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Da Tolomeo a Kepler

"Venne al fin Giove in abito reale
con quelle stelle c'han trovate in testa,
e su le spalle un manto imperiale
che soleva portar quand'era festa..."

A. Tassoni, "La Secchia Rapita", II, 321-324

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1.1  Quando scienza e mitologia erano tutt'uno

Si può dire che l'uomo guardi al cielo fin dal primo albore della propria storia. E fin dalla notte dei tempi egli si pose una fatidica domanda: dove finisce il cielo stellato? Dov'è l'ultima frontiera dell'universo? Possiamo affermare che la scienza iniziò proprio quando i nostri antenati cercarono di rispondere a questa domanda, perchè essa ne tirò con sé un'altra: com'é fatto l'universo in cui viviamo? Tutte le filosofie, tutte le teorie fisico-matematiche, tutte le religioni si sono sforzate di dare loro una risposta, ed infinite furono nel passato le raffigurazioni della presunta struttura del cosmo che abitiamo. Alla fine di questa nostra trattazione vogliamo giungere a rispondere alle suddette questioni nel modo più possibile aderente al vero, perciò vale la pena di vedere come alcuni dei nostri predecessori hanno provato a rispondere loro, prima di tentare noi stessi l'impresa, con i mezzi a nostra disposizione dalla scienza moderna, e in particolare dalla Gravitazione Universale di Newton, dalla Relatività Generale di Einstein e dalle moderne ipotesi sulla Gravità Quantistica.

Secondo gli Egizi, il mondo era immaginabile come un enorme vano che ha per pavimento il mare, per tetto il cielo e per pareti i monti. Una bellissima raffigurazione di questa concezione mitica é quella qui sotto raffigurata, tratta da un bassorilievo risalente alla XIX dinastia; il fatto che essa regnò dal 1317 al 1198 a.C. ci suggerisce che si tratta di una delle più antiche cosmografie conosciute.

Come si vede, la raffigurazione é estremamente antropomorfa: Nut, dea del cielo, sovrasta Geb, il dio della terra, che poggia i suoi piedi sulla distesa delle acque. Nut inghiotte tutte le sere Ra, il Sole, per partorirlo nuovamente ogni mattina. Del resto la storia ci insegna che il primo modo di interpretare i fenomeni naturali da parte dell'uomo primitivo é proprio quello di immaginarli dovuti a divinità di aspetto umano.

Ancora più fantasiosa l'antica concezione della mitologia norrena, secondo la quale l'universo è in realtà un immenso frassino (secondo alcuni un tasso o una quercia, tutti alberi sacri presso i popoli del Nord Europa), chiamato Yggdrasill, che sprofonda le sue radici negli inferi, mentre i suoi rami sostengono la volta celeste. Con i suoi rami esso sorregge i nove mondi: Asaheimr, il mondo degli déi; Alfheimr, il mondo degli elfi; Midgardr, il mondo degli uomini; Jötunheimr, il mondo dei giganti; Vanaheimr, il mondo dei Vanir (déi secondari); Niflheimr, il mondo del gelo; Muspellsheimr, il mondo del fuoco; Svartálfaheimr, il mondo degli elfi oscuri e dei nani; ed Hel, il mondo dei morti. Da una delle sue radici nasce la fonte di Hvergelmir, da cui si dipartono tutti i fiumi del mondo. Yggdrasill è anche il luogo dell'assemblea quotidiana degli dèi, che vi giungono cavalcando il ponte dell'Arcobaleno, vigilato dal dio Heimdallr. L'albero è attorniato da diversi animali: sulla sommità sta un'aquila, tra i suoi rami pascolano quattro cervi e il serpente Nídhöggr ne rode le radici. Sulla cima di Yggdrasill vive anche Vídopnir, gallo dorato il cui canto annuncerà il Ragnarök, la fine del mondo.

Più elaborata e razionale, invece, la concezione degli Assiro-Babilonesi, che riporto qui sotto. La ricaviamo dal poema babilonese « Enuma Elish », il cui titolo significa "quando in alto", le prime due parole con cui esso inizia (lo citeremo ancora nel § 8.5):

« Quando in alto non aveva nome il Cielo, quando in basso non aveva nome la Terra... »

Come si vede, la Terra (in giallo) è piatta, perché così appare all'occhio umano; essa poggia sul Regno dei Morti (in marrone) ed è sovrastata dal firmamento (in blu). Il cielo appare azzurro perché sopra di esso esiste un oceano immenso, l'oceano celeste; fu questo, abbattendosi sulla terra, a produrre il leggendario diluvio universale. Ne consegue che il mondo é interamente circondato dalle acque, oltre a poggiare sulle acque esso stesso.

Legenda: T = Terra, il mondo abitato; OT = Oceano Terrestre; C1, C2, C3 = tre Cieli sovrapposti; OC = Oceano Celeste; Y = Abisso; S = Sera (Ovest); M = Mattino (Est); SM = Sette mura del regno dei Morti.

La cosmologia biblica è fortemente influenzata da quella della Mesopotamia, poiché gli Ebrei furono deportati a Babilonia per cinquant'anni. Per accorgersene basta confrontare la precedente visione del mondo con questo versetto della Genesi:

« Dio disse: Sia il firmamento in mezzo alle acque per separare le acque dalle acque. Dio fece il firmamento e separò le acque, che sono sotto il firmamento, dalle acque, che sono sopra il firmamento. E così avvenne. Dio chiamò il firmamento cielo. E fu sera e fu mattina: secondo giorno. » (Genesi 1, 8)

Si tratta evidentemente di una cosmologia che prevede una Terra piatta, con un firmamento trasparente che separa l'oceano terrestre dall'oceano celeste. Addirittura viene ripreso pari pari un passo dell'"Enuma Elish" citato sopra, in cui il dio nazionale di Babilonia, Marduk, distrugge il drago del caos, Tiamat, rappresentante le acque primordiali, e ne separa il corpo in due con un'ostrica: con la metà inferiore crea la terra, con quella superiore il cielo. Fa insomma la stessa cosa del Dio biblico, che separa le acque sotto il cielo da quelle sopra il cielo, aprendo uno "spazio libero" nel quale creare il cosmo, la vita, l'uomo!

Ciò dimostra che questa pagina non ha il senso di una "rivelazione divina" sulla struttura cosmologica dell'universo, bensì è l'ingenua risposta fornita da uomini antichi a domande eterne: "Com'è fatto il mondo? Chi lo ha creato? Perché la Terra appare piatta ed il Cielo concavo?" E via discorrendo. Chi è interessato, veda il mio ipertesto dedicato a Genesi 1-11. Ed ecco un mio disegno che illustra l'ingenua cosmologia della Bibbia:

Cosmologia biblica (disegno dell'autore di questo sito)

Cosmologia biblica (disegno dell'autore di questo sito)

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1.2  La torre di tartarughe

Il ragionamento fatto per arrivare a disegnare tutte queste cosmografie é evidente: ogni cosa, per restare in equilibrio, deve poggiare su qualcosa d'altro. Anche il Mondo deve allora poggiare su colonne; e queste, a loro volta, dovranno poggiare su un fondo, cioè sull'Abisso, il Regno dei Morti, lo Sheol, in ogni caso una realtà "autre", irraggiungibile coi mezzi umani, come lo era l'immortalità per il prode Gilgamesh. Sì, ma questo fondo, a sua volta... dove poggia?

Per comprendere meglio questa questione, ricorriamo ad un aneddoto. Una volta il famoso fisico e cosmologo inglese Stephen Hawking stava tenendo una conferenza riguardante le più recenti teorie cosmologiche. Ad un tratto si alzò una vecchietta e gli si rivolse con tono perentorio:

"Tutto quello che lei ci ha raccontato finora è solo una montagna di sciocchezze. Io so qual è la vera conformazione dell'universo."

"Allora la dica anche a noi", la incalzò il fisico.

"Semplice: la Terra è piatta, e poggia su di una tartaruga."

"Interessante", continuò Hawking senza scomporsi affatto. "E questa tartaruga cosmica su cosa poggia?"

"Oh, bella! Su di un'altra tartaruga!"

"E quest'ultima?"

"Ma su un'altra tartaruga, e questa su di un'altra, e via discorrendo."

Le parole della vecchietta, a prima vista ingenue, rivelano il limite di tutte le cosmologie "della Terra piatta": ogni colonna e basamento deve poggiare per forza su un qualcosa d'altro. Si rischia così di arrivare ad una torre infinita di tartarughe.

Come si vede, é il serpente che si morde la coda. Per mettere fine a questa interminabile filastrocca di colonne e basamenti, si individua il sostegno di tutto, il "riferimento assoluto" insomma, nell'Oceano Celeste, che tutto circonda e protegge, ma anche tutto minaccia. Anche nel bassorilievo egiziano, come si é visto, Geb poggia i piedi su di un Oceano che non ha fondo, e il Grande Albero Cosmico dei Vichinghi affonda le sue radici in un nulla così sconfinato da non aver bisogno alcuno né di rive né di fondo.

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1.3  Gli epicicli di Tolomeo

Apparentemente, per i greci e i romani l'Universo Fisico é radicalmente differente, poiché essi furono i primi ad avviare un'osservazione del cielo scevra da sostrati metafisici. Sebbene in Omero ed in Esiodo (VIII secolo a.C.) sopravviva la credenza di un mondo piatto e circondato ovunque dal "Fiume Oceano", simile alle acque celesti dei popoli orientali, a partire dal V secolo a.C. si fece strada l'idea che il Mondo sia un globo confinato al centro dei cieli. Fu Pitagora da Samo (VI sec.a.C.) il primo a sostenere la sfericità del mondo; Aristotele (384-322 a.C.) riteneva poi la Terra fissa al centro dell'universo con gli altri mondi che le ruotano attorno, animati da moto circolare uniforme. Questi mondi furono chiamati « pianeti » (dal greco “erranti”) perché si muovevano rispetto allo sfondo delle stelle fisse, ed erano sette. In ordine di distanza dal sole: Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove e Saturno, i soli mondi visibili ad occhio nudo (a quei tempi non c'erano certo i telescopi). Da qui discende tutta la complessa simbologia del numero sette! Le stelle fisse, a loro volta, erano pensate come "incollate" ad una sfera posta a grande distanza dalla Terra, in lentissima rotazione rispetto al suo centro con un periodo di 36.000 anni (il cosiddetto "Anno Platonico"): ogni 3.000 anni perciò una costellazione dello Zodiaco si sostituiva alla successiva. Oggi si sa che questo lento moto è in realtà dovuto alla precessione dell'asse terrestre, ed ha un periodo di circa 258 secoli (vedi § 2.5).

Una delle prove che la Terra non è piatta: a Rio de Janeiro (sotto) la Luna appare capovolta rispetto a come la si vede a Roma (sotto)!

Una delle prove che la Terra non è piatta: a Rio de Janeiro (sopra)
la Luna appare capovolta rispetto a come la si vede a Roma (sotto)!

Ma perché i pianeti e le stelle fisse ruotano proprio di moto circolare uniforme? Secondo Aristotele, non vi è una sola fisica: ve ne sono due. Una vale per il mondo terrestre, la seconda per il mondo celeste. Il mondo terrestre, che è quello dell'imperfezione, è formato da quattro elementi: terra, acqua, aria e fuoco. Il moto naturale di terra e acqua è verticale, dall'alto in basso; Quello di aria e fuoco è verticale, dal basso in alto. Perché? Perché è nella loro natura. Così Aristotele spiegava il fenomeno della gravità, ma anche il fatto che aria e fuoco sembrano sempre viaggiare verso l'alto. Così si esprime Dante Alighieri, che nella sua "Divina Commedia" segue la fisica aristotelica (si veda al proposito un altro mio ipertesto):

« ...onde si muovono a diversi porti
per lo gran mar de l'essere, e ciascuna
con istinto a lei dato che la porti.
Questi ne porta il foco inver' la luna;
questi ne' cor mortali è permotore;
questi la terra in sé stringe e aduna... » (Paradiso I, 112-117)

Invece il mondo celeste, che è quello della perfezione, è formato dall'etere, che non è certo la sostanza chimica cui oggi noi diamo questo nome, bensì una quintessenza di natura spirituale il cui moto naturale è circolare uniforme. Ciò spiega perfettamente il moto dei pianeti intorno alla Terra. Così Marco Tullio Cicerone descrive questa concezione dell'universo in una delle sue opere più note:

​« Eccoti sotto gli occhi tutto l'universo compaginato in nove orbite, anzi, in nove sfere. Una sola di esse è celeste, la più esterna, che abbraccia tutte le altre: è il Dio sommo che racchiude e contiene in sé le restanti. In essa sono sconfitte le sempiterne orbite circolari delle stelle, cui sottostanno sette sfere che ruotano in direzione opposta, con moto contrario all'orbita del cielo. Di tali sfere una è occupata dal pianeta chiamato, sulla terra, Saturno. Quindi si trova quel fulgido astro - propizio e apportatore di salute per il genere umano - che è detto Giove. Poi, in quei bagliori rossastri che tanto fanno tremare la terra, c'è il pianeta che chiamate Marte. Sotto, quindi, il Sole occupa la regione all'incirca centrale: è guida, sovrano e regolatore degli altri astri, mente e misura dell'universo, di tale grandezza, che illumina e avvolge con la sua luce tutti gli altri corpi celesti. Lo seguono, come compagni di viaggio, ciascuno secondo il proprio corso, Venere e Mercurio, mentre nell'orbita più bassa ruota la Luna, infiammata dai raggi del Sole. Al di sotto, poi, non c'è ormai più nulla, se non mortale e caduco, eccetto le anime, assegnate per dono degli dèi al genere umano; al di sopra della Luna tutto è eterno. » (Cicerone, Somnium Scipionis, De Re Publica VI, 17)

C'è però un piccolo problema: il moto retrogrado dei pianeti. Ecco infatti la strana traiettoria descritta periodicamente nel cielo dal pianeta Marte, in una simulazione realizzata dal dottor Ted Snow:

Come interpretare questo strano movimento dei pianeti facendo uso del moto circolare uniforme, l'unico permesso dall'etere nel mondo celeste?

L'idea giusta venne all'astronomo Claudio Tolomeo, vissuto ad Alessandria d'Egitto nel II secolo d.C. Egli ipotizzò che ogni pianeta non ruoti direttamente attorno alla Terra, ma lungo un'orbita più piccola chiamata epiciclo, il cui centro a sua volta si muove di moto rettilineo uniforme lungo un'orbita più ampia chiamata deferente. Come si vede nell'animazione sottostante, la combinazione dei due moti circolari uniformi è sufficiente a spiegare il moto retrogrado dei pianeti:

Questo modello venne pubblicato da Tolomeo nella sua opera oggi nota con il titolo di Almagesto, derivato dalla traduzione araba (Al-maghisti) della parola greca méghistos, "il più grande" (trattato di astronomia, sottinteso). L'Almagesto è unanimemente considerato uno dei testi scientifici più influenti della storia dell'uomo, e tra l'altro fornisce anche le coordinate celesti e le magnitudini di oltre 1000 stelle. Non tutti però sanno che il più antico catalogo stellare fu quello compilato due secoli prima da un altro astronomo greco, Ipparco di Nicea, che lavorò sull'isola di Rodi tra il 190 e il 120 a.C. Fu lui il primo a definire la posizione delle stelle usando due coordinate e a mappare le stelle in tutto il cielo. Ipparco fu anche il primo a modellizzare i moti apparenti del Sole e della Luna. Il catalogo stellare di Ipparco era ritenuto perduto per sempre, ma nel 2022 lo storico dell'astronomia James Evans ha scoperto un frammento di quel catalogo sotto un palinsesto, cioè un'antica pergamena raschiata per riutilizzarla e scrivervi sopra un altro testo, noto come "Codex Climaci Rescriptus", proveniente dalla biblioteca dell'antico Monastero di Santa Caterina del Monte Sinai, ed oggi di proprietà del Museum of the Bible di Washington. Le sue pagine sono state analizzate usando immagini multispettrali all'avanguardia ed algoritmi informatici per cercare combinazioni di frequenze che valorizzassero il testo nascosto. E così, nove fogli del manoscritto hanno rivelato materiale astronomico che, in base alla datazione al carbonio-14 e allo stile della scrittura, è stato probabilmente trascritto nel V o VI secolo. Tra questi, una pagina contiene la lunghezza e l'ampiezza in gradi della costellazione della Corona Boreale, e fornisce le coordinate delle stelle ai suoi estremi nord, sud, est e ovest. Una serie di prove indicano Ipparco come fonte, a cominciare dal modo caratteristico in cui sono espressi alcuni dati. Inoltre, la precisione delle misurazioni dell'antico astronomo ha permesso ai ricercatori di datare le osservazioni. Il fenomeno della precessione fa sì che la posizione delle stelle fisse si sposti lentamente nel cielo (fenomeno scoperto proprio da Ipparco), e così i ricercatori hanno potuto verificare che l'antico astronomo deve aver effettuato le sue osservazioni all'incirca nel 129 a.C., nel periodo in cui Ipparco lavorava. Secondo Evans questa scoperta ha illuminato un momento cruciale nella nascita della scienza, quando gli astronomi passarono dalla semplice descrizione dei modelli che vedevano nel cielo alla loro misurazione e previsione, cioè alla "matematizzazione della natura".

Evans e i suoi colleghi hanno usato i dati scoperti per confermare che anche le coordinate di altre tre costellazioni stellari (Orsa Maggiore, Orsa Minore e Drago), contenute in un altro manoscritto latino medievale noto come "Aratus Latinus", devono provenire direttamente da Ipparco. I ricercatori ritengono che l'elenco originale di Ipparco, come quello di Tolomeo, includesse osservazioni di quasi tutte le stelle visibili nel cielo: in assenza di un telescopio, egli deve aver usato uno strumento di osservazione noto come diottra, o un meccanismo chiamato sfera armillare. Peraltro il rapporto tra Ipparco e Tolomeo è sempre stato enigmatico. Alcuni studiosi hanno pensato che il catalogo di Ipparco non fosse mai esistito, mentre altri, a partire da Tycho Brahe, hanno sostenuto al contrario che Tolomeo avesse addirittura "rubato" i dati di Ipparco e li avesse rivendicati come propri. In altre parole, Ipparco sarebbe stato il vero grande astronomo, mentre Tolomeo sarebbe stato stato solo "un divulgatore straordinario" del lavoro dei suoi predecessori. Dai dati contenuti nei frammenti scoperti, i ricercatori concludono piuttosto che Tolomeo non ha semplicemente copiato i numeri di Ipparco, ma le osservazioni di quest'ultimo sembrano essere notevolmente più accurate, con le coordinate lette finora corrette entro un errore di un grado. E mentre Tolomeo basava il suo sistema di coordinate sull'eclittica, Ipparco utilizzava l'equatore celeste, un sistema più comune nelle moderne mappe stellari. Si pensa che egli sia stato ispirato dal contatto con gli astronomi babilonesi e che abbia avuto accesso a secoli di osservazioni precise. I babilonesi infatti non avevano interesse a modellizzare la disposizione tridimensionale del sistema solare ma, grazie alla loro fede nei presagi celesti, effettuavano osservazioni accurate e sviluppavano metodi matematici per modellizzare e prevedere i tempi di eventi come le eclissi lunari. Con Ipparco, questa tradizione si fuse con l'approccio geometrico greco: egli fu la figura cardine responsabile della "trasformazione dell'astronomia in una scienza predittiva". I ricercatori sperano che, con il miglioramento delle tecniche di imaging, si possano scoprire altre coordinate stellari, ottenendo così una serie di dati più ampia da studiare: diverse parti del "Codex Climaci Rescriptus" non sono ancora state decifrate, ed è possibile che altre pagine del primo catalogo stellare della storia sopravvivano nella biblioteca di Santa Caterina, che contiene più di 160 palinsesti; non ci resta che attendere e sperare.

A differenza di quello di Ipparco, il lavoro di Tolomeo conobbe una straordinaria fortuna nei secoli del Medioevo. Il modello tolemaico fu infatti accettato dal Cristianesimo (ma anche da ebraismo ed Islam) poiché sembrava in accordo con un passo delle Scritture:

« Allora, quando il Signore mise gli Amorrei nelle mani degli Israeliti, Giosuè disse al Signore sotto gli occhi di Israele: “Sole, fèrmati in Gàbaon, e tu, luna, sulla valle di Aialon!” Ed ecco, si fermò il sole e la luna rimase immobile finché il popolo non si vendicò dei nemici » (Giosuè 10, 12-13)

Il ragionamento era semplice: se Giosuè fermò il Sole, vuol dire che il Sole si muoveva, altrimenti avrebbe detto "Fermati, o Terra". Tutto questo deriva da una errata interpretazione dei libri sacri: l'eccesso di dogmatismo portò i credenti a scambiare un racconto di chiara ispirazione didascalica ed eziologica per una descrizione cronachistica e per così dire scientifica, e fu così che trionfò il modello geocentrico di Aristotele e Tolomeo, cosiddetto per la sua caratteristica di porre la Terra al centro dell'universo: una visione che sicuramente stuzzica la nostra vanità, facendoci ritenere così privilegiati da vivere al centro stesso della Creazione!

L'interpretazione tolemaica dei moti planetari è davvero ingegnosa; sebbene oggi sappiamo che non corrisponde alla realtà fisica del Sistema Solare, si può comunque dire che essa rappresenti una descrizione assai precisa dei moti celesti dal punto di vista della Terra. Per questo, Tolomeo è e resta uno dei più grandi astronomi che l'umanità abbia mai partorito.

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1.4  La Rivoluzione Copernicana

Nel corso del Medioevo ci si accorse che, per descrivere correttamente il moto planetario, era in realtà necessario ricorrere ad altri epicicli posti sopra gli epicicli, rendendo così complicatissimo il modello geocentrico. L'anno di svolta fu il 1543, quando l'astronomo polacco Niccolò Copernico (1473-1543) pubblicò il "De Rivolutionibus Orbium Coelestium", il suo capolavoro, nel quale per la prima volta propose una teoria rivoluzionaria: non la Terra, ma il Sole è fermo al centro dell'universo!

Come mostra l'animazione sottostante, secondo tale ipotesi il moto retrogrado dei pianeti può essere interpretato come dovuto alla diversa velocità degli stessi, per cui, rispetto al Sole, in alcuni periodi dell'anno essi si muovono in direzione opposta l'uno rispetto all'altro:

Per rendere ragione dell'effettivo moto dei pianeti, tuttavia, anche Copernico fu costretto ad introdurre degli epicicli, « complicando » estremamente la lineare semplicità del suo modello, detto eliocentrico perché pone il Sole al centro del cosmo (tale proposta era stata avanzata già da Aristarco di Samo nel IV secolo a.C., senza riscuotere consensi). Comunque Copernico non fu perseguitato per le sue idee, poiché la prima copia del "De Rivolutionibus" gli fu messa davanti sul suo letto di morte; inoltre, nella prefazione l'intera opera veniva presentata come una specie di artificio matematico volto a semplificare notevolmente i calcoli astronomici rispetto al sistema geocentrico. Inizialmente la Chiesa non si mostrò ostile al nuovo modello, contro il quale sparò invece a zero il riformatore Martin Lutero. Ben presto però il clima cambiò anche nei paesi cattolici, non appena prese corpo il duro scontro tra la Riforma e la Controriforma.

Quella di Copernico fu effettivamente l'opera di un matematico. Il vero fisico, cioè colui che apportò le prove sperimentali della veridicità del sistema eliocentrico, fu il pisano Galileo Galilei (1564-1642). Questi ebbe per primo l'idea di puntare verso il cielo il cannocchiale, inventato da alcuni artigiani olandesi per avvistare per tempo l'arrivo di truppe nemiche, ed improvvisamente per l'umanità si spalancò una porta sul cielo infinito. Ad occhio nudo non è possibile scorgere più di 5000 stelle; con i moderni telescopi se ne vedono miliardi, oltre a miliardi e miliardi di galassie.

Grazie al suo cannocchiale, tra l'altro, Galileo scoprì:

a) le montagne della Luna. Esse dimostrano che la Luna non è affatto una sfera perfetta di etere, come aveva creduto pure Dante, in barba alle sue macchie, ed è fatta invece degli stessi elementi di cui è fatta la Terra. Non vi è dunque alcuna differenza tra mondo terrestre e mondo celeste, contrariamente a quanto aveva asserito Aristotele.

b) le macchie solari. Non avendo asperità visibili ad occhio nudo, il Sole poteva essere considerato una realtà perfetta a maggior ragione del nostro satellite; la presenza delle macchie dimostra invece che anche il Sole non è una sfera geometrica e spirituale, ma un mondo in continua turbolenza ed evoluzione.

c) le fasi di Venere. Questo pianeta appare come una grande falce quando è in fase nuova, e come un disco assai più piccolo quando è in fase piena. Si tratta di una clamorosa prova del modello copernicano, poiché tali fasi sono spiegabili solo se Venere ruota attorno al Sole, non attorno alla Terra. Quando si trova da parte opposta del Sole rispetto a noi (in congiunzione), è illuminata dal Sole da davanti ed è piena, ma è lontana ed appare piccola. Quando si trova dalla stessa parte (in opposizione) è illuminata da dietro ed appare nuova, ma è più vicina e sembra molto più grande!

Le fasi di Venere

d) i satelliti di Giove. Nel 1609, puntando il suo telescopio verso Giove, Galileo scoprì quattro piccoli mondi che gli ruotavano attorno, e che battezzò satelliti Medicei, in onore del suo protettore, il signore di Firenze Cosimo II de' Medici. L'esistenza di questi satelliti, oggi noti con i nomi mitologici di Io, Europa, Ganimede e Callisto (tutti amanti del mitico Zeus), e visibili nella fotografia qui sotto, è in chiara contraddizione con il sistema tolemaico, secondo cui tutti i pianeti ruotano attorno alla Terra, e dimostrano l'infondatezza dell'ipotesi delle "sfere di etere" che reggerebbero i pianeti nel loro moto, altrimenti essi le bucherebbero. La scoperta di questi satelliti fu resa pubblica da Galilei nel suo "Sidereus Nuncius" (L'annuncio celeste). Pochi anni dopo, nel 1622, il poeta modenese Alessandro Tassoni (1565-1635) citava nel suo poema eroicomico "La secchia rapita" i quattro satelliti medicei, nella descrizione dell'arrivo di Giove al consesso degli déi:

« Venne al fin Giove in abito reale
con quelle stelle c'han trovate in testa,
e su le spalle un manto imperiale
che soleva portar quand'era festa... »
("La Secchia Rapita", II, 321-324)

È però ben noto che gli oppositori di Galileo si rifiutarono sempre di appoggiare l'occhio al cannocchiale, per paura di "vedere" effettivamente quei pianetini che avrebbero distrutto le loro teorie. Questo atteggiamento è sintomatico della distanza ormai incolmabile che separava il vecchio sapere, filosofico ed aprioristico, dalla nuova scienza, basata su solide basi sperimentali ed orientata a partire sempre dall'osservazione della natura, mai dalla speculazione dell'uomo.

Giove e i satelliti medicei

Giove e i satelliti medicei. Da sinistra: Callisto, Ganimede, Io ed
Europa (credits: Michael Stegina/Adam Block/NOAO/AURA/NSF)

Purtroppo però in Europa erano accaduti due eventi epocali: la Riforma Protestante e l'avanzata crescente dei Turchi verso il cuore del nostro continente. Contro queste minacce la Chiesa scelse di chiudersi a riccio e così, per motivi politici e non filosofici né religiosi, Galilei fu chiamato a Roma nel 1616, le sue idee furono condannate ed egli fu diffidato dall'insegnarle ancora. L'elezione al Soglio di Pietro del cardinale fiorentino Maffeo Barberini, suo vecchio amico, con il nome di Urbano VIII, convinsero Galileo a rompere ogni prudenza e a pubblicare una nuova grande opera, il "Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo": uno scritto di alto valore anche come opera letteraria, nel quale il nostro astronomo dimostra la fondatezza del sistema copernicano nei confronti di quello tolemaico. L'opera è strutturata come un dialogo tra Salviati, alter ego di Galilei, Sagredo, il moderatore (che tiene per Salviati), e l'aristotelico Simplicio, che ci fa davvero una pessima figura.

« Però, signor Simplicio, venite pure con le ragioni e con le dimostrazioni, vostre o di Aristotile, e non con testi e nude autorità, perché i discorsi nostri hanno a essere intorno al mondo sensibile, e non sopra un mondo di carta »

Così dice Salviati nella II giornata del Dialogo. Purtroppo Galilei, accusato di voler ridicolizzare Urbano VIII nella persona di Simplicio, nel 1633 fu nuovamente chiamato a Roma, processato, e costretto ad abiurare. Condannato alla prigione a vita, la pena fu subito mutata in quella del confino, che egli scontò nella sua villa di Arcetri. Ma si dedicò ancora alla Fisica, e nel 1638 pubblicò (clandestinamente, a Leida) un'ultima opera fondamentale: i "Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attenenti alla meccanica e i movimenti locali", opera che pone le basi della Cinematica e della Dinamica. La morte lo colse nel 1642, dopo che il massimo astronomo italiano era purtroppo divenuto cieco. Egli resta nella storia anche come fondatore del metodo sperimentale, sintesi di analisi empirica e di trattazione matematica, divenuto dopo di lui il metodo d'indagine della scienza moderna. Rimane parte della sua eredità anche la convinzione che Scienza e Fede possano coesistere senza problemi, trattando ambiti completamente diversi: l'una insegna « come vadia lo cielo », l'altra « come si vadia in lo Cielo »! Nel 1992 papa Giovanni Paolo II, che aveva chiesto nel 1979 la revisione del processo contro di lui, ha finalmente ritirato la condanna della Chiesa nei confronti di Galileo Galilei, mettendo riparo ad un torto storico.

Tycho Brahe (a sinistra) con il cratere lunare a lui dedicato (a destra)

Tycho Brahe (a sinistra) con il cratere lunare a lui dedicato (a destra)

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1.5  Le Tre Leggi di Kepler

Intanto però le conquiste della scienza correvano più veloci delle dispute intestine fra gli uomini. Il danese Tyge Brahe (1546-1601), meglio noto con il nome latinizzato di Tycho Brahe, fu l'ultimo dei grandi astronomi ad osservare il cielo ad occhio nudo: il re di Danimarca Cristiano IV finanziò per lui la costruzione del grande osservatorio di Uraniborg, sull'isola di Hven, nell'Øresund. Ci vedeva talmente bene che migliorò di venti volte la precisione dei dati osservativi allora esistenti! Sulla base di tali dati, egli escluse in modo definitivo la veridicità del sistema tolemaico, giudicandolo incapace di prevedere l'effettivo moto dei pianeti. Egli però non credeva neppure nel sistema copernicano, non per pregiudizi religiosi ma poiché non riusciva a vedere le parallassi stellari. Di cosa si tratta esattamente? Come si vede nello schema sottostante, se la Terra si muove nello spazio, noi dovremmo vedere tutte le stelle fisse muoversi sulla volta celeste descrivendo un cerchietto con periodo annuo, così come noi vediamo muoversi gli oggetti sullo sfondo se ci muoviamo avanti e indietro.

In realtà le parallassi esistono, ma sono troppo piccole per potersi osservare ad occhio nudo. La stella più vicina a noi, Alpha Centauri, ha una parallasse di soli 0,765 secondi d'arco: è l'angolo sotto il quale si vedrebbe dalla Terra un cratere lunare lungo un chilometro e mezzo, e quindi ad occhio nudo non c'è speranza di accorgersene. Infatti la prima parallasse stellare, quella di 61 Cygni, fu misurata solo nel 1838 da Friedrich Wilhelm Bessel (1784-1846). Tycho, che non lo sapeva, rigettò così anche il modello copernicano e ne creò uno nuovo, noto come modello ticonico, nel quale la Terra è ferma al centro dell'universo ed il Sole le ruota attorno, come si vede nell'immagine qui sotto, ma tutti i pianeti ruotano attorno al Sole. Così si potevano spiegare anche gli epicicli; il suo aspetto più rivoluzionario consisteva nell'abolizione delle sfere cristalline di Aristotele, che avrebbero dovuto sorreggere i pianeti nel loro moto (come si legge nella "Divina Commedia"), ed invece non potevano esistere per via dell'intersezione tra i reciproci moti planetari. Questo modello appariva in accordo con le osservazioni del tempo, escludeva conflitti con le Sacre Scritture (ritenendo la Terra ferma e il Sole in moto), piacque a molti e in definitiva finì per ritardare il successo del Modello Copernicano.

Johannes Kepler (1571-1630), amico di Galilei e discepolo di Tycho, usò l'enorme mole di dati messa assieme da quest'ultimo non per dare sostanza al modello ticonico, ma per perfezionare definitivamente quello copernicano. Egli infatti fu il primo a spezzare il tabù del moto circolare uniforme, pesante eredità di Aristotele nel modello eliocentrico, concludendo che non è assolutamente possibile descrivere i moti celesti solo tramite combinazioni di moti circolari uniformi, e introducendo invece l'idea che le orbite dei pianeti siano ellittiche. Egli formulò così quelle che oggi sono universalmente note come le Tre Leggi di Kepler:

I) i pianeti si muovono lungo orbite ellittiche, delle quali il sole occupa uno dei due fuochi.

II) lungo le orbite non è costante la velocità lineare né quella angolare del pianeta, ma quella areolare; in altre parole, il raggio vettore (la congiungente sole-pianeta) spazza, cioè descrive, aree uguali in intervalli di tempo uguali.

III) il rapporto tra il quadrato del periodo di rivoluzione ed il cubo del semiasse maggiore dell'orbita è costante per ogni pianeta.

La Terza Legge, pubblicata parecchi anni dopo le prime due, a prima vista appare la più astrusa, e comunque secondaria rispetto alle altre; essa è in realtà la più importante delle tre, perché permetterà a Newton di ricavare la sua legge di Gravitazione Universale. Essa si può così scrivere, usando la moderna simbologia matematica:

                    (1.1)

Appare evidente che, attraverso di essa, io posso conoscere le distanze di tutti i pianeti dal Sole, semplicemente misurandone il periodo di rivoluzione. Siccome la Terra dista circa 150 milioni di chilometri dal Sole, ed impiega un anno, cioè 3,17 x 107 secondi, per ruotare intorno ad esso, la costante di Keplero vale:

Se misuro il periodo di rivoluzione di Marte e lo trovo pari a circa 687 giorni, cioè a 5,95 x 107 secondi, posso ottenere subito la sua distanza dal Sole:

Anche Kepler (1571-1630), di fede protestante, fu oggetto di persecuzioni. Rifugiatosi a Praga, divenne l'astronomo di corte degli imperatori Rodolfo II e Mattia II. Per arrotondare lo stipendio scriveva racconti di fantascienza; in uno di essi, il figlio di una strega veniva trasportato sulla Luna da forze diaboliche e la scopriva abitata. L'inquisizione credette che si trattasse di uno scritto autobiografico ed arrestò sua madre con l'accusa di stregoneria; solo l'intervento della regina di Boemia salvò la donna da una brutta fine. Kepler è unanimemente considerato uno dei padri dell'astronomia moderna, e si occupò anche di ottica fisiologica e strumentale.

Kepler su un francobollo tedesco

Kepler su un francobollo tedesco

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1.6  Una regolarità nelle orbite planetarie?

Prima di chiudere questo capitolo, è interessante citare la cosiddetta Relazione di Titius-Bode, così chiamata in onore dei suoi scopritori, gli astronomi tedeschi Johann Daniel Titius (1729-1796) e Johann Elert Bode (1747-1826). Si tratta di una formula empirica in grado di restituire le distanze dei pianeti dal Sole, in funzione della distanza Sole-Terra. Quest'ultima viene chiamata unità astronomica (UA), equivale a circa 150 milioni di Km ed è utilizzata come unità di misura delle distanze planetarie. La relazione è la seguente:

                    (1.2)

Se in essa si pone n = 1, si ottiene d = 1, che è la distanza della Terra dal Sole. Con n = 0 si ha invece d = 0,7, che corrisponde con buona approssimazione alla distanza di Venere dal Sole. Con n = 2 si trova la distanza di Marte dal Sole, mentre ad n = 3 si ha d = 2,8, cui al momento della formulazione della legge (nel 1766) non corrispondeva alcun corpo celeste. Invece a n = 4 corrisponde d = 5,2, cioè la distanza di Giove dal Sole, mentre per n = 5 si ha d = 10,0, cioè la distanza di Saturno dal Sole.

n

d

distanza

corpo

– ∞

0,4

0,387

Mercurio

0

0,7

0,723

Venere

1

1

1

Terra

2

1,6

1,524

Marte

3

2,8

2,77

Cerere

4

5,2

5,203

Giove

5

10,0

9,539

Saturno

6

19,6

19,18

Urano

6,5

27,5

30,06

Nettuno

7

38,8

39,44

Plutone

8

77,2

67,70

Eris

Si noti che anche Mercurio sfuggirebbe a questa legge. Se però n tende a – ∞, 2– ∞ tende a zero, e si trova così d = 0,4, che corrisponde proprio alla distanza di Mercurio dal Sole in unità astronomiche.

Al momento della formulazione della legge, vi era una lacuna tra Marte e Giove in corrispondenza di n = 3; fu così che Titius e Bode previdero l'esistenza di un ulteriore corpo celeste fra Marte e Giove. Il 1 gennaio 1801 padre Giuseppe Piazzi (1746-1826) scoprì un pianetino esattamente nella posizione indicata dalla (1.2), battezzandolo Cerere (oggi sappiamo che esso è solo il maggiore dei corpi della fascia di asteroidi tra Marte e Giove). Già il 13 marzo 1781, tuttavia, l'astronomo tedesco naturalizzato inglese Frederick William Herschel (1738-1822) aveva scoperto un nuovo pianeta del Sistema Solare, battezzandolo Urano, ed esso distava da Giove pressappoco quanto predetto per n = 6 dalla Legge di Titius-Bode, che così ricevette un'altra clamorosa conferma.

Quando però il 23 settembre 1846 l'astronomo tedesco Johann Gottfried Galle (1812-1910) scoprì Nettuno, esso si discostava nettamente dalle previsioni della (1.2), che così perse gran parte della propria credibilità. Ad n = 7 corrisponde piuttosto il semiasse maggiore dell'orbita di Plutone, scoperto il 18 febbraio 1930 dall'astronomo americano Clyde William Tombaugh (1906-1997) e a quel tempo classificato come nono pianeta del Sistema Solare, ma poi declassato a pianeta nano dall'Unione Astronomica Internazionale il 24 agosto 2006. La scoperta di un ulteriore pianeta nano transnettuniano, Eris, l'8 gennaio 2005 ad opera di Michael Brown, Chad Trujillo e David Rabinowitz, ha portato altra acqua a favore della Legge di Titius-Bode, visto che per n = 8 essa offre una buona approssimazione del suo semiasse maggiore. Da notare che anche Nettuno potrebbe trovare posto nella Legge se in essa si imponesse un valore frazionario, cioè n = 6,5.

In realtà però la Legge di Titius-Bode non è una legge fisica, bensì una relazione ottenuta empiricamente, ed essa ha finora resistito a qualunque tentativo di darle una veste analitica, introducendola in una teoria fisica coerente. Ma può essere soltanto un caso? La spiegazione attualmente più accreditata per essa sta nella risonanza orbitale dei pianeti esterni, la quale potrebbe determinare regioni attorno al Sole prive di orbite stabili a lungo termine. Le moderne simulazioni della formazione ed evoluzione del sistema solare sembrano accreditare l'ipotesi che la legge (1.2) possa derivare direttamente dai meccanismi di formazione planetaria. Si è pensato di verificare se essa sia valida anche in altri sistemi planetari, ma gli attuali telescopi possono vederne solo un numero limitato, e la verifica dovrà attendere telescopi migliori. Inoltre i giganti gassosi possiedono estesi sistemi di satelliti naturali (Giove da solo ne ha ben 63!), che potrebbero essersi formati attraversi un meccanismo simile a quello di formazione dei pianeti stessi, e quindi ci si è chiesti se la Legge di Titius-Bode valga anche per essi. Ebbene, i quattro satelliti medicei di Giove ed il maggiore satellite più interno, Amaltea, seguono una progressione regolare, ma non secondo la legge di Titius-Bode. Solo le ricerche del futuro potranno dare una risposta a questo dilemma.

Concludendo: in ogni caso, che al centro del cosmo vi sia il Sole, che vi sia la Terra, o che vi sia un "Grande Fuoco Centrale" come sosteneva il Pitagorico Filolao di Crotone (470-390 a.C.), si tratta comunque di un mondo con un preciso limite; questo limite é costituito dalla sfera delle stelle fisse. La concezione dantesca, che rifletteva tutto il pensiero medioevale, credeva appunto in un mondo a sfere concentriche, limitato dalle stelle, oltre le quali c'é solo il Primo Mobile: una sfera metafisica, estranea al nostro universo materiale, in grado di muovere tutte le altre sfere, ed anticamera verso l'Empireo, il Cielo di Dio. Ancora Copernico e Kepler nel loro nuovo sistema trattavano le stelle fisse come un limite invalicabile. Ma se l'uomo, per magia, potesse attraversarle, troverebbe altri spazi, altri cieli, altri mondi, o semplicemente non ci sarebbe più spazio? O, se il cosmo é infinito, potremo procedere per l'eterno nell' infinito nulla, o al di là c'é qualcosa? Troveremo un altro universo? Torneremo al punto di partenza? Da Copernico, a Newton, ad Hubble, il problema é sempre questo: « Se apro una porta che dà su una stanza con un' altra porta, attraversandola trovo il nulla, un'altra stanza con un'altra porta o quella donde sono partito? » Da un punto di vista filosofico, é esattamente equivalente al vecchio problema di tremila anni fa: « Se c'é un basamento su cui tutto il resto poggia, cos'é che sostiene questo basamento? » Obiettivo finale di questo ipertesto, nel § 9.5, sarà tra l'altro dare una risposta a questa millenaria domanda, che dall'Enuma Elish fin qui risuona nelle menti di mistici e scienziati. Per arrivare fino ai Peanuts...

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