Anche gli déi devono morire

di Sandro Degiani


L’idea nasce da un concetto che mi pare di avere letto in qualche libro un eone di anni fa… si ipotizzava che gli Dei fossero sì immortali, ma solo se traevano “energia vitale” dai loro adoratori.
Senza adoratori esiste un Dio? La risposta è no…. almeno per quel libro.
Quindi, quando l’ultimo adoratore se ne va… non vi dico altro, leggetevi il racconto...

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Che fatica... e che puzza.....!

Con il passo malfermo e claudicante che gli derivava da quelle ridicole gambe da caprone a malapena celate dagli ampi pantaloni, Pan arrancava lungo il sudicio muro di mattoni verso la sua meta.

Da quanti secoli non calcava più il suolo della Terra? Non se lo ricordava bene… forse era stato in occasione di quelle feste baccanti a Versailles? Ma allora la Terra era un luogo verde, idilliaco, fiorito. Dame vezzose, Ninfe procaci, Baccanti voluttuose lo circondavano mentre suonava il suo flauto in una danza sempre più convulsa ed erotica.

Ultimi ricordi di una esistenza infinita….  non ricordava come fosse cominciata ma ricordava che era durata per sempre. Fino ad oggi.

Fece girare gli occhietti puntiformi attorno e vide solo squallido, grigio cemento, osceni graffiti dipinti sui muri, cumuli di maleodoranti rifiuti e un interminabile fila di auto parcheggiate ai lati del marciapiede.

Certo che la periferia di una metropoli era un posto strano per un Dio…. ma era un pellegrinaggio dovuto, anzi imperativo. L’ultimo suo adoratore stava spegnendosi in un Ospizio per Poveri e lui doveva, voleva, essere là per il momento del trapasso.

L’ultimo.. la parola continuava a girargli nella testa…  erano stati moltitudini solo pochi secoli prima.. che cosa era successo? Come era potuto succedere?

La divinità che stava a presidiare la naturalità, l’istintività dell’eros come poteva non trovare più adepti in un mondo di sette miliardi di persone?

Eppure stava accadendo, era accaduto! Il mondo era diventato un posto dove i sentimenti, anzi gli istinti se venivano a galla avevano ben poco da spartire con l’Eros e la naturalità.

Anche se era il Dio dello Stupro, Pan aborriva la violenza fine a se stessa e la crudeltà, per lui lo stupro era il semplice soddisfacimento di un bisogno primario, lo sfogo di una pressante pulsione sessuale. Era una masturbazione portata a termine in due.

Ma non era la prevaricazione, l’annullamento della personalità e della volontà dell’altro.

Non era il modo di affermare il proprio ego e il proprio dominio. Era un gesto naturale… magari pregno di malizie e di sottointesi, ma mai crudelmente violento.

Invece oggi lo stupro non finiva mai con una ninfetta ansimante e scarmigliata con le gote arrossate dalla passione e dal pudore, ma finiva in un omicidio il più delle volte efferato e sadicamente portato a compimento.

Se uno voleva stordirsi,.  la musica e la danza era più che sufficienti a portarti in alto tra le nuvole… ed una bella dormita sistemava tutto.

Oggi pillole multicolori e polverine donavano ai mortali  minuti o ore da Dio, per poi precipitarli negli inferi. Come può ancora voler vivere da uomo che ha vissuto da Dio..?

Lui non si sarebbe riuscito e capiva benissimo il motivo per cui gli uomini che quando l’effetto dell’ultima dose di droga svaniva si buttavano da una finestra.

Il mondo era cambiato.. troppo..!

E mentre questi pensieri di un passato glorioso ed un presente ignobile e squallido continuavano a girargli nella mente, Pan arrivò davanti all’edificio che era la sua meta.

Squallido ed austero come una caserma, l’Ospizio schierava una imponente facciata a tre piani con una infinita sequenza di piccole finestre tutte uguali, tutte ugualmente serrate fino ad un palmo di altezza da saracinesche marroni.

Un imponente portone di ingresso con cinque scalini di travertino che un tempo doveva essere stato bianco, era piazzato proprio nel mezzo della facciata.

Saltellò per superare gli scalini come se fosse un passo di danza… era quasi impossibile con quelle ridicole gambe salire degli scalini.

All’ingresso una guardiola in legno con alti e spessi vetri verdastri dietro la quale sonnecchiava un uomo con addosso un specie di uniforme grigia con berretto.

Si accostò al bancone e si schiarì leggermente la gola…

Il portiere sollevò lo sguardo verso di lui e chiese:

“ … desidera? Cerca qualcuno?”

“Si, mi scusi… è un vecchio amico molto malato… non ricordo il cognome, ma solo il nome… Vittorio… era uno a cui piaceva molto lavorare nel verde… amava  le piante…”

“Oh, il nostro vecchio giardiniere… non può essere che lui… aveva piazzato persino la statua di un caprone in mezzo alla fontana che zampillava l’acqua dal piffero..”

“Non era un caprone, era il Dio Pan, e non era un piffero ma un flauto!” rispose stizzito il Dio dando un calcio alla guardiola per scaricare la rabbia….

“Ehi , non mi sfasci la portineria….!  Lo trova nella stanza 235, al secondo piano… corridoio a destra delle scale, ma con le sue gambe storte è meglio che prenda l’ascensore..”

Pan ringraziò e inghiottì quest'ultimo boccone amaro… non gli era risparmiato proprio nulla… anche il dileggio e lo sberleffo finale… gli salirono agli occhi lacrime di rabbia e di commiserazione per se stesso.

Ancora un poco, ancora pochi passi e poi tutto sarebbe finito… ma finire così… non lo avrebbe augurato al peggiore dei suoi nemici.

Ancora un sofferenza, ancora un lungo corridoio dalla mattonelle bianche e rosse e lo zoccolo grigio lucido ad altezza d’uomo. Ed infine la porta della stanza 235.

Socchiuse la porta e guardò dentro nella penombra. Dapprima non vide quasi nulla, poi gli occhi si abituarono e vide i due letti accostati alla parete opposta, di cui uno occupato.

Si chiuse la porta alle spalle,  avanzo fino a fermarsi accanto al letto, poi  si tolse il cappello a cencio che copriva le corte corna luciferine e lo posò sul letto accanto.

Lasciò che un lungo commosso ed amorevole sguardo abbracciasse il rinsecchito corpo del vecchio che a malapena increspava le lenzuola.

Le mani ossute erano distese lungo i fianchi e la testa era sostenuta e sollevata da due cuscini.

Due sottili tubicini uscivano dalla parete e si infilavano nelle narici.

Un trespolo cromato era accostato al letto e da una sacca con un liquido giallognolo un lento gocciolio era incanalato in un tubo che finiva in un ago infilato nel braccio destro.

Nessun rumore entrava in quella stanza… se non fosse stato per la constatazione che lui esisteva ancora, Pan avrebbe pensato di essere in presenza di un cadavere.

Il petto del vecchio sollevava impercettibilmente, i peli delle narici fremevano attorno ai tubicini dell’ossigeno. La scintilla della vita non si era ancora spenta!

Estrasse dalla tasca un vecchio e malconcio flauto, lo portò alle labbra e intonò una lenta e struggente melodia.

Il vecchio parve riscuotersi, la testa si mosse girandosi da una parte e dall’altra come per cercare da dove provenisse il suono.

Pan riprese la melodia, la portò avanti con un ritmo sempre più vivace, più scandito fino a farne quasi una tarantella, poi lentamente e dolcemente la sfumò di nuovo fino a farla finire in una dolce lunghissima nota che parve restare immobile nell’aria per ore.

Il vecchio aveva lo sguardo attento e vigile, ma non lo vedeva. La cateratta oramai aveva spento la sua vista per sempre.

Si accostò all’orecchio del vecchio e ripeté sottovoce le parole che il suo ultimo sacerdote  pronunciava quando lo invocava, quando proclamava il suo Credo a orecchie sorde e menti distratte. 

« La via di Pan è  questa: lasciati guidare dalla natura anche dove la natura “là fuori” è scomparsa. Riascoltiamo il nostro corpo quando ci dice “si” o “no”, “lascia andare” oppure “vai”. »

“Pan… sei tu, Dio mio..?” sussurrò il vecchio alzando l’acquoso sguardo delle sue pupille spende ed opache.

“Si mio caro…. sono proprio io… Pan!”

“Quante volte ti ho invocato, pregato, maledetto…. ed adesso sei qui, accanto a me… “

“Ed io ti ho sempre ascoltato, ho sempre cercato di esserti vicino ed adesso lo sono davvero..”

“Mi puoi aiutare…?

“No… nessuno può aiutarti se non a morire… ed io ti aiuterò accompagnandoti nell’estremo viaggio!”

“Andremo assieme…?”

“Sì, mio vecchio fedele adoratore… andremo per sempre insieme là dove vanno gli Dei quando anche la loro esistenza finisce…!”

E stringendo la mano ossuta del vecchio, più per darsi coraggio che per darne, Pan, il Dio delle Selve, chiuse per sempre le palpebre.

Sandro Degiani

Nota dell'Autore:

Avete avuto un momento di magone nel leggere il racconto? Avete provato pietà e compassione per il povero Dio Pan in un mondo moderno in cui non c'è più spazio per gli Dei?
Se la risposta è si, vuol dire che ho scritto bene..... è quello che volevo trasmettere....!
qui sono più malinconico che in altri miei racconti... mi è venuta in mente ascoltando "Preludio al Pomeriggio di un Fauno" di Debussy.... quella dolce, struggente e malinconica melodia.... ecco, è quella che ho immaginato che Pan suonasse per il suo ultimo adoratore.

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VICOLO, dipinto di Sandro Degiani (cliccare per vedere una risoluzione maggiore)

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Il valore di un giorno

di Sandro Degiani

Scritto per l’Ufficio Personale .. pardon… per Human Resources della mia Ditta.
Strano.. da allora non mi hanno più fatto un aumento di stipendio… le cose saranno collegate?
Io però da quando vivo secondo la filosofia espressa nel racconto vivo molto meglio, magari non vivrò un giorno di più ma vivrò sicuramente di più!

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Era il primo pomeriggio di uno splendente giornata di autunno, le foglie brillavano nel parco della COMAU di Grugliasco percorrendo tutte le sfumature della tavolozza dal rosso al giallo al marrone al fucsia sotto gli ultimi raggi dorati di un sole che si avviava al tramonto.

Il Direttore Amministrativo si era concesso un break, si era spaparanzato inclinando lo schienale della poltroncina e aveva chiesto alla segretaria di portargli un caffé e di fare da filtro alle telefonate per una mezz'ora.

Aveva aperto la finestra e la fresca aria frizzante lo aveva tonificato dopo ore di riunione in una saletta a respirare la calda aria viziata dell'impianto di ricircolo.

Un profumo leggero di muschio, di umido e di funghi aleggiava nella brezza che faceva oscillare dolcemente le liste verticali di tessuto delle tapparelle.

Girò il caffé nel bicchiere di plastica senza rompere il velo di schiuma dorata e leccò con voluttà il bastoncino di plastica... era un piccolo piacere che non si negava quando era lontano da occhi indiscreti. Lasciò vagare lo sguardo lontano, oltre gli alberi verso le montagne che iniziavano a mostrare spruzzi di neve sulle cime più alte.

Guardò la cartellina aperta davanti a sé da cui spuntava l’ultima slide della presentazione che aveva esposto al Consiglio di Amministrazione. Era un grafico sulla efficienza del personale e valutava la convenienza di incentivare il ricorso al lavoro straordinario e festivo dei dipendenti su comando al posto del ricorso a Consulenze esterne carissime e di discutibile competenza e fedeltà.

Aveva chiesto all’Azienda di stanziare un premio giornaliero di “fedeltà” di 100 Euro (1 ora e mezza di costo di un Consulente esterno) ed aveva dimostrato che l’apparente regalia era ampiamente assorbita dal risparmio e dal recupero di efficienza.

Quei 100 Euro avrebbero compensato il disagio a chi sarebbe stato richiesto un giorno di lavoro in più e costituito un interessante extra in busta. In fondo, pensò, i suoi collaboratori avevano 20 giorni di ferie pagate, 4 giorni di festività soppresse, 100 ore di permessi retribuiti e 53 Weekend.... perbacco lavoravano quasi meno di 200 giorni all’anno... e costavano, Dio mio quanto costavano...!

Lui chiedeva loro solamente un giorno ogni tanto e lo avrebbe pagato, sull’unghia in contanti, profumatamente.

La frase finale che aveva concluso la sua presentazione: “Io vi chiederò soltanto un giorno e ve lo pagherò 100 Euro... potrete voi dire di no all’Azienda che vi chiede questo?” era stata accolta quasi con un applauso, ossia il suo equivalente in un serissimo Consiglio di Amministrazione, una serie di sorrisi e di volti girati prima verso l’Amministratore Delegato e poi, registrato il suo consenso, di nuovo verso di lui.

Era stato un trionfo! Era anche stato l’ultimo tassello, l’ultimo mattone che mancava nella costruzione del suo successo professionale.

Il nuovo organigramma che sarebbe uscito domani lo avrebbe salutato Vicepresidente Amministrativo.
Arrivato finalmente, dopo anni di lavoro forsennato ed indefesso, una lunghissima carriera spietatamente desiderata ed inseguita, anni fatti di rinunce, di sacrifici, di bocconi amari trangugiati, di continui: “adesso no... ma domani...”

Doveva assolutamente concedersi un premio, e tanto per iniziare pianificare una nuova organizzazione dell’orario di lavoro e di vita.

Come Vicepresidente avrebbe avuto impegni istituzionali radi, la sua presenza giornaliera sarebbe stata persino scomoda per i suoi collaboratori, avrebbe potuto finalmente dedicarsi maggiormente alla famiglia, visitare l’anziana madre spedita al primo ictus in una esclusiva casa di Riposo al confine della Svizzera, star più vicino alla moglie sempre sull’orlo della crisi depressiva ed ai figli cresciuti quasi estranei...

Magari comperare un cane da caccia, passare i Giovedì mattina a passeggiare con il fucile scarico in mano per boschi e prati respirando la nebbia del mattino, in compagnia del suo segugio e di un fedele amico di infanzia rimasto a zappare le vigne invece di andare a Torino a lavorare in fabbrica.

Si... doveva cambiare vita, voleva cambiar vita... e finalmente POTEVA cambiar vita!

L’accaduto andava adeguatamente festeggiato.

Per prima cosa un giorno di libertà, di vita vissuta e non di grigiore d’ufficio, un lungo e calmo giro in auto per le Langhe, magari una cena a base di tartufo innaffiato da un buon Barolo guardando le colline coperte di vigne che rosseggiavano fuori dalla finestra mentre il sole tramontava dietro ai filari e la prima nebbietta saliva dalla valle.

Pescò dai ricordi una Osteria un po' fuori mano a Cantalupo, con una saletta ricavata su una terrazza coperta che aveva un vista mozzafiato sul mare infinito delle colline ricoperte dai vigneti, come onde di un mare che adesso dovrebbe rosseggiare tra le prime leggere nebbie.

Qui avrebbe trovato una cucina rusticamente raffinata, buoni vini e un servizio caldo ed famigliare.

Finalmente lontano dall’ufficio, dai problemi e dalle responsabilità, dimenticando le guerre sotterranee, le manovre e le falsità che sono il pane quotidiano di un dirigente di primo livello, con il telefonino spento, tra persone semplici e schiette, a non badare per un giorno a come si parla e a cosa si dice e come lo si dice.

E poi magari la sera un giro a Canelli o a Alba, a scegliere in una delle tante discrete oreficerie un pensiero in oro e diamanti per la moglie, per farsi perdonare le tante sere e weekend in cui l'aveva lasciata sola per partecipare a meeting, corsi e viaggi di lavoro.

E comperare una Playstation 3 per i figli, per farsi perdonare di aver preferito presiedere una seduta di bilancio che fare una partita di pallone sul prato con loro.

Improvvisamente un colpo d'aria.... il ticchettio delle veneziane che si scompigliavano urtandosi.
Si girò di scatto perché comprese che qualcuno era entrato.. non poteva essere che la sua segretaria, sebbene avesse detto che non voleva essere disturbato... forse qualche urgenza improvvisa?

Si voltò e aggrottò gli occhi in una smorfia scorgendo, immobile davanti alla porta chiusa, invece della elegante segretaria nel suo tallieur grigio, una signora alta, pallidissima, il volto dagli alti zigomi ed il naso aquilino e sottilissimo incorniciato da una capigliatura arruffata, coperta con un lungo vestito nero un po' stinto e logoro che invece di rivelare forme sembrava appeso su un attaccapanni... l'unica cosa viva e vitale sul suo volto immobile era lo sguardo fiammeggiante, fisso su di lui.

Comprese in un attimo.... la donna tese un braccio verso di lui e fece un cenno, con una voce gelidamente incolore gli disse: "Vieni.... è l'ORA, andiamo!"

Tremante, coperto da un sudario di gelido sudore, il Direttore annaspò rovesciando il bicchiere di caffè.
No, non poteva essere vero, non ora, non in una meravigliosa ed incantata giornata di autunno come quella..
Gli usci una voce strozzata, flebile, umile, ben diversa dalla arrogante e tonante voce con cui si rivolgeva ai suoi "collaboratori."

"...ti prego, non così d'improvviso, dammi un giorno di tempo, un giorno solo per rivedere ancora una volta i miei figli, mia moglie, per salutare gli amici... per fare un ultima passeggiata lungo una spiaggia, per bere quella preziosa bottiglia di vino che conservo per una occasione speciale... per .. per ..."

Lei lo interruppe con un sorriso gelido puntando una dito ossuto verso il suo petto, un ago di ghiaccio si insinuò nel petto, gli serrò il cuore in una morsa d'acciaio e gli fece morire la voce sulle labbra, la luce iniziò a scendere rapidamente ma non era un tramonto, era un velo grigio che scendeva su tutto cancellando i colori, la luce... senti ancora quella voce, ma questa volta proveniva da più lontano e sfumava, sempre di più... sempre di più...

".. ti voglio accontentare, Vicepresidente, in fondo un condannato a morte ha sempre diritto ad un ultimo desiderio!"

La diafana mano scarna posò un biglietto da 100 Euro nuovo di stampa sulla scrivania accanto alla cartellina ed al bicchiere di caffé rovesciato.

"Ecco qua il tuo giorno, caro Direttore, te lo pago a prezzo pieno come fai tu con i tuoi collaboratori!"

Sandro Degiani

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La palla passa a Tommaso Mazzoni con questo suo nuovo racconto:

Quando tutto sembra perduto...

Ormai era finita. L'orda infernale aveva travolto le linee di difesa, e massacrato gran parte dei soldati della luce. Il Re, ferito nel combattimento, riusciva a malapena a stare in piedi dietro le ultime mura.

Il Nemico si stagliava di fronte alle porte, orribile alla vista, coronato di ferro e tenebra, fauci grondanti veleno e bugie, occhi come pozzi di lava ribollenti di fuoco e odio, ali da pipistrello che oscuravano ulteriormente il cielo, già reso nero dai fumi della battaglia.

Torreggiava sulle mura stesse con il suo corpo rivestito di dolore e pesante metallo, e nelle mani artigliate impugnava una lancia a tre punte circondata da fiamme nere e spiriti urlanti. Parlò con voce terribile ma allo stesso tempo suadente:

"Figli della luce, avete vissuto nella menzogna pensando che la vostra vittoria fosse inevitabile e invece eccomi qui! Oggi è il giorno della mia vendetta!!! Oggi è il giorno in cui tutte le mie umiliazioni saranno cancellate. Le menzogne sulla giustizia e sulla verità, sulla virtù e sull'amore, sul perdono e sulla libertà finiscono oggi. E voi trascorrerete l'eternità in recriminazioni e maledicendo voi stessi ed il cielo di non esservi schierati dalla mia parte. Ma nell'ora della mia vittoria mi sento generoso! Inginocchiatevi di fronte a me e adoratemi come ciò che io sono, il Dio di questo mondo, e vi permetterò di continuare ad esistere, schiavi ma vivi!"

Quella fu l'ora più buia, quando le parole del Nemico serpeggiarono nel campo e i figli della luce si trovarono una volta ancora di fronte all'oscurità del mondo, al fallimento dei loro buoni propositi, e videro i malvagi giubilanti e soddisfatti che ridevano delle loro miserie. Tutto sembrava perduto e le parole del buon re sembravano vuote e lontane. Molte teste si abbassarono e molte ginocchia vacillarono.

Proprio allora una palla di fango fu lanciata dalle mura, e colpi in pieno l'occhio del nemico. Subito una voce argentina risuonò nell'aria:

"Stai zitto, brutta faccia, che ci appesti tutti con quella boccaccia!"

La mano coraggiosa e la voce beffarda appartenevano ad un bambino, un ragazzetto di non più di dieci anni che non si sa come aveva eluso la vigilanza dei guardiani e aveva lasciato il centro delle fortificazioni dove stavano gli innocenti più indifesi. Subito nel campo della luce si alzò unanime, contagiosa e travolgente una risata roboante, che spazzò via le ombre dal cuore degli assediati.

Il nemico ringhiò di rabbia e frustrazione ed alzò la sua arma crudele, pronto ad abbatterla su quel piccolo prode. I cuori dei difensori si strinsero nell'angoscia quando il colpo si abbatté sulle mura, facendole tremare. Ma quando la nuvola di polvere si fu posata ecco, il bimbo era ancora lì accovacciato ma illeso. La punta più lunga della terribile lancia tremava della violenza del colpo inferto ma non poteva muoversi oltre perché sulla sua strada si ergeva un ostacolo. Una lama forgiata nei fuochi della creazione, impugnata da un uomo che ancora una volta camminava sulla terra.

"TU???" gridò sconvolto il malvagio Nemico, guardando quel vecchio dalla candida barba.

" Io " rispose con calma il veglio. "Potevo forse mancare per la battaglia finale, vecchio mio?"

"Tu solo cosa pensi di fare, miserabile pulce?" urlò il nemico, alzando di nuovo la sua arma.

"Solo?" rispose l'anziano guerriero sorridendo. "E cosa ti fa pensare che io sia solo?"

Ed ecco che una fanciulla in armatura a cavallo, ardente di un fuoco di amore e giustizia , caricò il colossale Nemico lancia in resta facendolo vacillare, mentre dall'alto uno splendido angelo dai lunghi capelli neri, pur ferito sul petto, armato con una spada infuocata si abbatté sulla lancia a tre punte troncandola di netto. Ecco allora che il Re dei figli della luce sembrò d'improvviso accendersi di nuovo di vita e possanza, ringiovanito dal ritrovato vigore del suo popolo che di nuovo guardava a lui con fiducia.

E allora dalla torre un arciere di verde vestito con un cappuccio e un berretto piumino in testa scagliò una freccia di luce e colpì con precisione inumana l'occhio del Nemico che gridò furente.

L'esercito del Nemico, inizialmente colto alla sprovvista, accorse allora a dare manforte al suo signore, ma ecco, il Re uscì dalla mura, e ad ogni passo diventò più grande fino ad eguagliare e superare il nemico.

Quando il Re alzò la propria mano, tutti coloro che delle forze della luce erano caduti nelle precedenti battaglie tornarono alla vita e si gettarono nella mischia.

E il Re e i suoi campioni si batterono contro i Nemico e nuovi campioni con armature, maschere e mantelli si unirono al cimento.

Ma il Nemico crudele non era mai domo e molte volte i campioni sentirono il morso della disperazione. Tuttavia dalla torre più alta della cittadella si elevò un canto soave, una preghiera che riempì il cuore dei giusti di determinazione e coraggio. E il Re guardò la torre e vide la sua Regina cantare. E quindi parlò e le sue parole non erano di quelle di cui non si ode il suono. Il velo della notte si squarcio e il Sole gli fece da corona:

"Parlo a tutti voi come un padre ai suoi figli! Questa è l'ultima possibilità per tutti. Chi si arrende sarà perdonato, chi continua in questa folle lotta sarà perduto per sempre."

E la terra tremò e coloro che si arresero vissero e coloro che non si arresero sprofondarono fra le fiamme.

E così, quando tutto sembrava perduto, la speranza aveva trionfato, e la pace regnò per tutti i secoli dei secoli.

Tommaso Mazzoni

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Diamo ora la parola a Dario Carcano:

Una storia molto breve

La famiglia Smith.

Il padre, John, è un veterano di guerra sulla quarantina. È laureato in economia e ha un impiego stabile in un ufficio praticamente da quando si è sposato; ha l’hobby della falegnameria, ogni giovedì sera esce per vedere gli amici al bar del quartiere.

La madre, Samantha, è la tipica casalinga americana. Passa le giornate pulendo la casa, cucinando e mettendo in ordine; come John è laureata e prima di sposarsi lavorava ed è al lavoro che ha conosciuto il marito. Due volte a settimana vede le amiche del club del libro.

Il figlio, George. A sedici anni è un genio dell’elettronica: due anni prima quando morì il cane sorprese i genitori creandone una versione robotica identica all’originale, in tutto e per tutto. Frequenta il liceo locale, e ha il massimo dei voti in tutte le materie; ha degli amici con cui condivide l’interesse per la fantascienza, l’elettronica e l’informatica. Se state pensando che è un nerd, avete ragione.

Una famiglia come tante.

Un sabato Samantha disse di sentirsi debole, e andò dal suo medico. Le analisi rivelarono che aveva un tumore maligno ad uno stadio avanzato. Morì due mesi dopo.

La morte della madre scosse profondamente George, e il padre, nella sua stessa situazione, non sapeva offrirgli molto conforto. Così fece ciò che sapeva fare meglio: costruire un robot.

Lo fece, e gli diede le sembianze della madre. Fu più complicato dargli la personalità della madre, ma alla fine riuscì anche in questo. Quando George accese il robot, questo lo baciò e lo abbracciò.

John vedendosi di fronte la moglie defunta per poco non svenne, e superata la diffidenza iniziale si adattò ben presto a quella nuova presenza. Anche le amiche di Samantha alla fine si abituarono a quella versione robotica della loro amica, e le cose sembravano funzionare.

Almeno finché un venerdì sera, mentre John tornava a casa da lavoro, un camion gli tagliò la strada. All’arrivo dell’ambulanza John era già morto.

George e la madre soffrirono molto la morte di John. Samantha era distrutta dal dolore, e George, non sopportando di vedere la madre in quello stato, decise di aiutarla: avrebbe costruito un altro robot. E anche in questo caso riuscì nell’impresa: il robot aveva l’aspetto e la personalità del padre. Anche in questo caso, come nel caso di Samantha, gli amici di George si adattarono a quella presenza, e si abituarono al fatto che il loro amico non bevesse più, perché ovviamente i robot non bevono.

Le cose ripresero a funzionare, finché il fato, o più probabilmente uno scrittore di fantascienza annoiato, colpì ancora una volta la famiglia Smith.

Nel liceo di George ci fu una sparatoria. George ne uscì illeso (altri diciassette ragazzi non furono altrettanto fortunati) ma tornando a casa George cadde, si fratturò una gamba, e in ospedale ebbe una reazione allergica agli antibiotici che ne causò la morte dopo una lunga agonia.

Tutti i giorni John e Samantha andavano a visitare il figlio moribondo, finché non spirò. Per un genitore perdere un figlio è sempre una tragedia, e John e Samantha non facevano eccezione, erano distrutti e Samantha cadde in una profonda depressione.

E John ebbe l’idea: e se avessero provato a fare ciò che George aveva fatto con loro? Samantha era scettica, non sapevano nulla di elettronica, come potevano costruire un robot? Ma alla fine John la persuase. Provarono, studiarono i testi di elettronica del figlio e gli appunti e i disegni dei robot creati in precedenza da George, e alla fine, dopo diversi tentativi falliti, il robot si alzò, riconobbe i genitori e li abbracciò.

E con George la famiglia era di nuovo completa.

Una famiglia come tante, a cui i vicini e gli amici volevano bene, e che tutte le domeniche, dopo la messa, andava al cimitero a portare i fiori sulla tomba dove riposano Samantha, John e George.

Dario Carcano

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Novelle di Sandro Degiani

Il Console Pharaon Ulysses Kursk 1943 Capoverde 1944 New York 1946 Jevah Ritorno al Passato La minaccia del Krang Il Bianco muove e dà matto in tre mosse Gatto di Bordo Pilota Anche gli Dei devono morire Il Valore di un giorno Viaggio di un secondo Briciole Breve Storia del primo McDonald su Marte Volpiano Sud

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