almeno fino a stamattina, quando ho scoperto che l’edizione del "Ronzio" di due giorni fa è stata sequestrata in tutte le edicole di Roma, Milano e Cartagine.
Il motivo?
Un’inchiesta. Due nostri giornalisti, di quelli che ancora pensano che il mestiere consista nel farsi domande invece che ricevere risposte, erano andati in Mauritania, là dove, secondo la propaganda ufficiale, il nostro esercito porta civiltà, pace e infrastrutture.
Quello che hanno trovato, invece, è stato un piccolo villaggio algerino, Menazoua, e delle storie che, se confermate, non potranno mai essere pubblicate.
Non posso entrare nei dettagli, e non lo farò perché viviamo in tempi in cui persino scrivere “dettagli” può attirare attenzioni indesiderate.
Dirò soltanto questo: ci sono cose che neppure un popolo al 98% favorevole potrebbe giustificare.
Crimini che non si possono archiviare con un comunicato stampa o un discorso programmatico.
Eppure, tutto tace. La guerra continua, le bandiere sventolano, e la nuova Repubblica celebra il suo battesimo con una stampa messa in castigo come una bambina indisciplinata.
Il Presidente parla di “consolidare la democrazia”. Noi, più modestamente, vorremmo solo poterla esercitare.
Ho letto che i grandi imperi cadono non per le sconfitte militari, ma per l’abitudine all’unanimità.
Quando un popolo vota sempre d’accordo, quando applaude sempre al momento giusto, quando il dissenso diventa soltanto una riga cancellata, allora non è più una nazione: è un coro.
E i cori, si sa, non fanno domande. Cantano.
Fino a quando qualcuno decide che è il momento di cambiare canzone.
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XLVI

INTERVISTA RISERVATA –
DOSSIER MAURITANIA
Conversazione registrata tra il corrispondente de Il Ronzio [NOME
REDATTO] e un militare romano attualmente in servizio, che ha accettato di
parlare a condizione di restare anonimo. La registrazione è stata effettuata il
2 settembre 1989.
GIORNALISTA: Lei ha chiesto di restare anonimo. Può almeno dirmi in che unità prestava servizio?
MILITARE: Non dirò il nome del reparto. Diciamo solo che eravamo nel settore meridionale, tra Adrar e Tamanrasset. Operazioni di pattugliamento, scorta, qualche azione di controguerriglia.
GIORNALISTA: Quella è la zona dove, il 12 febbraio di quest’anno, un convoglio romano è stato attaccato da un gruppo islamista.
MILITARE: Sì. Io ero lì. Eravamo partiti da Tamanrasset con cinque camion, due blindati leggeri. Ci hanno colpito con mine artigianali e razzi RPG. Hanno centrato il secondo camion, e l’esplosione ha scagliato via la cabina. Ci sono morti subito cinque uomini. Altri due feriti. È durato forse cinque minuti, ma è stato un inferno.
GIORNALISTA: E poi?
MILITARE: Il giorno dopo è arrivato l’ordine da Orano. Dicevano che i guerriglieri si nascondevano in un villaggio vicino, Menazoua. A eseguire l’operazione non siamo stati noi, hanno mandato il Battaglione Azzurro.
GIORNALISTA: Cos’è il Battaglione Azzurro?
MILITARE: Uno dei BIS,
Battaglioni di Intervento Speciale. Sei in tutto: Azzurro, Nero, Rosso, Verde,
Bianco e Oro.
Non fanno parte dell’esercito regolare. Sono fuori ordinanza, ma rispondono ai
comandi di settore, e dicono di ricevere ordini diretti da Cartagine o Roma.
GIORNALISTA: Chi li compone?
MILITARE (esita):
Un miscuglio. Ex militari congedati per motivi disciplinari, qualche criminale
reclutato come “volontario”, e anche arabi algerini che collaborano con noi ma
che non possono entrare nell’esercito perché non sono cittadini romani.
Molti portano ancora la barba. Si vestono come miliziani, ma hanno
equipaggiamento romano.
GIORNALISTA: E cosa fanno, esattamente?
MILITARE: Non fanno la
guerra. Fanno punizioni.
Quando un reparto viene attaccato, o quando sparisce qualcuno, i BIS entrano nei
villaggi intorno, e… “sistemano le cose”.
Di solito arrivano di notte. Nessun rapporto scritto, nessuna comunicazione via
radio. Poi spariscono di nuovo.
GIORNALISTA: Cosa è accaduto a Menazoua?
MILITARE (pausa lunga): Non ero presente, eravamo a trenta chilometri. Ma abbiamo visto il bagliore, come di un incendio grande. La mattina dopo, siamo passati sulla strada. Non era più un villaggio. Solo cenere.
GIORNALISTA: Ha visto dei corpi?
MILITARE: No. Solo silenzio e gli avvoltoi.
GIORNALISTA: Cosa vi hanno detto i vostri superiori?
MILITARE: Che era una
base dei ribelli, che avevano trovato armi e munizioni.
Ci hanno ordinato di non parlarne con nessuno. Ufficialmente, Menazoua non è mai
esistita.
GIORNALISTA: Lei crede che sia stato un errore, o un’operazione deliberata?
MILITARE: Quando vedi
come lavorano i BIS, capisci che non esiste errore.
Loro non sbagliano bersaglio: scelgono il bersaglio.
GIORNALISTA: Ha idea di chi li comandi realmente?
MILITARE: Nessuno lo sa. C’è una voce che girava tra i reparti: che i sei battaglioni non dipendono dal Ministero della Difesa, ma da un ufficio speciale. Qualcosa collegato al CoSDi. E che ognuno di quei battaglioni riferisce a un solo uomo. Un nome non lo dirò. Ma non è difficile immaginare.
GIORNALISTA: E lei, perché ha deciso di parlarne?
MILITARE: Perché non voglio che mio figlio cresca pensando che “portare civiltà” significhi bruciare un villaggio per ogni soldato morto. Io ho giurato fedeltà all’Impero. Non a questo.
(Segue un lungo silenzio nella registrazione. Si sente accendere una sigaretta.)
MILITARE (a bassa voce): Scriva quello che vuole, ma stia attento: quelli dell’Azzurro non lasciano mai testimoni.
[FINE TRASCRIZIONE]
Nota redazionale: il giornalista e il suo collega sono attualmente sotto inchiesta per “diffusione di notizie false e lesive dell’onore delle Forze Armate”. La redazione del Ronzio conferma l’autenticità della registrazione.
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XLVII

QUEL GIORNO A MENAZOUA
Memorie di Claudia
Vittoria Lenzio, infermiera coloniale romana – raccolte da [nome del
giornalista omesso per motivi di sicurezza]. Intervista realizzata a Cartagine,
settembre 1989.
GIORNALISTA: Signora Lenzio, come è arrivata a Menazoua?
CLAUDIA VITTORIA LENZIO:
Per caso. Dovevo raggiungere Adrar per un trasferimento, ero di passaggio con un
convoglio sanitario. Ci fermammo a Menazoua solo perché il mezzo aveva problemi
di carburazione. Non sapevo nulla di quello che era accaduto la notte prima.
La strada era deserta, nessun fumo visibile. Poi, quando ci avvicinammo, sentii
l’odore. Era un odore che non si dimentica più.
GIORNALISTA: Prima di parlare di quella giornata, vorrei tornare indietro. Lei è nata ad Algeri, giusto?
LENZIO: Sì, nel ’45.
Mio padre era un sottufficiale della marina, mia madre un’infermiera come me.
Io sono cresciuta nel quartiere romano, vicino al porto. Per noi la casba era
un’altra città: la vedevamo da lontano, come un alveare in cima alla collina.
Non era consigliabile entrarci. Dicevano che, se un romano ci metteva piede, non
ne usciva più.
GIORNALISTA: C’era separazione?
LENZIO: C’era muro,
altro che separazione.
Quando avevo otto anni, ricordo che i municipali installarono delle grate di
ferro sopra via Massenzio, per impedire che gli arabi tirassero sassi ai
passanti. Io e mio fratello guardavamo gli operai che saldavano il metallo sopra
le nostre teste e pensavamo che fosse normale.
Più tardi, recintarono interi quartieri. Li chiamavano “zone di sicurezza”. I
romani vivevano nei quartieri bianchi, con i viali e le scuole, gli arabi nella
casba, dove non arrivava l’acqua corrente.
La borghesia, i medici, i funzionari erano romani. I portatori, i muratori, gli
scaricatori erano arabi.
La città era un corpo diviso: metà di carne, metà di cicatrice.
GIORNALISTA: Torniamo a Menazoua. Cosa ha visto quel giorno?
LENZIO (silenzio
lungo): All’inizio pensai che fosse un incendio. Poi vidi le tracce dei blindati
sulla sabbia, i bossoli, le case annerite.
Non c’erano soldati. Solo i superstiti. Erano una ventina, tutti uomini e donne
coperti di polvere. Stavano scavando con le mani, come animali.
Mi dissero che erano tornati all’alba, dopo che “gli azzurri” se ne erano
andati. Io non capii subito a cosa si riferissero. Poi vidi la prima fossa.
GIORNALISTA: La descriva.
LENZIO: Era una buca
larga, scavata di fretta.
Dentro c’erano solo uomini: 106, li abbiamo contati io e un vecchio del posto
che parlava un po’ di latino.
Tutti con le mani legate dietro la schiena e un colpo preciso alla nuca.
Non c’erano segni di combattimento: non un’arma, non un proiettile vagante.
Tutti uccisi da vicino.
Poi ci portarono verso il margine del villaggio. Lì c’era un secondo cratere,
più grande. Pensavamo fossero animali bruciati.
Erano donne e bambini. Carbonizzati. I corpi si sbriciolavano appena li toccavi.
Io non ho pianto. Non riuscivo. Ho solo pensato che dovevo fare qualcosa, anche
solo contare, anche solo ricordare.
GIORNALISTA: Lei ha scattato delle fotografie.
LENZIO: Sì. Avevo con
me una vecchia macchina fotografica, per i documenti medici.
Ho fotografato le due fosse, i resti delle case, i bambini carbonizzati con
ancora addosso le catenine.
Sapevo che se non avessi scattato io, nessuno avrebbe mai creduto a quelle
persone.
Non lo so se ho fatto bene. Da allora, non riesco più a dormire.
GIORNALISTA: Lei non ha mai nascosto la sua scarsa simpatia per i musulmani. Cosa ha provato, in quel momento?
LENZIO: La verità? Non
li amo, non li ho mai amati. Da bambina li temevo, da adulta ne diffido.
Ma quello che ho visto non era “guerra”. Non era “ordine”.
Era macelleria. E non puoi giustificare la macelleria nemmeno se odi chi ne è
vittima.
Quelli dell’Azzurro… non so chi siano davvero. Ma non portano la divisa di Roma,
portano solo la sua ombra.
GIORNALISTA: Dopo Menazoua, lei è rimasta in Mauritania?
LENZIO: Ancora per
qualche settimana. Poi sono tornata ad Algeri, poi a Cartagine.
Ho consegnato le foto a un collega, che le ha fatte arrivare qui, a voi del
"Ronzio".
Io non voglio giustizia, non ne avremo mai. Voglio solo che almeno qualcuno,
leggendo, capisca cosa vuol dire vivere in un impero che dice di portare la
civiltà e lascia dietro di sé soltanto cenere.
GIORNALISTA: Se potesse dire qualcosa ai suoi connazionali a Roma, cosa direbbe?
LENZIO: Che non
credano a chi dice che laggiù stiamo vincendo.
A Menazoua non c’erano nemici, solo bambini che dormivano.
E quando un impero comincia ad avere paura dei bambini, vuol dire che è già
finito.
Fine della registrazione. Le fotografie di Claudia Vittoria Lenzio sono attualmente in possesso della redazione del “Ronzio”. La loro autenticità è in corso di verifica, ma i riscontri satellitari statunitensi sulla zona di Menazoua confermano la distruzione totale del villaggio tra l’11 e il 13 febbraio 1989.
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XLVIII

[DOCUMENTO
CLASSIFICATO – RISERVATISSIMO]
Luogo: Palazzo del Quirinale, Studio del Presidente
Data: 23 settembre 1989
Ora d’inizio: 21:48
Presenti:
– Francesco Saverio Salvio-Stefani (Presidente della Repubblica)
– Raffaele Taranto (Primo Ministro)
– Longino Ramelli (Vicedirettore del CoSDi)
[TRASCRIZIONE RISERVATA
– AD USO INTERNO DELLA PRESIDENZA]
(Rumore di sedie, un posacenere spostato sul tavolo. Stefani è seduto dietro
la grande scrivania in mogano, Ramelli e Taranto di fronte.)
STEFANI: Bene, Longino, comincia tu. Cosa sappiamo con certezza?
RAMELLI (apre un fascicolo): Signor Presidente, "Il Ronzio" intende pubblicare un’inchiesta su presunti “crimini di guerra” a Menazoua. Abbiamo informatori nella redazione: il materiale è completo, con fotografie e testimonianze. Il numero dovrebbe uscire dopodomani. Se vogliamo impedirlo, bisogna intervenire subito.
TARANTO: È confermata la fonte?
RAMELLI: Sì. È quella stessa infermiera che ha già parlato con due dei giornalisti autori dell’articolo. (Rimane in silenzio un attimo) Le foto sono autentiche.
STEFANI (accende una sigaretta): Lo so. E noi tutti lo sappiamo. (guarda Ramelli) Non è questo il punto. Il punto è come reagire. Dobbiamo decidere adesso che tipo di paese vogliamo sembrare.
RAMELLI: Presidente, con rispetto: un Paese serio. (senza esitazione) Sequestro immediato delle rotative, arresto dei redattori e del direttore. E, se necessario, misure più radicali nei confronti di Tulliani. È la via più rapida e sicura.
STEFANI (alza lentamente lo sguardo): Troppo sovietico, Longino. Noi non siamo l’URSS e io non sono Stalin. In un paese democratico le notizie non vengono soppresse: si decide democraticamente di non pubblicarle. C’è una differenza sottile, ma sostanziale.
TARANTO (incrocia le mani): E come facciamo, Francesco, a “decidere democraticamente” di non pubblicare qualcosa che è già pronto per le edicole?
STEFANI (soffia il
fumo): Con metodo. Lo stesso che usai quando uscì quella storia sull’imperatore
Paolo e le tangenti delle aziende d’armi.
Prima si sposta la questione dal piano morale a quello dell’interesse pubblico.
Poi si costruisce, passo dopo passo, la cornice.
RAMELLI (ironico): La cornice?
STEFANI: Sì, ascoltate! (batte le dita sul tavolo, scandendo le fasi)
1) Esporre le motivazioni in
termini di interesse pubblico. Il governo ritiene che l’inchiesta tocchi temi
sensibili per la sicurezza nazionale. Un’indagine come questa può compromettere
operazioni in corso, mettere in pericolo i nostri soldati, e offrire propaganda
gratuita agli islamisti.
Nessuna censura: solo responsabilità.
2) L’inchiesta può essere utilizzata contro il governo e la Repubblica. Si sottolinea come la pubblicazione favorisca gli avversari politici e i nemici esteri. Dobbiamo apparire difensori dell’unità nazionale.
3) Usare alcuni degli Infiltrati per esagerare le posizioni avversarie, fino a renderle inaccettabili per la maggioranza della Popolazione.
4) Suggerire un’altra inchiesta. Dare al pubblico l’illusione della trasparenza, dire “ci sarà un’indagine ufficiale”.
5) Aprire una commissione
parlamentare d’inchiesta. Serve a guadagnare tempo, seppellire i fatti sotto
migliaia di pagine e, se necessario, assolvere tutti.
Nel peggiore dei casi, l’opinione pubblica si annoierà e volterà pagina.
6) Screditare le prove. Le
foto? Manipolate. Le testimonianze? Contraddittorie. I numeri? Gonfiati.
Le fonti non verificate e, guarda caso, ostili al governo.
7) Confermare le politiche
attuali. Niente ripensamenti.
“Gli eventi di Menazoua, pur tragici, dimostrano la necessità delle nostre
misure di sicurezza.”
8) Discreditare i giornalisti. Tulliani e i suoi? “Avventurieri in cerca di gloria.” “Fonti pagate dall’estero.” “Stampa radicale propagatrice di notizie false.” Sarà facile, Longino. Organizza un briefing con la stampa amica.
RAMELLI (freddo, ma rassegnato): Capisco. Però con questo metodo, Francesco, non eliminiamo il problema. Lo rimandiamo.
STEFANI: Lo rimandiamo
fino a farlo dimenticare. È diverso.
Ed è così che si governa una crisi: assorbendola, non negandola.
TARANTO: E la stampa estera?
STEFANI: La convinceremo che stiamo indagando. Una bella commissione parlamentare, presieduta da qualcuno “al di sopra delle parti”, magari un parlamentare malato, così lavorerà lentamente.
RAMELLI (chinando il capo): Capito. Procederò con la redazione del decreto di blocco temporaneo, motivato con ragioni di sicurezza nazionale.
STEFANI: Bene. Trova un magistrato a cui farlo firmare e fallo passare entro la notte. Deve sembrare una misura tecnica, non politica, ma "Il Ronzio" non deve uscire dalle rotative.
TARANTO: E quando chiederanno del massacro?
STEFANI: Diremo che è una menzogna nemica, una provocazione. E aggiungeremo, come sempre, che i nostri uomini combattono per la civiltà contro la barbarie.
RAMELLI (freddo, quasi un sussurro): Come avevamo deciso anni fa, quando li creammo.
(Segue un lungo silenzio. Nessuno dei tre aggiunge altro. Si sentono solo le lancette dell’orologio da parete e il fruscio dei fogli di Ramelli.)
STEFANI: La verità...
non è per tutti.
E Menazoua non esiste. Da domani, non è mai esistita.
[Fine della riunione – 22:56]
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XLIX

LETTERA APERTA AI ROMANI
Diffusa clandestinamente a
Roma, 27 settembre 1989
Roma non cambia mai.
Cambia volto, a volte nome, ma resta sempre uguale a sé stessa.
Ci fu un tempo in cui la libertà morì tra gli applausi del Senato e le statue
d’oro innalzate al “liberatore” Ottaviano. Poi vennero Tiberio, Caligola,
Claudio e Nerone, ognuno proclamatosi custode delle leggi repubblicane, ognuno
più sospettoso e più solo del precedente.
Oggi, duemila anni dopo, qualcuno ci dice che viviamo in una Repubblica.
Ma una Repubblica che mette
il bavaglio ai giornali, che sigilla le rotative, che usa i giudici come sigilli
di ceralacca, è ancora una Repubblica? O è solo l’ennesimo principato travestito
da democrazia?
Un decreto tecnico, firmato da un magistrato di cui nessuno ricorda il nome, ha
spento una voce. Non perché mentiva, ma perché stava per dire troppo, perché
osava ricordare che lo Stato non è un uomo solo.
Si parla di ordine, popolo e
giustizia.
Ma ogni Tiberio, nel nome dell’ordine, ha un Seiano pronto a fare il lavoro
sporco.
Ogni Caligola, nel nome del popolo, nomina il proprio cavallo senatore.
Ogni Claudio, nel nome della giustizia, ha un Narcisso a scrivere le sentenze.
E ogni Nerone, quando non riesce più a governare, dà fuoco alla città e accusa i
cristiani.
Oggi non bruciano le case, ma
le pagine.
Non si crocifiggono i dissidenti, ma li si processa per “diffusione di notizie
non verificate”.
La violenza è più pulita, più silenziosa e più civile.
Forse per questo fa più paura.
Si dice che chi scrive abbia
esagerato, che l’epoca degli imperatori sia lontana.
Eppure, l’odore è lo stesso: quello del potere che non tollera domande, del
silenzio imposto in nome del bene comune, delle statue che crescono più in
fretta dei pensieri.
Io non chiedo rivoluzioni.
Chiedo solo che si ricordi cosa succede quando Roma smette di ascoltare Roma.
Perché la storia, anche se non la si vuole leggere, finisce sempre per
riscriversi da sola.
E quando lo farà, chi oggi applaude scoprirà di essere diventato, ancora una
volta, il suddito di un imperatore travestito da presidente.
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L

STEFANI FA CHIAREZZA: LA
COMMISSIONE MENAZOUA AL LAVORO PER DIFENDERE L’ONORE DEI SOLDATI ROMANI –
LA VOCE DEL POPOLO (2 ottobre 1989)
Chi attacca l’esercito attacca l’Impero. Ma il popolo vuole sapere.
NASCE IL PARTITO
DEMOCRATICO NAZIONALE: ROMA GUARDA AL FUTURO – IL MESSAGGERO D’ITALIA
(7 ottobre 1989)
Stefani: ‘Un partito nuovo per un popolo nuovo, unito nei valori di
progresso e libertà.’
CHI PAGA IL RONZIO? –
LA VOCE DEL POPOLO (9 ottobre 1989)
Svelate le mani straniere dietro le polemiche sulla guerra in Mauritania.
OSCURE TRAME
INTERNAZIONALI DIETRO IL RONZIO? – IL MESSAGGERO D’ITALIA (12 ottobre
1989)
Fonti parlamentari rivelano contatti sospetti tra la redazione e
finanziatori esteri.
IL SEGRETARIO DI STATO
AMERICANO ACCOLTO AL QUIRINALE: UN’ALLEANZA CHE GUARDA AL FUTURO – IL
MESSAGGERO D’ITALIA (17 ottobre 1989)
Washington e Roma più vicine nella lotta al terrorismo e nella difesa dei
valori occidentali.
U.S. CONCERNS GROW OVER
ROME’S HANDLING OF MAURITANIA ALLEGATIONS – THE NEW YORK TIMES
(October 17th, 1989)
Despite reassurances during the Secretary’s visit, doubts persist about
human rights and press freedom.
TORNA IL RONZIO, MA IL
VENTO È CAMBIATO – LA VOCE DEL POPOLO (23 ottobre 1989)
Da giornale di denuncia a simbolo del sospetto. I lettori non seguono più.
ANICIO: ‘IN MAURITANIA
NESSUNA PULIZIA ETNICA, SOLO DISORDINI LOCALI’ – IL MESSAGGERO D’ITALIA
(6 novembre 1989)
Il ministro denuncia la disinformazione estera: ‘Si litiga per l’uva, non
per la razza.’
IL MINISTRO ANICIO E LA
TEORIA DELL’UVA: “NESSUNA PULIZIA ETNICA, SOLO INCOMPRENSIONI COMMERCIALI.”
– IL RONZIO (6 novembre 1989)
Sembra una barzelletta, ma è una dichiarazione ufficiale. Il governo
minimizza, il mondo ride.
MINISTER JOKES ABOUT
MASSACRES: ‘THEY FIGHT OVER GRAPES’ – THE GUARDIAN (November 6th,
1989)
A grotesque remark reveals the moral collapse of Rome’s leadership.
ANICIO: ‘IN AFRICA SI
COMBATTE IL CAOS, NON UN POPOLO’ – LA VOCE DEL POPOLO (6 novembre
1989)
Parole chiare dal Ministero della Difesa. I soldati fanno il loro dovere.
COMMISSIONE MENAZOUA:
LAVORI SOSPESI, MAGGIORANZA E OPPOSIZIONE SI ACCUSANO – LA VOCE DEL
POPOLO (16 dicembre 1989)
Il popolo aspetta, il Parlamento discute. E la verità si allontana.
EMPIRE ROMAIN: LA
COMMISSION MENAZOUA DANS L’IMPASSE – LE MONDE (16 décembre 1989)
Malgré la promesse de transparence, Rome n’a livré aucun résultat concret.
COMMISSIONE MENAZOUA: TRE
MESI, ZERO VERITÀ – IL RONZIO (19 dicembre 1989)
Verbali secretati, testimonianze manipolate. La giustizia si perde nei
corridoi del potere.
IL PRESIDENTE STEFANI
ANNUNCIA L’AMNISTIA: ‘È TEMPO DI RICONCILIAZIONE’ – IL MESSAGGERO
D’ITALIA (23 dicembre 1989)
Provvedimento di clemenza per i reati politici minori. Il Ministro della
Giustizia: “Un gesto di pace per chi ha sbagliato, non per chi ha tradito.
IL REGALO DI NATALE: LA
CLEMENZA DEI VINCITORI – IL RONZIO (23 dicembre 1989)
Quando il potere concede la libertà, è solo perché non teme più chi la
riceve.
ROMAN PRESIDENT GRANTS
CHRISTMAS AMNESTY: A SIGNAL OR A SHOW? – THE NEW YORK TIMES (December
24th, 1989)
Francesco Stefani frees minor political prisoners in a gesture hailed as
“reconciliation.” Western observers see a move to polish Rome’s democratic image
after months of controversy.
.
LI

VA TUTTO BENISSIMO,
MAESTÀ IMPERIALE!
(Versione romana di “Tout va très
bien, Madame la Marquise”)
(Nel cartone un telefono squilla in un palazzo dorato. L’Imperatrice, versione femminile di Paolo VIII, con la corona un po’ storta, parla al telefono da una carrozza in corsa verso Roma.)
IMPERATRICE:
Pronto, pronto, Taranto!
Che notizie?
Son lontana solo da pochi giorni,
ma già sento
nell’aria un po’ di fumo...
Cosa succede nel mio Impero?
TARANTO (premier,
sorridente, al telefono in un ufficio scintillante):
Va tutto benissimo, Maestà Imperiale,
va tutto benissimo, sì, va tutto benissimo!
Per quanto bisogna, bisogna che Vi si dica
una sciocchezza, un nulla, un’inezia,
un piccolo scontro in Mauritania,
ma a parte ciò, Maestà Imperiale,
va tutto benissimo, sì, va tutto benissimo!
(Immagini del cartone: bombe al napalm cadono nel deserto, case in fiamme, bambini che fuggono. Taranto continua a sorridere mentre mostra un grafico in crescita. L’Imperatrice, preoccupata, cambia linea.)
IMPERATRICE:
Pronto, pronto, Anicio!
Che notizie?
Un piccolo scontro, dice Taranto?
Spiegatemi,
mio fido ministro,
cos’è accaduto realmente laggiù?
ANICIO (sotto un
pergolato, mostra un grappolo d’uva):
Non è niente, Maestà Imperiale,
non è niente, va tutto benissimo!
Per quanto bisogna, bisogna che Vi si dica
una piccolezza, un dettaglio,
un malinteso con certe tribù,
un po’ di fumo, un po’ di vino,
e qualche grappolo perduto!
Ma a parte ciò, Maestà Imperiale,
va tutto benissimo, sì, va tutto benissimo!
(Nel cartone, i grappoli d’uva diventano bombe a grappolo che esplodono in mezzo al deserto. L’uva brucia. Sullo sfondo, prigionieri arabi dietro un filo spinato. L’Imperatrice, ora visibilmente inquieta, telefona di nuovo.)
IMPERATRICE:
Pronto, pronto, Di Paola!
Che notizie?
La guerra, il vino, il deserto in fiamme...
Ditemi voi,
anziano amico,
che succede davvero nella capitale?
DI PAOLA
(anziano, tremante, tenuto in piedi da Ramelli):
Non è nulla, Maestà Imperiale,
davvero nulla, va tutto benissimo!
Per quanto bisogna, bisogna che Vi si dica,
una sciocchezza, una disdetta lieve:
è esploso il palazzo del governo,
ma solo per prove d’evacuazione!
E a parte ciò, Maestà Imperiale,
va tutto benissimo, sì, va tutto benissimo!
(Il cartone mostra il Quirinale che esplode mentre Ramelli soffia sul fumo e sistema Di Paola come un burattino. Le stenografe fuggono tra le fiamme. L’Imperatrice, ormai a pochi chilometri da Roma, telefona di nuovo, con voce tremante.)
IMPERATRICE:
Pronto, pronto, mio fido Stefani!
Che notizie?
Il mio palazzo è in fiamme davvero?
Vi prego,
ditemi la verità,
cos’è rimasto del mio Impero?
STEFANI (serafico, in
piedi su una pila di cadaveri fumanti):
Va tutto benissimo, Maestà Imperiale,
va tutto benissimo, sì, va tutto benissimo!
C’è stata solo, come dire...
una piccola transizione.
Le fiamme, le voci, i colpi, i morti,
sono normali segni di rinnovamento!
E ora, finalmente, Maestà,
possiamo dire che tutto va bene...
perché non resta più nulla che possa andar male!
(Nel cartone, l’Imperatrice arriva al portone del palazzo fumante, entra, vede Stefani voltarsi. Un lampo. Si sente uno sparo. L’immagine si congela su Stefani che sorride davanti al tricolore, con l’occhio che brilla azzurro. La musica riprende il ritornello.)
RITORNELLO FINALE
(Coro dei servitori, tono allegro e macabro):
Va tutto benissimo, Maestà Imperiale!
Va tutto benissimo, sì, va tutto benissimo!
Le bombe, i morti, la guerra lontana,
non sono che prove di civiltà romana!
E, a parte ciò, Maestà Imperiale,
va tutto benissimo, sì, va tutto benissimo!
(Ultima inquadratura: il volto dell’Imperatrice, trasformato in una statua fumante, che cade in pezzi.)
.
LII
CONFIDENTIALE
— USO INTERNO CoSDi
Classificazione: RISERVATISSIMO / N. 4089-Δ/89
Data: 22 dicembre 1989
Da: Ufficio Analisi e Contenuti Sovversivi – Sezione “Materiale
Audio-Visivo”
A: Direzione Centrale Sicurezza Interna (attenzione: Vicedirettore L.
RAMELLI)
Oggetto: Cartone animato satirico circolante in forma di videocassetta
VHS – Titolo provvisorio “Va tutto benissimo, Maestà Imperiale”
1. Sintesi dell’oggetto
segnalato
Nel corso delle ultime settimane è stata segnalata, in ambienti universitari
e giornalistici della capitale, la circolazione clandestina di una videocassetta
VHS contenente un cortometraggio d’animazione di carattere fortemente sovversivo
e antistituzionale.
Il video, della durata complessiva di 4 minuti e 43 secondi, è una parodia in
chiave romana della celebre canzone francese Tout va très bien, Madame la
Marquise, reinterpretata con testo e immagini che alludono in modo trasparente
alla situazione politica contemporanea e ai membri del governo.
La produzione appare di
origine interna, probabilmente riconducibile a un gruppo di studenti
dell’Accademia Imperiale di Belle Arti o a ex collaboratori dei servizi
cinematografici dell’Esercito.
La videocassetta non riporta crediti, ma la qualità tecnica e l’uso di filmati
d’archivio indicano accesso a mezzi professionali.
2. Sintesi del contenuto
La struttura narrativa riproduce il dialogo telefonico dell’originale
canzone francese, sostituendo però la Marchesa con una Imperatrice
(rappresentata come versione femminile dell’Imperatore Paolo VIII) e i vari
servitori con figure chiaramente riconducibili a membri dell’attuale governo.
Personaggi identificabili:
• Imperatrice – caricatura del defunto Imperatore
Paolo VIII;
• Primo Ministro Raffaele Taranto – rappresentato come
un maggiordomo servile e bugiardo;
• Ministro della Difesa Germano Anicio – intento a
mostrare un grappolo d’uva che si trasforma in bombe a grappolo;
• Direttore del CoSDi Giuliano Di Paola – tenuto in
piedi dal vicedirettore Ramelli, raffigurato come un automa freddo e
manipolatore;
• Presidente Francesco Stefani – ritratto su una pila
di cadaveri fumanti, che conclude la canzone sorridendo davanti alla bandiera
imperiale.
3. Contenuti del testo (trascrizione parziale)
“Va tutto benissimo,
Maestà Imperiale,
va tutto benissimo, sì, va tutto benissimo!
Per quanto bisogna, bisogna che Vi si dica,
c’è da deplorare una cosa da niente,
un piccolo scontro in Mauritania...”
Segue una sequenza in cui i
ministri minimizzano la situazione, mentre le immagini mostrano bombardamenti,
fosse comuni e città distrutte.
Il tono resta allegro e musicale, con cori finali che ripetono:
“E a parte ciò, Maestà
Imperiale,
va tutto benissimo, sì, va tutto benissimo!”
Nell’ultima scena, l’Imperatrice giunge al proprio palazzo in fiamme, dove viene assassinata da una figura con le fattezze del Presidente Stefani.
4. Analisi e valutazione
L’opera è una satira esplicita dell’attuale Presidenza e del Governo, con
chiari riferimenti:
• alla guerra in Mauritania (“piccolo scontro in
Mauritania”, “bombe a grappolo”);
• alla censura (“va tutto benissimo” come formula di
negazione della realtà);
• al colpo di stato del giugno 1989;
• e alla morte dell’Imperatore Paolo VIII
(“imperatrice assassinata”).
Il tono ironico e il formato musicale ne amplificano la potenzialità di diffusione virale, soprattutto tra giovani, studenti, militari di leva e personale universitario.
5. Diffusione e canali
Secondo le informazioni preliminari:
• Copie VHS sono state avvistate in due locali di
Trastevere e in un circolo culturale di Bologna.
• Parte della duplicazione sarebbe gestita da un
gruppo informale denominato “Circolo del Toro”, già segnalato nel 1987 per
attività di satira politica.
• Le videocassette vengono vendute al prezzo di 4
denari, con custodia anonima e etichetta “Musica francese – Anni ’30”.
6. Raccomandazioni
operative
• Individuare e neutralizzare la rete di
duplicazione e distribuzione.
• Tracciare i canali di finanziamento: possibile
collegamento con ambienti universitari milanesi e giornalisti legati al Ronzio.
• Monitorare le reazioni della stampa estera, che
potrebbe appropriarsi dell’opera per screditare il Governo.
• Preparare una risposta preventiva, in forma di
comunicato culturale, che riduca il cartone a “satira di cattivo gusto”.
• Archiviare il presente rapporto come Caso
Audio-Visivo n. 72/89 — “Va tutto benissimo”.
7. Allegato A —
Trascrizione sintetica del cartone
Riassunto in linguaggio operativo:
• Scena iniziale: Imperatrice telefona, appare
Taranto che minimizza la guerra.
• Seconda scena: Ministro Anicio nega le
rappresaglie, mentre bombe esplodono.
• Terza scena: Di Paola, anziano, viene manipolato da
Ramelli; il Quirinale esplode.
• Scena finale: Stefani canta in tono rassicurante
davanti a macerie e cadaveri.
• Chiusura: assassinio dell’Imperatrice.
Conclusione
Il contenuto dell’opera rappresenta una minaccia diretta alla narrativa
ufficiale del Governo e un tentativo di collegare in modo allusivo la figura del
Presidente Stefani alla morte dell’Imperatore.
Si raccomanda l’immediata tracciatura e distruzione del materiale originale e la
neutralizzazione dei responsabili, nel rispetto delle procedure previste dal
protocollo 17-BIS/86 (“Materiale audiovisivo di propaganda ostile interna”).
FIRMATO:
Capo Ufficio Analisi Contenuti Sovversivi
Ten. Col. Publio Silvano Martiani
per il Direttore Generale del CoSDi
Data di archiviazione:
23/12/1989
Numero fascicolo: 72/89 — “Va tutto benissimo”
Classificazione: RISERVATISSIMO — NON DUPLICARE
.
LIII

[DIRETTA TELEVISIVA
NAZIONALE – 31 DICEMBRE 1989, ORE 21:00]
DISCORSO DI FINE ANNO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA ROMANA, FRANCESCO
SAVERIO SALVIO-STEFANI
(Trasmissione a reti unificate – Immagini iniziali: Palazzo del Quirinale,
bandiere ai lati della scrivania presidenziale. La voce del regista annuncia
l’ingresso del Presidente, che prende posto davanti alla telecamera. Pausa. Poi
inizia a parlare.)
STEFANI:
Cittadini dell’Impero,
questa sera, mentre l’anno volge al termine, desidero rivolgermi a voi non come
capo dello Stato, ma come uno di voi: come un uomo che guarda al futuro con
fiducia, e che riconosce nel tempo che passa non solo le prove affrontate, ma
anche le speranze che si rinnovano.
Il 1989 è stato un anno importante, in molti sensi. Un anno di cambiamento, di
decisioni e di passaggi storici che hanno ridisegnato il volto della nostra
Repubblica.
Abbiamo insieme posto le fondamenta di un nuovo ordine istituzionale, più
moderno, più stabile, più vicino ai cittadini. Abbiamo scelto, con
responsabilità e con coraggio, di costruire una Repubblica che guarda al domani
con la certezza delle proprie radici e la forza del proprio popolo.
Non è stato un cammino facile. Nessun rinnovamento lo è mai. Ma oggi possiamo
dire che Roma è pronta a guardare al futuro con serenità. Le riforme che abbiamo
realizzato, quelle che hanno restituito alla Nazione una guida salda e un
equilibrio duraturo tra le sue istituzioni, ci hanno preparato al futuro, e il
futuro sarà romano.
(breve pausa, lo sguardo si addolcisce)
Nessun risultato, tuttavia,
ha valore se non è accompagnato da coesione. La forza di Roma, ieri come oggi,
nasce dall’unità dei suoi cittadini. È nei gesti semplici di ogni giorno,
nell’impegno di chi lavora, di chi studia, di chi serve il proprio Paese con
dedizione silenziosa, che la Repubblica trova la sua grandezza.
So che non tutto è perfetto, e che molti di voi hanno vissuto mesi difficili. Ma
so anche che la nostra gente possiede una virtù che nessun tempo potrà
cancellare: la capacità di rialzarsi, di credere ancora, di non perdere mai la
dignità e la speranza.
Questa sera, il mio pensiero va a tutti voi: ai lavoratori, agli agricoltori, ai
nostri militari lontani, ai giovani che costruiscono il proprio futuro, alle
famiglie che hanno conosciuto il sacrificio, e a coloro che soffrono, perché
nessuno deve sentirsi solo sotto il cielo di Roma.
Il nuovo anno che sta per cominciare porterà nuove sfide. Ma noi sapremo
affrontarle con la consapevolezza di chi ha saputo superare la prova della
storia.
L’augurio che vi rivolgo, da cittadino tra i cittadini, è che ciascuno trovi nel
1990 la serenità e la fiducia necessarie per contribuire, nel proprio piccolo,
al destino comune della nostra Repubblica.
Che Roma continui ad essere faro di civiltà, di lavoro e di pace.
Buon anno a tutti voi, e che il Dio in cui ciascuno crede protegga il nostro
popolo e la nostra Patria.
Buon anno, cittadini. Viva Roma, viva la Repubblica.
(Applausi registrati, inquadratura finale sul Presidente che si alza, stringe le mani dei collaboratori. La regia chiude sulla bandiera che sventola al Quirinale, mentre parte l’inno nazionale.)
.
LIV

[Quirinale, appartamento presidenziale – 31 dicembre 1989, ore 23:55]
La stanza è immersa in una luce calda, morbida. Il salotto privato del
presidente è un misto di eleganza sobria e ordine maniacale: un grande orologio
imperiale batte i secondi sul camino, una bottiglia di champagne è già aperta
sul tavolo basso accanto a quattro flute. Dalla finestra si vede Roma, buia e
quieta, punteggiata dalle luci di Capodanno.
Attorno al tavolo siedono il presidente Stefani, Longino Ramelli, Teo Lori e
Livia.
TEO (alzando il bicchiere, ingenuamente allegro): Beh, direi che possiamo brindare a un anno che finisce in pace, no?
RAMELLI (sorridendo appena): La pace è sempre un concetto relativo, Teo. Dipende da dove la guardi.
LIVIA (sottovoce, ironica): O da chi la racconta.
STEFANI (con tono pacato, ma controllato): Livia, per una volta, possiamo evitare la filosofia? È Capodanno.
TEO (interviene, cercando di stemperare): Dai, Presidente… ha ragione sua figlia: quest’anno un po’ di pace l’abbiamo meritata tutti.
RAMELLI (rivolto a Teo, tagliente): Parla per te, ambasciatore.
[Risatine brevi, poi un breve silenzio. L’orologio segna le 23:58.]
STEFANI (guardando fuori dalla finestra): Un altro anno che finisce. Eppure, sembra di non averli mai davvero contati, questi anni. Ogni volta che chiudo una guerra, ne trovo un’altra che comincia.
LIVIA (fredda, ma affettuosa): La guerra, o il potere?
STEFANI (voltandosi verso di lei): Il potere è solo un modo per dare un senso al caos. Il problema è che il caos non dorme mai.
[Scandiscono i secondi. Dalla televisione di sotto arriva la voce dei cronisti che annunciano il conto alla rovescia.]
TV “…cinque, quattro, tre…”
[Livia si avvicina al padre, gli prende la mano e, sottovoce, canticchia con un mezzo sorriso ironico:]
LIVIA: ♪ “E ora,
finalmente, Maestà, ♪
♪ possiamo dire che tutto va bene... ♪
♪ perché non resta più nulla che possa andar male!” ♪
[Ramelli si irrigidisce. Teo ride, senza cogliere l’allusione.]
STEFANI (alza un sopracciglio, glaciale): Sai che certe cose non mi divertono, Livia.
LIVIA (a bassa voce,
fissandolo negli occhi): L’ho visto il cartone. Dicono che l’hanno fatto
sparire, ma… circola. È solo una canzone, certo.
Ma tu lo hai ucciso, vero? L’Imperatore.
[Un attimo di silenzio. Ramelli trattiene il respiro. Teo guarda in imbarazzo la bottiglia di champagne. Stefani posa lentamente il bicchiere.]
STEFANI (tono basso, controllato, ma con un tremito appena percettibile): No, Livia. Non l’ho ucciso io.
LIVIA (incalza, piano, come chi sa già la risposta): Ma sai chi l’ha fatto.
STEFANI (fermandosi un attimo, poi): Ci sono cose che è meglio non sapere, figlia mia. A volte la verità non serve a vivere.
LIVIA (amara): O a governare.
[L’orologio scocca la mezzanotte. Dai tetti di Roma si levano i fuochi d’artificio. Teo si alza per brindare, cercando di riportare la normalità.]
TEO: Buon anno! Dai, Presidente, signorina Livia… buon anno!
[Stefani non si muove. Fissa la figlia. Poi, lentamente, alza il bicchiere.]
STEFANI (alzando il tono, ora più saldo): Buon anno, allora. Al futuro.
LIVIA (guardandolo dritta negli occhi): Sì, al futuro. Quello che ti mangerà vivo, papà.
[Stefani trattiene la risposta. I fuochi continuano fuori, esplodendo come lampi rossi e dorati sui vetri del palazzo. Ramelli osserva la scena senza dire nulla, un mezzo sorriso sulle labbra.]
.
LV

Aeroporto di
Roma–Fiumicino, 6 gennaio 1990 — ore 17:16
Terminal arrivi internazionali. Il volo RA-742 da New York è appena
atterrato. La luce grigia di gennaio filtra attraverso le grandi vetrate. Tra la
folla di passeggeri che si avvicina ai banchi della dogana, un uomo distinto
attira l’attenzione per la calma quasi ironica con cui si muove.
Indossa un cappotto chiaro, un maglione color crema e porta un piccolo bagaglio
a mano. Cammina senza fretta, osservando le pareti del terminal come un turista
di ritorno da un lungo viaggio, o come chi rivede un vecchio teatro sapendo che
la parte che gli spetta sta per iniziare.
DOGANIERE: Buonasera, signore. Documenti, per favore.
UOMO (cortese, con un accento romano appena percettibile): Certo. Ecco qui.
(Porge un passaporto rosso scuro, appena emesso: la copertina reca la dicitura “Repubblica Romana — Documento d’emergenza”. Il doganiere lo apre, osserva la fotografia, poi il timbro del consolato romano di New York.)
DOGANIERE: Mh… documento temporaneo. Smarrimento del precedente?
UOMO (sorridendo appena): Diciamo che dopo certi viaggi è più facile perdere sé stessi che un passaporto. Ma sì, l’ho smarrito.
DOGANIERE: Capisco. Motivo del viaggio?
UOMO: Rientro. È da troppo tempo che non respiro l’aria di casa.
DOGANIERE (scrivendo qualcosa sul registro): Professione?
UOMO: Medico. Chirurgo, per precisione.
DOGANIERE (senza distogliere lo sguardo): Chirurgo… bene. E dove ha esercitato negli Stati Uniti?
UOMO (serafico): In nessun ospedale, stavo aggiornando la mia preparazione. Mi occupavo di ricerca.
DOGANIERE (solleva un sopracciglio): Che genere di ricerca?
UOMO (breve pausa, poi un sorriso quasi ironico): Sull’uomo. Nient’altro che sull’uomo.
DOGANIERE (inquieto): Ha dichiarazioni doganali da fare?
UOMO: Nessuna. Solo un po’ di polvere americana e troppi ricordi.
(Il doganiere annota qualcosa sul modulo, poi timbra il passaporto e lo restituisce.)
DOGANIERE: Ecco a lei, dottor… Rambaldi. Ben tornato a Roma, dottore. Spero che il suo soggiorno sia… tranquillo.
RAMBALDI (con un’ombra di sarcasmo): Tranquillo, sì. In fondo, non cerco che questo. Un po’ di pace dopo tanto lavoro.
(L’uomo si volta, attraversa la linea verde e si confonde tra i passeggeri che lasciano l’aeroporto. Nessuna scorta, nessun accompagnatore. Solo il rumore dei trolley sul pavimento lucido.)
.
Terza Parte
LVI

PALAZZO DEL QUIRINALE, STUDIO PRESIDENZIALE — 22 gennaio 1992, ore 10:47
Il presidente Francesco Saverio Salvio-Stefani siede alla grande scrivania di mogano scuro, illuminata da una lampada verde che taglia a metà la luce grigia del mattino.
Sulle ginocchia tiene un fascicolo color avorio, il discorso per il Congresso del Partito Democratico Nazionale, redatto come sempre dal fedele Teodoro “Teo” Lori, seduto a poca distanza, assorto a mettere in ordine altri fogli. La voce di Stefani, quando legge, è bassa e ritmata, come quella di chi sta tastando la forma di una melodia.
STEFANI (leggendo):
“L’Unione Sovietica è crollata sotto il peso della propria menzogna.
Il mondo assiste alla fine di un sistema che ha voluto dividere ciò che la
natura ha creato per cooperare: il lavoro e il capitale, il braccio e la mente,
la forza e la legge.
Roma, invece, insegna la concordia degli opposti, la civiltà della misura…”
Una pausa. Una nota acuta
interrompe la frase. Una mosca.
Un minuscolo ronzio che attraversa l’aria dello studio come un fastidio,
un’ironia della natura contro la solennità del potere.
Stefani alza gli occhi dal foglio.
Lori lo guarda, come per chiedere se deve continuare.
STEFANI (con tono infastidito): Ce l’hai sentita anche tu?
LORI (cauto, sorridendo): Una mosca, Eccellenza. Capita.
STEFANI: A gennaio? In questo palazzo? Dev’essere entrata con qualcuno.
La mosca gira attorno al
busto di bronzo dell’Imperatore Paolo VIII, poi atterra proprio sul foglio del
discorso, tra le parole “collaborazione” e “fraternità”.
Stefani la osserva, immobilizzato per un secondo, poi con un gesto improvviso
schiaccia la mano sul foglio.
Silenzio. Quando solleva la mano, la mosca è sparita.
STEFANI: L’hai vista dove è andata?
LORI: Forse dietro la tenda… o dietro il busto. (ride piano) Forse vuole assistere anche lei al congresso.
STEFANI: Se la vedo lì sopra durante il mio discorso, la schiaccio in diretta.
Si alza, prende un giornale arrotolato dalla scrivania laterale. Cammina lentamente per la stanza, lo sguardo vigile, quasi militare. La mosca ronza di nuovo, passando vicino all’orecchio di Lori, che si ritrae d’istinto.
LORI (ridendo nervosamente): Ha scelto il ministro sbagliato.
STEFANI (secco): Nessuno sceglie di infastidirmi, Teo. Nemmeno un insetto.
Colpisce a vuoto la tenda. Poi la scrivania. Poi la lampada. La mosca continua a eludere ogni tentativo, ronzando sempre più vicino al volto del Presidente, come se lo sfidasse. Lori, nel frattempo, tenta di aiutarlo, ma finisce per rovesciare una tazza di caffè sui fogli del discorso.
LORI: Santo cielo! (cerca di asciugare i fogli) Ecco… forse si possono salvare...
STEFANI (lo interrompe, glaciale): Lascia stare, si riscrive.
La mosca si posa sulla cornice dorata del ritratto di Stefani con Reagan. Resta lì, immobile. I due uomini la guardano, in silenzio, come in un duello finale.
STEFANI (a bassa voce): Guarda dov’è: sulla fotografia della vittoria.
LORI: Un presagio?
STEFANI (freddamente): Solo un errore di igiene.
Prende il giornale, si avvicina e colpisce con forza. Il vetro della cornice si incrina, la mosca cade a terra, viva, e scompare sotto la scrivania. Stefani resta fermo un istante, poi butta via il giornale e torna a sedersi.
STEFANI (sospira): Anche gli imperi, a volte, crollano per una mosca.
LORI (cercando di alleggerire): Ma finché abbiamo le tende chiuse, Eccellenza, la storia non vola via.
Stefani non sorride.
Si rimette gli occhiali, sposta i fogli del discorso macchiati di caffè, prende
un altro fascicolo e lo apre alla prima pagina, dove una goccia di caffè ha
cancellato una parola: stabilità.
.
LVII

Documento riservato al
Comitato Centrale del Partito Comunista dei Romani
Titolo: Per una Nuova Sintesi Rivoluzionaria — Manifesto per il Comunismo
Integrale
(Roma, gennaio 1992 – documento interno, non destinato alla diffusione
esterna)
Autore: Eugenio Rambaldi, membro del Politburo
1. Premessa: la fine di un
ciclo storico
Compagni,
la dissoluzione dell’Unione Sovietica segna non soltanto la sconfitta di un
modello economico, ma la crisi definitiva di un pensiero. Il marxismo storico,
figlio dell’industrialismo e della borghesia ottocentesca, ha creduto che la
materia fosse tutto, e che il motore della storia fosse la contraddizione
economica.
Era un errore. La storia non è fatta solo di fabbriche e di salari, ma di forze
più profonde: spirituali, morali, naturali.
La lotta di classe è una forma inferiore di un conflitto più vasto: la lotta per
la vita, per la purezza, per l’elevazione dell’uomo oltre la sua stessa
corruzione.
2. Verso un comunismo
organico
Il comunismo non deve più essere soltanto un’economia pianificata o una
giustizia sociale; deve divenire un ordine morale totale, un’armonia tra la
specie umana, la terra e le forze che la governano.
Il materialismo dialettico ha servito la storia, ma oggi dev’essere superato da
una dialettica della vita, dove ogni individuo è una cellula del corpo
collettivo, e il corpo collettivo non tollera degenerazioni.
La nuova rivoluzione non mira a conquistare lo Stato, ma a purificare la
società, a riforgiarla come organismo coerente, sano e consapevole della propria
missione.
3. Contro la civiltà della
carne e della macchina
Viviamo in un’epoca di massacri silenziosi: non solo guerre, ma anche
mattatoi, laboratori, circhi, industrie che trasformano la vita in merce.
Chi può parlare di giustizia sociale mentre accetta che ogni giorno migliaia di
creature innocenti vengano torturate, macellate, profanate nel nome del
profitto?
Il nostro comunismo sarà integrale solo quando porrà fine a ogni forma di
dominio dell’uomo sull’uomo, e dell’uomo sugli altri esseri viventi.
Non ci sarà vera rivoluzione senza una rivolta contro la violenza alimentare,
industriale e spirituale.
Chi si nutre del sangue, non potrà mai costruire una civiltà della giustizia.
L’uomo nuovo sarà vegetariano, o non sarà affatto uomo.
4. La missione romana
Roma è chiamata, oggi come duemila anni fa, a rifondare il mondo.
Non come potenza imperiale, ma come centro spirituale di una nuova rivoluzione
umana.
Abbiamo ereditato un Impero fondato sulla forza: dobbiamo mutarlo in un Impero
fondato sulla purezza della mente, sul rigore della vita, sull’unità del destino
collettivo.
La rivoluzione del XXI secolo non avverrà nei sindacati né nelle piazze, ma
nelle coscienze, là dove l’uomo deciderà se restare una bestia o elevarsi alla
sua forma più alta.
5. Conclusione
Compagni,
non vi chiedo di rinnegare Marx. Vi chiedo di superarlo.
La storia non ha bisogno di proletari incatenati alla fabbrica, ma di uomini
rigenerati, pronti a sacrificarsi per un ideale più alto della materia.
Chi difende l’ingiustizia del mondo moderno, chi riduce la politica a economia,
chi accetta la violenza contro gli esseri innocenti, tradisce lo spirito
rivoluzionario.
La Nuova Sintesi non sarà né di destra né di sinistra, ma oltre: sarà la
rinascita della disciplina, della giustizia e della compassione universale.
Solo allora potremo dire che il Comunismo è finalmente diventato umano.
Firmato,
Eugenio Rambaldi
Membro del Politburo del Comitato Centrale del Partito Comunista dei
Romani
.
LVIII

THE GUARDIAN – 4 febbraio
1992
Il Sole Invitto sorge su Roma: i nuovi estremisti del FSSI tra folklore e
paura
di Charles H. Beaumont, corrispondente da Roma
ROMA – Domenica
scorsa, nella vasta Piazza del Foro Giraldiniano, migliaia di persone hanno assistito
a quella che ufficialmente è stata presentata come una “manifestazione
patriottica per la rinascita romana”. In realtà, è stato l’ennesimo e più
spettacolare raduno del Fronte Sociale del Sole Invitto (FSSI), il movimento
ultranazionalista che in pochi anni è passato dai margini del folklore politico
a diventare una delle forze più rumorose e pericolosamente organizzate
dell’estrema destra romana.
Il partito, che i suoi membri preferiscono chiamare “fronte”, si richiama
esplicitamente al culto solare dell’antica Roma e alle idee di una presunta
“razza mediterranea pura”. La loro simbologia mescola croci solari, elmi
legionari e fasci stilizzati; la loro retorica, invece, sembra uscita
direttamente dai manifesti del totalitarismo degli anni ’30.
Un’eredità occulta e
inquietante
Il FSSI affonda le sue radici nella Fratellanza degli Ottimi Perfetti, una
società segreta mistico–paganeggiante molto influente durante il regno
dell’imperatore Giovanni Battista Giraldini (1924–1935). La Fratellanza fu
sciolta da Marciano VI durante la Seconda Guerra Mondiale con l’accusa di
“attività anti-patriottiche”, ma le sue dottrine, una mistura di occultismo
romano, neopaganesimo e razzismo biologico, sono sopravvissute nel sottobosco
politico per decenni.
Dalle sue ceneri, negli anni ’50, nacque appunto il Fronte Sociale del Sole
Invitto, oggi risorto con forza grazie al malcontento di una parte della
popolazione imperiale, frustrata da una guerra in Mauritania che il governo
dichiara vinta da sei anni ma che continua a mietere vittime.
Molti veterani, ex legionari e giovani disoccupati si sono uniti al FSSI
attratti dal suo linguaggio diretto e dalla promessa di un ritorno all’“orgoglio
romano perduto”.
Una folla tra il comizio e
la farsa
La manifestazione di domenica è stata un ritratto perfetto della
schizofrenia ideologica del movimento. Sul palco, accanto ai vessilli rossi e
neri con il sole stilizzato, si sono alternati oratori in giacca militare e
predicatori neopagani che citavano Virgilio accanto a slogan come “La razza
mediterranea è la civiltà” e “Roma ai Romani, non agli stranieri”.
Il leader del Fronte, Lucilio Prisco, ex ufficiale dell’esercito e attuale
deputato indipendente, ha parlato per oltre mezz’ora. «Noi siamo la Legge – ha
gridato – perché siamo coloro che la rispettano! Vogliamo tornare ad essere
dominanti, ad essere un paese in cui il crimine viene punito e ci si sente fieri
di essere romani.», ha detto, suscitando ovazioni e saluti tesi da parte del
pubblico.
Subito dopo, la scena ha preso un tono quasi grottesco: uno degli assistenti del
segretario, un uomo con la voce nasale e un abito stropicciato, ha preso il
microfono per fare “una breve lista delle necessità del movimento”.
Tra applausi e risate, ha chiesto “donazioni, anche materiali: una stampante,
una fotocopiatrice, carburante, un generatore elettrico e, se possibile, qualche
pneumatico nuovo per il nostro camioncino di propaganda”.
Un momento a metà tra una colletta parrocchiale e una parodia di sé stessi, ma
che il pubblico ha accolto con entusiasmo.
Dietro il folklore, un
pericolo reale
Nonostante i toni a tratti farseschi, gli analisti dell’intelligence
occidentale guardano con crescente preoccupazione alla popolarità del FSSI.
Negli ultimi mesi, i suoi comizi hanno attirato folle sempre più numerose, e il
partito ha stabilito contatti con gruppi identitari in Francia e Germania.
Secondo fonti diplomatiche a Roma, il movimento gode anche di una tacita
tolleranza da parte di settori delle forze armate e della polizia, dove le sue
parole d’ordine, “disciplina, purezza, destino imperiale”, trovano orecchie
ricettive.
Il governo Stefani, ufficialmente, ha preso le distanze. Ma nessuno ha
dimenticato che, negli anni della guerra in Mauritania, alcuni ufficiali
simpatizzanti del FSSI furono impiegati nelle unità di sicurezza interna e nei
reparti speciali.
Il ritorno della febbre
identitaria
Il successo del Fronte Sociale del Sole Invitto non nasce nel vuoto.
L’Impero Romano vive oggi un paradosso: la guerra dichiarata “vinta”, ma mai
davvero conclusa; un’economia in crescita, ma con diseguaglianze sociali
profonde; un governo che si proclama democratico, ma che controlla rigidamente
stampa e opposizione.
In questo contesto, l’estrema destra offre una spiegazione semplice a tutto: il
declino è colpa della contaminazione, dicono, della perdita del sangue
mediterraneo, dell’invasione dei costumi stranieri, dell’abbandono dei culti
antichi.
Un linguaggio che, se non fosse per il luogo e l’anno, suonerebbe familiare a
chiunque abbia studiato l’Europa degli scorsi decenni.
Tra sole e tenebra
Alla fine della manifestazione, il tramonto romano ha tinto di rosso il Foro
Giraldiniano. Sul palco, i militanti del FSSI hanno intonato un inno che evocava
“l’alba nuova di Roma eterna”. Alcuni spettatori hanno salutato col braccio
teso; altri, semplicemente, hanno guardato in silenzio.
Poi la folla si è dispersa, ordinata ma inquietante nella sua compostezza.
«È solo folclore politico», ha commentato un funzionario governativo con cui ho
parlato più tardi.
Forse. Ma la Storia insegna che il folclore è spesso stato il preludio della
tragedia.
.
LIX

PALAZZO DEL QUIRINALE, STUDIO PRESIDENZIALE – Pomeriggio del 7 febbraio 1992.
Il sole di febbraio filtrava
appena dalle tende pesanti dello studio presidenziale. L’orologio da parete
scandiva un ticchettio preciso, in contrasto con il brusio lontano dei telefoni
e delle segretarie nell’anticamera. Francesco Stefani era in piedi accanto alla
scrivania, le maniche della camicia leggermente arrotolate, gli occhiali da
lettura posati accanto a un fascio di dossier con il sigillo rosso del CoSDi.
Stava sfogliando distrattamente le pagine di un rapporto sui movimenti
estremisti di destra quando la porta si aprì, senza preavviso.
Entrò Longino Ramelli, elegante ma con la fronte tesa. Aveva quell’aria fredda e
misurata che usava nei momenti in cui non sapeva ancora se stesse per irritarsi
o per ridere.
Si fermò a due passi dalla scrivania.
RAMELLI: Francesco, prima che cominci la riunione, devo chiederti una cosa. Ho visto la convocazione. C’è scritto che parteciperà anche Teodoro Lori. È un errore di battitura, vero?
Stefani non alzò lo sguardo subito. Continuò a leggere per qualche secondo, poi chiuse il fascicolo e lo posò con calma.
STEFANI: No, Longino. Non è un errore, l’ho nominato Consigliere Delegato per la Sicurezza Nazionale.
Ramelli rimase in silenzio, come se avesse bisogno di assicurarsi di aver sentito bene. Poi fece un mezzo passo avanti.
RAMELLI: Con tutto il rispetto, Presidente, Lori è un burocrate. Un brav'uomo, senz’altro, ma… [esita, cercando il termine giusto] non esattamente materiale da intelligence. Fino a ieri si occupava di redigere discorsi e, mi permetta, di scegliere le vostre cravatte per gli incontri ufficiali.
Stefani sollevò finalmente lo sguardo. Gli occhi chiari, azzurri e impassibili, si fissarono su Ramelli come due punte di acciaio.
STEFANI: Lori (scandendo ogni sillaba) è un diplomatico ed è stato ambasciatore. Ha avuto accesso a informazioni classificate, ha negoziato trattati e gestito crisi. E soprattutto, Longino, è una persona di cui mi fido.
Ramelli sorrise, ma quel sorriso era una lama.
RAMELLI: Signor Presidente, lei si fida di molte persone. Ma l’intelligence non si amministra con la gentilezza. Si amministra con disciplina, riservatezza e... esperienza.
STEFANI: E la sua esperienza (si sposta verso la finestra) mi ha portato settimane di ritardi e una lista di fascicoli ancora aperti sulla mia scrivania. Se ho deciso di affiancarmi qualcuno, è perché voglio alleggerire la catena di comando, non appesantirla.
RAMELLI: Non è alleggerimento questo: è accentramento. [Più duro] Sta accentrando tutto su di sé, tutto passa da lei, ogni rapporto, ogni ordine, ogni informativa.
STEFANI (si volta): Appunto, Longino. [Con voce tagliente] Al Quirinale si lavora; le discussioni, i dibattiti, le mozioni, tutta quella recita che voi chiamate politica, lasciamola al Parlamento.
Per qualche istante, il silenzio fu assoluto. Solo il ticchettio dell’orologio riempiva la stanza. Ramelli abbassò lo sguardo, sistemò il nodo della cravatta e mormorò:
RAMELLI: Come desidera, Eccellenza.
Proprio allora bussarono alla porta. Il ministro Pisani e il primo ministro Taranto entrarono, seguiti da Lori con il suo solito passo lieve, quasi allegro, portando con sé un fascio di documenti e il suo inseparabile taccuino.
— Eccoci tutti — disse Lori, con un sorriso che non si accorse di quanto fosse fuori luogo.
Stefani annuì, tornando
dietro la scrivania. Ramelli si scostò di lato, rigido come una statua. Taranto
si accomodò, Pisani aprì il fascicolo della polizia, e la riunione ebbe inizio.
Ma l’aria era pesante. Ogni parola di Stefani sembrava avere due destinatari:
uno ufficiale, il governo, il Paese, la sicurezza nazionale, e uno solo,
silenzioso, seduto alla sua sinistra, con lo sguardo immobile e le mani
intrecciate sul tavolo.
Longino Ramelli ascoltava, annuiva, prendeva appunti.
Ma sotto quella calma apparente, la frattura tra lui e il presidente si era
ormai aperta.
.
LX

VERBALE RISERVATO – CONSIGLIO PER LA SICUREZZA INTERNA
Data: 7 febbraio 1992
Luogo: Palazzo del Quirinale, Studio Presidenziale
Presenze:
• Francesco Saverio Salvio-Stefani, Presidente della
Repubblica
• Raffaele Taranto, Primo Ministro
• Cornelio Pisani, Ministro dell’Interno
• Longino Ramelli, Vicedirettore del CoSDi
• Teodoro Lori, Consigliere Delegato per la Sicurezza
Nazionale
1. Apertura della riunione
[ore 17:23]
La riunione è aperta dal Presidente Stefani, che chiede un aggiornamento
sulla situazione interna alla luce delle recenti informazioni dei Servizi circa
la crescita di movimenti estremisti.
Ramelli prende la parola e presenta un rapporto dettagliato, corredato da note
riservate e fotografie aeree, sulla riorganizzazione dei gruppi di estrema
destra e sull’aumento del loro consenso sociale, in particolare nell’esercito e
tra i veterani della Mauritania.
2. Relazione del Vicedirettore del CoSDi, Longino Ramelli
Ramelli:
“Signor Presidente, Signori Ministri, il quadro complessivo che emerge è
allarmante. Nonostante i successi propagandati in Mauritania, la guerra è di
fatto in stallo. Le perdite continuano, i costi aumentano, e la percezione
pubblica, soprattutto tra i reduci, è che il Governo menta sulla reale
situazione militare.
In questo contesto, l’estrema destra sta guadagnando terreno. Il Fronte Sociale
del Sole Invitto (FSSI) è ormai il principale catalizzatore del malcontento
nazionalista. Abbiamo prove documentali che stia costruendo, in segreto, una
vera e propria ala paramilitare, composta da ex membri delle Forze Armate, con
l’obiettivo dichiarato di “proteggere Roma dai traditori interni”.
I loro contatti con settori dell’esercito non sono ancora consolidati, ma stanno
crescendo. E il linguaggio usato nei loro manifesti e comunicati, un misto di
neopaganesimo, esoterismo e razzismo biologico, riecheggia pericolosamente certe
ideologie del passato.”
Segue breve proiezione di immagini e documenti confiscati ai militanti del FSSI.
3. Discussione
Pisani interviene, confermando che il Ministero dell’Interno ha già disposto
il rafforzamento della sorveglianza sui capi del FSSI e l’infiltrazione di
agenti nelle loro sezioni locali.
“La piazza è agitata, Signor Presidente. A Roma e a Milano si organizzano raduni con migliaia di persone, spesso con la scusa di commemorazioni storiche. I nostri rapporti indicano che il partito raccoglie fondi in modo opaco, e che alcuni donatori sono imprenditori legati al settore bellico.”
Taranto, con tono più riflessivo, invita alla cautela: “Bisogna distinguere tra il folklore e la minaccia effettiva. Se interveniamo in modo brutale, rischiamo di dar loro visibilità e farne dei martiri.”
A questo punto Ramelli riprende la parola, ampliando il quadro.
“Il pericolo, signor Primo
Ministro, non è solo a destra. Vi è un fermento nuovo anche a sinistra. Mi
riferisco al Partito Comunista dei Romani, e in particolare alle idee del dottor
Eugenio Rambaldi, che in meno di due anni è diventato figura centrale nel loro
Comitato Centrale.
Le sue teorie, apertamente razziali, anche se travestite da socialismo
scientifico, presentano punti di contatto inquietanti con il linguaggio del
FSSI.
Entrambi i movimenti parlano di purezza, di missione civilizzatrice, di ordine
nuovo fondato sulla selezione. Due estremi che, da direzioni opposte, si
toccano.”
Il Consigliere Lori, prendendo appunti, suggerisce di “affidare alla stampa filogovernativa il compito di raffreddare la percezione pubblica del FSSI, evitando di dargli visibilità”.
4. Reazioni del Presidente
Durante l’esposizione, il Presidente Stefani rimane inizialmente silenzioso,
sfogliando il dossier. Mostra un atteggiamento distaccato, quasi annoiato.
Solo al nome “Rambaldi”, il Presidente interrompe la relazione.
Stefani: “Rambaldi,
dite? Quel… dottore che scomparve anni fa? È ancora vivo, e fa politica?”
Ramelli: “Sì, Signor Presidente. È tornato dagli Stati Uniti due anni fa.
Da allora ha costruito una corrente interna molto aggressiva. Il suo carisma è
notevole, e i giovani del PCdR lo idolatrano.”
Il Presidente tace per
qualche secondo, visibilmente infastidito. Poi riprende, con voce ferma:
“Prendete le misure necessarie. Non voglio sorprese. Né a destra, né a sinistra.
Questa Repubblica non tollera né nostalgie né resurrezioni.”
5. Decisione finale
Dopo un breve confronto tra i presenti, il Presidente Stefani formula la
linea d’azione definitiva, approvata all’unanimità:
1. Intensificazione della sorveglianza su tutti i
movimenti di estrema destra, con particolare attenzione al FSSI.
2. Arresto preventivo del segretario generale del
FSSI, Lucilio Prisco, e dei principali dirigenti, con accuse di eversione e
associazione armata.
3. Arresto di Eugenio Rambaldi, monitoraggio del
suo gruppo nel Partito Comunista dei Romani, con possibilità di fermo in caso di
contatti o convergenze ideologiche con l’estrema destra.
4. Operazione di contro-propaganda attraverso la
stampa filogovernativa, mirata a screditare entrambi gli estremismi come “due
facce della stessa follia anti-nazionale”.
6. Chiusura riunione [ore
20:13]
Il Presidente ringrazia i presenti, affermando che “la forza della
Repubblica sta nell’ordine, non nella paura”, e che “le ombre vanno spazzate
prima che diventino tempesta”.
Documento classificato: RISERVATISSIMO – Distribuzione limitata a Presidenza, Primo Ministro e CoSDi
.
LXI

GIARDINI DEL PALAZZO DEL QUIRINALE – 9 febbraio 1992, pomeriggio
Il vento di febbraio soffiava
tra i pini del giardino del Quirinale, sollevando una polvere secca di aghi e
terra. Le giornate erano ancora corte, e il sole, che già declinava verso il
Tevere, illuminava d’oro un angolo del parco dove una grande bougainvillea,
contorta e stanca, si arrampicava sul muro come un animale in letargo.
Stefani stava attraversando il giardino per prendere aria. Non usciva spesso, ma
quel giorno, dopo ore di riunioni, carte da firmare e telefonate con generali
troppo zelanti, aveva bisogno di un momento di silenzio.
Fu allora che notò un uomo in
tuta da lavoro verde, robusto, il volto scavato dal sole africano e dalle notti
brevi.
Un arabo: Hatem, un giardiniere assunto anni prima dal servizio manutenzioni.
Parlava poco, salutava sempre con timidezza, quasi scusandosi della sua
presenza. La guerra in Mauritania aveva reso la sua posizione delicata; alcuni
colleghi lo guardavano con sospetto, altri con aperta ostilità.
Stefani avrebbe potuto ignorarlo, ma invece si fermò.
Hatem stava tentando di sollevare un ramo della bougainvillea, una parte ormai morente. Le sue mani, forti ma tremanti, esitavano su un nodo secco. Il Presidente si avvicinò in silenzio, osservando.
«Qual è il problema?» chiese, con una voce sorprendentemente calma.
Il giardiniere sussultò.
«Presidente… io… scusi… la pianta… è vecchia, signore. Ha preso il gelo. Non so
se sopravvive.»
La sua pronuncia era incerta,
ma lo sforzo evidente, rispettoso.
Stefani guardò la bougainvillea come se ne fosse un vecchio conoscente. Poi,
senza dire nulla, allungò la mano. Hatem rimase stupito quando il Presidente gli
prese le forbici da potatura.
«Posso?» chiese Stefani.
Il giardiniere annuì, incapace di trovare parole.
Stefani sollevò il ramo malato, scrutandolo da vicino, come se quel gesto gli
appartenesse da sempre.
«Mio padre,» disse all’improvviso, «mi portava con sé a potare le siepi nella
base navale di Napoli. Se tagli troppo, muore. Se non tagli abbastanza, diventa
un groviglio inutile.»
Fece un taglio secco, preciso.
«Così. La aiuti a respirare.»
Hatem lo guardava come si
guarda un uomo impossibile.
Il Presidente, lo stesso uomo che compariva in televisione, che teneva in pugno
ministri e generali, che parlava di ordine e disciplina, stava potando una
bougainvillea accanto a lui, come un vicino di casa.
«Lei… conosce le piante,
Presidente?» riuscì a dire.
Stefani fece un mezzo sorriso, uno di quelli che nessuno vedeva mai alle
telecamere.
«Conosco quello che mio padre mi ha lasciato. Le mani.»
Si pulì le dita sulla giacca senza pensarci. «E tu lavori bene: questa è una
pianta difficile, non è colpa tua se soffre.»
Era una frase semplice, ma per Hatem era come ricevere una medaglia. Da mesi viveva nel terrore di essere licenziato o peggio, trattato come un possibile nemico interno. Ma in quel momento non c’era diffidenza negli occhi del Presidente. Solo la concentrazione di un uomo che per un attimo si era ricordato di essere stato un figlio, e non solo un capo.
«Grazie, signore,» mormorò Hatem, con un tremore di voce che non riuscì a mascherare.
Stefani gli restituì le
forbici.
«Continua così.»
Poi si voltò e riprese la
strada verso l’ingresso del palazzo, come se niente fosse.
Non si accorse nemmeno dello sguardo del giardiniere che lo seguiva finché non
scomparve dietro la porta: uno sguardo di gratitudine, ma anche di sorpresa
profonda.
Per un istante, solo un istante, era stato possibile immaginare un altro
Stefani.
Un uomo che avrebbe potuto essere diverso.
.
LXII

DAL PROLETARIATO ALLA PUREZZA: LA METAMORFOSI DEL PARTITO COMUNISTA DEI ROMANI (Le Monde, 12 febbraio 1992)
Fondato nel 1919 sull’esempio bolscevico, il PCdR è oggi irriconoscibile. Dalla Rivoluzione d’ottobre alla razza mediterranea: l’ideologia del nuovo segretario, il dottor Eugenio Rambaldi, apre scenari inquietanti.
ROMA – Pochi partiti al mondo hanno conosciuto tante metamorfosi, e così radicali, quanto il Partito Comunista dei Romani (PCdR).
Nato nel 1919, sull’onda lunga della Rivoluzione d’Ottobre e per iniziativa di un gruppo di intellettuali e sindacalisti vicini all’Internazionale Comunista, il PCdR rappresentò a lungo il volto più idealista e intransigente della sinistra romana. Il suo primo segretario, Terenzio Ferri, un emissario moscovita rimasto in Italia dopo il congresso fondativo, ne plasmò la struttura e il linguaggio, facendone una macchina politica disciplinata e ideologicamente ortodossa.
Durante il regno di Marciano VI, il partito godette di una relativa tolleranza: i suoi militanti potevano operare nei sindacati, i giornali del partito circolavano (entro certi limiti), e alcuni esponenti riuscirono persino a farsi eleggere in parlamento. Tuttavia, sotto il regno del carismatico e autoritario Giovanni Battista Giraldini (1924–1935), il PCdR venne dichiarato illegale, i suoi leader arrestati o costretti all’esilio. Solo con la restaurazione di Marciano VI e la fine dell’autocrazia, il partito tornò a esistere formalmente, pur relegato a un ruolo marginale.
Sotto Paolo VIII, e più tardi durante la presidenza di Francesco Saverio Salvio-Stefani, il PCdR è rimasto l’unico partito d’opposizione ufficialmente legale, una sorta di reliquia ideologica utile al regime come foglia di fico democratica. Privo di reale peso parlamentare, confinato all’1-2% dei voti, per decenni il PCdR si è limitato a recitare il copione di una sinistra disciplinata e inoffensiva.
Dall’internazionalismo al
nazional-comunismo
A partire dagli anni Settanta e Ottanta, però, qualcosa è cambiato. L’ala
filosovietica, fedele al dogma di Mosca, si è lentamente erosa, lasciando spazio
a una corrente che i marxisti-leninisti ortodossi hanno dispregiativamente
definito “nazional-comunista”. Questa fazione, nel tentativo di adattarsi alla
realtà dell’Impero Romano contemporaneo, ha sostituito la lotta di classe con il
concetto di “solidarietà nazionale dei lavoratori”, e l’internazionalismo
proletario con un orgoglioso richiamo alle radici etniche e storiche della
romanità.
Da qui il paradosso: un partito nato per demolire il nazionalismo, finisce per
assorbirlo e rivendicarlo come fondamento della propria identità politica.
A concludere questa mutazione è oggi un personaggio enigmatico, controverso e,
per molti versi, inquietante: il dottor Eugenio Rambaldi.
Rambaldi: l’eretico rosso
Scienziato e medico per formazione, arrestato ai tempi dell’Imperatore Paolo
VIII, secondo alcune voci complice del misterioso progetto TITAN-51, Rambaldi è
tornato a Roma due anni fa, dopo un lungo esilio volontario negli Stati Uniti.
Da allora ha scalato rapidamente le gerarchie del PCdR, fino alla sua elezione a
segretario generale, avvenuta pochi giorni fa nonostante il suo recente arresto
da parte del regime.
I suoi sostenitori lo descrivono come “un marxista puro, capace di rinnovare il
pensiero socialista”; ma i suoi scritti interni al partito raccontano un’altra
storia.
Il dottor Rambaldi parla di razze, non di classi; di purezza biologica invece
che di giustizia sociale; di armonia organica del popolo mediterraneo contro il
“caos meticcio del capitalismo globalista”.
La sua visione è un miscuglio di biologia distorta, spiritualismo esoterico e
collettivismo autoritario: una trasfigurazione mistica del socialismo, più
vicina alle teorie razziali della Germania degli anni Trenta che a Marx o
Engels.
“La Razza, non la Classe”
In un recente intervento nel Politburo del partito, trapelato in forma
anonima, Rambaldi spiega testualmente:
“Il marxismo ha fallito perché ha frainteso la natura dell’uomo. Non è la classe, ma la Razza, il vero motore della storia. La civiltà è il frutto delle razze superiori; la decadenza nasce dal loro incrocio e dalla corruzione dei valori vitali.”
L’eresia ideologica è
evidente, ma ciò che preoccupa è il seguito che queste parole stanno ottenendo.
Giovani militanti, delusi dalla sterile retorica della vecchia guardia
filosovietica, si stringono attorno al nuovo segretario come attorno a un
profeta.
Nei circoli studenteschi e nei club operai si parla apertamente di una
“rigenerazione socialista della razza romana”.
La linea di Rambaldi, inoltre, contiene un ulteriore elemento disturbante: un
rigido veganismo militante che non nasce da motivazioni etiche, ma da un
concetto biologico di purezza. Secondo il segretario, l’uccisione di animali
“contamina la vibrazione vitale della Razza” e rappresenta “il sintomo della
decadenza materialista delle società capitaliste”.
Dal marxismo al mito
Dietro il linguaggio apparentemente comunista, l’ideologia di Rambaldi cela
tutti gli elementi di un nuovo totalitarismo mistico: la visione organica dello
Stato, il culto della purezza, l’idea di una missione civilizzatrice affidata a
una razza eletta.
In poche parole, nazionalsocialismo travestito da socialismo scientifico.
L’elezione di Rambaldi alla segreteria del PCdR rappresenta dunque il compimento di una mutazione lunga settant’anni: dal proletariato alla purezza, dall’internazionalismo all’etnonazionalismo, dal partito della classe operaia al partito della “razza mediterranea”.
A tre anni dalla caduta
dell’Unione Sovietica, l’Impero Romano è l’unico Paese del mondo occidentale in
cui un partito comunista gode ancora di rappresentanza parlamentare. Ma quel
partito, oggi, ha ben poco a che vedere con Marx.
Il dottor Rambaldi ha tolto al comunismo romano la falce e il martello,
sostituendoli, idealmente, con il sole nero del mito razziale.
Un ritorno alle origini,
dicono alcuni.
Una discesa nell’abisso, correggono altri.
.
LXIII

COORDINAMENTO SERVIZI DI
SICUREZZA (CoSDi)
Direzione Generale – Ufficio Analisi Comunicazioni Ostili
CLASSIFICAZIONE: RISERVATISSIMO – USO INTERNO
DATA: 12 febbraio 1992
OGGETTO: Trascrizione integrale di messaggio radio trasmesso dal leader
della resistenza islamista Sayyid Muḥammad Mujāhid al-Barqī sulla frequenza
14870 kHz (onda corta).
Durata trasmissione: 7 minuti e 43 secondi.
Lingua originale: Arabo classico.
Traduzione ufficiale a cura del Servizio Linguistico del CoSDi – Sezione
Nordafrica.
TRASCRIZIONE
(traduzione integrale)
Nel nome di Allah, il Compassionevole, il Misericordioso.
Popoli della Ummah, fratelli della fede, figli del deserto e delle montagne
dell’Atlante: oggi vi parlo dal cuore della Algeria, dove le sabbie hanno bevuto
il sangue dei martiri e la verità ha testimoniato l’ingiustizia dei crociati di
Roma.
Roma, l’antica prostituta che veste d’oro e incenso, pretende di insegnare la
legge e la giustizia, ma i suoi soldati versano il sangue dei deboli e chiamano
“ordine” la distruzione, “pace” il massacro, “sicurezza” l’assassinio dei
bambini.
A Menazoua, le vostre mani hanno bruciato la carne delle madri e gettato i corpi
dei loro figli in fosse comuni. Avete chiamato tutto ciò “Operazione Speciale
Antiterrorismo”. Noi lo chiamiamo col suo vero nome: crociata contro l’Islam.
Eppure, quando la guerra tocca le vostre case, quando il fuoco che avete acceso
torna a divampare su di voi, gridate “crimine di guerra”.
Voi, Romani, parlate di civiltà e costruite templi al vostro Dio del Denaro. Ma
i vostri palazzi sono pieni di corruzione, e le vostre mani tremano quando il
sangue dei giusti ricade su di voi.
Noi non combattiamo per il potere, ma per la purezza. Non uccidiamo per odio, ma
per purificare.
Così dice l’Altissimo:
«Non pensare che Allah sia ignaro di ciò che fanno gli ingiusti. Egli rinvia loro un termine fino al giorno in cui gli occhi si spalancheranno.»
Roma crede che la sua
vittoria sia definitiva, ma la vittoria di chi opprime non dura più del respiro
di un uomo.
Le vostre basi nel deserto sono circondate, i vostri alleati tremano, e le
vostre stesse città saranno presto testimoni della giustizia di Allah.
L’ombra che credevate spenta si leverà di nuovo.
E quando la vedrete venire da dove il sole tramonta, ricordate le mie parole: la
sabbia non dimentica, e il fuoco non si estingue.
Allāhu akbar.
NOTE ANALITICHE
• Contenuto: il messaggio rientra nella retorica
tipica del Fronte Islamico di Resistenza (FIR), ma si distingue per l’insistenza
sul tema del massacro di Menazoua e per l’inclusione esplicita di un riferimento
coranico (Sura Ibrāhīm, 14:42) in chiave escatologica, con chiaro intento
intimidatorio.
• Messaggio implicito: il verso “l’ombra che credevate
spenta” è stato interpretato dagli analisti come un’allusione ad attacchi
imminenti sul suolo metropolitano romano, possibilmente di natura terroristica.
• Tono: il tono del comunicato suggerisce una
crescente sicurezza e capacità di coordinamento del leader islamista,
probabilmente rafforzato dal consenso popolare dopo la diffusione delle notizie
sul villaggio di Menazoua.
• Raccomandazione: monitoraggio rafforzato delle
comunicazioni in onda corta sulle frequenze 14.000–15.000 kHz e sorveglianza dei
centri islamici nelle province africane.
FIRMATO:
Col. Marco Vittore
Direzione Analisi e Contropropaganda
a COORDINAMENTO SERVIZI DI SICUREZZA (CoSDi)
.
LXIV

PALAZZO DEL QUIRINALE, STUDIO PRESIDENZIALE — 19 febbraio 1992, ore 15:47
Lo studio presidenziale era
immerso nella quiete artificiale del pomeriggio romano, filtrata dalle tende
pesanti del Quirinale. Stefani era seduto alla scrivania, una pila di fascicoli
davanti, ma gli occhi fissi sul telefono. La chiamata gli era stata suggerita
dal ministro Pisani quella mattina, quasi sottovoce: “Presidente, forse sarebbe
il caso di verificare di persona la situazione a Parma.”
Dopo un attimo di esitazione, compose il numero.
Il segnale squillò tre volte,
poi una voce esitante rispose.
— Istituto Penitenziario di Parma, ufficio direzione, buongiorno.
— Qui parla il Presidente della Repubblica — disse Stefani, con la voce
tagliente come un bisturi. — Passatemi immediatamente il direttore.
Un fruscio di confusione, poi
il cambio di linea. La voce del direttore arrivò spezzata, trafelata.
DIRETTORE: Presidente! È un onore… non mi aspettavo…
STEFANI (brusco): Non perda tempo con i convenevoli, direttore. Mi serve
sapere in che condizioni è detenuto il dottor Eugenio Rambaldi.
DIRETTORE: Certamente, Presidente. Il detenuto Rambaldi gode di ottima
salute, collabora con il personale, non ha mai dato problemi disciplinari.
STEFANI: È in isolamento, come da direttiva? (si china leggermente in
avanti, con gli occhi socchiusi.)
DIRETTORE (esita): Eh… no, signor Presidente. Il dottor Rambaldi è in una
cella doppia. Non vi erano celle singole disponibili nel braccio riservato ai
detenuti di sicurezza speciale.
STEFANI (rigido): Con chi, esattamente?
DIRETTORE (tossisce): Con il signor Lucilio Prisco, Presidente. Il
segretario generale del Fronte Sociale del Sole Invitto. Ma posso assicurarle
che non vi sono stati incidenti. Anzi, i due… sembrano aver trovato una certa…
STEFANI (tagliente): Una certa cosa, direttore?
DIRETTORE: Una certa… affinità, Presidente. Parlano spesso: letture
comuni, filosofia politica, credo. Il personale li definisce… educati.
Seguì un silenzio teso. Stefani si alzò lentamente dalla sedia, il ricevitore stretto nella mano, il volto rigido.
STEFANI: Lei mi sta
dicendo, direttore, che nel suo istituto un ideologo comunista e un capo
neonazista cenano insieme e discutono di filosofia. E nessuno trova nulla di
anormale?
DIRETTORE: Presidente, non è…
STEFANI (irato): Stia zitto! Da questo momento, il detenuto Rambaldi deve
essere trasferito in isolamento totale. Niente contatti, niente compagni di
cella, niente libri non approvati dal ministero. Capito?
DIRETTORE: Ma… Presidente, dovrei almeno avere un’autorizzazione formale…
STEFANI: L’autorizzazione ce l’ha: è questa telefonata. (Silenzio) Entro
un’ora, direttore. Mi capisce? Un’ora.
Poi la linea si spense. Stefani rimase immobile per qualche istante, il telefono ancora nella mano, come se la voce del direttore potesse materializzarsi di nuovo.
.
LXV

LE MONDE — 24 février 1992
À Rome, un nom interdit franchit les murs du silence : Rambaldi.
Par Jean-Paul Vautrin, correspondant à Rome
ROMA — C’è un nome che da tre
anni non veniva pronunciato pubblicamente nei palazzi del potere romano. Un nome
che evocava più un fantasma che un uomo, una leggenda sussurrata nei corridoi,
nei caffè, nei campus universitari. Quel nome, ieri, è risuonato per errore, o
per distrazione, nell’aula del Congresso dei Deputati: Eugenio Rambaldi.
È stato il primo ministro Raffaele Taranto, nel corso di una relazione ufficiale
sulle recenti operazioni di polizia contro i gruppi dell’estrema destra, a
lasciarsi sfuggire la frase:
“Con l’arresto di Lucilio Prisco e del dottor Eugenio Rambaldi, il governo ha neutralizzato due dei principali ispiratori dell’estremismo politico che minaccia la Repubblica.”
La reazione è stata immediata: un brusio che attraversa l’aula, i deputati dell’opposizione si alzano, i giornalisti annotano freneticamente. Poco dopo, le agenzie battano la notizia.
Un nome che doveva restare
segreto – Secondo fonti vicine al Quirinale, il presidente Stefani aveva
impartito ordini precisi: nessun nome, nessuna conferma, nessun riconoscimento
pubblico. La linea ufficiale era di parlare di “un’operazione di sicurezza
nazionale” senza personalizzare il caso, per evitare, parole testuali, “la
creazione di martiri o simboli dell’opposizione.”
L’“errore” del primo ministro ha dunque violato la consegna più delicata del
governo. Ma se a Roma l’imbarazzo è palpabile, all’estero cresce la curiosità.
Chi è davvero Eugenio
Rambaldi? – Ufficialmente, un medico e accademico, già noto negli anni
Settanta per le sue posizioni radicali in seno alla sinistra extraparlamentare.
Poi, il silenzio: un arresto misterioso nel 1983, la sparizione nel 1985, il
ritorno improvviso nel 1990.
Negli ultimi tempi, Rambaldi aveva scalato rapidamente i ranghi del Partito
Comunista dei Romani (PCdR), fino a diventarne il nuovo segretario grazie,
dicono gli osservatori, al suo carisma e alla capacità di reinterpretare il
marxismo in chiave “nazionalista”. Un ossimoro politico che aveva però
conquistato un’ampia fetta di militanti delusi.
Ma il suo passato resta oscuro. Da anni circolano voci, mai confermate, sul suo
ruolo in un presunto programma segreto di ricerca militare sotto l’Imperatore
Paolo VIII, e sul fatto che il suo arresto originario non fosse legato a motivi
politici, bensì a conoscenze “troppo sensibili”. Altri parlano di esperimenti,
di un progetto medico-militare denominato TITAN, e di una fuga negli Stati
Uniti. Il governo, da parte sua, non ha mai smentito né confermato nulla.
Un errore che crea un simbolo – Quel che è certo è che, con una sola frase pronunciata in aula, il primo ministro Taranto ha involontariamente trasformato Rambaldi in un’icona politica. In un paese dove la stampa è sottoposta a una censura discreta ma costante, l’errore è bastato a rompere il silenzio: il nome proibito è tornato di dominio pubblico.
“È come se l’avessero risuscitato,” commenta un diplomatico statunitense a Roma. “Fino a ieri, Rambaldi era un detenuto ignoto. Da oggi, è un prigioniero politico.”
Un boomerang per il regime –
Mentre il governo cerca di minimizzare l’incidente, parlando di una “svista
linguistica”, gli analisti notano come l’episodio rischi di avere conseguenze
pesanti per Stefani. “Nel tentativo di apparire forte contro gli estremismi,”
scrive il quotidiano Il Ronzio, “il premier ha fornito all'opposizione il nome e
il volto riconoscibile che le mancavano.”
Anche la stampa straniera sottolinea la portata simbolica della gaffe. Per il
Guardian, “il nome di Rambaldi potrebbe diventare per l’opposizione romana ciò
che quello di Sakharov fu per i dissidenti sovietici.”
Un uomo, un enigma –
Rambaldi rimane in carcere a Parma, ufficialmente in regime di isolamento. Ma la
sua figura, avvolta nel mistero, sembra già travalicare le mura della prigione.
Come scrive un osservatore francese residente a Roma: “Forse il regime di
Stefani non teme Rambaldi per ciò che ha fatto, ma per ciò che rappresenta: il
ricordo di qualcosa che non può essere controllato, e il presagio di qualcosa
che non si può più fermare.”
.
LXVI

ROMA, RESIDENZA STEFANI – 25 febbraio 1992, ore 23:18
Studio privato di Stefani. Le luci sono basse e il silenzio è rotto solo dal
frusciare della penna del presidente sui fogli sparsi sul tavolo. Accanto a lui,
Teodoro Lori è chino su una cartella di appunti, mentre il ministro Pisani
sfoglia una lista di nomi e incarichi.
Il governo Taranto è ufficialmente caduto da meno di ventiquattr’ore.
L’incidente parlamentare, quella singola parola, “Rambaldi”, ha scatenato una
valanga, e Stefani non ha potuto fare altro che accettare le dimissioni del
primo ministro. Ora si tratta di ricomporre il quadro, di ricucire il danno
politico prima che si allarghi.
Il nuovo governo sarà guidato da Pisani; non per convinzione, ma per equilibrio.
PISANI (sistemando gli
occhiali): Se mi confermate l’Interno, Presidente... direi che la priorità è
ristabilire la calma. Il paese è stanco di scosse.
STEFANI (senza sollevare lo sguardo): Le scosse non sono mai un problema,
Cornelio. Il problema è chi resta in piedi dopo.
LORI (timidamente): Posso inserire questa frase nel comunicato? Ha un
tono forte.
STEFANI (accennando un sorriso): No, Teo. Meglio di no, è troppo vero per
essere stampato.
A quel punto la porta si apre piano, Livia Stefani entra nella stanza. È vestita semplicemente, con un maglione chiaro, ma la sua presenza interrompe il ritmo della discussione. Gli occhi del padre si alzano di colpo.
STEFANI (sorpreso, ma
affettuoso): Livia. Non dormi?
LIVIA: Difficile dormire, con tutto quello che sta succedendo. (guarda i
fogli sul tavolo) State scegliendo i ministri, vero?
PISANI (mezzo sorriso): Una figlia molto attenta, Presidente.
LIVIA: Non serve essere attenta, basta accendere la radio. Tutti sanno
cos’è successo in Parlamento.
Un silenzio breve, tagliente. Stefani capisce dallo sguardo di Livia che la figlia deve parlargli; posa la penna e si alza.
STEFANI: Scusatemi, Cornelio, Teo. Torno tra un momento.
Livia lo precede fuori, nel
corridoio. La porta si chiude dietro di loro, lasciando Lori e Pisani da soli
nella luce calda dello studio. Nel corridoio, la penombra e l’eco dei passi
attutiscono le voci.
Livia si ferma, lo guarda negli occhi.
LIVIA: Papà, perché tutto questo clamore per Rambaldi? Perché il suo nome doveva restare segreto? Non era solo un medico?
Stefani sospira, non parla subito. La figlia osserva quell’uomo, che il mondo vede come di ferro, ora immobile, quasi esitante.
STEFANI (piano): Ci
sono verità che non dovrebbero più essere dette, neanche tra padre e figlia.
LIVIA: Ma me lo dirai comunque.
Stefani resta in silenzio per
un attimo. Guarda il pavimento, poi la figlia.
Non è un uomo che si lascia mettere all’angolo, ma Livia è la sua unica
debolezza.
STEFANI: Rambaldi faceva parte di un progetto… molto riservato. Un programma medico voluto dall’Imperatore Paolo VIII in persona. Rambaldi era il suo uomo di fiducia, ed era vicino a lui, più di chiunque altro; troppo vicino. E quella vicinanza gli ha dato la possibilità di tradirlo.
Livia rimane in silenzio. Lo fissa, cercando nelle sue parole qualcosa che suoni autentico.
LIVIA (incredula):
Tradirlo? Vuoi dire…
STEFANI (annuisce): È stato lui. Non ci sono prove ufficiali, ma… sì. Era
troppo vicino, troppo informato. E quando l’Imperatore è morto, Rambaldi è
sparito. Capisci ora perché il suo nome è pericoloso? Perché risveglia fantasmi
che devono restare sepolti.
Livia resta in silenzio, scrutando il volto del padre. Non sa se credergli. C’è qualcosa di eccessivamente controllato nel modo in cui ha raccontato quella storia, come se stesse leggendo un testo già provato molte volte davanti allo specchio.
LIVIA: E adesso? Cosa
farai di lui?
STEFANI: Niente che non sia già stato deciso. È dove deve stare.
Lei annuisce lentamente, ma la sua espressione è scettica. Poi cambia argomento, quasi per dissimulare.
LIVIA: E lo zio
Longino? Sarà nel nuovo governo?
STEFANI: No. Longino resta al CoSDi. Sarà nominato ufficialmente
Direttore, e questo basta. Il Ministero dell’Interno rimane a Pisani. (la
guarda) Meglio non lasciare che certe persone credano di essere indispensabili.
Livia coglie il sottotesto. Capisce che tra il padre e Ramelli qualcosa si è rotto.
LIVIA: Non ti fidi più
di lui.
STEFANI: Fidarsi, in politica, è un lusso da poveri.
C’è un attimo di silenzio, poi, inaspettatamente, Stefani cambia tono.
STEFANI: Livia… hai
mai pensato di entrare nel governo?
LIVIA (perplessa): Io? Ma sei serio?
STEFANI: Più di quanto pensi. Hai un’intelligenza che spaventa e un
carattere che taglia. Potresti essere utile.
E poi… (fa una pausa) non mi dispiacerebbe averti vicino.
LIVIA (ironica, ma non del tutto): Non so se sia un complimento o una
trappola.
STEFANI: Entrambi. (sorride) Pensaci. Domani mattina mi darai la tua
risposta.
Stefani torna nella stanza, dove Lori è ancora intento a sistemare i fogli, e Pisani rilegge metodicamente gli appunti. Il presidente si rimette a sedere, riapre il dossier del nuovo governo e dice semplicemente:
STEFANI: Bene, signori. Continuiamo.
Mentre il padre torna al
lavoro, Livia si ferma un istante sulla soglia.
Lo guarda, immobile, e pensa che non lo ha mai visto così stanco. Poi si volta,
saluta con la mano il padre, e scompare nel corridoio, lasciandosi dietro la sua
voce ferma che detta i nomi del nuovo governo.
.
LXVII

UN GOVERNO NUOVO MA CON LE
SOLITE OMBRE (Valentino Tulliani, Il Ronzio)
Pisani sale, Taranto evapora, Lori sorprende, e Livia Stefani entra in scena
Data: 27 febbraio 1992
Il premier Cornelio Pisani ha
letto ieri pomeriggio, nella sala stampa del Quirinale, la lista dei ministri
del nuovo governo. Lista che, come al solito, più che un esercizio di politica
assomiglia a un sudoku fatto con le mezze fedeltà, le punizioni paterne e le
spine nel fianco abilmente ricollocate sotto il tappeto.
Vediamola, questa piccola corte del nuovo regno pisano-stefaniano.
TARANTO, IL GRANDE ASSENTE
(E IL GRANDE PUNITO)
Il nome che non c’è, e che tutti cercavano, è uno: Raffaele Taranto.
Ex premier, ex uomo forte del governo, ex teorico della distensione con gli
Stati Uniti, ex tutto.
Il dicastero degli Esteri — il suo porto naturale, la sua poltrona di seta — è
stato assegnato non a lui, ma a Teodoro Lori. Sì, quel Lori: l’ex ambasciatore,
ora logografo presidenziale, occasionalmente segretario, talvolta maestro di
cerimonie, e da ora ministro degli Esteri. La prova vivente che, nel nuovo
ordine stefaniano, la fedeltà personale vale più della competenza diplomatica.
Che Taranto sia caduto in disgrazia è evidente.
Che sia caduto per un errore, il suo lapsus in Parlamento sul caso Rambaldi, è
la versione ufficiale.
Che sia caduto perché un segretario stira-camicie e senza ambizioni era più
conveniente per il Presidente, è la versione che circola tra i corridoi del
potere.
Chi indovina, vince.
PISANI PREMIER, PISANI
MINISTRO DELL’INTERNO: IL CAVALLO DI TROIA PERFETTO
Pisani, che già teneva il Viminale, ora tiene anche Palazzo Flaminio.
In pratica, possiede metà Repubblica. La scelta è significativa: Stefani affida
a Pisani il controllo dell’ordine interno e del governo, lasciando fuori dai
giochi chi, fino a ieri, avrebbe potuto reclamare un ruolo di comando: Longino
Ramelli.
E infatti…
RAMELLI: PROMOSSO? O
POSATO?
Un decreto presidenziale uscito lo stesso giorno del nuovo governo nomina
Ramelli direttore del CoSDi.
Apparentemente una promozione. In realtà, un perfetto recinto dorato: lontano
dai ministeri, lontano dalle telecamere, vicino abbastanza da essere utile,
lontano abbastanza da non essere pericoloso.
Chi conosce Stefani sa leggere la mossa: Ramelli resta al suo posto… e al suo
posto deve restare.
ANICIO ALLA DIFESA: LA
POLTRONA DEI MIRACOLATI
Che Germano Anicio resti ministro della Difesa, dopo lo scandalo Menazoua, è
un miracolo che neppure la Santa Sede commenterebbe. Ovviamente, ufficialmente
“non esiste nessun massacro”.
E quindi nessun ministro deve dimettersi per qualcosa che “non esiste”.
Logico, no?
LA SORPRESA: LIVIA
STEFANI, LA FIGLIA DEL PRESIDENTE, È VICEPREMIER
E arriviamo al colpo di teatro.
La presenza di Livia Stefani nel governo, in qualità di vicepremier, è la vera
notizia.
Incarico senza portafoglio? Formalmente sì.
Funzione reale? È presto detto: ministra per i rapporti col Quirinale.
Tradotto: la voce del Presidente dentro il governo.
E tutti, a Roma come all’estero, hanno visto in questa scelta un segnale grosso
come la cupola del Pantheon:
Stefani vuole controllare il governo da vicino, e allo stesso tempo iniziare a
costruire la futura erede: Livia, la principessa sorridente, lo aveva già
accompagnato al G7 di Cartagine; ora ottiene una poltrona strategica.
Che sia una “prova generale” per un futuro più alto?
A domanda, nessuno risponde.
Ma nessuno ride.
CONCLUSIONE:
Taranto punito.
Ramelli recintato.
Anicio salvato.
Lori premiato.
Pisani potenziato.
E Livia lanciata.
È il governo più stefaniano
che si potesse immaginare: un esecutivo costruito per fedeltà, equilibri
domestici e rivalità personali, più che per politica.
La Repubblica, ancora una volta, si scopre un affare di famiglia.
Che coincidenza!
.
LXVIII

ALGERIA – 27 febbraio 1992
Il camion sobbalzava su ogni
pietra, ogni buca, ogni tratto di pista che sembrava più simile al letto
asciutto di un uadi che a una strada. Era quasi mezzogiorno, e il sole batteva
sul telone come un martello. L’aria dentro era un misto di polvere, sudore e
metallo caldo.
Salvo era seduto sul cassone, la schiena appoggiata a una cassa di munizioni
“deattivate”, la sigaretta in bocca e lo sguardo fisso fuori, verso l’orizzonte
tremolante. Gianni, più nervoso, tamburellava le dita sul proprio fucile come se
aspettasse sempre l’imboscata successiva.
Tra loro, con l’elmetto ancora troppo lucido e la divisa ancora troppo pulita,
c’era il novellino. Diciannove anni, forse ne dimostrava sedici, con occhi che
non avevano ancora imparato a stare bassi.
Fu Salvo a rompere il
silenzio.
— Allora, ragazzino, sai almeno perché andiamo in quel villaggio?
Il novellino fece spallucce.
— Mi hanno detto di caricare queste casse. Munizioni. Loro ci danno cibo.
Scambio alla pari, no?
Gianni rise, un riso secco.
— Ah, alla pari… sì, come no. Guarda, queste — diede un colpo alla cassa più
vicina — sono munizioni bollite. Le hanno “disattivate” buttandole in acqua
calda. Dicono che tanto gli arabi non se ne accorgono.
— E se se ne accorgono? — chiese il ragazzo.
Salvo si voltò verso di lui,
togliendosi la sigaretta dalle labbra con lentezza.
— Se se ne accorgono, moriamo. Tutti e tre. Magari neanche sul colpo.
Il ragazzo deglutì. Gianni
intervenne:
— Ma tranquillo, di solito non se ne accorgono. E poi sono talmente disperati
che prendono tutto. Loro ci danno datteri, farina, acqua… quello che riescono.
— Ma… non dovremmo riceverli dall’esercito?
— Uh, senti senti — rise amaramente Gianni — questo pensa ancora che ci danno le
razioni come su ‘sto libretto qua.
Tirò fuori da una tasca una copia sgualcita del manuale del soldato.
— La Mauritania non è come te la raccontano alla caserma, bello mio. Qua se vuoi
mangiare, contratti. Se vuoi bere, contratti. Se vuoi sopravvivere, soprattutto,
contratti.
Il camion prese una buca più
profonda delle altre, il cassone sobbalzò e il ragazzo si aggrappò alla cassa
più vicina. Salvo riprese, con un tono più basso, quasi stanco:
— Ma ricordati una cosa, ragazzino. Non lo facciamo perché siamo carogne. Lo
facciamo perché nessuno ci porta niente. Le linee logistiche sono nel caos da
mesi, poi da quando è morto Valerio… — si interruppe, lo sguardo perso fisso
davanti a sé — da allora è tutto peggio.
Il ragazzo non disse niente.
— Valerio chi? — chiese dopo un attimo, con cautela.
Fu Gianni a rispondere, quasi
sottovoce:
— Il terzo del nostro vecchio gruppo. Era come un fratello. Anche se credeva
ancora che Stefani ci avrebbe salvati tutti. Poi un giorno siamo finiti in
un’imboscata. Lui…
Si fermò. Salvo completò la frase:
— …non è tornato.
Il novellino annuì piano,
senza capire fino in fondo, ma intuendo che era meglio non insistere.
— E quindi oggi dobbiamo solo fare questo scambio? — chiese.
Gianni sorrise, ma non era un
sorriso rassicurante.
— Sì. “Solo”.
Poi, imitando la voce da ufficiale:
— Operazione logistica di routine.
Si guardò con Salvo e i due scoppiarono in una risata breve e amara.
Salvo gli diede una pacca
sulla spalla.
— Ascolta, ragazzino. Qua non c’è niente di routine. In quel villaggio
potrebbero essere amichevoli o potrebbero essere ostili. Potrebbero essersi
venduti ad al-Barqī la settimana scorsa. Oppure potrebbero voler solo
sopravvivere.
Fece una pausa, guardandolo negli occhi.
— La regola è una sola: tieni gli occhi aperti. E tieni la bocca chiusa. Se noi
trattiamo, tu non fiatare.
— Ho capito.
— No. Non hai capito ancora. Ma capirai presto.
Salvo tornò a guardare l’orizzonte, tirando un’altra boccata.
— In Mauritania si capisce tutto molto in fretta… o non si capisce mai, perché
si muore prima.
Il camion rallentò. Da fuori
si udivano i primi rumori di voci arabe, un vociare basso e diffidente. Il
villaggio era vicino. Gianni si alzò e controllò l’arma.
— E ricordati — disse al novellino — qualunque cosa succeda, tu segui noi.
Salvo si stiracchiò,
spezzando la sigaretta sotto lo scarpone.
— Beh, andiamo a fare la spesa.
Il camion si fermò con un
sussulto.
E l’Algeria li avvolse.
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LXIX

REPUBBLICA ROMANA – MINISTERO DELLA DIFESA
DIREZIONE GENERALE INTELLIGENCE MILITARE (DGIM)
RAPPORTO RISERVATO – LIVELLO “AURUM”
Data: 3 marzo 1992
Destinatari:
• Presidente della Repubblica Romana, F. S.
Salvio-Stefani
• Primo Ministro, Cornelio Pisani
• Ministro della Difesa, Germano Anicio
• Direttore CoSDi, Longino Ramelli
• Capo di Stato Maggiore della Difesa, gen. Emilio
Paolo Mazurkiewicz
Oggetto: Movimenti sospetti delle cellule islamiste in Mauritania – Valutazione preliminare del rischio di un’offensiva su larga scala.
1. Sintesi della
situazione
A partire dal 12 febbraio u.s., le nostre unità SIGINT e HUMINT operanti nei
settori di Tindouf, Adrar, Reguiba e Tamanrasset hanno registrato una serie di
attività anomale riconducibili alla rete islamista comandata da Sayyid Muḥammad
Mujāhid al-Barqī.
Tali attività riguardano:
• movimenti coordinati di milizie provenienti
dall’interno del Sahara;
• riposizionamento di armamenti di medio calibro
(mitragliatrici pesanti e mortai);
• incremento rilevato delle comunicazioni cifrate via
HF;
• notevole intensificazione dei traffici lungo le
piste tradizionali tra Gao, Bordj Badji Mokhtar e Menaka;
• comparsa di nuovi campi di addestramento nel
settore meridionale dell’Adrar.
La DGIM ritiene che tali elementi non siano compatibili con normali attività guerrigliere ma si configurino come preparativi per una campagna bellica coordinata.
2. Elementi dettagliati
raccolti
2.1 Intercettazioni radio (SIGINT)
Dalla stazione di ascolto “Falcata” sono stati registrati messaggi in codice
che contengono espressioni ricorrenti quali “la Lancia si rialza”, “i figli del
silenzio”, “la notte della restaurazione”.
La formula “restaurazione” era stata già usata nel 1985 in prossimità
dell’offensiva del luglio.
L’interpretazione preliminare suggerisce una possibile operazione su vasta scala
coordinata da al-Barqī.
2.2 HUMINT – Rapporti dai
collaboratori locali
Fonti ritenute affidabili nell’area di Timimoun e Tit riferiscono:
• afflusso di combattenti stranieri (Mali, Niger,
Ciad);
• acquisto massiccio di carburante e munizioni
tramite intermediari tuareg;
• presenza di emissari di al-Barqī per “giuramenti di
lealtà”.
Una fonte classificata OMEGA ha affermato: “L’Emiro prepara qualcosa di grande. Dice che la vittoria vera non è ancora venuta.”
2.3 Movimenti logistici
islamisti
Le ricognizioni aeree dei droni serie C-IX hanno individuato almeno 9
colonne logistiche dirette a nord, con camion chiusi, probabilmente contenenti
armi e viveri.
Per confronto, nell’aprile 1985 le colonne pre-offensiva erano state 7, con
configurazione simile.
3. Valutazione della DGIM
La Direzione, dopo confronto con lo Stato Maggiore, propone la seguente
stima:
• Probabilità bassa (15%): riposizionamento tattico
non finalizzato a un’offensiva.
• Probabilità medio-alta (55%): attacco su scala
regionale (es. Adrar o Tindouf).
• Probabilità alta (30%): offensiva totale su più
fronti, analoga o superiore a quella del 1985.
Il 30% rappresenta una soglia allarmante poiché, per prudenza, la DGIM evita stime elevate se non supportate da prove solide. Tuttavia, l’ampiezza della manovra attuale supera tutti i parametri degli ultimi tre anni.
4. Indicatori critici
1. Diminuzione improvvisa degli attacchi minori (tipico segnale di
preparazione a un attacco maggiore).
2. Radicalizzazione dei messaggi audio diffusi via radio clandestina.
3. Ricomparsa della simbologia usata nel 1985: “la Lancia”, “la Notte della
Restaurazione”, “la Sura del ferro”.
4. Presenza crescente di comandanti legati direttamente ad al-Barqī vicino alla
linea del fronte.
5. Rischi per il
dispositivo romano
Un attacco coordinato potrebbe:
1. sovraccaricare le basi avanzate di Tamanrasset, Reguiba e In Amguel;
2. circondare i presidi interni, tagliando le linee logistiche già fragili;
3. riaprire il fronte dell’Atlante meridionale, esponendo Cesarea, Algeri e
Orano a nuovi assedi;
4. riaccendere tensioni etniche nei centri a maggioranza araba, con rischio di
insurrezione urbana.
6. Raccomandazioni
operative
La DGIM propone:
1. Stato di allerta ALFA-2 per le unità in Mauritania e Algeria.
2. Rafforzamento delle linee logistiche e creazione di depositi avanzati.
3. Sorveglianza intensiva tramite droni e ricognizioni aeree quotidiane.
4. Arresti mirati di intermediari tuareg sospettati di supportare l’offensiva.
5. Intensificazione della propaganda locale per prevenire sollevazioni nei
centri urbani.
7. Conclusioni
Tutti gli indicatori convergono verso la possibilità concreta di un’azione
militare su larga scala da parte delle forze islamiste entro 4–6 settimane.
La DGIM sottolinea che ignorarne i segnali equivarrebbe a ripetere gli errori
dell’estate 1985.
Si raccomanda dunque estrema attenzione e l’implementazione immediata delle
misure preventive sopra elencate.
Firmato:
Gen. Tito Aurelio Marzano
Direttore Generale – DGIM (Intelligence Militare)
Classificazione: AURUM
Divieto assoluto di copia o diffusione non autorizzata.
.
LXX

PALAZZO FLAMINIO – STUDIO DEL VICE PRIMO MINISTRO LIVIA STEFANI
8 marzo 1992 – Pomeriggio
Lo studio nuovo di Livia era
ancora un mezzo cantiere dell’anima: scatoloni, fiori di benvenuto già
appassiti, una bacheca ancora vuota, e la scrivania immacolata che incuteva più
soggezione che orgoglio.
Il suo segretario particolare bussò, introdusse il ministro della Difesa Germano
Anicio, e richiuse la porta alle loro spalle.
Livia si alzò in piedi con un sorriso un po’ rigido, ancora poco abituata
all’idea che un ministro, uno dei più importanti, per giunta, entrasse nel suo
ufficio con deferenza.
«Ministro Anicio… benvenuto.
La ringrazio di essere passato.»
«Vice Primo Ministro,» rispose lui con un accenno di inchino, «il piacere è mio.
E mi perdoni se vengo senza appuntamento, ma… le circostanze lo richiedono.»
Livia annuì, indicando una
delle poltrone. Il ministro si sedette, ma sembrava troppo agitato per star
fermo: le mani serrate sulle ginocchia, la schiena tesa, lo sguardo che tradiva
notti insonni.
Seguì qualche minuto di convenevoli: domande sul nuovo incarico, sulla
difficoltà di ambientarsi, sull’agenda dei primi incontri internazionali. Livia
rispose educata, ma percepì chiaramente che Anicio stesse solo prendendo fiato.
Poi lui si zittì di colpo e cambiò tono.
«Vice Primo Ministro… non sono qui per formalità.»
Tirò fuori dalla cartella un dossier sottile ma pesante come piombo, e lo appoggiò lentamente sulla scrivania.
«Questo rapporto è arrivato otto giorni fa al Quirinale. A oggi… non è stato preso nessun provvedimento.»
Livia si irrigidì:
«È un rapporto dell’intelligence militare?»
«Sì. Ed è il più allarmante che abbia letto dal 1985.»
La voce di Anicio vibrò
appena, non per nervosismo: per la gravità della cosa.
La ragazza sfogliò qualche pagina. Linee di testo fitte, mappe del Sahara,
schemi di movimenti. Non comprese tutto, non subito. Ma capì abbastanza, e
mormorò:
«L’offensiva…»
«È imminente.» Anicio si sporse in avanti, abbassando la voce. «Vice Primo
Ministro, l’intero dispositivo islamista si sta muovendo. Le stesse
configurazioni, gli stessi segnali della grande offensiva dell’85. Le stesse
parole in codice. Le stesse rotte logistiche. Tutto.»
Un silenzio pesante, quasi
irreale.
Livia inspirò lentamente.
«E mio padre?»
«Sostiene che l’esercito sia…» Anicio esitò, come se faticasse perfino a
pronunciarlo. «…allarmista. Che voglia gonfiare il budget. Che vuole più mezzi e
più autonomia.»
Livia lo guardò incredula.
«E lei crede che non sia così.»
«Vice Primo Ministro.» Il
ministro prese il dossier e lo posò più vicino a lei, come un oggetto sacro.
«Io sono responsabile della difesa di Roma. Se mi sbaglio, rispondo
politicamente. Se si sbaglia lui, muoiono diecimila uomini. E forse cade la
Mauritania.»
La voce gli si spezzò appena
alla parola ‘cade’. Poi, con un gesto improvviso, quasi disperato, Anicio unì le
mani. Non era una supplica formale: era una supplica umana.
«La prego. Lei è l’unica persona che il Presidente ascolta davvero.»
Livia vacillò. Non se lo
aspettava. Ma in fondo sapeva che prima o poi qualcuno sarebbe venuto da lei per
questo motivo. Non per le sue idee. Non per il suo ruolo. Perché era sua figlia.
«Ministro, io… non posso interferire nelle decisioni militari del Presidente.»
«Io non le chiedo di
interferire.» La guardò negli occhi, con una sincerità cruda, quasi dolorosa.
«Le chiedo di parlargli. Di fargli capire che questa volta il pericolo è reale.»
Livia serrò le labbra, lo
sguardo posato sul dossier.
Il suo nome, sui giornali, era già diventato “la ministra per i rapporti col
Quirinale”, e ora capì che non era una battuta.
Anicio si alzò. La cartella rimase sulla scrivania.
«Legga il rapporto, Vice
Primo Ministro. La prego. E poi… lo convinca. Per il bene di tutti noi.»
Esitò un istante sulla porta, come se volesse aggiungere qualcosa. Forse
‘scusa’, o ‘grazie’. O forse ‘aiutaci’.
Ma non disse nulla.
Quando uscì, Livia rimase
sola.
Sola col silenzio dello studio.
Col peso del dossier.
E con la consapevolezza di essere, volente o nolente, l’ultima persona a poter
scongiurare una catastrofe.
Strinse il dossier, sospirò, e mormorò a sé stessa:
«Papà… cosa stai facendo?»
.
LXXI

ROMA, RESIDENZA STEFANI – 8 marzo 1992, sera
La casa degli Stefani, quella
vera, non quella delle cerimonie di Stato, aveva un silenzio particolare dopo
cena. Un silenzio domestico, vivido, fatto di passi ovattati sul parquet e di
stoviglie lasciate ad asciugare. Livia entrò nello studio del padre con il
dossier in una cartellina di pelle, ma non lo tirò subito fuori.
Stefani era alla scrivania, in camicia, gli occhiali bassi sul naso, intento a
scorrere dei fascicoli con la penna stilografica che batteva ritmicamente contro
il foglio. Alzò appena lo sguardo.
«Tutto bene, Livia?»
Lei annuì, prendendo posto
sulla poltrona davanti a lui.
«Sì… più o meno. Ti devo parlare di una cosa. Ma prima… una sciocchezza.»
Stefani si tolse gli
occhiali, intuendo già che quando Livia iniziava con una sciocchezza non era mai
davvero una sciocchezza.
«Spara.»
Livia incrociò le mani in grembo, quasi timida.
LIVIA: «L’altra sera
ero alla festa di Clara. Sai, la mia amica d’infanzia. E… beh, ho messo quel
cappotto in cashmere che mi ha regalato Jiang Zemin o, meglio, che l'ambasciata
cinese ci teneva tanto a farmi avere.»
STEFANI (divertito): «Ah, il famoso cappotto. Ci credo che te l’abbiano
invidiato.»
LIVIA: «Appunto.» sospira «Clara mi fa: “Oddio, è stupendo! Dove l’hai
preso?” E io… non sapevo cosa rispondere. Mi vergognavo proprio a dirle la
verità. Mi sembrava una specie di… ostentazione.»
STEFANI (sorride): «Non è colpa tua se certi regali diplomatici sono…
ingombranti.»
LIVIA: «Lo so. Però mi ha fatto pensare.» si stringe nelle spalle. «A
quanto certe cose, certi privilegi, ti cambiano la prospettiva. A come possono…
allontanarti dagli altri, se non stai attenta.»
Stefani la osservò con
attenzione nuova. «Perché mi stai dicendo questo, Livia?»
Livia respirò profondamente. Era arrivato il momento.
Aprì la cartellina e tirò fuori il dossier dell’intelligence; lo posò sulla
scrivania tra loro, con un gesto lento, controllato.
LIVIA: «Per questo.»
STEFANI (rigido): «Chi te l’ha dato?»
LIVIA: «Il ministro Anicio.»
Il presidente rimase in silenzio per un istante, le dita intrecciate come se stesse valutando una linea di attacco.
STEFANI: «E cosa ti ha
detto Anicio?»
LIVIA (calma, ma con un filo di apprensione): «Che tu non lo stai
ascoltando, che hai lasciato questo rapporto sulla scrivania da oltre una
settimana senza prendere provvedimenti.
E che secondo l’intelligence un’offensiva islamista è imminente. Molto
imminente.»
Stefani chiuse gli occhi un istante, come se avesse già previsto tutto quel dialogo.
STEFANI: «Livia…
L’esercito manda dossier allarmisti da anni. Sanno benissimo come funziona: più
fai paura, più risorse ottieni. È un meccanismo vecchio come Roma stessa. Non è
la prima volta che tentano di influenzare l’agenda politica.»
LIVIA: «Ma questo non è come gli altri.» spinge il dossier più vicino a
lui. «L’ho letto, papà. Tutto. Spostamenti, intercettazioni, mappature. Non sono
voci: sono dati. Incrociati, coerenti e preoccupanti.»
STEFANI (guardandola con un misto tra affetto e irritazione): «Tu non hai
idea di quante volte, negli ultimi dieci anni, mi abbiano detto che
“un’offensiva è imminente”. Ogni tre mesi, come le maree.»
LIVIA: «Ma questa volta è diverso.»
Silenzio. Livia percepì che la frase gli era arrivata dritta.
LIVIA (addolcendosi): «Papà. Non sto dicendo che devi piegarti all’esercito. Sto dicendo che… ignorare questo rapporto potrebbe essere un errore enorme. Anche secondo me la situazione è molto simile al 1985. Troppo.»
Stefani non rispose subito; si sporse indietro con una lentezza calcolata, come se misurasse il proprio respiro.
STEFANI: «Il ministro
Anicio è… suggestionabile. E tende al catastrofismo.»
LIVIA: «È disperato. E ha ragione di esserlo, glielo si vede in faccia. È
terrorizzato dal fatto che nessuno ti smuove su questo. E credimi: non è un tipo
che si terrorizza facilmente.»
Stefani rimase a fissare il bordo del dossier, poi, finalmente, parlò, con il tono di chi concede qualcosa che non vuole concedere.
STEFANI: «Va bene.
Domani parlerò con Anicio, e con il capo di stato maggiore Mazurkiewicz. ‘Nel
caso che’, come dici tu.»
LIVIA (annuisce): «Grazie.»
STEFANI (le punta un dito contro): «Ma sia chiaro: non sto dando carta
bianca alle forze armate. Ascolterò. E poi deciderò. Io, non Anicio.»
LIVIA: «È tutto quello che ti chiedo.»
STEFANI (più rilassato): «Però una cosa devi dirmela.»
LIVIA: «Cosa?»
Lui la osservò con un mezzo
sorriso stanco.
«E alla tua amica Clara… poi cos’hai risposto sul cappotto?»
Livia arrossì, e rise,
finalmente.
«Che era un regalo.»
«Ottima scelta» concluse Stefani. «La verità, senza fare sfoggio.»
.
LXXII

ALGERI – 9 marzo 1992
La notte aveva quell’odore
metallico e acre che solo Algeri sapeva sputare fuori quando era sul punto di
esplodere. Le voci correvano tra i soldati come topi tra le crepe: «Sta per
iniziare», «dicono che attaccano a sud», «Mazurkiewicz lo sa, ma a Roma non
ascoltano».
Nel quartiere di Bab el-Oued, però, la guerra sembrava lontana.
Almeno fino a quando arrivò il maggiore Vittorino ‘Rino’ Franceschini.
Rino guidava la pattuglia
come un capitano di ventura: stivali impolverati, camicia dell’uniforme
semiaperta sul petto tatuato, pistola infilata dietro la cintura. Intorno a lui,
una ventina di paracadutisti della Leone IV arrancavano tra casse di
contrabbando, bottiglie recuperate, sigarette di dubbia provenienza. Ridevano,
si spingevano, uno suonava una fisarmonica mezza rotta trovata chissà dove.
Eppure, anche nella goliardia, c’era qualcosa di inquietante in loro: un filo di
adrenalina, un retrogusto di violenza trattenuta. C’era sempre, soprattutto
quando comandava Rino.
Lui li teneva insieme così:
con carisma e audacia, con quella maniera di sfidare il mondo come se fosse nato
per vincere o morire, non per vivere. I suoi uomini lo adoravano. I suoi
superiori lo avrebbero spedito volentieri a spaccare pietre a Ponza, e lo
avrebbero fatto da diversi anni se Rino non fosse stato figlio di un generale, e
non avesse avuto amicizie e legami familiari che arrivavano ai vertici dello
Stato. Si fermarono sotto un portico, attratti dalla musica e dal vociare
proveniente da un bar illuminato da luci al neon tremolanti.
Fu allora che li videro. Una trentina di uomini in mimetica desertica, in parte
seduti a terra, in parte appoggiati ai muri. Altri ancora barcollavano con
bottiglie di arak in mano.
Il distintivo blu cucito sulla manica era inconfondibile: il Battaglione
Azzurro, i BIS, le squadre della morte.
Gli uomini più temuti della
Repubblica. E i più odiati da chiunque conservasse ancora una briciola di
coscienza.
Rino si immobilizzò. E quando vide la scena, un filo di sangue gli salì al
cervello.
Due dell’Azzurro stavano trattenendo una cameriera. Una ragazzina – non più di
sedici anni – che stringeva il grembiule con le mani tremanti. Uno la teneva per
il polso, l’altro le sussurrava qualcosa all’orecchio.
La ragazza piangeva in silenzio.
Rino si sfregò la mano sulla mascella. Respirò: uno, due, tre… Era il massimo
della calma che fosse in grado di produrre.
«Ehi,» disse. «Lasciatela
andare.»
Gli uomini dell’Azzurro si voltarono. Sorrisero. Ma non era un sorriso.
«Guarda chi c’è,» biascicò
uno. «Il cucciolo di Anastasi.»
«Franceschini,» disse un altro. «Quello che si crede un eroe.»
Risero, ma Rino era
serissimo.
«Ho detto: lasciatela andare.»
Rino parlava piano. Il che, per chi lo conosceva, era segno di pericolo
imminente.
Il più grosso dei due sbuffò.
«Ehi, parà… siamo tutti colleghi qui. Che ti frega?»
«Quella è una bambina.»
«E allora? Non è mica tua sorella.»
Si voltò verso i compagni: «O no, ragazzi?»
Risero di nuovo.
Dietro Rino, i paracadutisti
avevano smesso di muoversi. Si erano fatti rigidi, le mani sulle cinghie, sugli
spallacci. Pronti.
«Sapete qual è il problema dell’Azzurro?» disse Rino. «Che credete di poter fare
qualunque cosa.»
Il grosso gli si avvicinò. «E
voi paracadutisti credete di essere più romani degli altri.»
Poi allungò una mano verso la sacca che uno dei parà teneva sulla spalla.
«Si divide tutto, vero? È la regola.»
«Togli la mano,» disse Rino.
Una seconda mano si allungò.
«Dai, maggiore. Offri da bere ai fratelli.»
Rino respirò, serrò la
mascella.
Poi esplose.
In un unico movimento fluido,
come se fosse parte del suo corpo, Rino estrasse la pistola, e la puntò al volto
del primo uomo.
Silenzio.
Il rumore delle sicure abbassate seguì un istante dopo. Non solo dai BIS, ma
anche dai paracadutisti.
Trenta contro venti armi
puntate in una strada piena di civili.
Un secondo di distanza dall’Inferno.
«Provaci!» disse Rino.
La voce era calma. Troppo calma. La ragazzina scomparve dentro il locale
correndo.
L’uomo dell’Azzurro sputò a
terra.
«Vuoi fare il cowboy, Franceschini?»
«No,» disse Rino. «Voglio farti saltare il cervello sul marciapiede.»
La porta del locale si aprì
di scatto. Un uomo uscì con passo misurato, lento, quasi elegante.
Leandro Gallo, il comandante ‘Volpe’. Una benda nera sull’occhio destro, capelli
rossi, basette bianche. Sorriso sottile, come una lama.
Dietro di lui, per sfortuna di Franceschini, un generale dell’esercito,
visibilmente indignato. Volpe si fermò sotto il portico, e parve osservare la
scena come se fosse un fenomeno zoologico.
Poi parlò.
«Maggiore Franceschini,» disse con voce vellutata. «Che sorpresa.»
Il generale intervenne subito.
«Che diavolo succede qui?!»
Volpe guardò i suoi uomini, poi Rino. Poi fece un piccolo sospiro.
«Signor generale,» disse. «Temo che il maggiore e i suoi uomini… abbiano un po’
alzato il gomito.»
Rino ringhiò. «Tu bastardo—»
«Maggiore!» tuonò il generale. «Abbassi quella pistola immediatamente! Non
tollererò una simile indisciplina per strada!»
Rino rimase immobile, gli occhi puntati su Volpe. Che sorrideva. Non
apertamente, ma quanto basta.
«Maggiore,» disse il
generale, più freddo, «lei e i suoi uomini tornate immediatamente alla base.
Consideratevi tutti agli arresti di reparto fino a nuovo ordine.»
Rino non si mosse.
«È un ordine diretto,» disse il generale. «O devo farla trascinare via?»
La mascella gli tremò. Poi, con un gesto secco, Rino abbassò la pistola. Dietro
di lui, i suoi fecero lo stesso.
Volpe si avvicinò di mezzo passo. Ogni suo movimento era un insulto silenzioso.
«Buona serata, maggiore.»
Sorrise di nuovo. «E… attento alle tue compagnie.»
I paracadutisti si ritirarono, lenti, tesi come molle. Rino era l’ultimo della
fila.
Prima di svoltare l’angolo, si voltò. Leandro Gallo era ancora là, l’occhio vivo
che brillava come quello di un predatore. Le mani giunte dietro la schiena.
Fermo. Immobile.
Sovrano.
Rino lo guardò a lungo. E in
quello sguardo c’era tutto: umiliazione, rabbia, e una promessa.
Non servì una parola.
Volpe sollevò appena il mento, come a dire: ti sto aspettando.
.
LXXIII

ALGERI – 11 marzo 1992
Il locale era lo stesso di due notti prima. Luci tremolanti, odore di fritto, musica stonata da un vecchio televisore appeso al muro. E c’erano anche loro: gli uomini del Battaglione Azzurro. Ubriachi, rissosi ed euforici.
Avevano vinto contro
Franceschini, o almeno così credevano. Ridevano, sbracciandosi, mimando la
scena:
«Hai visto la faccia del parà?»
«Il generale gli ha fatto abbassare la cresta!»
«Il cucciolo di Anastasi… ah!»
Il più brillante, ovviamente,
era Volpe. Seduto composto, gambe accavallate, bicchiere d’arak in mano, schiena
dritta come un ufficiale modello e sorriso freddo. Aveva capito perfettamente
che Franceschini non avrebbe ingoiato l’umiliazione, per questo era vigile. O
perlomeno pensava di esserlo.
Gli uomini dell’Azzurro no, loro erano convinti di essere intoccabili.
Fu per questo che non sentirono i passi.
Non subito.
Il primo suono fu un clonk,
sordo, quasi soffocato.
«Che è stato?» chiese uno, mezzo ubriaco.
«Piccioni,» disse un altro. «O scimmie, che ne so.»
Un altro clonk. Poi un graffiare.
Passi veloci, e troppe ombre.
Volpe si irrigidì, e posò il bicchiere.
«Silenzio.»
Troppo tardi.
Due granate caddero dal lucernario, altre da una finestra rotta.
Altre ancora piovvero come grandine.
Per un istante il locale ammutolì.
Poi—SSSHHHH—FUMF!
Il gas lacrimogeno esplose ovunque, bianco, violento, chimico. Gli uomini
dell’Azzurro iniziarono a tossire, a urlare, a strofinarsi gli occhi. Crollavano
contro i tavoli, inciampavano sulle sedie.
Volpe si coprì la bocca con il bavero della giacca, tentando di alzarsi, la
benda sul suo occhio destro assorbiva il gas più velocemente di una spugna.
«Fuori!» gridò. «Fuori dal— coff— coff!»
Ma le porte erano già
bloccate dall’esterno.
La porta principale esplose verso l’interno con un calcio secco, e il locale si
riempì di ombre.
Dodici uomini. Uniformi senza gradi, senza nome, senza simboli, passamontagna e
maschere antigas.
Paracadutisti, ma nessuno poteva dimostrarlo.
Si muovevano decisi e professionali come una squadra addestrata. Uno ad uno, gli
uomini dell’Azzurro venivano disarmati, spinti a terra e immobilizzati. I più
lucidi tentavano di reagire, ma il gas li teneva piegati in due, a vomitare
sugli stivali.
Rino Franceschini entrò per ultimo.
Lo si riconosceva dal passo,
dall’energia, dal modo di girare la testa, ma il volto era coperto dalla
maschera e dal passamontagna. Si muoveva lento, preciso, come se stesse
scegliendo un trofeo.
Trovò Volpe in fondo alla sala, in ginocchio, con l’unico occhio funzionante che
lacrimava come un rubinetto rotto.
«Maggiore Franceschini…» fece Volpe con un filo di voce, tossendo. «Pensavo avessi più onore.»
Rino non rispose. Si chinò e gli afferrò il colletto.
«Gli uomini come te,» disse
con voce alterata dal filtro della maschera, «capiscono solo una lingua.»
Trascinarono Volpe fuori dal locale. Il Battaglione Azzurro giaceva al suolo,
mezza coscienza e occhi gonfi.
Fuori, il vicolo era buio e deserto, il gas usciva dalle finestre come vapore da
un motore rotto.
Volpe venne tenuto in piedi da due paracadutisti, mentre Rino sfilava un grosso
sacco di tela da un mulo parcheggiato dietro l’angolo.
Un altro paracadutista gli strappò pantaloni e mutande con un gesto secco.
Il freddo lo colpì come una frustata.
«Davvero questa è la tua idea di punizione?» chiese Volpe, tentando di mantenere la dignità. «Mi aspettavo… di meglio.»
I paracadutisti risero. Non come ubriaconi, ma come predatori che hanno tra le mani la preda.
«Non è una punizione,» disse Rino. «È un messaggio.»
Lo infilarono nel sacco fino
alla vita, lasciandogli fuori le gambe e i genitali, lo legarono stretto e poi
iniziarono a colpirlo. Non per ucciderlo né per rompergli le ossa.
Ma per farlo sentire piccolo, ridicolo, impotente.
Pugni al fianco, manrovesci
alle costole, ginocchiate leggere, ma precise.
Un colpo all’orecchio, uno alla spalla.
Volpe stringeva i denti; non gridava ma l’umiliazione era evidente.
«Quando uscirai da questo
sacco,» mormorò Rino, avvicinando la maschera al suo orecchio, «ricordati che
non sei invincibile.»
Volpe sputò sangue. «Quando mi toglierai questo sacco,» ansimò, «sarò io a
ricordarlo a te.»
Un attimo di silenzio. Rino
fece un passo indietro, poi si voltò e con un gesto di mano ordinò la ritirata.
I dodici paracadutisti scomparvero nelle strade strette di Bab el-Oued, come
fantasmi, in meno di trenta secondi non c’era più nessuno.
Il silenzio nel vicolo era rotto solo dal respiro affannoso di Volpe che si
contorceva nel sacco, seminudo, sanguinante e impotente.
Mentre un cane randagio passò lento, annusando la scena, Volpe chiuse gli occhi,
e diede sfogo alla propria rabbia immaginando come si sarebbe vendicato di
Franceschini.
.
LXXIV

13 marzo 1992 – Estratto
della trascrizione integrale della trasmissione “A Tavola con Noi” (emittente
regionale Roma Sud, in onda anche in Mauritania e Libia Prima)
(Registrazione acquisita successivamente dal CoSDi per monitoraggio media)
[Inquadratura: cucina luminosa, pareti giallo pastello, lo chef Flaminio Varro mescola con energia una crema in una ciotola di rame.]
CHEF VARRO: …e adesso,
amici da casa, aggiungiamo lentamente il brodo perché la salsa rimanga liscia,
senza grumi. Ricordate: fuoco basso, pazienza, e soprattutto amore per ciò che
fate! (sorride alla camera)
E adesso è il momento delle vostre telefonate. Vediamo chi c’è in linea…
CENTRALINISTA (fuori campo): Chef, abbiamo già una chiamata. Si presenta
come… Valerio.
CHEF VARRO: Benvenuto a “A Tavola con Noi”! Chi parla?
VOCE AL TELEFONO: Sì buongiorno chef, mi chiamo Valerio… volevo chiedere:
per la ricetta che sta facendo, conviene sfumare con il vino bianco o rosso?
CHEF VARRO: Ottima domanda! In questo caso il vino bianco è…
VOCE AL TELEFONO: Perfetto, grazie. E volevo solo un’ultima cosa: per
ottenere il sapore autentico… cosa ci va? Il sangue dei bambini algerini dei
villaggi bruciati dai Battaglioni Speciali… o lo sperma dei soldati del
Battaglione Azzurro? (LINEA: CLICK – chiamata terminata)
(In studio cala un silenzio glaciale. L’assistente di scena, fuori inquadratura, lascia cadere un cucchiaio.)
CHEF VARRO: (resta
immobile un secondo, poi riprende con un sorriso professionale di ferro)
Bene. Signori, come vedete, c’è sempre qualcuno che si diverte a disturbare. E
mi preme dire una cosa, con chiarezza.
(Appoggia lentamente la frusta, si gira verso la telecamera, tono serio, non più da intrattenimento.)
CHEF VARRO: Una
persona che, vergognandosi del proprio nome, si presenta con un falso nome
romano, come Valerio anziché Hasan o Yacine, per pronunciare calunnie così
sporche non è degna né di rispetto né di attenzione. Chi insulta Roma fingendosi
romano dimostra solo vigliaccheria.
E aggiungo questo: quella persona non avrebbe mai osato pronunciare simili
menzogne se l’Imperatore Paolo fosse ancora tra noi.
(Fa un piccolo cenno con il mento, quasi come un vecchio romano che ricorda un’autorità perduta.)
CHEF VARRO: Perché l’Imperatore… sapeva come trattare certa gente.
(Pausa generosa, la telecamera stringe sul suo volto serissimo.)
CHEF VARRO: E ora torniamo alla ricetta. Prendete il vino bianco, quello vero, non le sciocchezze dei codardi, e sfumate con decisione. (Riprende a mescolare la salsa, sorridendo di nuovo) La cucina è pazienza, amore e… ogni tanto, anche un po’ di educazione civica.
(Stacchetto musicale, la puntata prosegue come se nulla fosse accaduto.)
.
LXXV

ROMA, PALAZZO FLAMINIO – 15 marzo 1992, tardo pomeriggio
Palazzo Flaminio aveva l’aria
di un edificio che tratteneva il respiro.
Fuori, il cielo era di un grigio statico, come se l’aria stessa percepisse che
qualcosa di enorme stava accadendo oltre il Mediterraneo.
All’interno, nella grande sala del Consiglio dei Ministri, i membri del governo
arrivavano alla spicciolata. Uomini in completo scuro, valigette di cuoio,
sguardi tesi. Livia Stefani era tra i primi ad aver preso posto. Sedeva in
silenzio accanto alla parete, con un fascicolo sulle ginocchia, osservando gli
altri come se fosse trasparente. E in effetti, nell’agitazione generale, era
quasi dimenticata.
Il ministro della Difesa, Germano Anicio, entrò sbattendo la porta, con
un’energia che tradiva l’ansia contenuta a stento.
— L’offensiva è iniziata da almeno sei ore — annunciò senza bisogno di essere interrogato. — E il Presidente non si degna ancora di presentarsi.
Il generale Emilio Paolo Mazurkiewicz, seduto già da qualche minuto con l’uniforme perfettamente stirata, sollevò appena lo sguardo.
— Se l’avesse ascoltata, ministro, magari oggi non ci troveremmo in questa situazione. — Lo disse con una voce pacata, ma carica di veleno professionale.
Un paio di ministri si
voltarono, inquieti. Anicio sbottò:
— Non cominciamo, generale. Lei lo sa quanto me: abbiamo consegnato a Stefani
rapporti, mappe, previsioni… e lui li ha lasciati a marcire sulla scrivania,
aspettando che gli islamisti bussassero alla porta.
Mazurkiewicz si tolse gli
occhiali, li ripose con metodo sul tavolo.
— Io so che la Divisione Tifone avrebbe potuto essere già posizionata da tre
giorni se non fossimo stati costretti a elemosinare un’autorizzazione come
scolaretti indisciplinati.
Uno dei ministri più anziani
sospirò:
— E adesso? Adesso non sappiamo neanche quanto profondamente hanno sfondato. E
lui arriva quando decide lui…
Livia rimase immobile. Aveva
sentito lamentele sul padre molte volte, in corridoi, caffetterie, retrostanze
di palazzi pubblici, ma non così apertamente. Il capo di Stato Maggiore e il
ministro della Difesa, insieme, a lamentarsi come due ufficiali esausti in una
trincea. Una parte di lei voleva intervenire, frenarli, difendere suo padre.
Un’altra, più adulta e più inquieta, ascoltava.
Mazurkiewicz riprese, più cupo:
— L’unica decisione sensata
degli ultimi mesi è stata la riserva strategica ad Algeri. E anche quella
l’abbiamo ottenuta strappandogliela con i denti.
— E non ha neppure impiegato la Tifone — aggiunse Anicio con un sorriso ironico,
chinando la testa verso il generale.
— Per fortuna – rispose Mazurkiewicz. — Non vorrei che si pensasse che difendo
la mia vecchia unità per egoismo.
I due si scambiarono uno
sguardo, per un istante complici nella frustrazione. Un altro ministro, meno
prudente degli altri, bofonchiò:
— Il Presidente vuole combattere una guerra come se fosse un regolamento di
conti parlamentare. La sottovalutazione sistematica… questo ci costerà il sangue
dei nostri ragazzi.
Livia strinse il fascicolo.
Non avrebbe voluto sentirlo. Non quella frase.
Ma nessuno sembrava ricordarsi che lei fosse lì. Una ragazza di vent’anni con un
titolo altisonante, ma ancora percepita come “la figlia di Stefani”, un mobile
in un angolo.
La porta della sala si spalancò, e il brusio si azzerò come se qualcuno avesse
tolto il volume.
Entrarono Pisani per primo, poi Teodoro Lori, impeccabile ma con il volto teso
come la corda di un arco, e infine Stefani. Sembrava più pallido del solito, ma
non stanco: concentrato. Gli occhi azzurri tagliavano la stanza come lame di
ghiaccio.
Mazurkiewicz e Anicio si irrigidirono immediatamente, assumendo un atteggiamento
professionale che, pochi secondi prima, sarebbe sembrato impossibile.
— Signori, — esordì Stefani, senza guardare nessuno in particolare. — Abbiamo molto lavoro da fare. Ci sediamo.
Nessuno osò incrociare lo
sguardo dell’altro.
Livia nascose il tremito delle mani sotto il tavolo.
La guerra, fuori, stava esplodendo; dentro Palazzo Flaminio, un’altra guerra,
più silenziosa, più sottile, si combatteva già da tempo.
E Livia, suo malgrado, ne stava imparando il linguaggio.
.
LXXVI

ROMA, RESIDENZA STEFANI — 15 marzo 1992, tarda sera
La casa era silenziosa, un silenzio teso, irreale, come quello che precede
un temporale.
Livia salì al piano superiore quasi in punta di piedi. Sapeva che suo padre era
nel piccolo studio privato, quello con la lampada verde e la scrivania troppo
ordinata per appartenere davvero a un uomo che reggeva sulle spalle un impero.
La porta era socchiusa: un raggio di luce tagliava il corridoio buio.
Stefani era in piedi, davanti
alla finestra, una mano dietro la schiena e l’altra appoggiata al vetro.
Guardava il giardino della residenza, ma di fatto non guardava niente.
Livia tossì leggermente per annunciarsi.
— Papà?
Stefani si voltò. — Livia. Non dormi?
— No… volevo parlarti un attimo. — La voce le uscì controllata, ma con un filo
di esitazione che non riuscì a nascondere.
Stefani fece un cenno verso
la poltrona. Livia però rimase in piedi. Non era una conversazione comoda.
— Oggi, prima del Consiglio… ho sentito parlare Anicio e il generale
Mazurkiewicz. — Iniziò con cautela. — Dicevano che la situazione in Mauritania è
più grave di quanto previsto. Che l’offensiva… potrebbe travolgere tutto.
Stefani sbuffò, un gesto che
mescolava irritazione e stanchezza.
— Il ministro della Difesa è un isterico, — disse. — E Mazurkiewicz un soldato
nervoso che vede catastrofi ovunque. È il loro mestiere allarmarsi, non il mio.
Livia aggrottò le
sopracciglia.
Non voleva attaccarlo, non subito. Ma doveva capire.
— Però… sembravano molto preoccupati. Anzi, tutti lo sembravano oggi. Non so…
papà, c’è davvero un pericolo così grande?
Stefani la fissò con gli
occhi azzurri che improvvisamente persero ogni traccia di dolcezza paterna.
Erano gli occhi del Presidente della Repubblica.
— Se si agitano per l’ennesima “grande offensiva” che finirà come tutte le
altre, in fuoco di paglia, allora sì, sono preoccupati. Ma non della guerra:
della loro ombra.
Fece schioccare la lingua. — Idioti.
La parola cadde come una
pietra nella stanza, e Livia la sentì più forte di uno schiaffo.
— Idioti? — ripeté piano, quasi senza volerlo. — Mazurkiewicz… anche lui?
— Soprattutto lui.
Stefani si voltò di nuovo verso la finestra, come se la conversazione fosse
conclusa, ma Livia fece un passo avanti. Non era finita.
— Papà… — disse, con voce più bassa, più adulta. — Io capisco che non vuoi mostrare debolezza. Ma… se ci fosse anche solo una possibilità che le analisi dello Stato Maggiore siano corrette… non dovremmo prenderle sul serio?
Silenzio, Stefani non si
mosse.
Per un attimo parve una statua, scolpita nel marmo dell’autorità.
Poi parlò, senza voltarsi:
— Smettila di farti impressionare dal panico degli altri. Io so cosa sto facendo. Nessuno vede il quadro generale meglio di me. Nessuno.
Livia rimase in piedi,
immobile. Quella era la frase che temeva.
Non la sicurezza, quella era normale, ma la certezza assoluta: la convinzione di
essere l’unico adulto in una stanza piena di sciocchi.
— Va bene, — mormorò infine. — Capisco.
Ma non capiva affatto.
E quando uscì dallo studio e richiuse piano la porta, si rese conto che per la
prima volta da quando era bambina aveva avuto paura non per suo
padre, ma di suo padre.
E quella era una sensazione nuova, e terribile.
.
LXXVII

L’OFFENSIVA IGNORATA:
DOSSIER FERMI SULLA SCRIVANIA DEL PRESIDENTE – IL RONZIO (16 marzo 1992)
Il governo continua a fingere che tutto vada bene.
VIGLIACCHI! NUOVO ATTACCO
DEGLI ISLAMISTI – LA VOCE DEL POPOLO (17 marzo 1992)
I nostri ragazzi tengono duro nel deserto.
ROMAN EMPIRE FACES LARGEST
INSURGENT PUSH SINCE 1985 – THE NEW YORK TIMES (March 18th, 1992)
Washington is monitoring with "deep concern."
AVANZANO LE OPERAZIONI DI
BONIFICA: VITTORIA SEMPRE PIÙ VICINA – IL MESSAGGERO D’ITALIA (28 marzo 1992)
Fonti del Ministero della Difesa: «Fuorviante parlare di ritirata».
MAURITANIA: LA BATTAGLIA
CHE NON SI VUOLE VEDERE – IL RONZIO (31 marzo 1992)
Fonti militari: «Abbiamo perso il controllo delle campagne».
AD ALGERI BANDE FANATICHE
ATTACCANO QUARTIERI ROMANI – LA VOCE DEL POPOLO (6 aprile 1992)
La popolazione araba ostaggio dell’estremismo.
ALGER : LA RÉVOLTE
ÉTOUFFÉE DANS LE SANG – LE MONDE (11 avril 1992)
La répression risque davantage d'alimenter le djihad que de l'affaiblir.
ASSEDIO AD ALGERI: IL
REGIME PARLA DI VITTORIE, MA MANDA NAVI A EVACUARE I COLONI – IL RONZIO (23
aprile 1992)
Le prime colonne di civili romani abbandonano l’interno.
ALGIERS UNDER SIEGE:
CIVILIANS ATTEMPT MASS ESCAPE – THE GUARDIAN (April 25th, 1992)
The Roman Navy shuttles back and forth to rescue the colonists.
BESCERA È CADUTA. FINE DEL
MITO DELL’INVINCIBILITÀ – IL RONZIO (29 aprile 1992)
Editoriale: «Una disfatta annunciata da mesi».
BESCERA: EROISMO FINO
ALL’ULTIMO. ORA BASTA: VOGLIAMO RISPOSTE – LA VOCE DEL POPOLO (30 aprile
1992)
Serve un cambio di passo nella conduzione della guerra
FALL OF BISKRA SIGNALS
STRATEGIC COLLAPSE OF ROMAN POSITION IN NORTH AFRICA – THE NEW YORK TIMES
(April 30th, 1992)
Pentagon: "Stefani underestimated everything."
CRISIS OF LEADERSHIP IN
ROME AS PROPAGANDA FRACTURES – THE GUARDIAN (May 2nd, 1992)
For the first time, the pro-government press attacks Stefani.
ALGERI: ORE CONTATE. IL
GOVERNO SCARICA LA COLPA SULL’ESERCITO – IL RONZIO (2 maggio 1992)
Tulliani: «Il Presidente che non ascolta nessuno ora accusa tutti».
MARINA ALLO STREMO:
TRAGHETTI MILITARI AVANTI E INDIETRO SENZA SOSTA – IL MESSAGGERO D’ITALIA (2
maggio 1992)
Ufficiali: «Non possiamo salvare tutti».
DIE ALGIERS-KATASTROPHE
- FRANKFURTER ALLGEMEINE ZEITUNG (2. Mai 1992)
Die schlimmste Niederlage des Römischen Reiches seit Cannae
.
Appendice
Linea del Tempo dell’Impero Romano d’Occidente
▪ 472 –
Vittoria di Antemio su Ricimero → fondazione della dinastia antemiana.
▪ VI secolo – Deposizione degli Antemii → nuova
dinastia non riconosciuta da Costantinopoli.
▪ 553 – Scisma tricapitolino: rottura tra Roma e
Bisanzio; papi in esilio a Costantinopoli; nascita della Chiesa Aquileiana.
▪ VII–X secolo – Pressioni arabe in Africa (perdita
temporanea di Tripolitania); invasioni di Longobardi, Ungari e Slavi lungo il
Danubio.
▪ XI secolo – Breve conquista araba di Cartagine;
l'Impero la riconquista ma perde l'Algeria e lo stretto di Gibilterra.
▪ XI–XIII secolo – Nuova età dell’oro:
o Frontiera riportata al Danubio.
o Influenza romana su Francia e
Spagna visigota.
o Conquista temporanea di
Gerusalemme.
▪ 1527 – Sacco di Roma da parte dei francesi → apice
dell’“Anarchia dei Trent’anni”.
▪ XVI secolo – L’Impero perde l’occasione di
colonizzare le Americhe.
▪ XVII secolo – Dinastia veneta: riforme e rilancio.
▪ Fine XVIII secolo – Estinzione dei Veneti; sconfitte
contro la Francia rivoluzionaria; occupazione della Pianura Padana.
▪ 1800 – Ascesa al trono di Leone IV Buonaparte,
generale corso → inizio della dinastia corsa; riconquista della Provenza e di
Marsiglia.
▪ XIX secolo – Rinascita militare ed economica
dell’Impero, ma con forti contraddizioni sociali.
.
Successione ininterrotta degli imperatori romani
Dinastia giulio-claudia (27 a.C. - 68 d.C.)
1) Augusto (27 a.C. – 14 d.C.)
2) Tiberio I (14-37)
3) Caligola (37-41)
4) Claudio I (41-54)
5) Nerone (54-68)
Non dinastici (anno dei quattro
imperatori)
6) Galba (68-69)
7) Otone (69)
8) Vitellio (69)
Dinastia Flavia (69-96)
9) Vespasiano I (69-79)
10) Vespasiano II (79-81)
11) Domiziano (81-96)
Dinastia ispanica (96-192)
12) Nerva (96-98)
13) Traiano (98-117)
14) Adriano I (117-138)
15) Antonino I Pio (138-161)
16-17) Antonino II (161-180), insieme a
Lucio Vero (161-169)
18) Antonino III (180-192)
Non dinastici (anno dei tre imperatori)
19-20) Pertinace (193), insieme a
Clodio Albino (193-197)
21)
Giuliano I (193)
Dinastia Severa (193-211)
22) Settimio I (193-211)
23-24) Antonino IV (211-217), insieme a
Settimio II (211)
Non dinastici
25-26) Macrino (217-218), insieme a
Diadumeniano (218)
Dinastia Severa – II periodo (218-235)
27) Antonino V (218-222)
28) Alessandro I (222-235)
Non dinastici (anarchia militare)
29) Massimino I il Trace (235-238)
30-31) Pupieno (238), insieme a
Balbino (238)
Dinastia Gordiana (238-244)
32-33) Gordiano I (238), insieme a
Gordiano II (238)
34)
Gordiano III (238-244)
Non dinastici (anarchia dei nove anni)
35-36) Filippo I l’Arabo (244-249), insieme a
Filippo II (247-249)
37-38) Decio I (249-251), insieme a
Decio II (251)
39-41) Gallo (251-253), insieme a
Ostiliano (251) e Volusiano (251-253)
42) Emiliano (253)
Dinastia Valeriana (253-268)
43-44) Valeriano I (253-260), insieme a
Valeriano II (258)
45-46) Gallieno (253-268), insieme a
Salonino (260)
Non dinastici (imperatori illirici e
anarchia militare)
47) Claudio II il Gotico (268-270)
48) Claudio III (270)
49) Aureliano (270-275)
50) Claudio IV (275-276)
51) Floriano (276)
52) Probo (276-282)
Dinastia Numeriana
53) Caro (282-283)
54-55) Carino (283-285), insieme a
Numeriano (283-284)
Tetrarchia (284-306)
56-57) Diocleziano (284-305), insieme a
Massimiano I (286-305)
58-59) Costanzo I Pio (305-306), insieme a
Massimiano II (305-311)
Non dinastici
60) Severo I (306-307)
61) Massimino II (311-313)
62) Licinio (308-324)
Dinastia Costantiniana (306-363)
63) Costantino I (306-337)
64-66) Costanzo II (337-361), insieme a
Costantino II (337-340) e Costante I (337-350)
67) Giuliano II (361-363)
Non dinastico
68) Gioviano (363-364)
Dinastia Valentiniana (364-392)
69-70) Valentiniano I (364-375), insieme a
Valente (364-378)
71-72) Graziano (375-383), insieme a
Valentiniano II (375-392)
73) Massimiano III (383-388)
Dinastia Teodosiana (379-423)
74) Teodosio I (379-395)
75-77) Onorio (395-423), insieme a
Costanzo III (421) e Costantino III (407-411)
Non dinastico (interregno)
78) Giovanni I (423-425)
Dinastia Teodosiana – II periodo
(423-455)
79) Valentiniano III (425-455)
Non dinastici
80) Petronio Massimo (455)
81) Avito (455-456)
82) Maggioriano (457-461)
83) Libio Severo (461-465)
Dinastia Costantiniana – II periodo
(465-524)
84) Antemio (465-482)
85) Marciano (482-506)
86) Procopio (506-511)
87) Marciano II (511-519)
88) Giovanni II (519-524)
Non dinastico
89) Leone I (524-527)
Dinastia Costantiniana – III periodo
(527-549)
90) Giovanni II (524-531)
91) Costantino IV (531-549)
Non dinastico
92) Teodosio II (549-550)
Dinastia Leoniana (550-607)
93) Leone II (550-563)
94) Costantino V (563-587)
95) Costanzo IV (587-588)
96) Giovanni III (588-607)
97) Giovanni IV (607)
Non dinastici
98) Filippo III (607-608)
99) Marcello Severo (608)
Dinastia pannonica (608-693)
100) Pietro I (608-632)
101) Stefano I (632-647)
102) Giovanni V (647-674)
103) Pietro II (674-691, 1° regno)
Non dinastici (Anarchia dei vent’anni)
104) Leone III (691-696)
105) Adriano II (693-697)
103) Pietro II (697-704, 2° regno)
106) Stefano II (704-707)
107)
Marciano III (707-711)
Dinastia friulana (711-788)
108) Giovanni VI (711-744)
109)
Stefano III (744-749)
110)
Nicola I (749-756)
111)
Pietro III (756-774)
112)
Nicola II (774-788)
Dinastia aostana (788-887)
113) Paolo I (788-821)
114) Adriano III (821-844)
115) Paolo II (844-875)
116) Costantino VI (875-877)
117) Costanzo V (877-880)
118)
Costantino VII (880-887)
Non dinastici (crisi del X secolo)
119) Sergio I (887-924)
120) Niceta (924-926)
121) Marcellino (926-947)
122) Paolo III (947-950)
123) Sergio II (950-961)
Dinastia provenzale (961-1066)
124) Marcellino II (961-983)
125) Costanzo VI (983-987)
126) Anastasio I (987-1024)
127) Marcello II (1024-1066)
Non dinastico
128) Callisto (1066-1071)
Dinastia sicula (1071-1266)
129) Ciriaco (1071-1101)
130) Simone (1101-1105)
131) Alessandro II (1105-1154)
132) Costanzo VII (1154-1166)
133) Costanzo VIII (1166-1189)
134) Teodoro I (1189-1194)
135) Costantino VIII (1194)
136) Costanza Porfirogenita (1194-1250)
137) Anastasio II (1250-1266)
Non dinastici (primo interregno)
138) Eugenio (1266-1275)
139) Damaso (1275-1282)
140) Teodoro II (1282-1290)
Dinastia slavonica (1290-1390)
141) Pietro IV (1290-1334)
142)
Costantino IX (1334-1342)
143) Alessandro III (1342-1365)
144)
Costantino X (1365-1382)
145) Alessandro IV (1382-1390)
Non dinastici (secondo interregno)
146) Costanzo IX (1390-1391)
147) Teodoro III (1390-1397)
148) Nicola III (1397-1403)
149) Francesco I (1403-1405)
150) Giovanni VII Maria il Malvagio (1405-1429)
151) Marciano IV (1429-1434)
Dinastia mugellana (1434-1494)
152) Cosimo I (1434-1464)
153) Pietro V il Gottoso (1464-1469)
154) Lorenzo I il Magnifico (1469-1492)
155) Pietro VI (1492-1494)
Non dinastici (anarchia dei trent’anni)
156) Aloisio I il Moro (1494-1500, 1° regno)
vacante (1500-1502)
157) Paolo IV (1502-1507)
156) Aloisio I il Moro (1507-1508, 2° regno)
158) Lorenzo II (1508-1511)
159) Massimiano IV (1511-1518)
160) Francesco II (1518-1522)
161) Antonino VI (1522-1525)
Dinastia trevigiana (1525-1576)
162) Marco Antonio I (1525-1566)
163) Marco Antonio II (1566-1569)
164) Marco Antonio III (1569-1576)
Dinastia Aurelia (1576-1669)
165) Marco Aurelio I Contarini (1576-1599)
166) Marco Aurelio II Contarini (1599-1604)
167) Domenico I Contarini (1604-1607)
168) Nicola IV Contarini (1607-1631)
169) Marco Aurelio III Contarini (1631-1656)
170) Domenico II Contarini (1656-1669)
Non dinastici (periodo elettorale)
171) Nicola V Sagredo (1669-1676)
172) Aloisio II Sallustio (1676-1684)
173) Marco Antonio IV Salvio (1684-1688)
174) Francesco III Morosini (1688-1694)
175) Cornelio I Scipioni (1694-1700)
176) Aloisio III Messalla (1700-1709)
177) Giovanni VIII Borromeo (1709-1716)
Dinastia veneta (1716-1791)
178) Paolo V Morosini (1716-1740)
179) Paolo VI Morosini (1740-1786)
180) Pietro VII Morosini (1786-1791)
Non dinastici (anarchia dei nove anni)
181) Cornelio II Scipioni (1791-1792)
182) Claudio V Silla (1792-1795)
183) Anastasio III Sallustio (1795)
184) Marciano V Berlinghieri (1795-1797)
185) Teodoro IV (1797-1800)
Dinastia corsa (1800-1905)
186) Leone IV Buonaparte (1800-1821)
187) Leone V Buonaparte (1821-1832)
188) Giuseppe I Buonaparte (1832-1844)
189) Aloisio IV Buonaparte (1844-1846)
190) Leone VI Bonaparte (1846-1861)
191) Giovanni Pio I Buonaparte (1861-1884)
192) Paolo VII Buonaparte (1884-1905)
Non dinastico
193) Nicola VI Scipioni (1905-1917)
Dinastia istriana (1917-1985)
194) Marciano VI Giraldini (1917-1924, 1°
regno)
195)
Giovanni Battista I Giraldini (1924-1935)
196) Marciano VI Giraldini (1935-1959, 2° regno)
197)
Paolo VIII Giraldini (1959-1985)
Comitato Imperiale per lo Stato d’Emergenza (1985-1989)
Seconda Repubblica Romana (1989-oggi)
.
Questo è il parere in proposito di Paolo:
Io sono un per-nulla-fan dei mondi pseudo-distopici con gusto per la discesa progressiva agli inferi. Lo so, è il tuo pane, ma che ci devi fare, sò gusti. Per la cronaca, per questo di solito evito di commentare ciò che produci, ho paura che il mio bias influenzi quello che direi. Nonostante ciò, devo dire che ho comunque apprezzato davvero tanto. Il ritmo secco e serrato dei telex dà una nota avvincente che anima la volontà del lettore di proseguire e capire che succederà. Diciamo che l'intreccio tra il contesto globale e le vicende umane dei singoli protagonisti è di grande qualità, anche se, in sincerità, in alcune occasioni avrei desiderato una maggior chiarezza di ciò che fa da sfondo (e per questo ti sono immensamente grato per le appendici).
Molto sapiente anche lasciare diversi nodi aperti per il seguito, nonostante avrei pagato per conoscere un po' di più il background e i pendieri di soggetto 1 e in parte anche del buon(?) dottore. All in all, ti ringrazio per avermi davvero accattivato con qualcosa a cui di solito mi approccio con molta diffidenza.
Una nota a margine: sarò io che sono fissato su certe cose, ma quanto è autarchico culturalmente l'impero? No, perché, la parola 'background' in un documento ufficiale segreto mi suonava un tantino strana...(in parte così come il nome del progetto, 'Titan'. Ma quella è solo colpa mia... Continuava a venirmi in mente Stockton Rush e il suo sommergibile.
.
E Dario gli risponde:
Ti ringrazio per i
complimenti, rispondendo alla domanda ti dico che in parte è vero che ogni tanto
mi sono scappati degli inglesismi di troppo (come nell'esempio da te citato)
però l'imperatore Paolo VIII ha comunque studiato negli USA, conosce la lingua,
e negli anni del suo regno sono giunti in Romania molti film americani, per cui
il fatto che il nome del progetto sia in inglese non mi sembra implausibile.
Ci tengo a sottolineare che Francesco Saverio Salvio-Stefani non è un
personaggio inerentemente malvagio o, perlomeno, non l'ho concepito come tale;
si tratta di un essere umano, con dei pregi e dei difetti, e alcune idee molto
sbagliate.
Un uomo che rappresenta la media dell'Imperatore romano medio trasposta nel XX
secolo: qualcuno che ha saputo essere al posto giusto nel momento giusto, ha
saputo tenersi alla giusta distanza dal potere assoluto, ritagliandosi un
proprio spazio d'influenza, e quando ne ha avuto l'occasione ha saputo prendersi
la cima della piramide, e diventare il predatore apicale nell'Impero.
Solo che, una volta diventato capo assoluto, le qualità che gli hanno permesso
di prendere il potere, diventano ciò che lo condannerà a cadere malamente.
Inserire persone fedeli nei gangli dello Stato gli ha permesso di espandere la
propria influenza quando era ministro, ma farlo da presidente significa riempire
la catena di comando di yesman molto spesso incapaci.
Vedere nei report allarmanti dei servizi di sicurezza un modo per espandere
l'influenza nel governo gli ha permesso, da ministro, di difendere la propria
sfera d'influenza; ma da presidente significa chiudere gli occhi di fronte alla
realtà.
Accentrare su di sé ogni decisione possibile gli ha permesso, da ministro, di
accumulare informazioni e potere; farlo da presidente significa ritardare ogni
decisione, anche quelle più importanti, perché le carte sono sulla scrivania del
Quirinale ad attendere una firma.
Stefani non è stupido, però sta continuando ad utilizzare da comandante in capo
gli stessi schemi mentali che utilizzava quando stava scalando la piramide.
E questo, a cascata, lo porta a sbagliare, e a commettere errori; accentrare
dossier, tenere fascicoli sulla propria scrivania, più di quanti sia possibile
gestirne in maniera approfondita, significa che Stefani non ha il tempo per
esaminare nel dettaglio nessuno, o quasi nessuno, di questi fascicoli.
E quindi, non potendo prendere delle decisioni approfondite, le uniche decisioni
che Stefani può prendere sono delle decisioni superficiali, prese dopo aver
esaminato sommariamente un dossier. Delle toppe.
Ma quando si mettono troppe toppe, prima o poi si toppa.
.
Invece Bhrghowidhon commenta:
"Il Cesare Paolo" è un’ucronia notevolmente distopica e mi fa impressione che questo sia il prodotto di un Ucronista che non ha mai fatto mistero del proprio interesse per la Romanità. Invece, presa per quanto dichiara, l’ucronia del Cesare Paolo è una (forse involontaria) dimostrazione che uno dei miti più popolari, la nostalgia di Roma come occasione perduta per la Nazione Italiana, quando viene svolto in dettaglio produce effetti molto distanti dalle quasi messianiche attese che ha spesso suscitato.
Nel presupposto che l’Opera d’Arte – e in generale ogni messaggio – non sia di proprietà esclusiva di chi la genera (come del resto i Figli non sono di proprietà esclusiva di alcuno, neppure dei Genitori, né l’Oggetto d’Amore lo è di chi ne è innamorato; molto controverso è il dibattito se l’Embrione sia di proprietà della Gestante), bensì condivisa fra tutti coloro che ne fruiscono, mi permetto di proporre un paio di considerazioni fra le moltissime che in questi due anni (ma già da prima) hanno accompagnato la lettura di questo romanzo (lo posso chiamare così?). Nessuna rappresenta una sorpresa, ma forse le ripetizioni sono ammissibili quando le precedenti formulazioni sembrano non essere mai pervenute a destinazione.
I Fatti Storici sono naturali e gli attuali Stati hanno una mobilità superiore alle Placche Tettoniche (esse pure tut’altro che fisse); in particolare, l’Italia e la Germania hanno fatto parte dello stesso ‘Stato’ per più di un millennio, tutto compreso negli antefatti di questa ucronia. È dunque escluso che la persistenza dell’Impero Romano fino ai nostri giorni, ‘ridotto’ nei confini descritti in Echi da un impero oscuro, abbia lasciato immutato rispetto alla Storia reale tutto il resto del Mondo. In Echi da impero oscuro e nel corso della narrazione compaiono l’Ungheria (nonostante la permanenza dei Longobardi in Pannonia), la Spagna, la Francia (che nel 1527 interviene nell’Impero a sostegno di uno dei Pretendenti), il Regno Unito, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica (almeno al tempo di Lenin); ma l’assenza delle Lotte fra Papato e Impero (intesi come Pontefici Romani e Imperatori Tedeschi), della Quarta Crociata, dei Periodi Avignonesi e delle Guerre d’Italia nonché di quelle Napoleoniche come le conosciamo (dato che Leone IV. Bonaparte è Imperatore Romano) – oltre a rappresentare, come ovvio ed evidente, una grande Divergenza per l’Italia stessa – comporta alcune decisive conseguenze per la Storia della Germania, della Svizzera, della Polonia, della Lituania, della Spagna, della Danimarca, della Svezia, dei Paesi Bassi e del Portogallo e di conseguenza delle Americhe e, infine, dell’Europa Sud-Orientale e del Vicino Oriente.
Come molti dei Destinatarî ben sanno, ogni passaggio potrebbe essere motivato in dettaglio, ma la faccio breve: la conclusione è che questa ucronia implica per forza che la Spagna, l’Ungheria e tutto ciò che in Europa e nelle Americhe non appartiene agli altri Stati espressamente citati nella narrazione costituiscono un unico Blocco geopolitico (forse non Kaisertum ma con ogni verosimiglianza comunque Reich), sotto Francesco Giuseppe II. all’epoca dei fatti più recentemente narrati. In altri termini: l’insieme di tutti i particolari descritti dall’Autore (cui tutti riconosciamo un particolare primato narrativo) equivale ad ammettere quanto ho scritto. L’alternativa sarebbe non solo una fallacia epistemologica per tutti noi (ossia che le ucronie possano essere internamente incoerenti e che quindi le osservazioni critiche – in senso neutro – degli ucronisti non valgano niente), ma anche un paradosso narrativo (l’iperrealismo dei pezzi di virtuosismo giornalistico costretto a coesistere con l’irrazionalità di quella stessa dimensione ucronica in cui si collocano) oltre che una discreta disparità di trattamento fra Lettori (in ciò sinistramente – o destramente – simile allo stato del Diritto nell’odierno Impero Romano descritto).
Per quanto riguarda i fatti specifici, dandosi il caso che il 3. giugno 1989 sia una data impressa nella memoria di chiunque fosse vivo e raziocinante all’epoca (quella sera, caratterizzata – dove mi trovavo – da tempo sereno ma temperatura mite, ho visto al Cinema la pellicola Salaam Bombay, poi per il resto della serata ho seguìto fino a notte fonda le notizie da Pechino), posso contribuire a descrivere come ci possiamo immaginare le reazioni di Francesco Giuseppe II. (di cui conosciamo quelle reali alla Repressione di Piazza Tiān’ānmén) nel caso di un secondo episodio di violenza di Stato, pure molto più vicino (gli Stati Asburgici – che si potrebbero chiamare Unione Ibero-[Slavo-]Germanica o Ibero-Germano-Slava – hanno il confine più lungo, dal punto di vista di entrambe le parti, con l’Impero Romano; ancora di più se vi si aggiunge lo strettissimo alleato Impero Ottomano, che probabilmente molti nell’Impero Romano sospettano di fomentare la Resistenza Musulmana). Per il momento, il minimo che si può supporre è che venga ordinato lo stato di allerta di tutte le Forze Armate al confine con l’Impero Romano e di internare tutti i Militari romani che dovessero attraversare la frontiera (con particolare attenzione ai tratti in cui risulta più facilmente valicabile, come fra i Laghi dell’Insubria); altrettanto, con ancora più attenzione, vale nel caso che a sconfinare fossero Personalità apicali (del Regime vigente o coinvolte nel Colpo di Stato): per tutte sarebbe previsto il confinamento in una località segreta e protetta, con libero accesso alle informazioni sull’evoluzione degli eventi, ma senza pregiudizio circa la possibilità (da valutare al momento preciso) di comunicare con l’esterno.
Livia è la vera Protagonista del romanzo (Francesco Stefani è una figura di raccordo, le azioni – dalla repressione alla stesura dei discorsi – vengono fatte da altri). A diciotto anni ha la mente piena di ucronie (molte, per forza di cose, private) e immagino, anche per le condizioni oggettive, che ritenga piuttosto immaturi molti dei suoi coetanei, per cui tenderà a preferire la conversazione con persone che hanno più anni di lei e più cultura che la media. La figura paterna rischia di essere una delle principali sfide della sua vita...
E ora, mi permetto di tentare un confronto fra le biografie di Longino Ramelli nll'universo del Cesare Paolo e in quello dell’ucronia "6 agosto 1945" del nostro Comandante. È chiaro che i tre capoversi finali si potrebbero collocare in uno qualunque degli almeno quarantamila altri giorni fra l’inizio della Prima Guerra Mondiale nella Storia reale e quest’anno; è comunque almeno possibile – e in una delle regione di massima verosimiglianza – che avvenissero intorno agli Anni Quaranta. Longino Ramelli nascerebbe dunque «nel 1948 da una famiglia della piccola borghesia laziale» (anche se il cognome rispecchia la provenienza genericamente lombarda o piacentina della linea paterna) ed entrerebbe «giovanissimo nell’aeronautica» (le Forze Armate del Reich – di cui il Ducato Romano fa parte – e del Kaisertum hanno i Comandi in comune). Dato che le vicende in Mauritania del Cesare Paolo si svolgono in Algeria e che più o meno inesorabilmente – con buona... ‘pace’ del Principe di Metternich – Francesco III. d’Asburgo-Lorena (erede dei Guisa-Lorena-Elbeuf-Lambesc dal 21. novembre 1825; II. del suo nome come Sacro Romano Imperatore, I. d’Austria) avrebbe prima o poi affidato al Gen. Savary – in tal caso non Duca di Rovigo, ma d’altronde rimasto Cadetto dei Signori di (un Ottavo del Feudo di) Marcq – l’Alto Comando delle Truppe Francesi nella Reggenza di Algeri (con tutto ciò che ne è seguìto), è pressoché d’obbligo inferire che la Legione Straniera nel 1967 includesse almeno alcuni elementi dell’Aviazione Imperial-Regia. Dopo la Facoltà di Scienze Politiche, dal 1975 sarebbe in servizio al(l’)Evidenzbureau (sīc), col soprannome di “Il Fantasma d’Algeria” (o “Il Legionario”?). Il 1975 è l’anno cruciale per un’ucronia su Sergio Ramelli, nato a Milano (Capitale del Regno di Lombardia) l’8. luglio del 1956; in assenza sia dell’Unione Sovietica sia della Repubblica Popolare Cinese, è poco credibile che si dessero – direttamente o meno – le condizioni per l’esistenza delle Brigate Rosse (non approfondite in questa sede, dove interessa soltanto che il fenomeno avesse al massimo una portata molto inferiore a quella storicamente nota) né di conseguenza quelle che hanno contribuito in modo decisivo all’iscrizione di Sergio Ramelli al Fronte della Gioventù (o ancora Giovane Italia?), qualunque ne fosse la posizione politica in questa ucronia (Indipendentisti / Nostalgici Quarantottardi oppure, al contrario, militanti “Clericali”). Nel 1989, il quarantunenne Longino Ramelli potrebbe comunque ricoprire un ruolo apicale nel(l’)Evidenzbureau, dove forse esisterebbe una scheda anche sul trentadue-/trentatreenne Sergio Ramelli (nel frattempo laureatosi e impiegato in un’industria chimica). Nel 2025, entrambi sarebbero ormai pensionati (non è escluso che anche Sergio Ramelli fosse divenuto nel frattempo un Dirigente, eventualmente di una Partecipata Statale, dal momento che tutte le aziende fallite sarebbero state prima o poi acquisite dalla Proprietà Pubblica). Che una “distopia hŏrrŏr” riservi ai proprî Protagonisti un destino negativo è quasi inevitabile, ma in questo caso non è (ancora) detto; che l’ucronia lo riservi migliore che la Storia reale è ciò che ci si deve attendere se se ne accetta la definizione di ‘Utopia nella Storia’ e qui puntualmente così avviene.
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Dario replica anche a lui:
Il tuo commento purtroppo va
a colpire un nervo scoperto, uno dei pochi punti in cui io stesso, da ucronista
e appassionato di storia alternativa, sono più che consapevole dei limiti del
mio lavoro.
Purtroppo ciò deriva dalla natura di questi racconti alla sua origine nella già
lontana estate del 2023, quando scrissi il racconto dedicato al cesare Paolo in
cui un D'Annunzio di un universo alternativo racconta il proprio rapporto col
futuro imperatore; in quel racconto, che avevo pensato come un lavoro a sé
stante senza ulteriori seguiti, superficialmente pensai di incastrare l'Impero
Romano nella geografia mondiale del XIX secolo del nostro universo, senza
sforzarmi di pensare ad un universo alternativo in cui la sopravvivenza
dell'Impero Romano ha alterato la geografia mondiale nel mondo in cui avrebbe
dovuto.
Non ne vedevo la necessità, e onestamente mi sembrava molto più interessante far
interagire l'Impero Romano con gli Stati-Nazione europei del XIX secolo
(Francia, Germania, Russia) e un grande stato emergente e multinazionale (gli
Stati Uniti) che costruire da zero la linea temporale alternativa di questo
universo per arrivare ad un XIX secolo in cui la sopravvivenza dell'Impero
Romano ha effettivamente avuto un impatto sulla geografia mondiale.
Volevo immaginare l'Impero Romano nel NOSTRO universo, anziché immaginare
l'evoluzione di un universo in cui l'Impero Romano è sopravvissuto.
C'erano alcuni cambiamenti,
come per esempio la sopravvivenza dell'Impero Romano d'Oriente assieme
all'Occidente, oppure l'anticipazione dello scisma tra cristianesimo occidentale
e orientale allo scisma tricapitolino, con Costantinopoli che "assorbe" il
papato di Roma (migrato in Oriente dopo lo scisma) e Aquileia che prende il
posto di Roma come guida del cristianesimo occidentale.
Mi resi conto molto presto però che questi cambiamenti erano molto difficili da
gestire senza ulteriori sviluppi, ma ormai era troppo tardi, e le conseguenze di
una loro rimozione sarebbero state probabilmente peggiori.
Così dovetti inventarmi una momentanea caduta di Cartagine per giustificare un
Maghreb islamico e la separazione tra Spagna e Portogallo.
Un periodo di Anarchia interna all'inizio del XVI secolo per impedire all'Impero
di colonizzare le Americhe.
Una struttura policentrica del cristianesimo occidentale, col patriarca di
Aquileia primo tra pari senza potere effettivo, sia per rendere plausibile che
sia stata Aquileia a evangelizzare i sassoni e gli slavi occidentali, sia per
avere qualcosa di simile allo scisma protestante che causasse la guerra dei
trent'anni.
Un Impero Romano d'Oriente che prende il posto dell'Impero Ottomano assimilando
i turchi dell'Anatolia, venendo infine ridotto alla somma tra i confini moderni
di Grecia, Turchia e Cipro.
Una Germania che si unisce, viene sconfitta nella Prima Guerra Mondiale, diventa
nazista e scatena la seconda, senza aver ben presente il come.
Al tempo stesso però, fin
dall'inizio la narrazione ha sempre avuto la priorità rispetto al
"realismo" ucronico.
Soprattutto da quando è partito "L'Imperatore Medico", la narrazione si
concentra sull'Impero, menzionando il resto del mondo solo quando necessario,
così da permettere ai lettori più bravi con le ucronie di riempire i vuoti,
cercando però di mantenere una cornice che un lettore non familiare con la
Storia alternativa sappia riconoscere senza problemi; ma non nego i limiti di
una simile decisione, come non ho mai nascosto come in questo lavoro trovassi
molto più interessanti gli aspetti horror rispetto a quelli ucronici.
Questa non rappresenta né una risposta esaustiva né sufficiente, ma spero possa almeno far chiarezza sui ragionamenti dietro la costruzione di questo universo.
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Paolo commenta:
La risposta ha chiarito che non c’è spazio di collaborazione, ma è anche vero che era chiaro sin dall'inizio che la verosimiglianza dello scenario non è mai stato un interesse primario... ma nemmeno secondario o terziario, rispetto alla narrazione o all'ideologia che ad essa sottende. Non è (più) né Utopia né Ucronia, (ma coglie il vero interesse di molti “Utopisti-Ucronisti”): il fascino (morboso? O solo vagamente estetico/decadentista?) per la distopia... C'è da chiedersi quale 'eccesso di storia' nietzscheano rapprestenta ciascuno di noi.
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E subito Bhrghowidhon replica:
È la chiave per
l’interpretazione della Politica: a molti – Italiani compresi – piace l’ambiente
in cui vivono e vogliono la Politica così com’è (corrotta e violenta). L’Utopia
fa paura e riesce ad attirare solo i disadattati.
Nel mio caso, l’Eurasia come (eccesso [?] di) Storia Monumentale, l’Indoeuropa
(con particolare ma nient’affatto esclusivo riguardo ai Celti) come (eccesso di)
Storia Antiquaria e le Ucronie mitteleuropee come eccesso di Storia Critica.
Credo poi che, eventualmente al di là delle consapevoli “intenzioni” (che sono a
loro volta una narrazione, a sé stessi [si scrive così]), questa (apparente)
“ucronia” descriva l’Italia non fascista, ma – come hai acutamente fatto
presente – del tutto contemporanea, anche riferita (a parte appunto l’idolo
polemico musulmano) agli Anni Ottanta. È un romanzo spaventoso che piace perché
è uno specchio e rivela gli intimi desiderî politici (e, a questo punto, pure
geopolitici) degli Italiani; gli articoli non descrivono un’ucronia (distopica),
ma la Realtà (‘eteotopica’).
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Il commnto di Lord Wilmore invece è il seguente:
Niente da dire, è un affresco ben scritto di uno stato fortemente totalitario che si rifà il trucco e si accredita presso la comunità internazionale come baluardo contro il nemico di turno, in questo caso il terrorismo islamico (essendo ambientato negli anni '80, mi stupisce che non compaia un maccartismo in salsa italica e magari una vera e propria crociata antibolscevica, tipo truppe romane inviate in Angola e Mozambico a combattere contro le truppe castriste che sostengono i locali governi marxisti). Io lo avrei scritto in maniera completamente diversa, con un'organizzazione segreta tipo "La Spada Spezzata" che combatte dall'interno l'Impero senza affiliazioni ideologiche e senza commettere stragi. D'altro canto, io e Dario siamo diversi come scrittori, e va bene così, anche Seneca e Petronio erano diversissimi tra loro, eppure entrambi hanno incarnato l'intellighenzia filosofica d'epoca neroniana (Salvio-Stefani ricorda Nerone, sotto vari aspetti, così come il golpe del 4 giugno 1989 rievoca la Congiura dei Pisoni).
L'unica perplessità che mi resta è il solito problema di fondo, già evidenziato da Bhrghowidhon: appare improbabile, in presenza di un Impero Romano con questi confini, che Mitterand sia il presidente di una quinta repubblica francese, che la Thatcher sia il primo ministro di un Regno Unito come noi lo conosciamo, e così via. In presenza dell'Impero Romano, ad esempio, non avremo il Sacro Romano Impero, Carlo Magno resterà Re dei Franchi e gli Asburgo potrebbero non ascendere mai. E l'assenza del Papa da Roma avrebbe conseguenze inimmaginabili sulla storia dell'Occidente. Se la dinastia dei Napoleonidi ha riconquistato Provenza e Marsiglia, ciò implica una netta sconfitta della Francia, che senza l'Empereur non si sarebbe mai risollevata diventando una potenza europea, ed anzi era a rischio spartizione (Borgogna alla Germania; Normandia al Regno Unito; Bretagna indipendente; Occitania indipendente o nell'orbita spagnola...) Tuttavia, vista l'alterazione profonda della storia europea, è possibile che la Guerra dei Cent'Anni non ci sia mai stata, oppure che Filippo V sia divenuto Re di Spagna e Francia (e allora un pensierino all'Italia e alla corona imperiale ce l'avrebbe fatto), oppure che gli Asburgo, se hanno avuto comunque fortuna, abbiano tentato in tutti modi, vista la loro tradizionale politica matrimoniale, di incamerare pure l'Impero Romano, se Filippo il Bello d'Asburgo sposa Bianca Giovanna, figlia legittimata dell'Augusto Aloisio II il Moro, approfittando dell'anarchia dei Trent'Anni, o se Maria Teresa d'Asburgo sposa l'imperatore veneto Paolo VI Morosini. Anche l'idea che basti l'Anarchia dei Trent'Anni per evitare all'Impero di colonizzare l'America (perchè no, poi? non l'ho capito) appare un po' debole: il Regno Unito si mosse molto dopo Spagna, Portogallo e Francia, ma diventò padrone del Nordamerica. Insomma, quello che qui manca e che mi sarebbe piaciuto leggere, è la storia del mondo INTORNO all'Impero Romano. Ma è presumibile che questa non verrà mai esplicitata, così come nel romanzo "La Svastica sul Sole" non si esplicita mai come ha fatto una nazione di 80 milioni di persone a sconfiggerne tre (USA, URSS e Impero Britannico) che rappresentavano da sole tre quarti dell'umanità.
Ecco comunque le partite dell'Impero Romano ai Campionati Mondiali di Calcio del 1990, organizzati in casa sua, nell'universo pensato da Bhrghowidhon:
9/6/1990, Stadio Olimpico di
Roma, Impero Romano-Arciducato d'Austria 1-0
14/6/1990, Stadio Olimpico di Roma, Impero Romano-Nuova Inghilterra 1-0
19/6/1990, Stadio Olimpico di Roma, Impero Romano-Regno di Boemia 2-0
25/6/1990, Stadio Olimpico di Roma, Impero Romano-Provincia Cisplatina 2-0
30/6/1990, Stadio Olimpico di Roma, Impero Romano-Stato Libero d'Irlanda 1-0
3/7/1990, Stadio San Paolo di Napoli, Impero Romano-Vicereame del Rio de la
Plata 4-3 rig. (1-1 d.t.s.)
8/7/1990, Stadio Olimpico di Roma, Impero Romano-Regno di Prussia 2-1
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Cliccando qui potrete scaricare la prima parte del racconto "L'Imperatore Medico" in formato pdf; cliccando qui, potete scaricare la seconda parte. Invece, cliccando qui potrete scaricare l'intero ciclo di racconti di Dario Carcano ambientati in questo universo. Se volete dirci che ne pensate, scriveteci a questo indirizzo.
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Successioni ininterrotte di sovrani ucronici Imperatori di tutta l'umanità – Re di Roma – Imperatori Romani 1 – Imperatori Romani 2 – Imperatori Romani di Britannia – Re Celtici di Britannia – Sciti – Ostrogoti – Visigoti – Geti – Longobardi – Franchi – Anglosassoni – Burgundi – Baschi – Svevi – Israele – Sparta – Italia – Scozia – Irlanda – Frislandia – Germania – Baviera – Valacchia – Boemia – Danimarca – Svezia – Norvegia – Finlandia – Ungheria – Bulgaria – Polonia – Lituania – Serbia – Russia – Turchia – Crimea – Babilonia – Persia – Turkestan – Yavana – Mongolia – Cambogia – Siam – Laos – Vietnam – Birmania – Malesia – Sambas – Brunei – Giava – Aceh – Corea – Marocco – Nubia – Kanem-Bornu – Mali – Senegal – Ashanti – Dahomey – Congo – Buganda – Zimbabwe – Zulu – Inca |