La F.I.N.E.

(Funesta e Inverificabile Nostradamica Estinzione)

di Generalissimus (scritto l'8 agosto 2021)


Riesci a vedere il fuoco dal cielo,
una lunga scintilla che brucia?
Nel cielo puoi vedere il fuoco
e una lunga scia di scintille.
(Nostradamus)

Anche l'ultima scatoletta era finita.
L'uomo se la buttò alle spalle con un misto di rabbia frustrazione.
Centellinò dalla borraccia la poca acqua sporca che gli era rimasta.
Ormai era il momento di partire, le rovine abbandonate da tempo della città che lo aveva ospitato nell'ultima settimana non aveva più niente da offrirgli.
L'aveva setacciata in lungo e in largo, e ormai l'aveva spogliata delle ultime briciole rimaste.
Dove andare ora, però? L'afa stava diventando insopportabile… Magari a nord.
Ma forse a nord non avrebbe trovato insediamenti, e sarebbe andato incontro alla morte per stenti.
Però non poteva certo rimanere lì.
Presto il caldo avrebbe reso invivibile la regione nella quale si trovava.
Si decise, sarebbe andato verso nord, pur non sapendo dove di preciso.
Ma d'altronde lo sapeva forse qualcun altro? Ormai il mondo non era più lo stesso.
La devastazione la faceva da padrone, soprattutto da quando erano arrivati loro.
Nessuno sapeva da dove venissero e nessuno sapeva che cosa volessero, si sapeva solo che sparavano a vista e che trattavano il pianeta come se fosse il loro.
Nessuno sapeva come chiamarli e nemmeno che aspetto avessero, perché nessuno era mai riuscito ad instaurare un qualsivoglia dialogo con loro, nessuno ne aveva mai catturato uno vivo e non si toglievano mai quelle corazze che li rendevano dei veri e propri inarrestabili carri armati su gambe contro i quali poco potevano le armi che erano rimaste a disposizione.
Erano arrivati all'improvviso diverso tempo dopo la scomparsa dell'ultimo governo organizzato, di cui nessuno ricordava più l'esistenza.
Per loro fu facile approfittare della situazione e aggiungere sfacelo allo sfacelo.
Narravano le leggende che quegli esseri fossero talmente spietati che la prima volta che comparvero sulla Terra, aprirono il fuoco contro una bambina che era corsa verso di loro per dargli il benvenuto con un abbraccio, spezzandola in due con un sol colpo sotto gli occhi degli impietriti genitori, immediatamente falciati poco dopo.
Ma questa, come detto, era una leggenda.
L'uomo alzò lo sguardo verso il cielo, che stava iniziando ad incupirsi.
La sua mente era colma di stanchezza e sconforto.
Perché stava facendo questo? Perché continuare a trascinarsi di rovina in rovina alla ricerca di scarti ammuffiti, col rischio di essere ucciso da loro o da qualche predone? Perché non mollare tutto e farla finita? Ah, già, perché non aveva una pistola col quale spararsi un colpo in testa, e magari chissà, forse era già mortalmente malato senza saperlo.
Il contatore Geiger che fino a qualche tempo fa aveva con sé si era definitivamente rotto, e troppe volte nelle ultime settimane aveva sentito un sapore metallico in bocca, segno che senza saperlo si era avventurato in luoghi dove era più pesante l'impronta lasciata dalle armi utilizzate nell'ultimo colossale conflitto scatenato dall'umanità.
La tosse, poi, gli sembrava stesse peggiorando.
Magari si sarebbe potuto lanciare a capofitto contro una pattuglia dei misteriosi invasori extraplanetari, ma, cosa estremamente strana, non ne aveva più incontrati da quando era diventato l'unico miracoloso sopravvissuto di un loro attacco che lo aveva privato di ogni bene, affetto e conoscenza.
Né tantomeno aveva incontrato, su questo pianeta sempre più privo di popolazione umana, un altro insediamento abitato, obiettivo principale del suo girovagare, al quale avrebbe chiesto di aggregarsi, sempre ammesso che non gli avrebbero sparato a vista.
Ad ogni passo i pensieri dell'uomo diventavano sempre più cupi.
Lacrime solcarono il suo volto.
Il tascapane che portava a tracolla, sebbene quasi vuoto, gli sembrò sempre più pesante.
Ormai andava avanti per inerzia, il suo incedere sembrava quello di un automa rimasto senza istruzioni che non poteva fare altro che procedere dritto seguendo un'invisibile linea retta.
Il silenzio attorno a lui era interrotto solo da suoi occasionali lamenti e colpi di tosse soffocati.
All'improvviso inciampò in qualcosa, cadendo disteso per terra e sbattendo la faccia.
Non seppe per quanto tempo rimase lì, ma quando finalmente ritrovò le forze (più mentali che fisiche) per rialzarsi, vide in cosa era incespicato senza accorgersene: un teschio, al quale, inciampando aveva sfilato l'elmetto del quale era stato cinto fino a quel momento.
Si guardò intorno.
Il paesaggio era inequivocabile.
I resti di un antico campo di battaglia, risalente a quella guerra cataclismica che era costata lutti immensi all'umanità.
Quando arrivarono i nuovi invasori non esistevano più da tempo forze militari organizzate, l'appartenenza alle quali tradivano i brandelli di uniforme addosso ai cadaveri disseminati in quel luogo, senza parlare delle lamiere e delle carcasse arrugginite di qualche mezzo corazzato qua e là.
L'uomo rimase a guardare quella distesa di morte per qualche minuto, poi ritrovò l'orientamento e riprese ad andare verso nord.
Forse qualcosa avrebbe trovato.
Di sicuro non avrebbero combattuto una grande battaglia proprio nel bel mezzo del nulla, c'era per forza qualcosa per cui chissà quanti anni fa valse la pena spargere tutto quel sangue.
Per quanto tempo quell'uomo aveva camminato? Ormai non lo sapeva più, aveva perso la cognizione del tempo.
Sorseggiò le ultime gocce d'acqua della sua borraccia.
Bastò a placargli la sete, ma non la fame, che ormai gli stava annebbiando la mente assieme ai tristi pensieri.
Gli sembrava di vedere qualcosa, all'orizzonte, ma cos'era? Non riusciva a distinguerla.
Il cielo coperto non faceva altro che acuire la sensazione di afa soffocante.
I passi dell'uomo si fecero sempre più lenti, fino a quando questi non si fermò.
L'uomo si accasciò a terra, senza riuscire a raggiungere il luogo che aveva avvistato qualche momento prima.

* * *

L'uomo si ritrovò davanti alla tomba della moglie, morta di malattia senza essere riuscita a dargli dei figli a causa di un'altra malattia che contrasse in età adulta.
Stava contemplando la scarna croce fatta con legno di recupero e con sopra inciso il suo nome quando si rese conto di un rumore di fondo che si stava facendo sempre più forte.
Il rumore cresceva sempre di più, e quando ormai divenne un fragore assordante decise di voltarsi, dato che si era accorto che il rumore proveniva alle sue spalle.
L'uomo ebbe un sussulto e gli sembrò di essere vittima di un attacco di cuore, tanta la paura che gli causò lo spettacolo che gli si parò davanti: un'enorme onda anomala come forse non se ne era vista da quando milioni di anni prima un asteroide non si schiantò contro la Terra provocando la fine delle creature note un tempo come dinosauri si stava dirigendo verso di lui.
L'uomo chiuse gli occhi, e appena lo fece il fragore provocato da quella gargantuesca massa d'acqua in movimento cessò.
Quando li riaprì, si accorse che quello era stato solo un sogno.
Ma dove si trovava, adesso? Si guardò intorno.
C'era pochissima luce, proveniente da quella che sembrava una lampada ad olio.
Aveva tutta l'idea di essere uno scantinato.
Si accorse anche di essere disteso su una branda.
Dando un'occhiata migliore, si accorse di non essere solo.
In quella stanza né troppo grande e né troppo piccola, ma piuttosto bassa, un uomo stava armeggiando con qualcosa su quello che sembrava un banco da lavoro.
Questi si voltò, si piegò verso il suo ospite come a volerlo osservare meglio e poi esclamò contento: “Ah, ma lei è sveglio! Magnifico! Magnifico! Sono veramente felice! Aspetti che vengo da lei”.
L'uomo misterioso si avvicinò lentamente, quasi strascicando i piedi, ad una seggiola mezza scassata posta vicino alla branda.
La poca luce rivelò il suo aspetto: era un vecchio incartapecorito e completamente calvo che però sembrava sprizzare allegria da tutti i pori.
L'uomo ebbe l'impressione che fosse vecchio quanto il tempo stesso.
“Caro giovanotto, mi presento”, disse l'anziano, “io sono il Dottore.
O almeno è quello che dico di essere alla gente di questo posto.
Sai come vanno queste cose, no? Risolvi la frattura di un omero senza dover ricorrere ad amputazioni o mezzi altrettanto spiacevoli e tutti iniziano a chiamarti luminare della scienza.
Fortunatamente me la cavo abbastanza da non farmi cacciare via a calci.
Non preoccuparti, fortunatamente tu non hai bisogno di ricorrere alle mie cure, eri semplicemente stremato quando le pattuglie dell'insediamento ti hanno trovato.
Ti ho già dato dell'acqua, ma adesso che sei sveglio potrai anche mangiare quel tanto che basta per rimetterti in piedi”.
“Avete del cibo?”, chiese l'uomo.
“Ma certo! Tutto quello che vuoi! Beh, non proprio tutto, ma sì, insomma, ci siamo capiti, no? Vuoi che te ne faccia portare un po'?” “Sì, per favore”.
“Kristīne! Kristīne, dove sei? Vieni un secondo qui, per cortesia!” La porticina dello scantinato si aprì e la oltrepassò, o per meglio dire attraversò a fatica, una grassissima e prosperosa ragazza bionda con gli occhi azzurri di non più di 30 anni, alta forse un metro e 90 e che perciò riusciva a malapena a stare eretta in quella stanza così bassa.
L'uomo non aveva mai visto un'altra persona con quella corporatura in tutta la sua vita.
Indossava un camice bianco un po' troppo corto, rattoppato in due punti e palesemente non della sua misura, ad imitazione di quello che nei tempi antichi portavano le infermiere, ma che le dava comunque molta più professionalità del dottore, che indossava una specie di vecchio pigiama e delle pantofole da camera.
“Kristīne, per cortesia, vai alla cucina da campo e vedi se è rimasto qualcosa per il nostro nuovo amico”.
Kristīne fece un cenno d'assenso e uscì dalla stanza con la stessa difficoltà con la quale era entrata.
Appena uscita, l'uomo iniziò a tossire.
“Ahi, ahi, ahi, quella tosse non mi piace per niente.
Mi sa proprio che come al solito mi sono sbagliato, dopo ti darò un'occhiata, ma penso già di sapere cosa tu abbia.
Mi dispiace dovertelo dire così, ma credo proprio che questa cosa ti farà rimettere le penne”.
“Non si preoccupi, dottore, un po' me lo aspettavo.
Non è che vivessi nel più salutare dei luoghi, senza contare il fatto che prima di arrivare qui sono sicuramente finito per errore in posti dove non dovevo andare”.
“Ma lei come si chiama?”, chiese il dottore.
“Al mio villaggio mi chiamavano Ustym”.
“Il suo villaggio è lontano da qui?” “Non lo so… Credo di sì… Ma ormai non esiste più”.
“Sono stati loro?”
“Sì.”
“È rimasto qualcuno?” “No, solo io”.
“Mi dispiace, deve essere stata dura”.
Appena il dottore ebbe finito di esprimere il suo rammarico, nella stanza di quello scantinato ricomparve Kristīne, con in mano un piatto contenente un'indistinta poltiglia grigiastra “decorata” da quelli che dovevano essere pezzi di carne.
Ustym lo prese, ringraziò Kristīne e iniziò a mangiare, mentre il dottore disse: “C'era rimasto solo questo? Beh, d'altronde che potevamo aspettarci a quest'ora? Comunque grazie Kristīne, sei un tesoro, non mi importa se sei l'ultimo esemplare rimasto al mondo di elefantessa africana, non sai che cosa ti farei se avessi qualche secolo in meno!” A sentire queste parole il volto di Kristīne assunse un'espressione scandalizzata, immediatamente seguita da uno schiaffo al dottore dato con tale forza che uno dei bottoni del camice che indossava saltò via, rivelando la profonda scollatura del suo procace seno, che però nessuno poté ammirare più di tanto perché la ragazza fece dietrofront e andò via con incedere sdegnato.
Ustym, al quale quasi andò di traverso il cibo assistendo a quella scena, pensò che Kristīne avesse spezzato il collo al dottore, tanto era stato forte il manrovescio, ma venne subito tranquillizzato dalla risata del sedicente medico: “Ih, ih, ih, ih, ih, non preoccuparti, amico, non passa giorno senza che io faccia quella battuta e lei reagisce sempre nello stesso identico modo.
Forse dovrei semplicemente smetterla di fare il cretino con lei, ma che posso farci, è più forte di me! L'importante è fare in modo che il sole non tramonti mai sul nostro disaccordo, e finora ci sono sempre riuscito.
È una bravissima ragazza, la più dolce che si possa mai incontrare, ma sospetto che sia malata: come forse avrai notato, nonostante non mangi molto più del dovuto continua ad aumentare di peso.
Non so con precisione cosa abbia, anche perché i testi di medicina che sono riuscito a recuperare sono così vecchi che le pagine mi si sbriciolano fra le dita.
Probabilmente c'entrano quei cosi, come si chiamano, gli omoni? Se è così non so proprio come fare per aiutarla, perché non ho idea di che medicine ci vogliano e dove procurarmele.
L'unica cosa di cui sono sicuro è che qualsiasi cosa abbia non è contagiosa, e posso solo sperare che non diventi così grossa da non riuscire più ad entrare in sala operatoria per assistermi o, per quanto ne so, che un giorno di questi non esploda.
Fortunatamente non tutto il male viene per nuocere: per via della sua stazza quei depravati dei soldati non le sbavano appresso come fanno con tutte le altre donne dell'insediamento, e il Comandante l'ha dispensata dal servizio attivo in combattimento, nominandola mia aiutante.
Non so se mi spiego, rischierebbe di rimanere incastrata in qualche trincea, e allora sì che loro si divertirebbero a farla esplodere…” Ustym, che intanto aveva finito di mangiare, interruppe lo sproloquio del dottore, che sembrava volersi rifare di anni di chiacchiere arretrate: “Un momento, un momento: loro sono qui? Trincee? Combattimenti? Comandante? Ma dove sono?” “In realtà, caro amico, non è che questo posto abbia un nome preciso.
Non è casa nostra, sappiamo solo che quando le cose andavano bene per tutta l'umanità questa era una cittadina di medie dimensioni.
La stiamo utilizzando perché proprio qui vicino c'è una loro base.
Abbiamo radunato quanti più uomini possibile e ci siamo dati alla guerriglia contro di loro.
Ma presto ci sarà l'assalto finale in grande stile.
Siamo riusciti a metterci in contatto con altri insediamenti vicini abitati dalle nostre forze.
Ci raggiungeranno domani notte, e a quel punto organizzeremo il da farsi”.
“Sì, ma voi chi siete?” “Come, chi siamo? Ma il Fronte Unitario di Liberazione Umana, ovvio! Non dirmi che non hai mai sentito parlare di noi”.
A dire il vero Ustym conosceva il Fronte Unitario di Liberazione Umana, una grossa banda di esaltati che affermava che a quell'invasore arrivato da chissà dove dovesse essere fatta ima lotta senza quartiere, fino a quando non fosse ritornato dal posto dal quale era venuto.
Un paio di volte dei loro emissari erano arrivati nel villaggio di Ustym per reclutare volontari che si unissero a loro, ma erano stati sempre trattati con sufficienza e cacciati in malo modo.
Poi un giorno tornarono armati e con tutte le peggiori intenzioni, affermando che se il villaggio non voleva essere privato di quel poco che aveva qualcuno si sarebbe dovuto unire a loro.
Arruolarono a forza quattro giovani, gli unici che ritennero potessero essergli utili.
I loro genitori disperati non seppero più niente di loro.
“Sì, vi conosco”, disse Ustym al dottore.
Qualcuno bussò alla porta.
“Avanti!”, disse il dottore.
Entrò un uomo dal petto tarchiato con lunghi capelli brizzolati e la barba, non basso ma nemmeno alto, con indosso anfibi, una tuta monopezzo nera, guanti anch'essi neri e un basco amaranto.
Suo segno distintivo una benda sull'occhio sinistro.
“Comandante! Qual buon vento? Come mai si disturba a venire qui a quest'ora?”, chiese il dottore provando a mettersi sull'attenti con la velocità degna di un monumento ai caduti ad una gara di 3000 siepi.
“Buonasera, razza di segaossa.
Sono venuto a conoscere il nostro nuovo ospite.
Come sta?” “Beh, come può vedere si è abbondantemente ripreso, signore, era semplicemente esausto.
Domattina sarà in piedi come se niente fosse”.
“Ottimo.
Qual è il tuo nome?”, chiese il comandante rivolgendosi al degente.
“Ustym, signore”.
“Caro signor Ustym, sono un uomo di poche parole, e voglio mettere subito bene in chiaro le cose: in questo campo non ci sono scansafatiche.
Se vuole rimanere qui deve guadagnarsi la permanenza.
Tra poco noi daremo battaglia contro la feccia aliena.
Stanno arrivando altre unità del nostro fronte per darci man forte, ma un soldato in più non guasta mai.
Dica un po', lei sa guidare?” “Signore, le dirò la verità, a malapena nella mia vita ho visto una bicicletta”.
“Peccato, speravo di avere a disposizione un mezzo corazzato in più durante la battaglia.
Si vede che non è destino.
Perlomeno sa sparare?” “Beh, signore, veramente io non sarei il migliore dei tiratori…” “Non le ho chiesto quanto bene sa sparare, le ho chiesto se sa sparare.
Ha presente l'azione dello sparare? Imbracciare il fucile, prendere la mira quel tanto che basta perché il proiettile non vada a ramengo e infine tirare il grilletto”.
“Sì, signore, so sparare”.
Le brusche parole del comandante fecero capire a Ustym quale sarebbe stato il suo destino: dato che non era un soldato esperto e che l'imminente battaglia gli precludeva qualsiasi possibilità di addestramento avrebbe funto da utile carne da cannone.
Il dottore, però, che nel frattempo era tornato a sedersi sulla seggiola scassata senza aspettare il comando di riposo, ebbe qualcosa da ridire: “Comandante, ma davvero vuole impiegarlo in prima linea? In realtà non è che stia proprio benissimo…” “Dottore, cos'è, un altro dei suoi trucchi per farla passare liscia agli sfaticati di questo posto?” In soccorso di Ustym, però, arrivò un altro attacco di tosse.
Il dottore fece un gesto con le mani come per dire: “Visto? Questo tra poco ci lascia la pelle”.
“Ah, capisco”, disse il comandante, “anche se a me non sembra un motivo sufficiente per evitare la battaglia.
La veda come un modo per scansarsi la sofferenza futura.
Immagini: si veda mentre immola la sua vita durante un'eroica azione per favorire la vittoria della gente del suo pianeta contro quei maledetti.
Dottore, devo ispezionare le artiglierie e vedere se sono riusciti a ripararle.
Metta a posto il bunker medico, tenga i suoi attrezzi pronti e sterilizzati e prepari lei e la sua… Assistente ad un grande afflusso di feriti.
Le ultime ricognizioni hanno mostrato che il nemico è più numeroso del previsto, ma ce la possiamo ancora fare.
Buona serata a tutti”.
Il comandante uscì e si chiuse la porta alle spalle, ma un momento dopo si sentì di nuovo la sua voce: “Levati di mezzo!! Già il corridoio è stretto, ci mancavi solo tu!! Ma guarda come vai in giro vestita!! Vai immediatamente dal sarto, la tua nuova uniforme è pronta, ritirala e butta una buona volta questi stracci!!!” Si sentì il comandate salire delle scalinate e chiudersi un'altra porta alle spalle, poi qualcuno di molto più pesante di lui fare lo stesso, ma dopo essere scoppiato a piangere.
Ustym e il dottore capirono subito di chi si trattava.
“Ahi, ahi, ahi, povera ragazza, te l'ho detto, è la più dolce del mondo, se tu la conoscessi bene faresti di tutto per non staccartene mai più.
Credo che sia proprio per questo che non proprio fatta per questo posto.
Ma cosa ci possiamo fare? A quello che ho capito ha un qualche genere di legame di parentela con il comandante, che tra l'altro nell'ultimo anno l'ha presa in antipatia senza alcun motivo apparente.
No, ti rispondo subito, caro amico, non è né la figlia né la nipote, a quanto ho capito è una specie di lontana cugina.
Comunque sia capirai che non la si può certo lasciare a sé stessa in qualche posto sperduto senza nessuno.
Ah, santo cielo, però pensandoci bene non è che qui starà meglio, soprattutto se è vero che il comandante ha deciso di farla finita con loro… Eh, dico così perché è più facile che siano loro che la faranno finita con noi.
Amico mio, per favore, promettimi una cosa: se le cose dovessero mettersi male, e conoscendo loro sono sicuro al 90% che le cose andranno così, trova un modo per tornare qui, prendi Kristīne e va via il più lontano possibile”.
“Potrei anche prometterglielo dottore, ma una volta fuori da questo posto dove potremmo andare?” Un'espressione sconsolata si disegnò sul volto solcato da profondissime rughe del dottore: “Io… Io non lo so.
Ma immagino che qualunque posto sia meglio che qui.
So che ad est c'è una città che se la passa bene.
Pare che loro non ci vadano lì, dicono che per loro sia troppo freddo, ma nonostante questo dicono che non sia malaccio.
O almeno dicevano.
Non so quanto tempo sia passato dall'ultima volta che ne ho sentito parlare.
Ma d'altronde perché ti dico queste cose? Voglio dire, tanto al nostro primo assalto un colpo ben centrato dell'artiglieria nemica ci farà saltare tutti quanti in aria, e allora addio promessa.
Il comandante ha chiamato questo buco sotterraneo bunker, ma se questo è un bunker allora io sono la corazzata Yamamoto o come altro cavolo si chiamava.
Ah, ma come diavolo abbiamo fatto a finire così? Un momento, ma perché diavolo sto facendo questa domanda? Più o meno io lo so”.
“Ma quanti anni ha, dottore?”, chiese Ustym.
“Ah, non ne ho idea, ragazzo, ho perso il conto qualche anno fa.
Sicuro sono più di 90, magari sono proprio 91, ma potrebbero anche benissimo essere 96, ma sta tranquillo che sono ancora arzillo e agile come quando ne avevo 50!” Così dicendo si alzò dalla sedia, compì un impercettibile salto a piedi uniti e tornò a sedersi.
“Ma come fa a ricordarsi com'era il mondo prima di tutto questo?” “Stupido, io non ho mai visto com'era il mondo di prima.
Quello che so lo so grazie a mio nonno.
Lui era un bambino quando vide cadere l'ultimo governo organizzato del mondo.
Aveva 30 quando vide di persona volare via la testa di quell'idiota di Papa Clemente XXVIII, che convinto di avere Dio dalla sua parte andò disarmato di persona da quello che riteneva essere il capo di quegli alieni per convincerlo alla pace.
Rimase talmente terrorizzato dallo spettacolo che non smise di correre fino a quando non arrivò al mare, e si fermò soltanto perché realizzò all'ultimo di non saper nuotare.
Lui mi raccontava quello che suo nonno raccontava a lui.
Vedi, noi fondamentalmente siamo in questa situazione a causa nostra.
Tutto iniziò quando quella cosa chiamata “riscaldamento globale” andò praticamente fuori controllo.
Nessuno poté più fare niente al riguardo, intere città sparirono, insomma, sfracelli su sfracelli.
Poi arrivarono le carestie, dopo le carestie le malattie, e via fino a quella cavolo di guerra per le poche risorse rimaste che distrusse praticamente tutto.
E come se non bastasse, alla fine arrivano loro e danno letteralmente fuoco alle macerie del vecchio mondo.
Beh, basta parlare adesso, è tardi perfino per me che dormo poco o niente.
Domani ti dimetterò.
Io vado a dormire nel mio alloggio, sarà dura svegliarsi per le 6.
Buonanotte”.
“Buonanotte, dottore”.
Il dottore spense la luce e andò via.
Ad Ustym, sfinito com'era dalle chiacchiere del dottore, non ci volle molto per addormentarsi.

* * *

Il mattino seguente, il dottore trovò Ustym già sveglio e in piedi.
“Buongiorno, caro amico, spero tu stia bene, ho qualcosa per te”.
Il dottore porse ad Ustym una tuta monopezzo nero simile a quella che la notte prima aveva visto addosso al comandante.
“Mi dispiace dirtelo, ma il comandante non transige, se vuoi far parte dell'insediamento devi indossare l'uniforme.
Non lo contraddirei, se fossi in te”.
Ustym ebbe appena finito di vestirsi quando qualcuno bussò alla porta.
Era Kristīne, che entrò, sempre con la stessa difficoltà derivata dal fatto di essere più alta e larga della porta della stanza, con in mano due tazze di the fumanti.
Rispetto al giorno prima indossava la nuova uniforme di cui le aveva parlato, anzi urlato, il comandante: una tuta monopezzo dello stesso tipo di quello che avrebbe dovuto indossare d'ora in poi Ustym, ma di colore verde bottiglia e chiusa sul davanti da una chiusura lampo invece che da dei bottoni.
Il dottore si illuminò quando la vide: “Oh, tesoro, ma sei un angelo! E vedo anche che ti sei rifatta il look per la nuova stagione! Che te ne pare?” Kristīne fece capire a gesti di non sentirsi molto a suo agio, perché quella tuta le stringeva troppo sui fianchi e sulla pancia e perché era leggermente corta di maniche e gambe.
“Che vogliamo farci, cara”, tentò di consolarla il dottore, “quel sarto pensa di essere chissà chi, ma alla fine ha due mani sinistre.
Hah, un incapace come sarto e un ciarlatano per dottore, mi chiedo come faccia a credere il comandante che riusciremo a battere loro”.
“Ma lei non parla mai?”, chiese Ustym al dottore prima di riprendere a tossire.
“Certo che parla”, disse questi, “è solo che si è fissata col fatto che non le piace la sua voce, dice che assomiglia troppo ad un sussurro e che non fa capire molto bene agli altri quello che dice, perciò parla solo quando è strettamente necessario”.
Kristīne incrociò le braccia e fece un ampio cenno d'assenso con la testa.
“Facciamo così”, riprese il dottore, “sembra che lei ti abbia preso particolarmente in simpatia, perché non esplori un po' l'insediamento con lei prima di andare a ritirare il resto del tuo equipaggiamento?” A sentire queste parole Kristīne sorrise come non aveva mai fatto fino a quel momento, fece più volte sì con la testa e indicò la porta d'uscita col pollice, come a voler “Sì, andiamo subito!” “Beh, come poter dire di no?”, rispose Ustym.
“Ottimo, ragazzo, ti lascio in buonissime mani.
Allora ci vediamo, e vedi di non rimettere più piede qua dentro, se non per quella faccenda di cui ti ho parlato ieri sera”.
“Non si preoccupi, dottore, arrivederci”.
Kristīne accompagnò fuori Ustym, ed iniziò a portarlo in giro per l'insediamento, anche se dopo un po' si girò verso di lui e alzò i palmi delle mani verso il cielo, come a dire “Alla fine in fondo è tutto qui”.
E in effetti era vero: le rovine della vecchia città brulicavano di soldati vestiti di nero come Ustym, alcuni con una fascia rossa sul braccio con scritto in bianco la sigla FULU, armati nelle maniere più disparate e in fermento perché i rinforzi attesi quella sera erano arrivati con largo anticipo.
La “visita guidata” però si interruppe in quel momento, perché da una stradina laterale ingombra di macerie emerse all'improvviso il comandante, che si rivolse in malo modo ai due: “Tu! Inutile autobotte di terza mano che non sei altro! Cosa ci fai qui con quello? Tornatene immediatamente da quel mezzo sciroccato del dottore! E tu va immediatamente a ritirare elmetto e arma d'ordinanza! Cerca la piazza principale”.
“Sì… Sissignore”.
I due non poterono che obbedire e separarsi, ma non dopo che Ustym si fece indicare da una Kristīne prossima alle lacrime in che direzione fosse la piazza principale.

* * *

“Avanti il prossimo! Ehi, non ti ho mai visto da queste parti, e poi non sei un po' troppo attempato per combattere? Ho capito, devi essere quello nuovo che abbiamo recuperato ieri mezzo morto.
Eccoti elmetto e arma, adesso sgombra! Avanti il prossimo!” L'elmetto era chiaramente un residuato dell'ultima catastrofica guerra, mentre per quanto riguardava il cosiddetto fucile d'assalto, prodotto chiaramente in qualche officina artigianale, era un complimento definirlo un catenaccio.
Ustym indossò l'elmetto e si mise il fucile a tracolla con la canna puntata verso il cielo per evitare spiacevoli incidenti, e appena ebbe finito, come se lo avesse seguito di nascosto da quando si era lasciato con Kristīne, egli si ritrovò di nuovo davanti il comandante.
“Vieni con me”, gli disse.
Il comandante lo condusse al limitare dell'insediamento, che si affacciava su un'altura dalla quale si poteva vedere un'ampia pianura con al centro tre strutture che Ustym non aveva mai visto.
Il comandante gli porse un binocolo con una lente incrinata e gli fece cenno di dare un'occhiata.
Appena inforcò il binocolo il comandante iniziò a parlare: “Forse non ci sarà il tempo di addestrarti, ma perlomeno posso ragguagliarti sulla situazione.
Noi ci spostiamo di luogo in luogo alla loro ricerca, e proviamo a dare loro battaglia fino alla vittoria o alla morte.
Quando siamo arrivati in questa città in rovina ci siamo accorti solo all'ultimo momento di quelle strutture che stai osservando adesso.
In condizioni normali loro non ci avrebbero affatto permesso di stabilirci qui, appena avvertiti della nostra presenza dai loro sensori sarebbero sciamati fuori da lì e avrebbero provato a sterminarci fino all'ultimo.
Però questo non è successo.
Il che significa che c'è qualcosa che non va.
Hanno qualche problema e noi dobbiamo approfittarne”.
“Ma signore, e se fosse una trappola?” “No, impossibile, loro non utilizzano questa tattica.
Sono consci della loro superiorità completa rispetto a noi, e non tentano mai nulla di perlomeno leggermente più complicato.
Avanti, andiamocene, hai visto abbastanza.
Domani al tramonto attaccheremo tutti insieme, scendendo divisi in due tronconi dai due lati del pendio.
Beh, direi che è tutto, in pratica non ti resta che scegliere di quale troncone fare parte: est od ovest?” “Comandante, scusate se ve lo dico, ma a me continua ancora a sembrare un suicidio.
C'è troppo campo aperto da percorrere prima di raggiungere quelle cose.
E poi una volta che le avremo raggiunte cosa faremo?” “Sì, è vero, l'artiglieria si è rivelata inutilizzabile, ma i nostri rinforzi hanno portato abbastanza carri armati da formare uno squadrone che utilizzeremo per sfondare a cannonate le porte di quelle basi una volta che avrà sterminato tutti quelli che avranno il coraggio di uscire ad affrontarci.
Basta dubbi adesso, Ustym, mi dica di quale troncone vuole fare parte: est od ovest?” “Accidenti, è come scegliere fra la peste e il colera… E sia, allora: scelgo il troncone est”.
“Bene, allora abbiamo finito.
Ha il resto della giornata libero, Ustym, il tuo posto per dormire stanotte è nella tendopoli sud, io vado a definire gli ultimi dettagli con i miei sottoposti”.
Il comandante si allontanò e Ustym ricominciò a tossire.

* * *

Arrivò il momento fatidico.
Ustym aveva passato le ore precedenti al momento dell'assalto girovagando per l'insediamento, osservando i ritratti di varia umanità che componevano quella specie di esercito.
Quel giorno provò anche a salutare per l'ultima volta il dottore, ma quando scese nello scantinato che fungeva da ospedale da campo lo trovò su una sedia della sua stanza personale, che dormiva della grossa e russava più forte del motore di un aeroplano.
Pensò fosse meglio lasciarlo in pace, e andò via.
“Beh, meglio così, se lo avessi svegliato probabilmente mi avrebbe sommerso con un'altra marea di parole”, pensò tra un colpo di tosse e l'altro.
“Peccato solo che non abbia visto Kristīne da nessuna parte.
Chissà che fine ha fatto”.
Ustym non si era scordato della promessa fatta al dottore.
A costo di setacciare quell'ammasso di rovine da capo a piedi l'avrebbe portata via con sé al primo sentore di disfatta.
Il tramonto era vicino.
Il comandante stava guidando il troncone ovest.
Fu da lì che partì il razzo di segnalazione rosso che diede il via all'assalto contro loro.
I soldati si gettarono urlando contro le basi, protetti dai carri armati.
Le basi si facevano sempre più vicine, ma non davano alcun segno di vita.
Cosa stavano aspettando? C'era decisamente qualcosa che non andava e Ustym non fu l'unico al quale balzò in mente questo pensiero.
Poi, all'improvviso, accadde.
Ci fu un boato, e i soldati vennero tutti travolti da un vento fortissimo e da un'ondata di calore.
Tutti furono costretti a fermarsi, carri armati compresi.
Le basi, che altro non erano che grosse astronavi, avevano attivato i loro motori… E adesso stavano andando via.
Tutti rimasero a osservare a bocca aperta quello spettacolo incredibile: i loro nemici giurati stavano praticamente scappando via senza nemmeno sparare un colpo.
Quando le navi furono abbastanza alte nel cielo, i presenti si resero conto che il cielo era pieno di queste stelle cadenti che sembravano allontanarsi dalla Terra.
Loro stavano abbandonando il pianeta.
Tutti, nessuno escluso.
Senza preavviso, senza un motivo apparente, in fretta e furia.
Alla fine rimasero solo il silenzio e un numerosissimo gruppo di persone che si guardavano l'una con l'altra senza sapere che fare.
“Ma… Allora… Noi abbiamo vinto?”, chiese qualcuno.
“Credo… Credo di sì”, gli rispose qualcun altro.
“E quindi adesso che si fa?”, chiese un terzo.
Tutti si voltarono verso il comandante.
“Perché guardate me?”, disse infastidito, “io ho dedicato tutta la mia vita a combattere quei cosi.
Questa doveva essere la mia impresa gloriosa, e quei codardi che fanno? Se ne vanno piantandoci in asso!” “E quindi?” La voce che risuonò era quella di Ustym.
“Non riesco a crederci! Ma che problema avete tutti quanti? Possibile che l'umanità non abbia ancora imparato niente? La vostra brama di distruzione è ancora così grande? Che problema c'è se sono andati via? L'importante è proprio questo! Dovremmo festeggiare, non rammaricarci del fatto che siano partiti senza che ci abbiano dato battaglia! Adesso siamo liberi! Possiamo finalmente tornare alle nostre case! Possiamo tornare dalle nostre famiglie e dai nostri amici! Possiamo smetterla di nasconderci e ricominciare finalmente a ricostruire il mondo come era prima! Possiamo ricominciare a vivere! E con uno scopo più alto che seminare morte fra gli alieni!” Dagli uomini attorno a lui iniziarono a prorompere versi di approvazione.
I soldati iniziarono a buttare a terra le armi.
Chi era a bordo di un mezzo lo abbandonò.
Tutti iniziarono a tornare verso l'insediamento da dove erano venuti, per recuperare quello che era loro e poi dirigersi verso le loro case e i loro luoghi d'origine.
“Ma sì, al diavolo tutto!” “Basta con questa pagliacciata!” “Oggi sarei potuto essere morto e invece torno dai miei fratelli, è una specie di miracolo!” “Sono anni che non vedo la mia famiglia, penseranno che mi sia successo qualcosa”.
Alla fine, in quella pianura dove si sarebbe dovuto svolgere uno scontro epico, rimasero solo un impietrito comandante e un soddisfatto Ustym.
“Sapete una cosa?”, disse il comandante, “Andate tutti al diavolo! Io ero qualcuno grazie al Fronte Unitario di Liberazione Umana io ero qualcuno! E adesso non ho più niente! Non sono più nessuno!” Si tolse il cinturone che reggeva la fondina della sua pistola e il berretto amaranto e li scagliò a terra con rabbia.
Poi senza dire una parola, si avviò in una direzione diversa da quella degli ormai ex soldati.
“Dove sta andando?”, chiese Ustym.
“Me ne torno dove sono venuto! A ovest fino al fiume e poi un giorno di cammino! E ti consiglio vivamente di non venirmi dietro, perché se rivedo te o un altro di quella banda di scalzacani lo riempio di cazzotti a coppie fino a quando non ottengo un numero dispari!” “Comandante, e Kristīne?” “Primo, non sono più il comandante di un bel niente, e guai al primo che sento chiamarmi in questo modo! Secondo, al diavolo anche quell'ippopotamo! Finché era viva sua madre avevo un qualche obbligo verso di lei, ma adesso non me ne può importare di meno! Fa una bella cosa, portatela con te! Andatevene ad est, così di sicuro non ci incroceremo! Dicono che ci sia una città che se la passa bene! Adesso addio, non ti rivolgerò altre parole!” Ustym rimase ad osservarlo ancora un po' mentre si allontanava, poi, tossendo, tornò anche lui all'insediamento.

* * *

Ormai era notte inoltrata, e tutti gli occupanti dell'insediamento erano impegnati a raccogliere quanto più possibile prima di rimettersi di nuovo in viaggio, anche se molti erano già partiti.
All'improvviso sentì una voce conosciuta che lo chiamava: “Ragazzo mio, sei qui! Ha ha! Hai visto che spettacolo? È stato incredibile!” Ustym quasi non lo riconosceva: era il dottore, ma aveva abbandonato il pigiama che gli aveva sempre visto addosso con un completo liso e rattoppato, con tanto di cravatta, e un borsalino a tesa larga con un vistoso buco su un lato.
In una mano teneva un bastone da passeggio, in un'altra una logora borsa di pelle.
“Dottore, che fa, parte anche lei?”, gli chiese Ustym.
“Certo, ragazzo, ormai è finita, qui non c'è più niente da fare.
Ma non preoccuparti per me, ho già trovato un nuovo impiego, mi aggregherò ad alcune persone che mi hanno offerto un posto come medico del loro villaggio.
La situazione deve essere veramente tremenda, lì, se hanno deciso di rivolgersi a me! Partirò fra circa un'ora”.
“Dottore, dov'è Kristīne?” “Ah, non saprei, ragazzo, l'ho persa di vista.
Era con me ad aspettare il peggio in quel cosiddetto bunker medico, poi ho sentito il rumore che hanno fatto loro quando sono partiti e sono corso fuori per vedere cosa stava succedendo.
Sono rimasto a guardare fino a quando il cielo non è rimasto sgombro, pensavo che Kristīne mi fosse corsa dietro, ma mi sono reso conto che non era così.
Peccato, mi sarebbe piaciuto salutar…” Il dottore non riuscì a finire la frase, perché qualcuno che lo sovrastava fisicamente lo abbracciò da dietro e lo sollevò da terra.
“Ehi, sei tu, Kristīne! Ma dove ti eri cacciata? Dai, forza, tesoro, mettimi giù o rischi di rompermi qualche costola!” Kristīne così fece, e corse ad abbracciare anche Ustym.
“Su, forza, Kristīne, ti porto via di qui, è tutto finito adesso”.
La ragazza, però, fece di no con la testa.
“Come? Non vuoi venire con me?”, chiese uno stupito Ustym.
“Forse che preferisci venire con me, tesoro caro?”, chiese il dottore, ma Kristīne fece di nuovo no con la testa, poi fece un sospiro e con una voce che davvero sembrava un sussurro disse: “Non è questo che volevo dire.
È che non è finito niente”.
“Perché non dovrebbe essere finito niente, Kristīne?”, chiese Ustym, “Loro se ne sono andati, siamo di nuovo padroni del nostro destino!” Ma Kristīne scosse di nuovo la testa, puntò il dito verso il cielo e disse: “Guardate, c'è una nuova stella nel cielo”.
All'inizio molti non ci fecero caso, ma col passare dei giorni tutti gli abitanti di quell'emisfero si resero conto che davvero c'era una nuova stella nel cielo, che diventava sempre più grande e luminosa col passare dei giorni, e che quella era il motivo reale per il quale loro se ne erano andati.

Generalissimus

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In proposito Tommaso Mazzoni ha commentato:

Bello, e secondo me la palla ci eviterà e gli alieni l'avranno presa in tasca.

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E l'autore gli ha risposto:

Chissà che non sia vero. Dopotutto la I della sigla sta per Inverificabile...
Io ci ho messo dentro tutto quello che accadrà prima della fine del mondo secondo le varie pseudoscientifiche interpretazioni delle quartine di Nostradamus (sì, prima dell'impatto con un corpo celeste ci sarà anche un'invasione aliena e sì, Nostradamus avrebbe previsto anche un catastrofico riscaldamento globale).

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Ed ecco ora un altro racconto per voi:

Gatto di bordo

di Sandro Degiani (scritto il 14 novembre 2008)

"Sqeeeeaaakkkk… tumph…. crickkk.. squeaaaaakkkk…..thump…. crricckkkk…."

Il ponte di carico e l'intera struttura di titanio della "Amerigo Vespucci" gemeva e scricchiolava mentre i pesanti container venivano posati sulle ammaccate e rugginose lamiere della stiva.

Gli autorobot lavoravano con il loro flemmatico passo senza interruzioni, nere gocce di lubrificante colavano dai giunti delle articolazioni e rigavano i loro impassibili volti come rivoli di sudore.

Armando se ne stava seduto sulla plancia di comando che si protendeva sopra alla rampa di carico e guardava distrattamente la fila dei robot che entrava con i container e quella parallela che usciva a prelevare un altro carico.

Aveva sollevato completante gli scudi di protezione delle vetrate panoramiche della cabina, l'unica sua finestra sull'alieno mondo esterno, e se ne stava allungato sulla poltroncina con i piedi appoggiati alla consolle dei comandi, insolitamente spenta e senza il consueto sfolgorio di luci e di schermi.

Accovacciato in grembo c'era Gervaso… il suo gatto soriano, beatamente ronfante sotto le lente carezze del padrone.

"Sqeeeeaaakkkk… tumph…. crickkk.. squeaaaaakkkk…..thump…. crricckkkk…."

Il gemito della nave si sgranava come un rosario infinito e gridava al cielo striato di nuvole verdi il suo lamento per l'ennesimo carico da trasportare fin nel remoto braccio della Galassia verso quel insignificante pianeta azzurro orbitante attorno a quel pallido sole giallo.

Per la nave la meta era uno dei tanti insignificanti granelli di polvere nell'universo, quattro coordinate spaziotemporali nel suo banco memoria, ma per Armando quella era "CASA", era il pianeta di origine, era la Terra!

"Sqeeeeaaakkkk… tumph…. crickkk.. squeaaaaakkkk…..thump…. crricckkkk…."

La gravità zero dopo il decollo avrebbe sgravato le paratie dal carico e dalle sollecitazioni del suo peso, ma fino ad allora occorreva tenere d'occhio l''unico monitor acceso durante il carico.

Su un proiettore olografico al centro della plancia era visualizzata la struttura tridimensionale della nave disegnata con wireframe, una radiografia precisa al bullone di tutta la nave. 

Lo schema ruotava lentamente su due assi e riportava il segnale emesso da oltre un miliardo di sensori piezoelettrici annegati nella struttura che rilevavano in tempo reale le sollecitazioni di trazione del metallo. Il colore verde voleva dire metallo a riposo, azzurro carico lieve, rosa carico medio, giallo carico di progetto, rosso carico in eccesso… mai arrivare al viola se non si voleva trovarsi con la struttura collassata e seduti in mutande mezzo ad un cumulo di ferramenta, a respirare una salubre atmosfera di cloro…!!!

"Sqeeeeaaakkkk… tumph…. crickkk.. squeaaaaakkkk…..thump…. crricckkkk…."

Il Settore di carico UNO era completo, il DUE era quasi tutto giallo….. alzò la mano e prese in mano un piccolo palmare e scrisse sopra una breve istruzione ai robot di carico…

"Iniziare carico Stiva TRE."

Gervaso percepì il cambio di posizione, si sollevò sulle zampe e si stirò completamente e pigramente come solo un gatto può fare, la bocca aperta in un immane sbadiglio e la lingua rosea estesa ed arricciata.

Armando lo grattò dietro le orecchie e gli disse: "Perché non vai a far due passi e ti sgranchisci un po' le zampe? Vedi un po' se nella stiva UNO abbiamo dei clandestini…."

Il gatto era stato imbarcato sulla nave un po' per dare ad Armando una compagnia biologica di conforto durante i lunghi viaggi, ma soprattutto per evitare di esportare dalla Terra, oltre ai preziosi manufatti così ambiti in tutta la Galassia, anche roditori che potrebbero risultare invasori mortali per le ecologie aliene.

Il Gatto di Bordo era una tradizione che affondava le sue radici nei secoli delle navi a vela, quando nemmeno tutto il pianeta Terra era stato esplorato e coraggiosi uomini solcavano gli oceani sfidando le tempeste per scoprire nuove terre e nuove ricchezze.

Insieme alla campana di bordo ed al simulacro di timone a raggi che troneggiava in mezzo alla plancia era l'unico resto di una epoca passata, ed il legame tra le fragili navi di legno ed i moderni colossali cargo spaziali.

Ovviamente non c'erano topi su un pianeta miniera con miniere automatiche gestite da robot ed una atmosfera di cloro… su questo Armando era sicuro e ci avrebbe giurato…

… ed avrebbe perso!

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Non era un topo ma era un organismo superiore. Non aveva un nome ma aveva una mente ed una intelligenza, era piovuto lì su quel pianeta dallo spazio, sulla sua navicella spaziale che aveva sbagliato il salto iperspaziale e si era rapidamente disciolta nel cloro nascente di quel pianeta infernale, lasciandolo naufrago e privo di ogni strumento.

Ma era un Gork…. Ed un Gork può essere tutto, perché è un organismo metamorfico. Per fortuna su quel pianeta c'era un organismo vivente, una specie di verme piattiforme a metabolismo a base di coloro, e il Gork l'aveva immediatamente copiato riuscendo così a sopravvivere.

C'era quell'insediamento tecnologico che l'aveva attirato, solo una razza superiore avrebbe potuto realizzarlo ma non c'erano forme di vita al suo interno. Solo strumenti meccanici ed elettronici, sofisticatissimi ed efficienti, ma lui non li poteva copiare:  non avevano DNA e non avevano struttura biologica.

Poi era arrivata la nave, aveva spazzato la piazzuola accanto al complesso industriale con i suoi potenti getti e quindi aveva aperto il portello di carico.

Mentre le operazioni di carico iniziavano aveva strisciato fino a quella rampa e guardato quella enorme nave da carico… doveva intrufolarsi dentro alle sue stive e poi avrebbe raggiunto senz'altro un pianeta popolato. Da chi non aveva importanza… lui li avrebbe copiati, avrebbe accumulato materia organica fino a scindersi in una altra entità, e via di seguito fino a sostituire tutta la popolazione e non solo.

Avrebbe clonato e sostituito ogni organismo vivente, mantenendo così inalterato il sistema ecologico.

Solo che sarebbe stato un pianeta di Gork e nulla più…!

Il Gork sapeva che la forma vivente che aveva gli consentiva di salire a bordo. Difatti aveva lentamente e cautamente strisciato per la rampa e si era nascosto nello spazio ristrettissimo tra due container nella Stiva UNO, vicino ad un portello che evidentemente dava sul corridoio che portava all'area equipaggio.

Non poteva stare nelle stive per tutto il viaggio. Era ovvio che sarebbero state depresurizzate e non riscaldate, e nemmeno lui poteva sopravvivere al vuoto ed al gelo dello spazio.

Era inoltre consapevole di essere attualmente un organismo vermiforme a metabolismo a base di cloro, e l'ossigeno che percepiva all'interno dei locali della nave che non fossero le stive era un veleno mortale. Inoltre era lento, piatto e largo, poco occultabile in un ambiente che non avesse spazi ed interstizi.

Doveva trovare qualcosa di diverso… a metabolismo ossigeno, veloce e piccolo, che gli consentisse di camuffarsi e nascondersi nella zona dell'equipaggio. Ma quale forma…?

Doveva tirare fuori la sua ultima risorsa… la telepatia.. perché il Gork era anche telepatico….! Non era una telepatia vera e propria, non comunicava ma semplicemente sondava le menti esterne, ne poteva estrarre informazioni ma non poteva manipolarle… e funzionava solo con menti superiori con elevato numero di sinapsi.

Il Gork protese quindi gli invisibili tentacoli della sua mente verso la nave e iniziò la sua ricerca.

Ecco! C'era una mente superiore in una stanza al fondo del corridoio...

Una mente considerevole… il Gork non poté evitare un attimo di stupore nello scoprire la vastità di quell'archivio mnemonico… erano milioni di Terabytes di informazioni. Poteva decodificarle grazie al fatto che sfruttava gli interfaccia sensoriali dell'ospite, ma erano tante... troppe...!

Gli occorrevano informazioni su un animale che fosse appartenente all'ecosistema del pilota di quella nave, un animale piccolo, sfuggente, veloce, furbo, relativamente innocuo per l'umano in modo che se fosse stato scoperto non avrebbe sollevato timori o scatenato una caccia.

C'erano molte informazioni su un animale del genere.. ricordi sparsi lungo tutta la vita dell'uomo e non c'erano sentimenti di paura verso quell'animale, ma quasi di simpatia…. Ecco… si sarebbe trasformato così…!

Adesso bastava aspettare che la porta si aprisse… o fare in modo che fosse aperta… già, perché no?

Armando osservava la stiva TRE colorarsi lentamente con un regolarità ed una geometrica perfezione che solo i robot potevano raggiungere, passando dal verde al rosa ed al giallo… ancora poche ore e avrebbe chiuso le rampe e decollato verso casa. Prati verdi e mari azzurri, cieli con nuvole bianche e magari anche un bella pizza…. e… e chissà dove s'era cacciato il gatto…?

.

Gervaso era sgusciato dalla cabina dalla porta semiaperta e stava esplorando con attenzione il corridoio che portava alle stive.

Come sempre nessuna traccia di topi… acciderba… si stava persino dimenticando di che odore avessero e come fosse appassionante la caccia a quei minuscoli animaletti… come fosse gratificante spezzare la loro spina dorsale con un morso e poi papparseli ancora caldi e in movimento.

Nulla…. Nessuna traccia, nessun segno di vita….. metallo e un po' di sporcizia agli angoli, ma nulla di vivente e divertente.

Eppure c'era qualcosa, un fremito, una sensazione di presenza, di vicinanza della preda... un'aura di ansia lo permeava e la tensione della caccia lo spingeva lungo il corridoio… avanti…. avanti… perché la sensazione si rafforzava via via… fino ad arrivare davanti al portello della stiva UNO.

Qui Gervaso annusò ancora un poco attorno al bordo della paratia e poi si sedette immobile di fronte al portello, portò al massimo la sua sensibilità e i suoi ricettori, e si mise in attesa.

All'interno della stiva UNO il Gork strisciò accanto al portello e lo esaminò con attenzione. C'era un dispositivo sul bordo del portello, affacciato ed allineato esattamente ad un identico dispositivo sulla paratia. Un sensore di posizione? Probabile…. Un essere logico avrebbe voluto sapere se il portello era chiuso prima di decollare.

Ci sarà collegato un sistema di allarme…? Possibile, lo sapremo con certezza tra poco...! Il Gork assottigliò al massimo il bordo del suo corpo e lo interpose tra i due sensori.

Poi concentrò totalmente la sua mente sulla nuova forma di vita che avrebbe dovuto assumere in un istante, quando la porta si sarebbe aperta… e si mise in attesa.

Una spia rossa si si accese sulla plancia della Amerigo Vespucci ed un rauco segnale di allarme iniziò a gracchiare.

Una scritta lampeggiava su tutti i monitor della nave:

"PORTELLO STIVA UNO APERTO!"

"Ma che acc...!" sbottò Armando alzandosi di scatto sulla poltrona, e rimediando una pugnalata alla schiena che gli ricordava le sue vertebre calcificate.

Iniziò a martellare la tastiera e, più faceva domande, meno le risposte lo convincevano:

"PORTELLO STIVA UNO APERTO"

"SENSORE PORTELLO STIVA UNO EFFICIENTE"

"SENSORE BLOCCAGGIO PORTELLO STIVA UNO IN POSIZIONE BLOCCO ED EFFICIENTE"

"PRESSURIZZAZIONE STIVA UNO EFFICIENTE"

Ecco…. Pensò… la razza umana finirà così, in un grande coro Galattico di Allarmi…. Con i sensori che daranno informazioni sbagliate e i sistemi che reagiranno automaticamente a falsi allarmi... ecco perché ci sono io su questa carcassa…. Per fortuna… a rimediare ai falsi allarmi ed indagare!

Rinunciò alle interrogazioni e usci dalla cabina dirigendosi lentamente verso il portello della stiva UNO: fretta non c'era dato non erano ancora decollati, la gravità locale era di 1,2 g e quindi meglio non scherzare a fare l'atletico, e poi era sicuro che il portello fosse chiuso e ci fosse solo un sensore in avaria.

Le luci del corridoio, pilotate dai rilevatori di presenza, si portavano a piena potenza al suo passaggio e poi si affievolivano di nuovo alle sue spalle, però laggiù, accanto al portello c'era luce piena…aguzzò la vista e vide Gervaso davanti al portello…. Immobile e con lo sguardo fisso.

Quando arrivò accanto a lui, il gatto girò la testa e gli rivolse uno sguardo misto di compassione e sufficienza che poteva solo dire: "Ce ne hai messo del tempo ad arrivare… te la sei presa comoda?"

Poi lo ignorò completamente e si mise di nuovo in posizione di seduto ma con le zampe posteriori piegate, tese e leggermente sollevate, la coda e le orecchie ritte ruotate verso il portello.

L'allarme suonava ancora e Armando azionò il comando esterno di apertura del portello della stiva UNO.

L'allarme morì in un assordante silenzio.

Appena il portello iniziò ad aprirsi, il Gork sfrecciò come un lampo all'interno del corridoio. Finalmente un'atmosfera ricca di ossigeno, calore, luce… un posto dove stare comodi fino all'arrivo.

Armando vide con la coda dell'occhio solo un guizzo grigio lungo l'angolo del corridoio diretto verso la zona d'ombra, e poi Gervaso schizzare come propulso da una molla verso quel movimento.

Un velocissimo roteare di artigli e di zanne, e poi il muso di Gervaso si girò verso di lui con un'aria soddisfatta e trionfale ed una codina rosa che ancora debolmente si agitava tra le sue zanne.

"Gervaso … ma dove cavolo sei riuscito a scovare un topo….??? Ma sei proprio una macchina da guerra! Micione mio… vieni qui che ti accarezzo… però… povero topino… deve essere stato il topo che è arrivato più lontano nella storia della Galassia… e tutto per finire in bocca a te!!!"

La codina scomparve e Gervaso emise un soddisfatto e conclusivo "Burp…!"

Sandro Degiani

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Novelle di Sandro Degiani

Il Console Pharaon Ulysses Kursk 1943 Capoverde 1944 New York 1946 Jevah Ritorno al Passato La minaccia del Krang Il Bianco muove e dà matto in tre mosse Gatto di Bordo Pilota Anche gli Dei devono morire Il Valore di un giorno Viaggio di un secondo Briciole Breve Storia del primo McDonald su Marte Volpiano Sud

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